Nucleare: lobby scatenate, ma alla Sogin rubano i dati

L’endorsement di governo, dato per scontato quello reiterato del ministro Roberto Cingolani, stavolta è arrivato dalla sottosegretaria del ministero della Transizione ecologica, Vannia Gava, nel corso della giornata di studi annuale organizzata dall’Associazione Italiana Nucleare. Titolo: Il nucleare decisivo per la Transizione energetica. “È importante avere la libertà di ragionare su un argomento scientifico che investe le politiche energetiche di tutti senza sentirsi attaccati”, ha detto. L’inserimento del nucleare nella tassonomia Ue delle fonti di energia finanziabili nella lotta ai cambiamenti climatici, è il punto, lo rende “fondamentale per la transizione”, per “correre e non rincorrere gli altri”. E non importa se per realizzare i più basilari dei progetti innovativi sul nucleare di “nuova generazione” servano ancora 10, 14 o 20 anni: “Se mai si arriva a un percorso, mai si arriva al traguardo”. La critica, è la tesi della sottosegretaria leghista, è ideologia se non tiene conto del progresso scientifico, è “violenza psicologica”, “demonizzazione”. Anche nei media: “Stiamo attenti quando parliamo di nucleare perché questo paese ha bisogno di tutto meno che di insicurezza”.

Il filo rosso che unisce gli interventi della giornata è assicurare al nucleare una fetta importante nel mix del futuro: nell’impossibilità di sfruttare le rinnovabili in modo costante, perché per limiti tecnici non sono impeccabili nell’accumulo e nella conservazione di energia, bisognerà scegliere a quale fonte rivolgersi. Il gas, nella fase transitoria, ha già conquistato il suo ampio spazio, protagonista del Pnrr, e con l’inserimento del nucleare nella tassonomia Ue ora bisogna spingere per assicurarsi uno spazio dignitoso. Per rispettare l’equità che tanto viene chiesta, ecco dunque una sintesi delle posizioni dell’Ain emerse ieri, al netto della discussione specifica tecnico-scientifica: 1) Il nucleare è considerato verde e non pericoloso per la transizione 2) La Cop26 gli affida un ruolo chiave 3) I nuovi reattori sul mercato (per lo più gli Smr, i piccoli reattori modulari) sono sicuri e facilmente realizzabili 4) Le scorie non saranno un problema (sono definite “uno spauracchio”) perché nuove tecnologie, e qui citiamo il presidente dell’associazione Umberto Minopoli, “consentirebbero di studiare e realizzare tecnologie che minimizzerebbero il problema e sdrammatizzerebbero la discussione spesso concitata e disinformata su di esse” 5) La “fusione nucleare” sarà il punto di svolta. Infine, 6) Il dissenso è quasi sempre privo di fatti e numeri e non fa bene all’industria.

Va riconosciuta all’Ain l’onestà intellettuale di aver invitato almeno una controparte in grado di fornire un’altra lettura delle cose. “Non credo che il nucleare possa svolgere un ruolo decisivo nella transizione – ha spiegato il senatore Antonio Misiani, viceministro al Tesoro nel governo Conte-2 e oggi responsabile Economia del Pd – La produzione a livello mondiale di elettricità col nucleare ha raggiunto un picco nel 1996, il 17,5%, e da allora è andata declinando: nel 2020 è al 10,2%”. Gli investimenti sul nucleare sono ammontati a 18 miliardi di dollari, quelli sulle rinnovabili a oltre 300. “Il flusso di investimenti, il mercato a oggi ci dice che il mondo sta andando da una determinata parte e non da quella del nucleare per come è tecnologicamente caratterizzato oggi”. Le stesse proiezioni portate al convegno mostrano che al 2040 la forchetta della produzione scenderà tra il 7 e l’11%. Nessun cambio di passo. “Per la posizione ideologica di una parte del mondo ambientalista?” provoca Misiani. No, per l’aumento del costo della produzione (+36% nell’ultimo decennio a fronte di una diminuzione del 72% da eolico e del 90% dal fotovoltaico). “Questa è la realtà dei flussi di investimento: lo dice il mercato prima ancora che i decisori pubblici”.

