Pm su Mediolanum: “Verdetto pilotato”. Indagato Berlusconi

L’inchiesta della Procura di Roma sulla sentenza Mediolanum – che nel 2016 riconsegna alla Fininvest il 20 per cento della banca – arriva a Silvio Berlusconi. L’ex premier è indagato per concorso in corruzione in atti giudiziari. Il sospetto dei magistrati è che dietro la sentenza ci sia stata una promessa di denaro ai giudici del Consiglio di Stato. Nell’inchiesta dei pm Paolo Ielo, Stefano Rocco Fava e Fabrizio Tucci oltre Berlusconi si contano altri tre indagati. Si tratta di Roberto Giovagnoli, giudice estensore della sentenza datata 3 marzo 2016, dell’ex funzionario della Presidenza del Consiglio Renato Mazzocchi, e dell’avvocato romano Francesco Marascio.

Quest’ultimo è accusato perché – si legge nel capo di imputazione – “quale intermediario, prometteva denaro a giudici del Consiglio di Stato che deliberavano la sentenza depositata il 3 marzo 2016, avente a oggetto il ricorso proposto da Berlusconi nei confronti di Banca d’Italia e altri per la riforma della sentenza del Tar concernente la sospensione del diritto di voto e degli altri diritti di influire su Mediolanum Spa nonché l’alienazione delle partecipazioni disposta da Banca d’Italia con provvedimento del 7 ottobre 2014”.

Come scoperto dal Fatto nei mesi scorsi, Marascio molti anni fa si è laureato con Andrea Di Porto, uno dei legali che oggi segue, con un ampio collegio difensivo, la Fininvest nella vicenda Mediolanum. Di Porto è estraneo alle indagini.

Nel dicembre scorso, contattato dal Fatto, il legale spiegò di non vedere Marascio da oltre 15 anni. “Si laureò con me – ha detto –. Non ricordo l’anno, ma grossomodo ai primi del 2000 quando io insegnavo istituzioni del diritto romano alla Sapienza. Subito dopo la laurea venne nel mio studio come praticante, stette alcuni mesi e andò via”. Da quel momento, ha spiegato Di Porto, non ci sono stati più rapporti con Marascio, non hanno mai lavorato insieme e non hanno mai parlato della vicenda Mediolanum: “Nel modo più assoluto”, ha ribadito Di Porto.

La sentenza finita nel mirino dei pm è quindi quella del 3 marzo 2016. Dopo la condanna definitiva per frode fiscale dell’ex premier, infatti, persi dunque i requisiti di onorabilità, la Banca d’Italia impone all’ex premier di cedere il 20 per cento di Banca Mediolanum (valore circa un miliardo). Berlusconi ricorre al Tar e perde. Presenta ricorso in appello al Consiglio di Stato che dapprima, nel dicembre 2015, gli concede una sospensiva, poi gli dà ragione.

Oggi però i pm sospettano che dietro la decisione favorevole a Fininvest ci sia stata la promessa di dazioni di denaro. Che, nell’ipotesi dell’accusa, tale sarebbe rimasta: non sono stati infatti trovati flussi di denaro.

L’indagine è partita da una perquisizione disposta, nell’ambito di una differente inchiesta, il 4 luglio 2016 quando la Guardia di Finanza bussa anche alla porta di Renato Mazzocchi, ex funzionario della Presidenza del Consiglio. Qui gli investigatori trovano una busta con dentro 230 mila euro in contanti e alcuni appunti. In uno di questi in sostanza è scritto: “Ho parlato con B. il quale mi ha detto che il relatore del 4 dicembre è lo stesso del 24 gennaio”. Per gli investigatori “B.” non è Berlusconi, ma sospettano che il “relatore” citato sia Roberto Giovagnoli.

Poi a riportare l’attenzione dei magistrati su Mediolanum sono state le rivelazioni dell’avvocato Piero Amara, in passato difensore anche dell’Eni. Il legale – finito in un’inchiesta su alcune sentenze “pilotate” – ha fornito alcuni dettagli su questa sentenza, vicende che dice di aver saputo de relato, gli sarebbero state riferite da altri.

Così la Procura ha proceduto alle iscrizioni, tra cui quella di Silvio Berlusconi.

“Per questa stessa vicenda – spiegano fonti legali vicine all’ex premier – Berlusconi era già stato indagato e archiviato. Confidiamo che finisca allo stesso modo anche stavolta”.

