“Secessione”: un disastro per l’ambiente

Caro direttore, pur non condividendo per tanti versi programmi e comportamenti dei 5 Stelle, credo che il dialogo con essi vada inaugurato (sarebbe stato fondamentale non fare andare al governo un soggetto pericoloso per la democrazia costituzionale come Salvini) su alcuni punti essenziali. Uno è senz’altro quello della secessione delle Regioni “ricche” e di una sorta di frantumazione dello Stato unitario nato nel 1861 e reso democratico e repubblicano nel 1946. Stato regionale dal 1970 con alcune antecedenti regioni a statuto speciale la cui vita (vedi Sicilia soprattutto) è costellata, impregnata quasi di situazioni e di abitudini negative, se non nefaste e che oggi (a parte la Provincia autonoma di Bolzano che nel 1918 ci prendemmo impropriamente invece dell’Istria) non hanno più il senso che avevano nel dopoguerra.

Se andasse in porto la richiesta della Lega per Veneto e Lombardia e quella (caudataria, politicamente poco spiegabile) dell’Emilia-Romagna, con deleghe in esclusiva di materie fondamentali, avremmo uno Stato dal vestito arlecchinesco e non uno Stato regione che evolve verso uno Stato federale voluto, pensato, strutturato con un centro “forte” alla tedesca. Dove nessuno si sogna di contestare Berlino e le materie rimaste al Bund (tutte quelle di portata davvero nazionale e internazionale). Avremmo 4 Regioni a statuto speciale e 2 Province Autonome, altre 2 Regioni con deleghe e poteri rinforzati e autonomi e una terza sulla stessa linea d’onda e le altre, compreso il Lazio dove – bizzarramente, diciamolo – Roma la capitale dipende dalla Regione, le quali aspirano (tutte per ora, tranne il Molise) ad avere poteri speciali rispetto al centro, a Roma. A quel punto Capitale “ornamentale” e poco più. L’opposizione dei 5 Stelle è benvenuta perché quella del Pd risulta alquanto dimessa dal momento che questo fracasso leghista è stato reso possibile dalla incredibile “riforma” del Titolo V della Costituzione voluto in fretta e furia da alcuni giuristi del Partito democratico (c’era ancora Franco Bassanini, mi pare) che così sperava ingenuamente di captare simpatie e voti leghisti. Invano. Ma la natura “orizzontale” dello Stato regionale è rimasta. Foriera di caos.

Fra le materie che Lombardia, Veneto e, in parte, Emilia-Romagna pretendono ci sono i beni culturali, l’ambiente, il paesaggio. Il volto e la ricchezza del Belpaese sfregiato proprio da loro.

Infatti sono le tre regioni dove il consumo di suolo è stato sin qui pazzesco, il doppio delle medie europee, dove le cave per il cemento non si contano, dove la superficie coperta da cemento+asfalto raggiunge, a parte il Napoletano, la Terra dei fuochi (non a caso), le percentuali più disastrose: a Milano il 54%, a Brescia, Monza e Bergamo poco meno. Così ad ogni pioggia battente il Seveso straripa. Come il Bacchiglione o il Brenta nel Veneto. Una bella gestione del territorio, non c’è che dire. Bisogna dire che Emilia-Romagna allora “rossa” e Veneto “bianco” furono fra le prime ad approvare i piani paesaggistici richiesti dalla legge Galasso nel 1985. La Lombardia no. Tante altre regioni nemmeno. La Sicilia, la più “abusata”, non si pose nemmeno il problema.

È cambiato qualcosa col Codice per il Paesaggio (Urbani e poi Rutelli) e la sua co-pianificazione Regioni-ministero? Macché. Tre sole Regioni hanno approvato i piani paesaggistici (Puglia, Toscana e Piemonte, in parte la Sardegna, in anticipo, ai tempi di Soru). Le altre sono in ritardo o addirittura immobili. Si sono meritate in questo modo l’autonomia in materia urbanistica (leggi contrattate coi privati), paesaggistica, ambientale? La Provincia di Trento ha di recente realizzato fulgidamente la propria autonomia riaprendo la caccia alla Marmotta, specie protetta? Per farne che? Nulla. Per il gusto di ammazzarla.

Voto di scambio: l’interesse pubblico, il silenzio dei media

Non sappiamo se si tratti di malafede o di incapacità di valutare cosa è importante e cosa no. Sappiamo però che c’è qualcosa di profondamente sbagliato e surreale nella sproporzione tra l’enorme spazio dedicato da siti internet, giornali e tv alla nuova legge sulla legittima difesa e l’assenza pressoché totale di informazioni sul dibattito parlamentare riguardante la riforma delle norme sul voto di scambio politico-mafioso.