E ancora, i tempi: negli Emirati Arabi, dove la discussione è tutt’altro che democratica, un impianto progettato nel 2012 sarà operativo nel 2021 difficile immaginare si faccia meglio in Italia, senza considerare l’opinione pubblica contraria e un referendum chiarissimo. Infine, le scorie “problema irrisolto in Italia come in altri Paesi”, che anche con la quarta generazione di reattori diminuirebbe ma senza sparire. Proprio ieri Sogin, la società che gestisce lo smantellamento degli impianti nucleari italiani, ha avviato la seconda fase della consultazione pubblica per l’iter di localizzazione del Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi. Le prospettive non sono rosee visto che – di nuovo – nessuna amministrazione delle 67 aree idonee identificate sembra volerlo accogliere. In più, nei giorni scorsi, Sogin ha subito un attacco informatico: le sono stati sottratti 800 Gigabyte di dati, poi messi in vendita sul dark web. Contratti, progetti, schemi d’impianto, ma anche foto e cv dei dipendenti che vanno dal 2004 al 2020. L’annuncio di vendita conteneva anche un campione di dati rappresentativo del contenuto: una proposta di qualifica del 2016 per la fornitura di strumenti all’impianto Eurex di Saluggia, dove ci sono circa 270 metri cubi di rifiuti liquidi radioattivi. Insomma, mentre lobby e pezzi di politica, con addentellati ai vertici del ministero, spingono sul nucleare, nessuno vuole nemmeno accogliere le scorie. E chi dovrebbe gestirle non riesce a garantire la sicurezza dei suoi dati.

Le assunzioni fittizie per avere l’aspettativa: dirigenti Cisl indagati

Contratti fittizi con aziende private dove chi risulta assunto pur stipendiato non ha mai lavorato. Il tutto per truffare la previdenza sociale (Inps), non pagare i contributi e incassare denaro in modo indebito. Un sistema orchestrato da “dirigenti apicali” di sigle sindacali lombarde riconducibili alla Cisl in accordo con società (non indagate) collegate al colosso delle pulizie Cigalin Hotelvolver. E non solo. Dagli atti emergono anche Tecnimont spa, Obiettivo lavoro spa e Randstand Italia spa. Lo scopo per l’accusa: truffare l’Inps simulando l’istituto, previsto dallo Statuto dei lavoratori, dell’aspettativa sindacale non retribuita cui hanno per legge diritto i lavoratori distaccati presso il sindacato. L’aspettativa se da un lato non prevede il pagamento salariale, dall’altro la parte previdenziale è pagata dall’Inps. Il tutto a patto che la persona abbia prima lavorato per almeno sei mesi. E qui entrano in gioco i contratti fittizi ai lavoratori orchestrati dai dirigenti sindacali per incassare indebiti contributi statali e risparmiare, così come emerge dall’inchiesta della Procura di Milano, che ieri ha ottenuto la convalida del sequestro d’urgenza per 600mila euro. Tanto, secondo l’accusa, è la cifra della “truffa aggravata ai danni dello Stato” portata avanti, a partire dal 2016, da alcuni dirigenti dell’area Cisl come Cisl Milano Metropoli, Filca Cisl Milano Metropoli, Fim-Cisl, Fim Territorio dei Laghi, Femca Cisl Lombardia, Fisascat Cisl e altre. Dodici gli indagati, tra funzionari e dirigenti apicali susseguitisi nel tempo. Da capire come mai le aziende private si siano prestate a questo sistema. L’indagine del Nucleo di Polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza di Milano e del pm Paolo Storari nasce dall’inchiesta su Cigalin Hotelvolever che ha portato al commissariamento del gruppo per una truffa sull’Iva perpetrata anche “sfruttando i lavoratori”. Ieri la prima discovery con la convalida del sequestro. I lavoratori che hanno firmato i contratti non sono indagati. I loro verbali risultano però decisivi per capire il sistema. Patrizia S: “Assunta in Fisascat mi fu detto che l’assunzione sarebbe avvenuta attraverso una società di servizi per alberghi legata alla Fisascat (…). Non ho mai lavorato per quella società. Negli anni mi sono arrivati cedolini da società diverse. Gilberto Mangone (indagato ed ex segretario lombardo Cisl, ndr) mi disse: (…) questa è l’unica possibilità per lavorare qui”. E quando Patrizia annusa l’imbroglio si sente dire: “Hai firmato il distacco sindacale (…). Nella vita esistono due tipi di uomini, quelli liberi e i servi (…)”. Marta P: “Sono responsabile delle politiche lavorative della Cisl Lombardia (…). Renato Zambelli (indagato e già dirigente di Cisl Lombardia, ndr) nel 2011 mi comunica che per risparmiare mi avrebbero fatto assumere da una società di loro amici e che dopo sei mesi mi avrebbero distaccato per avere un risparmio contributivo”. Luca P: “Fui contattato dal segretario della Fim Cisl Legnano che mi ha proposto un’assunzione (….) per fruire di una aspettativa non retribuita. Mai lavorato (…). Ho sottoscritto il contratto” nel suo ufficio.