Il Pd “sceglie” il Pse: Zingaretti vede Timmermans

“Ho visto questa vittoria incredibile domenica, abbiamo visto gli italiani andare ai gazebo per dimostrare che c’è un’altra Italia, solidale, aperta, un’Italia con speranza per il futuro e questa è una cosa stupenda. Adesso c’è una speranza per la sinistra non solo in Italia, ma anche in Spagna, Germania e altri Paesi. Nicola ci dà ottimismo, questa volontà di creare una società più aperta, solidale, inclusiva”. Così Frans Timmermans, candidato del Pse alla presidenza della Commissione Ue, dopo l’incontro con il segretario del Pd Nicola Zingaretti. “Sono venuto in Italia per vedere questo miracolo e per spingere sulla partecipazione della gente alle elezioni europee e per cambiare l’Europa insieme a tanti altri cittadini europei”, ha aggiunto. E il neo segretario, che radica fortemente il Pd nel Pse, mentre Renzi e Calenda flirtano con Macron, ha commentato: “Alle Europee la sfida sarà tra chi vuole distruggere l’Europa e chi la vuole rimettere a servizio delle persone. Bisogna voltare pagina anche in Europa, ricostruire l’Europa della crescita, del lavoro e delle nuove politiche europee al servizio delle persone”.

Grillo, biglietto “bis” per chi lo vuole insultare

Contestazione a pagamento. Il supplemento sul prezzo del biglietto, se si vuole protestare contro Beppe Grillo, è di 10 euro. E non è solo una provocazione.

Durante il suo spettacolo Insomnia (ora dormo!) è possibile interagire direttamente con il comico, in un momento riservato proprio alle contestazioni. È accaduto per la prima volta ieri sera a Bari, nel teatro Team, dove Grillo era in scena e accadrà anche nelle prossime date del tour.

A Bari però nessuno ha colto la provocazione, mentre fuori dal teatro quattro persone hanno protestato contro il comico. Il “supplemento contestazione” è in vendita al botteghino. Chi lo acquista riceve un apposito “Pass Invettiva” con cui, nella parte finale dello show, è possibile inveire contro Grillo e dirgli in faccia tutto quello che si vuole.

“Dovrei fare satira ma contro chi, che siamo al governo? Con chi me la devo prendere ora?”, ha esordito il comico dal palco del teatro barese. Ma Grillo ne ha avute per tutti, da Salvini (“mi aspettavo di trovarlo vestito da pompiere” e “se riaprono le case chiuse come si vestirà, da cliente o da prostituta?”), ai genitori di Matteo Renzi: “Sono ai domiciliari per evitare la reiterazione del reato. Ma è difficile che facciano un altro figlio!”. E poi Berlusconi: “Pensavo di buttare tutto il mio repertorio, se torna lo riciclo”.

L’idea della “contestazione a pagamento” probabilmente risale a qualche settimana fa, precisamente al 19 febbraio. Quella sera, all’inizio dello spettacolo al teatro Brancaccio di Roma, Grillo aveva invitato i suoi oppositori a salire sul palco: “Siccome sono preda di piccoli attacchi e invettive, se c’è qualcuno che vuol fare una contestazione, la faccia alla fine dello spettacolo. Vi do 15 minuti per sfogarvi. Sono per il mio martirio consapevole”.

Fuori dal foyer, infatti, alcuni attivisti del Movimento del 2009 erano arrivati alzando cartelli e urlando al “tradimento”. Lo spettacolo andava in scena all’indomani del Caso Diciotti e del voto sull’immunità di Salvini. A guidare la protesta (meno di una decina di persone, con slogan e cartelli come “Traditore”, “dimissioni”, “Rousseau-Trouffeau”) c’era Francesca Benvenuto, consigliera del Municipio XII di Roma. Le contestazioni pre spettacolo sono arrivate anche a Torino, qualche giorno fa, davanti al teatro Colosseo. Qui un gruppo di genitori “no vax”, ha accusato Grillo di aver tradito la causa sui vaccini.

Nello spettacolo Insomnia il comico ripercorre la sua carriera, tra politica e comicità. E nella narrazione Grillo confida agli spettatori le domande, i pensieri e le preoccupazioni che lo tormentano da quarant’anni togliendogli il sonno. Immancabili i riferimenti all’attualità, le improvvisazioni che da sempre caratterizzano il suo stile e le interazioni con il pubblico.