La questione della legittima difesa è certamente interessante. Ha rischiato di spaccare la maggioranza, ha scaldato gli animi, ha spinto i talk show a organizzare continui faccia a faccia. Ma chiunque sia onesto intellettualmente deve ammettere che tutta la discussione ruota intorno a una legge destinata a non incidere sulla vita della stragrande maggioranza degli italiani. Detto in altre parole: ciascuno è libero di considerare buone o cattive le nuove norme (e noi qui pensiamo che siano in gran parte cattive), ma subito dopo deve fare i conti con la realtà. Deve cioè ricordare (e ricordarsi) che i casi di legittima difesa di cui si occupano ogni anno i magistrati sono pochissimi: erano otto nel 2013, uno nel 2014, quattro nel 2015, due nel 2016. Al contrario sono molte centinaia i politici di ogni ordine e grado eletti grazie all’appoggio delle mafie. Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, ci spiega che in Calabria le ’ndrine controllano il 30 per cento dei voti. Il susseguirsi delle indagini e dei processi ci racconta che con i boss ci si accorda prima delle elezioni in tutta Italia: dalla Val d’Aosta, dove sono stati arrestati un consigliere regionale e due consiglieri comunali, fino alla Sicilia dove le ultime manette riguardano un ex deputato regionale, Paolo Ruggirello, candidato dal Pd nonostante i tanti allarmi sul tipo di consenso elettorale che era solito raccogliere, lanciati da giornalisti e militanti del suo stesso partito.

Ora se è perfettamente comprensibile che le forze politiche cerchino di nascondere lo sporco sotto il tappeto è invece deontologicamente e professionalmente ingiustificabile che lo stesso facciano tanti sedicenti “operatori dell’informazione”. Per due motivi. Il primo è – o dovrebbe essere – scontato. Le storie riguardanti i rapporti tra mafia e politica da sempre interessano i lettori. Tutti vogliono sapere come si comportano coloro i quali sono stati eletti per amministrare e spendere i soldi delle tasse dei cittadini. Nascondere o non pubblicare notizie di questo genere vuol dire o non saper fare il proprio mestiere (eventualità da non escludere, vista la crisi di molti giornali) o aver scelto di soddisfare i desideri dei propri referenti politici a scapito di quelli del pubblico.

Il secondo motivo ha invece a che fare con la coerenza. La maggior parte delle testate si dichiarano (giustamente) preoccupate dalla situazione economica, chiedono a gran voce investimenti e interventi a favore delle imprese. Ma se queste posizioni sono davvero mosse dal desiderio del “bene del Paese” non si può far finta di non sapere quale zavorra per la nostra economia rappresentino i clan.

Certo, ci può essere anche chi ritiene la nuova legge sbagliata. I parlamentari di Forza Italia dicono che “con questa norma si svuoteranno i consigli comunali” e che “si rischia di trasferire il Parlamento in galera”. Quelli del Pd sostengono invece che è inutile. Ma comunque la si pensi, nei giornali e nelle tv tutto si può fare tranne che non raccontare ciò che accade in Parlamento. Perché altrimenti l’informazione diventa un’altra cosa e va chiamata propaganda.

I vescovi ai poveri: “Parassiti”

Navigator (e non era facile) non è la peggior parola che accompagna il dibattito sul reddito di cittadinanza, giunto ormai a livelli pornografici. Dopo mesi di “fannulloni” (in apertura anche mercoledì di Libero) e “divanisti” (su tutti i giornali), ci mancava “parassiti”. Ed è stupefacente che a pronunciarla, questa parola, siano i vescovi: “Tra i rischi del Reddito di cittadinanza c’è quello di attenuare la spinta a cercare lavoro o a convincere a rinunciare a offerte di lavoro che prevedano una retribuzione non distante da quanto previsto dal Reddito”, hanno detto i rappresentanti dell’Ufficio nazionale per la Pastorale sociale e del Lavoro della Cei e il Comitato scientifico delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani in audizione alla Camera. La scomunica si conclude così: “È enorme il rischio di aumentare queste forme di cittadinanza non solo passiva ma anche parassitaria nei confronti dello Stato”.

È l’effetto “spiazzamento” o “scoraggiamento” denunciato da Confindustria e dall’ex presidente dell’Inps Tito Boeri: 780 euro, ci hanno spiegato, è più o meno lo stipendio medio degli under 30 ed è superiore al salario di quasi il 45% dei dipendenti privati del Sud. Ora che lo dicono anche i vescovi, i giornali (quelli “della reazione”, come avrebbe detto Peppone) giubilano perché finalmente c’è qualcuno che fa opposizione al populismo. E porta perfino la tonaca e ha in mano il Vangelo dell’ama il prossimo tuo come te stesso.