“Protesta sacrosanta. Han vinto i padroni, Pd & C. inadeguati”

Con il ministro Renato Brunetta aveva già duellato apertamente non appena quello decise di chiudere con l’era dello smart working. “Dobbiamo mettere a valore il capitale umano” la tesi del colonnello berlusconiano; “con lo smart working si lavora meglio e si lavora di più” la risposta di Domenico De Masi. Ieri lo scontro si è acuito, perché il sociologo ha deciso di dimettersi dall’Osservatorio sul Lavoro agile istituito dalla precedente ministra della Pubblica amministrazione, Fabiana Dadone.

Cos’è successo, professore?

Con il lockdown del 2020 e l’urgenza di ricorrere al lavoro agile, la ministra Dadone, che mise in smart working una percentuale notevole di dipendenti pubblici, creò una commissione di 15 esperti per monitorare il fenomeno e consigliare su legislazione e sul fenomeno ancora abbastanza inedito.

Una commissione di veri esperti?

Certamente, a cominciare dal coordinatore, Mario Corso, membro del comitato scientifico degli osservatori innovazione digitale della School of Management del Politecnico di Milano, l’istituzione più autorevole in materia (commissione che non percepisce emolumenti, ndr).

E poi cosa è successo?

Da quando è subentrato Brunetta, l’Osservatorio è stato riunito solo tre volte in riunioni soprattutto informali, senza ordine del giorno o verbali e in genere per essere informato di decisioni già prese dal ministro. Il coordinatore della commissione si è dimesso e non è stato rimpiazzato, siamo stati tenuti a bagnomaria e i compiti assegnati non sono stati assolti. Abbiamo chiesto più volte di essere ascoltati, ma non siamo stati mai sentiti. A questo punto, anche per un fatto di dignità, ho dato le dimissioni. Mi è sembrato di essere stato preso in giro.

Brunetta non ama lo smart working, che approccio ha?

Un approccio distruttivo, il ministro è un analogico che non ha cultura digitale e considera lo smart working come uno strumento per assecondare i fannulloni.

Non è stato improvvido anche in relazione alla recrudescenza pandemica?

Si è trattato di una doppia follia: c’era una legge che stabiliva che il rientro sarebbe dovuto avvenire a gennaio e lui l’ha anticipata. Ma le aziende private stanno ancora utilizzando massicciamente lo smart working.

Oggi ci sarà lo sciopero di Cgil e Uil, lei lo condivide?

Senza dubbio, e basta un dato: i salari italiani sono gli unici, tra i Paesi Ocse, a essere diminuiti tra il 1990 e il 2020. Senza citare i Paesi come Lituania ed Estonia, che hanno visto aumenti superiori al 250%, si possono citare alcuni degli altri: Spagna +6%, Belgio + 25%, Grecia +30%, Germania +34%, Svezia +63%, Irlanda +85%. L’Italia, invece, ha avuto un -2,9%, in trent’anni è una vergogna.

Come spiega questo dislivello?

Di sicuro è stata bravissima la Confindustria e il padronato, ma sono stati anche debolissimi i sindacati e di sicuro poco attenti i partiti di sinistra.

Ricorda così tanta avversione contro il sindacato che sciopera?