Da ieri sera, però, chiunque volesse inveire contro di lui oltre al biglietto per assistere allo spettacolo, deve pagare il supplemento. E così sarà anche nelle prossime date del tour. L’11 marzo Insomnia arriva in Calabria. Nuova regione, nuove proteste.

Tra metamorfosi e promesse tradite: cosa resta del M5S

L’ascesa silenziosa di Giuseppe Conte e le sue chance di puntare al Quirinale. Il distacco di Beppe Grillo che nel suo tour mette in scena, tra palco e realtà, la metamorfosi di un Movimento sull’orlo di una crisi di nervi. I fronti caldi delle vertenze tradite, come la Puglia della Tap e dell’Ilva, le nuove formule per mantenere il consenso, come nella Sicilia di Cancelleri e Corrao.

È in larga parte dedicato a inchieste e approfondimenti sul Movimento 5 Stelle un anno dopo la vittoria alle Politiche il nuovo numero di Fq MillenniuM, il mensile del Fatto diretto da Peter Gomez, in edicola da domani. Con, fra l’altro, una lunga intervista esclusiva a Davide Casaleggio, realizzata dallo stesso Gomez e da Martina Castigliani, in parte già anticipata dal Fatto giorni fa. Il figlio del co-fondatore preannuncia alcune mosse per battere la concorrenza “alleata” di Salvini e arginare l’emorragia di consensi e rivela che cosa gli ha detto il padre Gianroberto, appena prima di morire, sul futuro del Movimento. Davide Casaleggio chiarisce anche l’origine e i contorni del proprio ruolo nei 5Stelle. Non mancano le voci critiche, anzi drastiche, di chi nei 5Stelle ha creduto e poi si è ri-creduto, specie a sinistra. “Il Movimento 5 Stelle non esiste più”, scandisce Paolo Flores d’Arcais, direttore di MicroMega, in un colloquio con Gianni Barbacetto, “se si intende quello che si è presentato alle elezioni con un programma radicale contro al corruzione, le mafie, l’evasione fiscale, le lottizzazioni, il degrado ambientale e ogni manifestazione della Casta…”. Chi sono le figure forti oggi nel Movimento, con Beppe Grillo dichiaratamente defilato e Gianroberto Casaleggio scomparso ormai da quasi tre anni? La leadership di Luigi Di Maio non è al momento in discussione, con Di Battista a tenere viva la fiamma movimentista e Fico volto dialogante-istituzionale. L’esterno da tenere d’occhio è però il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, a cui Fq MillenniuM dedica un ampio ritratto firmato da Luca De Carolis e Fabrizio d’Esposito: accusato in Europa di essere “burattino”, visto da vicino somiglia sempre più a un burattinaio. Che da un lato marca stretto i suoi ministri e dall’altro è l’unico interlocutore riconosciuto dal presidente della Repubblica. Salvo imprevisti, l’elezione del successore di Mattarella sarà compito di questo Parlamento nel 2022 e al momento, paradossalmente, l’ex “signor nessuno” ha più di un punto a suo favore. Ma la partita di un movimento nato dal basso con i disciolti meetup – il mensile si è intrufolato in quel che resta del numero 1 di Milano, nato nel 2005 con la benedizione della Casaleggio associati – non si può giocare solo nel Palazzo. Un reportage fra Taranto e Melendugno racconta la profonda delusione di attivisti ed elettori che si sentono traditi non solo dalle promesse non realizzate sulla chiusura dell’Ilva e sullo stop al gasdotto Tap, ma dalla sparizione fisica dei parlamentari eletti, a partire dalla ministra Barbara Lezzi. Una possibile via d’uscita è suggerita dall’esperienza siciliana, dove il partito delle dirette streaming è tornato a consumare le suole delle scarpe: in 4 mesi l’eurodeputato Ignazio Corrao, eletto nel 2014 con 72 mila preferenze, ha visitato uno per uno tutti, ma proprio tutti, i 390 Comuni dell’isola.