C’è un’offesa più svilente di “parassita”? No, ma del resto lo squallore a cui il Paese è giunto si misura dal fatto che se cinque milioni di poveri vengono sbeffeggiati quotidianamente a reti unificate nessuno se ne accorge mentre se un cantante famoso negli anni Ottanta viene ridicolizzato in televisione perché forse la moglie gli fa le corna, l’opinione pubblica s’indigna. Ora i destinatari del reddito di cittadinanza sono persone povere che non hanno un lavoro: e i poveri, ci risulta, dovrebbero essere al centro del messaggio evangelico tanto che la Chiesa è molto attiva nelle attività caritatevoli. Escludendo che siano i vescovi (occupati in ben altre questioni morali) a temere di perdere il lavoro, resta incomprensibile la ragione per cui vogliono colpevolizzare i destinatari del reddito, additandoli come parassiti. La nostra Costituzione è, nella prima parte, informata del principio di solidarietà e inclusione. Non solo il lavoro è fondamento del patto sociale che ci governa (la Carta, appunto), ma il lavoratore ha diritto (articolo 36) a una retribuzione sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa (cari Vescovi, non i 780 euro del reddito). E in caso di disoccupazione involontaria (articolo 38) è previsto che sia lo Stato a provvedere. Del resto, per farci capire, San Paolo (Tessalonicesi 3,1) la regola la enuncia chiaramente: “Chi non vuol lavorare, neppure mangi”.

La malizia del dibattito è tutta nell’alea della volontarietà: non lavori perché non ti sei dato abbastanza da fare, perché non sei disposto a fare sacrifici, a guadagnare una miseria, a essere precario per tutta la vita. La classe lavoratrice non esiste più, esistono i singoli più o meno capaci di cavarsela in una contrattazione che, ovviamente, non è mai un gioco alla pari. Nessuno che si domandi a chi conviene questo mercato del lavoro così frammentato in termini di diritti e sempre meno tutelato, dove chi lavora non riesce troppo frequentemente a mantenersi. Nessuno che punti il dito contro chi alimenta la ferocia di un capitale mai sazio di profitti, ormai completamente libero di agire perché le tutele dei lavoratori sono state via via smantellate (grazie, anche ma non solo, ai compagni del Pd).

Così è normale che il ministero del Lavoro pubblichi un bando in cui cerca consulenti qualificati (almeno 5 anni di esperienza in diritto nazionale, europeo, societario, bancario, dei mercati e intermediari finanziari) a titolo gratuito: tanto fa curriculum. Si lavora di più, si guadagna di meno, talvolta non si guadagna proprio. In questo quadro soffiare sul fuoco della guerra tra poveri fa il gioco di quelli che una volta si chiamavano padroni e ora sono i padroni del mondo: loro sono flessibili perché ci mettono una notte a delocalizzare una fabbrica. Volete che non siano flessibili anche le bocche di quelli che ci lavorano? Solo che la guerra tra poveri interessa solo quando si tratta di immigrati, per via del pericolo razzismo: è vero, siamo un Paese razzista, soprattutto perché tolleriamo ghetti e baraccopoli dove i migranti vengono sfruttati dai caporali per 5 euro al giorno.

Siamo sicuri che sia evangelico stare dalla parte degli sfruttatori e prendersela con gli ultimi chiamandoli “parassiti”?

Decretone, riscatto laurea per gli under 45: via alle domande

L’inps ha pubblicato la circolare che di fatto consente da subito la presentazione delle domande per il riscatto della laurea per gli under 45, ma intanto la norma si prepara a cambiare alla Camera dove è in corso di conversione il Decretone che contiene le norme su quota 100 e reddito di cittadinanza. In particolare, una delle proposte di modifica presentate dalla Lega è l’abolizione del tetto di 45 anni per il riscatto agevolato della laurea. Ma tra le circa 800 proposte di modifica, sempre da parte del Carroccio, trova spazio anche la richiesta di maggiore attenzione nella distribuzione del reddito e della pensione di cittadinanza ai disabili e alle famiglie numerose. Così come viene chiesto che il bonus bebè e il bonus nido non vadano sommati alle entrate familiari nelle domande per il sussidio: la proposta di modifica punta, quindi, a escludere i due sostegni alla nascita dal calcolo dell’Isee ma solo ai fini del reddito di cittadinanza.

Fa capo invece al M5S la proposta di incentivi ai datori di lavoro che stabilizzano i precari: significa estendere il bonus anche nei casi in cui il contratto a tempo determinato o part-time venga trasformato a tempo pieno indeterminato.