Solo con il governo Renzi è avvenuta una cosa simile. Ma è comprensibile, Draghi è un neoliberista, inutile pensare che lui possa risolvere i problemi sociali, ricordiamoci della Grecia. La sinistra non ha la capacità di coagulare i lavoratori e di radicalizzare i rapporti. Il padronato lo fa.

I partiti del centrosinistra sono adeguati?

Il Pd, con il suo segretario Enrico Letta, ha detto di non capire, manifestando stupore. Il M5S ha un’occasione d’oro nello schierarsi a favore dello sciopero.

“Tutti in piazza: in giro c’è anche una pandemia salariale e sociale”

Nessuna apertura in extremis, nessun accordo dell’ultimo minuto nonostante “la volontà di colloquio, confronto e ascolto” vantata ieri da Mario Draghi: si sciopera. Non sono bastate le lamentele e i richiami all’ordine a reti unificate di governo, Confindustria e grandi commentatori per fermare Cgil e Uil: dopo sette anni dall’ultima volta, stamattina i due sindacati porteranno in cinque piazze i lavoratori di tutte le categorie. O meglio, quasi tutte, perché quelli della sanità sono stati esentati dagli stessi organizzatori, vista la pandemia ancora in corso, mentre quelli della scuola non parteciperanno perché si sono già astenuti venerdì 10. A completare l’elenco dei precettati ci sono gli addetti dell’igiene urbana e degli sportelli postali. Ma l’intento resta quello di una grande protesta generale contro le scelte di una maggioranza che sui temi del lavoro ha compiuto una netta virata a destra negli ultimi dieci mesi: un posizionamento consacrato nel ddl Bilancio e nella riforma del fisco che andrà a vantaggio dei redditi medio-alti.

Il precedente più recente, come detto, risale al 2014: allora il bersaglio era il Jobs Act di Matteo Renzi, e relativa abolizione dell’articolo 18, e anche allora la Cisl si smarcò. La successiva e ritrovata unità delle tre sigle, quindi, è durata solo fino a quando non si è deciso di proclamare una nuova fermata generale, stavolta contro il governo Draghi. I due segretari, Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri, interverranno stamattina a Roma in piazza del Popolo. Altre manifestazioni locali si terranno in contemporanea a Bari, Cagliari, Milano e Palermo: una per ognuna delle isole maggiori, le altre due per far mettere insieme Nord e Sud. Lo stop nei luoghi di lavoro durerà 8 ore, ma saranno assicurate le fasce garantite nei trasporti.

“Chiediamo di scendere in piazza perché tutti insieme abbiamo bisogno di combattere una pandemia salariale e sociale che non ha precedenti”, è stato l’appello del leader Cgil Maurizio Landini, cui ha risposto a distanza, rispolverando il consueto cahiers de doléances, il presidente della Confindustria, Carlo Bonomi: “Mi rattrista molto questo sciopero generale, in una legittima diatriba tra sindacato e governo quello che viene penalizzato è il mondo del lavoro”.

Da una settimana, da quando cioè Cgil e Uil hanno dato l’annuncio, le accuse di irresponsabilità e i tentativi di delegittimare le ragioni dello sciopero sono stati martellanti: “Abbiamo ricevuto attacchi molto violenti, ringrazio chi ci è stato vicino condividendo le nostre scelte esprimendo solidarietà – ha detto il segretario Uil Pierpaolo Bombardieri – C’è da riflettere sul fatto che esercitare un diritto costituzionale diventi un’arma pericolosa, che spacca il Paese”.