 

Troppe donne in giunta, l’opposizione vuole le quote azzurre

Secondo lui nella giunta di Nuoro guidata da Andrea Soddu ci sono troppe donne. E quindi, sostiene il consigliere di opposizione del centrodestra Peppe Montesu, bisogna inserire delle quote azzurre per i colleghi. L’amministrazione di Nuoro è una delle poche in cui le assessore femmine superano i maschi: per la precisione, 4 a 6. Una proporzione che, a rapporti invertiti, si verifica nella stragrande maggioranza delle giunte senza destare scalpore. Montesu invece non ci sta. E si lamenta del fatto che non siano rispettati “gli equilibri di genere che in base alla legge 59 del 2014: ogni genere, sia quello maschile che quello femminile, deve essere rappresentato almeno al 40%. In questo caso siamo al 34% a scapito dei maschi. Sono contentissimo del fatto che nell’esecutivo ci siano molte donne – ha spiegato all’Ansa – ma per riequilibrare la compagine di governo ho chiesto che venisse nominato un assessore maschio”. In serata ha replicato il sindaco Soddu, unico uomo oltre all’assessore alla Cultura: “Nella nostra coalizione ci sono tante donne capaci e sono orgoglioso di avere dato loro un’ampia rappresentanza come meritano”.

Sallusti, la Corte europea condanna l’Italia a risarcirlo

La pena era già stata trasformata in una multa dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel 2012. Ma Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, si era rivolto alla Corte europea per i diritti dell’uomo contro la “ingiusta detenzione” che gli costò la condanna definitiva per diffamazione e omesso controllo. Passò quaranta giorni ai domiciliari. E adesso lo Stato Italiano è stato condannato a risarcirlo con 12 mila euro per le “sofferenze cagionate”. La Corte europea ha stabilito che si è trattato di una ingerenza della magistratura nella libertà di espressione e ha invitato il Parlamento italiano a modificare le norme e le pene che regolano la diffamazione. “Io spero che questa sentenza faccia giurisprudenza affinché un giornalista che non commette dei reati non possa essere mai più arrestato per fatti inerenti alla sua professione”, ha commentato ieri Sallusti. Anche per la Federazione nazionale della stampa la sentenza è “un atto di messa in mora del Parlamento e del governo italiani” perché “cancellare il carcere non significa riconoscere ai giornalisti una sorta di impunità. La diffamazione va sanzionata, ma il carcere è incompatibile con l’articolo 21 della Costituzione”.

“Se li tagliamo prendiamo 600 euro”. Rivolta in Sicilia in difesa dei vitalizi

“Il taglio dei vitalizi? È una vendetta contro chi ha fatto politica, e io non accetto vendette e demagogia dentro l’Ars. Il vitalizio è un diritto acquisito e comunque in molti casi giusto”, diceva nel luglio scorso Gianfranco Miccichè, presidente dell’Assemblea regionale siciliana che oggi costa più della Casa Bianca di Washington, compresi i 21 consulenti e collaboratori del presidente. E con il dubbio di non essere stato chiaro aveva precisato: “Io senza il vitalizio non avrei potuto mantenere la mia famiglia dopo aver rinunciato al mio lavoro per fare politica”. Per questo, se i grillini lo vogliono tagliare, aggiungeva, “finita questa legislatura mi farò mantenere, insieme ai miei familiari, da Giancarlo Cancelleri”, il “capo” dei Cinque Stelle siciliani. Così, ora che il Parlamento propone il taglio dei vitalizi anche ai consiglieri regionali non sorprende che la prima regione a rispondere sia stata proprio la Sicilia, con il prevedibile rifiuto netto del Presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè: “Non sono disponibile a tagliare i vitalizi come ha fatto Fico alla Camera, non posso consentire il massacro sociale di persone (i deputati regionali, ndr) che hanno solo la colpa di avere servito questa terra”. Sul piatto dello scontro con il governo nazionale Miccichè è pronto a mettere la sua testa: “Se l’Ars ritiene di fare così, mi sfiduci”, aggiunge.

Quando in pericolo sono le tasche dei deputati regionali, la Sicilia politica rivendica la sua diversità e per evitare lo scontro frontale con il governo, Miccichè apre solo uno spiraglio tra le righe della sua dichiarazione: “Sono invece disponibile – ha aggiunto – a studiare un diverso sistema di tagli, tenendo conto delle tante persone perbene che hanno dato il meglio di se stessi a questa regione. A loro sarebbero andati, con il metodo Fico, 600 euro”. In questo caso, chiosa, “si farebbe un regalo ai ladri che proprio perché rubano non hanno bisogno di vitalizi”.