Seif presenta la domanda di ammissione alla quotazione su Aim Italia

Società Editoriale Il Fatto S.p.A. (“SEIF” o “Società”), media content provider ed editore, tra l’altro, de Il Fatto Quotidiano e di diversi prodotti editoriali e multimediali, annuncia di aver presentato la domanda di ammissione alle negoziazioni delle azioni ordinarie della Società sul mercato AIM Italia, organizzato e gestito da Borsa Italiana. L’ammissione è prevista per martedì 12 marzo, con primo giorno di quotazione atteso per giovedì 14 marzo.

La società intende destinare i proventi della quotazione su AIM Italia al proprio piano di crescita, che prevede uno sviluppo in chiave digitale e data driven e una diversificazione del portafoglio di prodotti, con particolare attenzione alla produzione televisiva e allo sviluppo di Loft, piattaforma di contenuti per la Web Tv.

Il collocamento è strutturato mediante un’offerta in vendita di azioni proprie per complessive massime n. 6.417.893 azioni (“Azioni”), pari al 25,7% del capitale sociale. Alle Azioni sono abbinati gratuitamente i warrant denominati “Warrant SEIF 2019-2021” (“Warrant”).

Nel processo di ammissione alla quotazione la Società è affiancata da Advance SIM nel ruolo di Nomad e Joint Global Coordinator, da Fidentiis nel ruolo di Joint Global Coordinator e da Emintad Italy in qualità di financial advisor. Directa SIM è l’intermediario finanziario incaricato della ricezione di ordini per il segmento retail. Nctm agisce in qualità di legal advisor, Kpmg come società di revisione, Studio Gnudi come advisor fiscale e A2B come advisor per i dati extracontabili. Close to Media è consulente per la comunicazione.

Xylella e gelate, arriva il decreto ad hoc per i gilet arancioni

Dopo il timore che stesse per tradire gli olivicoltori pugliesi dei gilet arancioni, il ministro dell’Agricoltura Gian Marco Centinaio ha mantenuto la promessa: ieri il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legge con il sostegno alle aziende colpite delle gelate e le azioni contro la Xylella. Scongiurato il rischio di un disegno di legge, provvedimento che avrebbe richiesto tempi più lunghi e non adeguati per affrontare l’emergenza degli agricoltori.

Il testo recepisce le richieste dei gilet arancioni. Alle aziende colpite a febbraio 2018 dall’anticiclone Burian sono riconosciuti risarcimenti per i raccolti andati in rovina, prestiti a tasso agevolato, sconti sui contributi degli operai. Sul fronte Xylella, vengono permesse le misure fitosanitarie e la distruzione delle piante contaminate in deroga alle leggi vigenti. Per abbattere o modificare la chioma degli ulivi monumentali andrà accertata l’infezione con laboratori accreditati. Le restanti due parti del testo riguardano i produttori di latte e agrumi. Gli agricoltori pugliesi chiedevano un intervento da giugno. Pochi mesi prima, il maltempo aveva provocato danni per 600 milioni di euro e ha portato alla perdita di un milione di giornate lavorative.

La Bce compra ancora tempo: nuova liquidità alle banche

Alla fine Mario Draghi e la Bce hanno fatto quel che era ovvio che facessero: compreranno altro tempo per tenere in vita un sistema disfunzionale. La via, d’altra parte, era obbligata. I fatti: ieri la Banca centrale europea ha annunciato che a settembre 2019 partirà un nuovo round biennale di cosiddetti Targeted long term refinancing operation (Tltro), aste che forniscono liquidità a basso costo alle banche per spingerle, almeno in teoria, a fare più credito. Oltre a questo Draghi ha spiegato che i tassi resteranno all’attuale, bassissimo livello almeno fino al 2020. Il sistema finanziario – in particolare quelli italiano e spagnolo, gran clienti dei passati Tltro – è salvo per un po’: al prezzo, però, di non fare quel per cui è nato, cioè guadagnare prestando soldi. Non è un modello equilibrato di crescita, d’altronde, l’obiettivo, ma il congelamento dello status quo in attesa di un miracolo o del crollo.

La decisione, nei mesi scorsi osteggiata dai Paesi del Nord, è stata presa all’unanimità e formalmente spiegata dal governatore come una reazione al peggioramento delle prospettive di crescita e inflazione: e poco importa – tanto più che nessuno glielo farà notare – se significa rimangiarsi, e di parecchio, stime diffuse solo tre mesi fa. Il Pil dell’Eurozona, ad esempio, è oggi previsto aumentare dell’1,1% quest’anno contro l’1,7% messo nero su bianco solo a dicembre; la dinamica dei prezzi passa nella nuova stima dall’1,6% all’1,2% (e dopo 2.400 miliardi di euro di Quantitative easing teoricamente lanciato per portare l’inflazione vicina al 2%).