La legge di bilancio è in verità solo l’ultimo dei tanti schiaffi subiti dai sindacati negli ultimi mesi. Oltre ai contenuti, Cgil e Uil lamentano un problema di metodo: su ogni questione sono stati incontrati a decisioni già prese. Sulle pensioni, ad esempio, quando la convocazione arrivò dopo la chiusura del testo andato in Cdm, che sanciva la decisione di sostituire Quota 100 con Quota 102, rigettando le richieste di tutti i sindacati sul superamento della Fornero (se ne riparlerà nel 2022). È successo sul fisco con l’accordo di maggioranza per la revisione delle aliquote Irpef, una riforma che destina i benefici maggiori alla minoranza più benestante del Paese (a non dire che un pezzo dei soldi andrà anche al taglio dell’Irap). Ma l’elenco dei no alle richieste sindacali è lungo. Cgil, Cisl e Uil, infatti, si opponevano al Green Pass obbligatorio sui luoghi di lavoro (chiedendo piuttosto l’obbligo vaccinale generale), né hanno apprezzato il diktat di Renato Brunetta per la fine dello smart working nel pubblico. E ancora: chiedevano nuove proroghe del blocco dei licenziamenti, una riforma degli ammortizzatori sociali più sostanziosa, norme contro il precariato e le delocalizzazioni. Un elenco di desiderata sistematicamente cestinati, rimandati nei casi migliori, dall’esecutivo che pure da giorni accoglie con “stupore” la scelta dello sciopero generale.

Quante bugie sull’Irpef per sabotare la mobilitazione

Lo sforzo per dimostrare l’indimostrabile, cioè che la manovra avvantaggerà i redditi bassi, e dunque non c’è ragione di protestare, è in corso da giorni. Alcuni giornali, ad esempio, hanno calcolato i risparmi fiscali in percentuale sull’imposta pagata anziché in valore assoluto: così, al contrario di quanto accadrebbe usando i soldi davvero risparmiato, il numero più alto finisce accanto ai redditi più bassi. Un altro metodo usato è sommare al taglio Irpef gli effetti dell’assegno unico, dimenticando peraltro che anche quello alla lunga penalizzerà i redditi medio-bassi, effetto per ora scongiurato dalle clausole di salvaguardia a tempo.

Ieri, infine, ci si è messa pure la Cisl, che ha deciso di non scioperare con Cgil e Uil: in un volantino magnifica la manovra e prova a smentire le presunte inesattezze diffuse dai due “concorrenti”. Problema: lo stesso volantino ricostruisce i fatti in modo impreciso e a fa un’insalata tra misure strutturali, cioè con effetti stabili negli anni, e una tantum, cioè valide per il solo 2022. Dettaglio non da poco. Nella tabella finale, per esempio, indica il “risparmio complessivo per i dipendenti fino a 35 mila euro”. E qui somma i (bassi) benefici della riduzione dell’Irpef con quelli dovuti al taglio dei contributi. Cumulare i due “vantaggi” però non considera un aspetto cruciale: il taglio dei contributi, a differenza della riforma fiscale, varrà solo nel 2022 e c’è solo perché per motivi tecnici nel primo anno il taglio Irpef costerà meno dei 7 miliardi stanziati. Con questi “risparmi” è stata indorata la pillola ma lo sgravio contributivo finirà nel 2023: a leggi invariate, tra un anno bisognerà dire addio a metà dei risparmi vantati da Sbarra & C.

L’ottimismo cislino, però, non è finito: “Abbiamo una legge di Bilancio profondamente migliorata rispetto a un mese e mezzo fa, con un profilo espansivo e coesivo – ha detto il segretario – Certo ancora c’è da fare per migliorarla”. Ne parlano già benissimo, ma vedono pure margini per renderla più bella: è tanto vero che sabato scenderanno in piazza per chiedere modifiche.

Il Sistema Sesto esiste ancora. È firmato Sardone-Di Stefano

Il Sistema Sesto c’è ancora. Non è più quello dei tempi del sindaco Pci-Pd Filippo Penati, ma si è consolidato attorno al nuovo primo cittadino, Roberto Di Stefano – eletto nel 2017 con Forza Italia e poi passato alla Lega – e a sua moglie, Silvia Sardone, pasionaria di Silvio Berlusconi traslocata anch’essa nel partito di Matteo Salvini. Resta invece fermo negli anni il perno attorno al quale il Sistema Sesto si coagula: i grandi affari urbanistici e le operazioni immobiliari che si stanno realizzando sulle immense aree ex industriali dove un tempo sorgevano la Falck, la Breda, la Marelli e che hanno visto nel tempo succedersi operatori come Giuseppe Pasini, Luigi Zunino, Davide Bizzi. Nei decenni, hanno provato a metterci le mani, o meglio le matite, architetti come Vittorio Gregotti, Kenzo Tange, Mario Botta, Renzo Piano: invano, perché gli appetiti degli imprenditori e dei politici erano più voraci di quanto non permettessero i loro progetti.