Il no alla riduzione delle pensioni arriva dopo un balletto di posizioni modificate in progress (“i tagli li facciamo, ma dopo le Europee, non è tema da campagna elettorale”), e la proposta di più d’una forza politica di impugnare la norma nazionale davanti la Corte costituzionale dopo un parere degli uffici dell’Assemblea regionale, rivelato proprio da Miccichè: “Esistono enormi profili di illegittimità sulla norma di Di Maio, che la Sicilia deve però applicare” aveva detto nei giorni scorsi, cambiando idea solo ieri. All’Ars sono 317 gli ex deputati e i loro familiari a godere del vitalizio, ricevono assegni che vanno da 2 a 11 mila euro al mese, e per alcuni di loro il diritto proviene anche dalla prima legislatura, nell’immediato dopoguerra: riceve l’assegno staccato dalla Ragioneria dell’Ars il figlio del primo presidente della Regione, Giuseppe Alessi, eletto nel maggio del 1947, e la vedova di Francesco Lanza di Scalea, che fu deputato dal 1948 al 1951, per una spesa complessiva calcolata in circa 18 milioni di euro l’anno. E per 14 si tratterebbe di una doppia riduzione: sono quelli che ricevono due vitalizi, per essere stati sia parlamentari regionali che nazionali.

Il rinvio dei tagli oltre la fine di aprile rischia di costare adesso alla Sicilia sanzioni economiche per oltre 70 milioni di euro, come fa notare il leader dei grillini, Giancarlo Cancelleri: “Miccichè dovrebbe cogliere la palla al balzo per portare a casa un risparmio notevole, valutabile intorno agli 8 o 9 milioni di euro, invece di gridare alla lesa maestà, è veramente inaccettabile che per difendere i privilegi di pochi si intacchino i diritti di molti, che già stanno soffrendo e parecchio, per i tagli dell’ultima Finanziaria regionale”. La replica di Miccichè è affidata agli avvocati: “Stanno studiando le carte – ha detto – farò un esposto in cui denuncerò tutti i reati gravissimi che hanno commesso. La loro proposta è un bluff, non c’è un solo atto dei grillini che sia in regola”.

“Con queste norme ci tocca traslocare la Camera in galera”

La reazione di una parte di Montecitorio è scomposta, imbarazzante. Come il messaggio che si legge in filigrana in alcuni interventi: “Con questa legge rischiamo di finire in galera tutti”. Si parla delle nuove norme sul voto di scambio, approvate alla Camera dopo due giorni di dibattito furioso. Il testo (che deve tornare al Senato) prevede – in breve – l’inasprimento delle pene per i politici che accettano i voti dei mafiosi in cambio di denaro o altre utilità. Fratelli d’Italia si è schierata con la maggioranza (M5S e Lega), LeU si è astenuta, Pd e Forza Italia hanno votato contro. Per i dem è una legge confusa, per i berlusconiani un affronto ideologico: con questa norma – sostengono – basta una stretta di mano sbagliata per essere condannati. Non è così, ovviamente, ma il risultato è un dibattito parlamentare bestiale. Ne pubblichiamo alcuni estratti.

Tutti in galera! “Mi trovavo sui marciapiedi di Milano a fare campagna elettorale per l’elezione del sindaco, 25 anni fa. Due giorni prima del voto mi avvicinò un tale sconosciuto e mi disse: signor Fatuzzo, io ho qui 200 mila voti, li vuole? Mi feci una grassa risata carnevalesca, anche se oggi è il giorno dopo Carnevale, dopodiché lo mandai delicatamente a quel paese, ma se fosse capitato adesso? Cioè, tutti quanti in campagna elettorale ricevono proposte, e mi promise anche un sacco di soldi, devo dire. Domani rischiamo di trovarci tutti quanti a fare il Parlamento dentro la galera, in una sala apposita, perché il Parlamento possa funzionare ancora” (Carlo Fatuzzo, Forza Italia).

I kamikaze. “È un dibattito incardinato sui binari della miseria. Stiamo bestemmiando la verità. L’intermediario non ha la coppola e la lupara… Le campagne elettorali così non si potranno più fare. Vi dimenticate i mercati. Chiunque farà il kamikaze dell’antimafia” (Giorgio Mulè, FI).