L’annuncio della Bce ha avuto subito due effetti scontati: svalutare l’euro e calmierare gli spread. Quello dei Btp decennali rispetto agli omologhi Bund ha chiuso a circa 240 punti il che significa, visto che i titoli tedeschi ormai pagano quasi zero, che il rendimento dei nostri è sceso sotto il 2,5%, un livello che non vedeva da luglio scorso.

La notizia, come detto, è scontata: le banche italiane hanno in pancia vecchi prestiti Tltro per 240 miliardi e adesso, invece di dissanguarsi per raccogliere sul mercato liquidità più costosa, potranno usare quella in eccesso e quella che arriverà dal rinnovo dei vecchi prestiti Bce in scadenza per comprarsi i Btp che avevano “passato” al sistema delle banche centrali durante il Quantitative easing. I titoli italiani, peraltro, offrono rendimenti non malvagi e quindi finiscono per spingere la redditività degli istituti oggi inesistente nei settori “tradizionali”. Queste aste, ha detto Draghi, sono state pensate perché le banche “prendano in prestito a buoni tassi per poi prestare all’economia, alle aziende, alle famiglie e al settore privato, non per comprare debito sovrano”: e la lingua, com’è noto, batte dove il dente duole.

Questo giro di giostra finirà nel 2021 – periodo per il quale più di un malpensante prevede già un nuovo Quantitative easing (“non c’è stata affatto discussione su un nuovo Qe”, sempre la battente lingua di Draghi) – ma non è detto che la decisione annunciata ieri sia indolore per l’Italia: “I paesi in cui il debito pubblico è elevato devono continuare a ricostituire cuscinetti fiscali. Tutti i paesi dovrebbero continuare ad aumentare gli sforzi per ottenere una composizione più favorevole alla crescita delle finanze pubbliche”.

Tradotto: la Bce e Draghi insistono, anche in un periodo di deciso peggioramento dell’economia, nel chiedere ai Paesi ad alto debito (cioè all’Italia) politiche deflattive. Il fatto che la ricetta si sia già rivelata fallace non pare aver cambiato la linea di Francoforte. Si tratterebbe solo di un consiglio se la Banca centrale non avesse, come ha, strumenti per mettere sotto pressione i governi, specie quelli di Paesi indebitati come l’Italia. Tutto, però, ha i suoi tempi: “È facile per noi invocare più azioni a livello europeo, ma queste sono decisioni politiche che i governi devono prendere e devono spiegare ai loro cittadini; è molto più difficile metterle in pratica in una società democratica”. Finché dura, son problemi.

Fassino, Chiampa e la notte delle lunghe forchette

Sussurri e grida (nel senso di insulti e frasi maligne) da uno scandalo: quello del Salone del Libro di Torino. E, assieme, la radiocronaca involontaria (un copione degno del “teatro da camera”) della grande rabbia di Piero Fassino (e di sua moglie, Anna Serafini, ex parlamentare del Pci, del Pds e dei Ds) per la sconfitta che lo ha scalzato dalla poltrona di sindaco della città della Mole (“…una città di merda…”, “…una città di cazzoni…” dice la signora). Con un primo obiettivo scontato, quasi banale, la nuova prima cittadina a Cinquestelle, Chiara Appendino: “Lei? Una squilibrata… Ci ha un disturbo, evidente…”, spiega ancora la Serafini. “Nevrotica, nevrotica…” incalza Fassino. Ma ce n’è anche un secondo, inaspettato visto il consesso, e quasi un convitato di pietra, tenuto conto che le parole scivolano tra un calice di vino bianco “Montecarlo” e le divagazioni su come si cercano i funghi nei boschi, durante una cena in uno dei ristoranti subalpini più rinomati. Gli strali, infatti, arrivano anche per un vecchio compagno di Piero, sin dai tempi della federazione torinese del Pci di via Chiesa della Salute: il presidente Pd della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino. Maurizio Braccialarghe, ex assessore alla Cultura della giunta Fassino, si rivolge così alle altre due commensali, la Serafini e la moglie Marta, chiarissimo nel suo giudizio: “Se lui (Piero, ndr) avesse capito, sarebbe come lui (Sergio, ndr): sarebbe di un cinismo esasperato…”. L’ex sindaco, allora, ride e conferma: “Di un cinismo esasperato…”. Braccialarghe argomenta ancora meglio: “Lui brucerebbe qualunque cosa…”. E Fassino anche questa volta è d’accordo: “Qualunque cosa…”.

È la sera del 24 ottobre 2016, lunedì. Solo quattro mesi prima, il 19 giugno, la grillina Chiara Appendino ha vinto il ballottaggio della Mole e le bandiere a Cinquestelle hanno invaso i portici di Palazzo di Città assieme ai cori “Onestà, onestà”. Si avverò così la profezia tafazzista di Fassino che, all’allora giovane consigliera comunale del M5S, in Sala Rossa aveva detto: “Mi auguro che un giorno lei si segga su questa sedia e vediamo se sarà capace di fare quello che auspica”.