In questi giorni a Sesto San Giovanni sta per essere approvato il nuovo Pgt (Piano di governo del territorio) e stanno per arrivare a definizione i grandi progetti urbanistici sulle aree Falck (la Città della Salute promossa da MilanoSesto, Hines e Prelios), aree Vulcano (gruppo Caltagirone), aree Marelli (Multimedica). Intanto cominciano a emergere anche alcuni retroscena di queste grandi operazioni. Come i lauti finanziamenti arrivati al sindaco e a sua moglie da parte di soggetti privati coinvolti in quegli affari.

Nel 2017 – prima delle elezioni vinte da Di Stefano, che è riuscito a strappare alla sinistra la ex Stalingrado d’Italia – al candidato sindaco del centrodestra arrivano 10 mila euro di finanziamento elettorale. È quasi il 50 per cento di tutti i finanziamenti dichiarati (23.500 euro) alla Corte d’appello, come previsto dalla legge. Chi è il generoso finanziatore? Paolo Romani, senatore di Forza Italia oggi passato nel gruppo misto, che con Sesto San Giovanni ha poco a che fare (è residente a Cusano Milanino), ma che subito dopo, nel 2018, entra nel consiglio d’amministrazione di MilanoSesto, la proprietaria delle aree Falck, assume la carica di vicepresidente e consigliere delegato e gestisce l’operazione di vendita dei terreni (1,45 milioni di metri quadri) dal gruppo Bizzi al colosso immobiliare statunitense Hines e agli italiani di Prelios. Non è noto quanto e come sia stato remunerato, ma certamente Romani avrà abbondantemente recuperato la cifra investita l’anno prima – del tutto legittimamente – puntando sul candidato Di Stefano. È Romani a partecipare e guidare la riunione di amministratori pubblici e operatori immobiliari che si tiene già il 12 aprile 2018 nella sede di MilanoSesto in viale Italia.

Nel 2018, intanto, ci sono le elezioni regionali e in Lombardia si presenta come candidata Silvia Sardone, la moglie di Di Stefano. Anch’essa trova generosi finanziatori della sua campagna elettorale: Bizzi e Partners, il gruppo che vende le aree Falck, e altre tre società coinvolte nell’operazione – Aleandri spa, Carlobruno Associati, United Risk management – che versano ciascuna 3 mila euro, per un totale di 12 mila euro: circa un terzo dell’intero malloppo raccolto da Sardone nella campagna che l’ha fatta eleggere consigliere regionale.

L’anno dopo, nel 2019, la pasionaria fa il salto dal Pirellone a Strasburgo e diventa parlamentare europea. A conclusione della campagna elettorale invita amici ed elettori a festeggiare al Grand Hotel Barone di Sassj, di proprietà del gruppo Caltagirone: il gruppo protagonista di un’altra delle operazioni immobiliari in corso a Sesto, quella sull’area Vulcano. E chi è la mandataria elettorale della candidata, sia nel 2018 sia nel 2019, con la responsabilità di certificare la veridicità dei finanziamenti ricevuti? È Cristina Crupi, che contemporaneamente è, guarda caso, anche la capo di gabinetto del sindaco di Sesto: riceve i soldi per Silvia Sardone e nello stesso tempo lavora con Roberto Di Stefano sulle partite urbanistiche a cui sono interessati proprio i generosi finanziatori della pasionaria. Un coacervo di conflitti d’interessi e di relazioni incestuosamente inopportune che hanno attirato l’attenzione dell’allora vicesindaco di Sesto, Gianpaolo Caponi, che dopo aver raccolto nel 2017 con le sue quattro liste civiche (espressione del mondo del volontariato sestese) il 24 per cento dei voti al primo turno, al ballottaggio si era alleato con Di Stefano. Un anno dopo, da vicesindaco, era rimasto sconcertato per i comportamenti del primo cittadino che riteneva poco trasparenti e “affaristici”. E si era dimesso. Poi aveva mandato un paio di esposti alla Procura di Monza e a quella di Milano, in cui raccontava ciò che aveva visto. Ora torna a denunciare gli intrecci Di Stefano-Sardone-Romani-operatori immobiliari.