Il selfie. “Facciamo un esempio; io vengo eletto e successivamente viene imbastita una specie di congiura, in cui c’è qualcuno che dice che io avrei accettato questi voti. Ho diritto a sapere chi sia o posso con un selfie qualsiasi dare la prova di un contatto con un soggetto che non so neanche dove stia di casa? Si potrà disapplicare la legittima elezione di un parlamentare con un’accusa infamante” (Francesco Paolo Sisto, Fi).

Selfie bis. “Con questa norma… non si avrebbe alcuno scampo rispetto a una cosa logica, cioè che se fai un selfie, se finisci in un ristorante di un mafioso, puoi non saperlo perché magari ti ci portano i tuoi militanti” (Roberto Giachetti, Pd).

Nulla saccio. “Chi come me, non ha mai fatto attività politica ed è al primo mandato… da donna delle istituzioni, non sono tenuta a sapere se la persona che ho di fronte è o non è appartenente a un’associazione mafiosa” (Giusi Bartolozzi, FI).

A testa alta. “Si criminalizza un politico che va in campagna elettorale, che stringe mani, che parla con le persone. E che ne sa, se va in un paese, dentro un bar e una persona gli promette i voti, si prende i ‘santini’, e poi scopre che magari era un delinquente… E se io dovrò essere chiamato… in un’aula di tribunale con l’infamante accusa di associazione mafiosa, ci andrò a testa alta” (Salvatore Deidda, Forza Italia).

Lo strumento poderoso. “Noi stiamo consegnando nelle mani della criminalità organizzata uno strumento poderoso per selezionare scientificamente la classe politica” (Carlo Sarro, Forza Italia)

Come scusi? “Voi (5Stelle) siete stati opera di moralisti senza avere la morale di poter dare la morale a noi” (Osvaldo Napoli, Forza Italia).

Chi non salta. “Non si può non votare questo emendamento. Chi non lo vota, mafioso è, mafioso è!” (Vittorio Sgarbi, FI).

La politica bella. “Cari colleghi, la politica bella, la politica nobile è quella di stare in mezzo alla gente, è quella di servire la gente… stiamo mandando al macello migliaia di nostri amministratori, che sono brave persone, non sapendo con chi evidentemente loro poi si possono relazionare. (Graziano Musella, FI).

Rolls Royce? “Io ricordo a voi tutti e ricordo anche ai colleghi del 5 Stelle che il voto di scambio fu istituito dalla Democrazia cristiana per combattere Achille Lauro, ma in galera poi ci andarono i democristiani” (Gianfranco Rotondi, FI).

E allora il reddito? “Mi viene in mente oggi il caso dei membri della famiglia Spada che hanno chiesto di poter accedere al reddito di cittadinanza… si trovano in difficoltà ed è esigenza e interesse del clan sopravvivere anche avendo il reddito di cittadinanza. Allora, se hanno parlato con qualche esponente politico, se ottengono il reddito di cittadinanza è un interesse e un’esigenza con cui si aiuta la gestione mafiosa? Sì, sì! Avviene questo” (Felice D’Ettore, FI).

Cesaro e gli altri “salvati”. Fico chiede aiuto a Casellati

Non è un’impresa da tutti. Ma a quanto pare Luigi Cesaro ha mandato in tilt i vertici dei palazzi della politica. Riuscendo a scomodare in un sol colpo i presidenti di Camera e Senato. Roberto Fico che guida l’assemblea a Montecitorio ha dovuto scrivere alla sua omologa di Palazzo Madama, Maria Elisabetta Alberti Casellati per chiedere un coordinamento tra le Giunte per le autorizzazioni a procedere dei due rami del Parlamento. Dopo che, a sorpresa, quella del Senato si è dichiarata incompetente a decidere sulla richiesta dei magistrati del Tribunale di Napoli nord che scalpitano per usare alcune intercettazioni ritenute mezzi di prova assai rilevanti per il processo già in corso: le conversazioni in questione chiamano in causa il senatore forzista, accusato di aver promesso mari e monti per procacciare voti per suo figlio Armandino, poi eletto alla grande alle ultime regionali in Campania . Ma per la Giunta presieduta da Maurizio Gasparri la richiesta doveva essere inoltrata alla Camera, dove Cesaro sedeva al tempo dei reati che gli vengono contestati. E dunque i magistrati dovranno ricominciare da capo facendosi carico di inoltrare un’altra richiesta, questa volta alla Giunta di Montecitorio. Ma cosa potrebbe accadere se anche quest’ultima dovesse dichiararsi incompetente a decidere? Si finirebbe inevitabilmente di fronte alla Consulta: a quel punto, a tacere del danno all’immagine del Parlamento, l’attività dei magistrati napoletani subirebbe un danno forse irreparabile.