La stagione, però, in quell’ottobre, è già cambiata e, da politica, è diventata giudiziaria. La Procura di Torino, ancora guidata da Armando Spataro, sta infatti indagando sul default dei conti del Salone del Libro e sulle turbative d’asta per l’affitto dei padiglioni fieristici del Lingotto. Una vicenda che, tre mesi fa, ha portato alla chiusura indagini: gli indagati sono 28 e tra loro, oltre all’ex patron del Salone Rolando Picchioni, ad attendere le decisioni del gup c’è pure l’ex sindaco Pd di Torino. In quell’autunno 2016, un avviso di garanzia aveva raggiunto anche l’ex assessore Braccialarghe già molto malato e che, purtroppo, sarebbe morto all’inizio del 2018.

I carabinieri, in quei giorni, stanno intercettando i telefoni di mezza città della politica e della cultura e, in una conversazione, captano che Fassino e Braccialarghe dovranno vedersi a cena il lunedì sera, con le rispettive mogli. Convinti che sia probabile un incontro legato all’inchiesta e alle vicende della grande kermesse culturale del Lingotto, gli inquirenti imbottiscono di “cimici” il ristorante “Gatto Nero” di corso Filippo Turati 14: uno dei templi della cucina torinese, prima ancora addirittura della grande moda enogastronomica. Preferito dalla Torino dell’industria, della politica e delle lobby, non era raro che ospitasse, negli anni Novanta, anche Umberto Agnelli e suo figlio Giovannino. La lunga intercettazione “ambientale”, si legge nel verbale di autorizzazione, durerà “dalle 21.06 circa alle 23.10 circa del 24 ottobre 2016”.

In realtà, in quella cena, l’argomento del Salone del Libro sarà sfiorato appena una volta, senza nessuna importanza apparente per l’inchiesta e, anche in questo caso, solo per commentare le sorti della “città di merda” e “di cazzoni” finita nelle mani di “quei cattivi: loro (i Cinquestelle, ndr) sono cattivi e presuntuosi…”.

Nonostante tutto questo però (“L’irrilevanza”, potrebbero sostenere gli avvocati difensori), le 78 pagine del brogliaccio di quelle conversazioni a tavola sono depositate adesso tra le oltre 24 mila dell’inchiesta. Diventando così, se non una prova processuale, certamente un fatto politico. Lo scenario di una mancata “elaborazione del lutto” da parte dell’ex sindaco, per la sconfitta al ballottaggio comunale.

Gli interpreti, indicati dai carabinieri, sono questi: Fassino, Braccialarghe, Anna Serafini, Marta Casadio, moglie dell’ex assessore, l’Uomo 1 e l’Uomo 2 (definiti “operanti”), l’Uomo 3 (“cameriere”), la Donna 1 (“operante”), la Donna 2 (“cameriera”). E una cagnetta: appartiene a Piero e ad Anna e, durante l’intera cena, interromperà spesso il dialogo o diventerà essa stessa l’oggetto della conversazione. Nel prosieguo, si apprenderà che si chiama Nina. Di lei, l’ultimo segretario dei Ds dice con i due amici: “È statisticamente dimostrato che l’affetto ha una funzione terapeutica: aiuta a vivere…”.

Come un fiume carsico che riemerge di continuo, il tema della rabbia e dell’amarezza spunta ininterrottamente qui e là nella cena e tra le pagine. E così, sempre tra le 21.06 e le 23.10 di quel lunedì, Appendino e i Cinquestelle devono aver sentito spesso le orecchie fischiare.

Fassino: “Con questi qui, che non sanno cosa fare… Fanno danni, questi fanno danni… Tu devi vedere che cos’è il Consiglio comunale con ’sti 24 zoppi… La capacità dialettica? Tale per cui l’intervento dura 28 secondi… Questi dementi zombie… Lui? (Paolo Giordana, ex capo di gabinetto della sindaca, poi travolto da un’inchiesta giudiziaria, ndr) è peggio di lei. Insomma, una bella gara, diciamo la verità…”.

Serafini: “Lei, una persona viziata che non ha mai lavorato nella sua vita. Perché, lavorare alla Juventus è l’unica cosa seria? Sapete questa bocconiana su cosa ha fatto la tesi di laurea? Sul parco giocatori…”.

Ancora Fassino, ridendo: “La compravendita dei giocatori, incredibile. Bocconiana… Stiamo preparando un’iniziativa: cento giorni dell’Appendino visti da me…”.

Braccialarghe: “Quello che mi stupisce? Che nessuno di loro ha mai lavorato…”.