In fuga da 2 anni: presi Turi americano e il Lupo

Tra pochi giorni avrebbero fatto due anni di latitanza. La fuga di Salvatore Morelli detto “Turi l’americano” e Domenico Tomaino alias “il Lupo” si è conclusa la sera del 14 dicembre quando i carabinieri del comando provinciale di Vibo Valentia li hanno sorpresi a Briatico mentre erano a cena in una casa messa a disposizione da una donna che è stata arrestata per favoreggiamento. Morelli e Tomaino sono imputati nel processo “Rinascita-Scott” contro la cosca Mancuso e le altre famiglie mafiose del Vibonese. Erano sfuggiti, infatti, all’arresto nel blitz eseguito dalla Dda di Catanzaro 19 dicembre 2019. Al momento della cattura, i due latitanti erano armati.

Caporalato, Lamorgese: “Di Bari non coinvolto”

Un’ora e mezza.Tanto è durato l’interrogatorio di garanzia di Rosalba Livrerio Bisceglia, l’imprenditrice agricola moglie dell’ex capo del dipartimento per le libertà civili e l’Immigrazione del Viminale, Michele di Bari, indagata nell’inchiesta sul caporalato che il 10 dicembre ha portato all’arresto di 5 persone. La donna, sottoposta all’obbligo di firma, è comparsa con altri 8 indagati davanti al Gip del Tribunale di Foggia. “La Bisceglia ha chiarito tutto”, ha detto il legale Gianluca Ursitti. E durante il question time il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese ha difeso il suo dirigente: “Nei confronti di Di Bari non è emerso nessun coinvolgimento né diretto né indiretto con l’inchiesta né alcun collegamento dei fatti con la sua carica”.

Funivia del Mottarone, concessione revocata

Il comune di Stresa ha revocato la concessione della funivia alla società Funivie del Mottarone di Luigi Nerini. L’imprenditore è uno degli indagati per il disastro che il 23 maggio ha provocato 14 morti. Oggi a Verbania è fissata l’udienza dell’incidente probatorio sulla rottura della fune dell’impianto. È attesto un rinvio: il collegio dei periti richiede più tempo per depositare la relazione. La ragione alla base del rinvio sarebbero i ritardi legati alle operazioni di rimozione della cabina. In attesa dell’esito delle prove di laboratorio, è probabile un rinvio di tre mesi. Nel frattempo il fascicolo dovrebbe passare al giudice Annalisa Palomba, perché a fine anno il gip Elena Ceriotti andrà in pensione.

Ponte, Aspi e Spea responsabili civili. “Salvi” Mit e Anas

Autostrade per l’Italia e Spea Engineering saranno responsabili civili nel processo penale per i morti del Ponte Morandi. In altre parole, in caso di condanna potrebbero essere chiamati a risarcire le vittime che si sono costituite nel processo e le parti danneggiate. Lo ha deciso ieri il giudice per l’udienza preliminare Paola Faggioni. Le due società avevano provato a sfilarsi, sostenendo di non essere state coinvolte nell’incidente probatorio, in cui sono state determinate le cause del crollo, e di non avere quindi avuto diritto al contraddittorio. In realtà, secondo il giudice, le due società di fatto hanno avuto modo di partecipare a quella fase, essendo state citate per la responsabilità amministrativa. Per questo entreranno nel processo anche per far fronte a eventuali risarcimenti civili. L’intervento del giudice ha salvato in extremis la posizione delle parti offese: il rischio concreto, infatti, è che sfumasse la possibilità di ottenere risarcimenti; difficile pensare, infatti, che i singoli imputati possano far fronte a danni così ingenti. La Procura di Genova, e questo forse è stato il dato più sorprendente di dell’udienza che si è tenuta ieri, si era detta favorevole a escludere sia Aspi che Spea. Sulla base della stessa argomentazione rimangono fuori dal processo gli altri due enti chiamati a rispondere come responsabili civili: Anas e il Ministero delle Infrastrutture, che in effetti non hanno mai partecipato all’incidente probatorio. E, a questo punto, potrebbero rispondere di eventuali risarcimenti sono in sede civile.