L’ipotesi non pare affatto remota dal momento che nell’organismo paragiurisdizionale presieduto alla Camera da Andrea Delmastro Delle Vedove in molti si chiedono come caspita abbiano fatto i loro colleghi del Senato a lavarsene le mani. I precedenti, infatti, deponevano per tutt’altra soluzione: la pietra miliare è la richiesta che ha riguardato nel recente passato Denis Verdini. Ii magistrati, per stare tranquilli, chiesero nel suo caso l’autorizzazione ad entrambi i rami del Parlamento. Poi dopo un’interlocuzione tra uffici, la pratica venne affidata a Palazzo Madama. E da allora si è seguito il principio che nel caso in cui il parlamentare sia ancora in carica, la competenza spetta alla camera di attuale appartenenza. Per Cesaro invece si è invece imboccata la strada opposta.

A parte l’enorme rischio di ritrovarsi di fronte a una duplice incompetenza, questa decisione ha già prodotto una conseguenza. Il fatto è che la Giunta della Camera non sa che pesci prendere su una richiesta che riguarda un altro parlamentare: come regolarsi con l’ex deputato e oggi senatore leghista Roberto Marti? I dubbi sono tanti: l’unica certezza è quella di voler allontanare il sospetto che i precedenti siano scelti à la cart. E allora dopo giorni di riflessioni, si è deciso di chiedere l’intervento di Fico in modo che – è la speranza – insieme a Casellati trovino una soluzione per scongiurare l’irreparabile ossia dare l’impressione che il Parlamento si muova in modo schizofrenico e incomprensibile. O, peggio, in modo poco trasparente.

Ma di cosa è accusato il senatore del Carroccio? A Marti vengono contestati tentato abuso di ufficio, falso ideologico aggravato e tentato peculato: avrebbe brigato per far assegnare, in barba alla graduatoria comunale, un alloggio facente parte del compendio di immobili confiscati alla mafia a Antonio Briganti. Ossia il fratello di Pasquale Briganti del clan omonimo “costituente bacino elettorale di Luca Pasqualini, il delfino di Roberto Marti” scrivono i magistrati. E di essersi dato da fare per trovare una soluzione che consentisse di avvalersi di denaro pubblico per coprire le spese dell’alloggio in B&B, sempre a favore di Briganti in attesa che gli venisse assegnato l’immobile. I magistrati di Lecce aspettano una decisione. Ma dovranno pazientare ancora, almeno un paio di altre settimane. Almeno.

Consob, anche la Camera dice Sì alla nomina di Savona

Via libera della commissione Finanze della Camera ad ampia maggioranza (34 i voti a favore 11 i contrari) alla nomina di Paolo Savona alla presidenza della Consob. Il placet di Montecitorio segue il sì della commissione del Senato dei giorni scorsi. Adesso manca solo il decreto del presidente della Repubblica per rendere operativo l’arrivo dell’ex ministro alla guida della Commissione di vigilanza sui mercati. Una assunzione di ruolo che lui stesso ha delineato nei particolari rispondendo all’esame dei parlamentari. Protezione del risparmio, con un occhio all’innovazione, ha spiegato ieri parlando della sua nomina, decisa un mese fa e su cui gravano seri rischi di incompatibilità da cui il ministro degli affari europei si è difeso. Sia la legge Severino che alla legge Madia vietano la presidenza Consob ai membri del governo se non 12 mesi dopo le dimissioni; ai pensionati; a chi nei due anni precedenti abbia ricoperto cariche in società regolate dalla Commissione. Savona ricade in tutti e tre i profili. Per il suo ruolo nel fondo Euklid (di cui è azionista), l’Anac ha chiesto chiarimenti a Consob per sapere se e come è vigilato dall’Authority per verificare che non esistano potenziali conflitti di interesse.