Serafini: “Lei, secondo me, ha il problema. Il disturbo della personalità. Non sopporta le donne…”. Fassino: “Lei non sopporta le donne…”.

Serafini: “Urla…”.

Fassino: “Nevrotica, nevrotica…”.

Intanto, le scelte dal menu si sono compiute. Uomo 3 e Donna 2 hanno preso la comanda: baccalà mantecato, spaghettini basilico e pomodoro, altri spaghettini alla Peppino Fiorelli (un piatto tradizionale del “Gatto Nero”, pomodoro, capperi, acciughe e carciofi, tutto tritato), ancora spaghetti alle vongole e gratin di melanzane, infine sorbetti per tutti. Per la cagnetta Nina, invece, “un po’ di rigadini di ciccia, con del pane e un po’ di brodo alla carne…”.

Ma il vero piatto da servire freddo, se non è proprio quello della vendetta, è almeno quello del risentimento. E a questo punto, entra in scena il fantasma del “Commendatore”: Chiamparino. Introduce Braccialarghe: “L’altro che veramente devo dire io non lo saluto neanche più…”. Fassino: “Tu sai che in questi giorni lui non si è fatto vivo?…”.

Serafini: “Uno che ha fatto cose micidiali… Uno che fa orrore, diciamola tutta…”.

Braccialarghe: “Un uomo che dovrebbe baciare dove cammina Piero… Coi conti che avevamo nel 2011 (quelli del Comune, prima amministrato da Chiamparino ndr) era sull’orlo del fallimento… E avere un successore che non ha mai detto nulla… Piero, uno che gli faceva ombra… Come mai questo atteggiamento non ce l’ha con l’Appendino? Lui invece soffriva la presenza di Piero, ha sempre sofferto…”.

Piero perlopiù tace (e la registrazione non consente di ricostruire le possibili smorfie), ma senza dubbio neppure si indigna, si dissocia o smentisce. In un caso, abbiamo visto, addirittura ricalca: “Di un cinismo esasperato…”. La chiusura tocca ancora alla signora Fassino, con la stessa plastica efficacia con cui aveva cominciato parlando dei torinesi che avevano voltato le spalle al marito: “Per esempio Chiamparino: io penso che lui sia proprio invece un uomo di merda…”. L’ultima replica è dell’ex sindaco, non si capisce sino in fondo se ironico o invece lapidario: “Non sta raccogliendo un grande giudizio…”.

Il resto sono le signore che parlano di campagna e di belle case di proprietà, con Anna Serafini che esalta il casale in Maremma con “venti ettari…” e lui, Piero, che la interrompe per celebrare a sua volta quella di Roma: “Un posto bellissimo, al Pantheon…”. E poi sempre lui, che non si trattiene sulle sue eterne aspirazioni estere (“I tedeschi, gli austriaci, gli svedesi, i francesi tutti a chiedermi come va il referendum (quello sulla riforma costituzionale, perso da Matteo Renzi il 4 dicembre 2016, ndr)…”; riflessioni che spaziano da Berlino sino alla Washington con una citazione anche per la Birmania; un magnificat a sangue freddo (e nonostante tutto) per Renzi: “In questo devo dire che ha ancora un’idea forte della politica…”. Infine, nelle battute dei singoli commensali, persino due allusioni alla “questione del Quirinale” (segnali forse di un’altra cocente delusione?) e disprezzi sparsi per Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani.

Alle 23.10, i carabinieri certificano l’epilogo: “Gli interlocutori escono dal locale, si sentono le voci di altri ospiti del ristorante. Fine registrazione…”. Anche Nina, la cagnetta, se n’è andata: non la si ode più abbaiare.

Due anni e mezzo dopo, Piero Fassino è un parlamentare Pd di Ferrara e, a Torino, si vede sempre meno. Non è dato sapere se sua moglie continui a considerarla “una città di merda” e se la giudichi ancora abitata, perlopiù, da “cazzoni”.

L’ex sindaco, intanto, ha scritto un libro a quattro mani, sull’Alta velocità, con quel “cinico esasperato” di Sergio Chiamparino. Che, invece, è rimasto solo sotto la Mole, a cercare di recuperare, voto su voto, le urne regionali di maggio: puntando sulla battaglia per il sì al Tav e sperando in Nicola Zingaretti, più che nel suo vecchio compagno dei tempi di via Chiesa della Salute. Per impedire che Matteo Salvini si prenda anche il Piemonte.

Reddito, c’è il bando per i navigator: quiz in 10 materie

Laurea magistrale e voto alto. Per i candidati al ruolo di navigator, in assenza dell’accordo con le Regioni, manca ancora il bando per il reclutamento ma è arrivato quello per scegliere la società che dovrebbe selezionarli e cominciano a chiarirsi i requisiti per partecipare alla prova di selezione. La prova selettiva per arruolare i navigator sarà predisposta per 60.000 candidati, dieci volte i posti disponibili. A parità di votazione finale dopo i test viene scelto il candidato più giovane. Sarà necessario aver completato cinque anni di studi universitari. Al momento non è prevista una prova orale. Quella scritta consiste nella somministrazione di un test a risposta multipla composto da massimo 100 test di cultura generale, psicoattitudinali, di logica, di informatica, sugli interventi di politica del lavoro, sulla disciplina dei contratti di lavoro, sul sistema di istruzione e formazione. Da chiarire come valorizzare il voto di laurea. I navigator avranno un contratto di collaborazione di due anni con un compenso di 30.000 euro l’anno. Il limite per partecipare dovrebbe essere di 55 anni. Intanto ai Caf il 6 marzo sono giunte 30mila richieste, che si sommano alle oltre 92mila presentate nelle prime 48 ore alle Poste.

Morandi, stop al tritolo. Altri 40 sotto indagine

La demolizione si arena, ma l’inchiesta accelera. Nel giorno in cui si decide, a causa del rischio amianto, di rinviare l’abbattimento del pilone 8 del Morandi arriva la notizia di nuovi indagati. Sul registro della Procura guidata da Franco Cozzi sono finiti altri 40 nomi che sommati ai 21 già iscritti porta il totale a oltre 60.

L’inchiesta si è rivolta verso il passato del Morandi. I pm stanno ricostruendo la cronologia della manutenzione e dei lavori di retrofitting dagli Anni 90 a oggi. In particolare dal 1993 quando Autostrade – allora in mano pubblica – decise di ristrutturare il pilone 11, che infatti oggi è in buono stato. La domanda è: perché il 10 e il 9, quello crollato, non ebbero già allora lo stesso trattamento e si aspettò invece il 2018 (i lavori dovevano partire l’autunno scorso, troppo tardi)?

Domande che i magistrati hanno posto a decine di persone sentite come testimoni. Quaranta di loro oggi sono indagati. Si tratterebbe di dipendenti di Spea, Autostrade e di dirigenti del ministero delle Infrastrutture. Alcuni sono stati iscritti proprio alla luce delle dichiarazioni fornite come testimoni. L’accusa in questo caso sarebbe di false dichiarazioni. Per gli altri indagati le ipotesi di reato sarebbero omicidio colposo plurimo, disastro colposo, attentato alla sicurezza dei trasporti, lesioni colpose. L’avviso di garanzia è anche una forma di tutela degli indagati che potranno partecipare agli incidenti probatori.

Segna invece il passo la demolizione del ponte: ad appena quarantotto ore dalla prevista esplosione di 250 microcariche che dovevano far crollare il pilone 8 si è deciso di fermare tutto. Il motivo: la presenza di amianto rivelata dai carotaggi della Asl. In sette campioni sui quaranta prelevati è stata trovata crisolite: “Si tratta probabilmente di amianto naturale, cioè di tracce contenute nelle pietre. Non sembra trattarsi di amianto di produzione industriale”, spiega il procuratore Cozzi. Che aggiunge: “Vogliamo, però, poter escludere ogni possibile danno alla salute che possa derivare dall’esplosione e dalla diffusione di polveri”. Di qui la decisione della Procura di chiedere ulteriori analisi. Così ieri mattina si sono svolti in fretta e furia un sopralluogo al cantiere e poi in Prefettura una riunione della Commissione Esplosivi. Risultato: “Sono necessari ulteriori approfondimenti”, ha confermato Gabriele Mercurio (dirigente della Asl). Ha aggiunto: “È necessario fare una valutazione fondata scientificamente per valutare se l’esplosione possa determinare o meno problematiche di natura sanitaria o ambientale”. E adesso? Marco Bucci, sindaco commissario, spiega: “Senza ok della commissione esplosivi noi non ci muoviamo… bisogna garantire l’incolumità dei cittadini e degli operatori del cantiere”. Bucci aggiunge: “Abbiamo un piano B e C per la pila 8, ma non ho piani alternativi per le pile 10 e 11”.

A sollevare la questione amianto erano state tra l’altro le parole al Fatto di Gabriele Camomilla, ingegnere che curò fino al 2000 la manutenzione del ponte: “Nei progetti del Morandi è indicato che nella struttura è presente amianto”. A questo si è aggiunto un esposto presentato da Enrico D’Agostino dei Liberi Cittadini di Certosa: “Colpisce che ci si trovi ad affrontare la questione amianto a 48 ore dall’esplosione. Viene il dubbio che senza esposto tutto sarebbe andato avanti”.