Da Chiamparino a Giachino, i fan dell’opera furiosi

“Di fronte a questa palese incapacità del governo di decidere è necessario che tutte le forze economiche, professionali, sindacali, civiche, che si sono mobilitate in questi mesi per la Tav, esercitino ogni pressione possibile”. Così il presidente del Piemonte, Sergio Chiamparino, che della difesa all’opera ne ha fatto il suo cavallo di battaglia in vista delle regionali di maggio, ha commentato le dichiarazioni del premier sulla sua contrarietà all’opera. Parole furiose che si aggiungono alle altre dichiarazioni dei fan del Tav. “Scenderemo in piazza più di prima per far capire al premier Conte che l’interesse nazionale era quello di costruire la Tav”, ha detto Mino Giachino, dell’associazione sì Tav sì Lavoro, promotore con le madamin delle manifestazioni a sostegno della Torino-Lione. Ma il pressing è fortissimo anche dal neo segretario del Pd Nicola Zingaretti e da Silvio Berlusconi (FI). “È troppo facile per Conte trincerarsi nelle stanze romane recitando imbarazzanti monologhi su decisioni disastrose per noi piemontesi. Devono spiegare ai piemontesi perché hanno deciso di asfissiare il nostro tessuto produttivo”, tuona il capogruppo di Forza Italia in Regione Piemonte Andrea Fluttero.

Nella notte della sfida tra tecnici: nessuno riesce a smontare l’analisi costi-benefici

“Quindi la Francia non farà la sua tratta nazionale?”. Per capire il day after bisogna riavvolgere il nastro al giorno prima. Alla parte tecnica del vertice notturno a Palazzo Chigi.

Giuseppe Conte prende appunti, accompagnato dal consigliere Fabrizio Curcio, ex capo della protezione civile con il governo Renzi. Ascolta attento la relazione di Francesco Ramella e Paolo Beria, due esperti della task force della commissione guidata da Marco Ponti che ha stilato l’analisi costi-benefici che stronca il Tav. Interverrà alcune volte, per rintuzzare con garbo le critiche al dossier.

Il giorno dopo, il risultato è un endorsement totale all’analisi di Ponti e colleghi, con parole mai pronunciate da un premier in 30 anni. Ha superato “lo stress test”, sintetizza Conte, che definisce l’analisi “attendibile”; “punto di riferimento”, “fatta onorevolmente e in modo molto plausibile”. Al punto da spingerlo a considerare l’opera inutile (“dovessimo cantierarla oggi direi no”). In conferenza stampa elenca i dubbi: troppo cara; non modifica i flussi di traffico, non si sa quando sarà completata ma sicuro oltre il 2030, quando il mondo dei trasporti sarà già rivoluzionato.

Davanti ai giornalisti riprende quasi testualmente l’analisi di Ponti e le annotazioni di Ramella e Beria.

E d’altronde il dossier era uscito quasi incolume dal vertice serale. Nessun assalto dei tecnici della Lega. Nessuna tensione. Le tre ore scorrono distese. Matteo Salvini, come Luigi Di Maio, quasi non parla, insiste solo sulla necessità di valutare unicamente costi e benefici italiani (“della Francia mi importa poco”). I tecnici del ministro Danilo Toninelli ribattono che resta comunque negativa e ha poco senso limitarsi alla parte italiana. “L’unica scientifica è quella che riguarda l’intera opera”, ricorda il ministro grillino. Perfino sul punto più spinoso, considerare come costi le mancate accise dei camion che si spostano sulla ferrovia, la tensione non sale. Solo il sottosegretario leghista Armando Siri insiste più volte. “Non è nelle linee guida dell’Ue”, spiegano gli esperti del Carroccio. “È in quelle precedenti, in quelle francesi e in decine di pubblicazioni internazionali”, ribattono i tecnici del ministero. “È un dato di fatto che c’è un calo per le entrate dello Stato…”, sintetizza Conte, in difesa di Toninelli e compagnia. Dopo meno di un’ora dall’inizio del vertice Conte apprende con stupore che i francesi non intendono fare la tratta nazionale per collegare il tunnel a Lione prima del 2038 e che dal lato italiano è rimasta solo la tratta Avigliana – Torino più modesti interventi sulla linea tra Avigliana e Bussoleno. “Che senso ha farla se non esistono praticamente più le tratte nazionali?” , ribatte a un tecnico leghista che chiede perché l’analisi non è stata fatta sull’interno corridoio mediterraneo dell’alta velocità (che nelle intenzioni iniziali doveva partire dal confine Ucraino fino a Lisbona). Ascolta incuriosito che i flussi merci previsti sono sovrastimati e che comunque i tir dovrebbero andare all’interporto per caricare le merci e poi con un altro camion alla stazione di arrivo, con un vantaggio modesto. Lo ripete testuale il giorno dopo in conferenza stampa (idem per le tratte nazionali). Usa perfino l’espressione “cambio modale” dal traffico su strada a quello su ferrovia da cui “sono emerse criticità”.

Lo stesso tema è stato discusso al vertice della sera prima anche da Giancarlo Gorgetti. Il plenipotenziario leghista a Palazzo Chigi insiste a lungo sull’esempio dell Svizzera (dove il traffico merci su ferrovia è assai più consistente), ma sempre in modo “molto dialogante”, raccontano i presenti. A un certo punto è costretto ad ammettere che “se non poni vincoli al traffico Tir sulla strada è difficile poi spostarlo sulla ferrovia”.

È l’emblema di una serata in cui gli esperti del Carroccio non riescono a stroncare l’analisi. Né, tantomeno, a convincere Conte.

Frassoni: “Noi Verdi siamo contro, bufale sul peso dell’Ue”

“Sull’inutilità del Tav non abbiamo mai cambiato idea: non va fatto. La priorità è utilizzare i soldi stanziati per ammodernare la linea già esistente del Fréjus ”. Monica Frassoni, co-presidente dei Verdi europei, ci tiene a sottolineare che da 20 anni la sua è una voce contraria, in Italia che in Europa, alla tratta tra Torino e Lione.

Negli ultimi mesi, però, la voce degli ambientalisti si è sentita poco.

Solo perché c’è poca attenzione verso i nostri appelli non significa che abbiamo smesso di lottare contro un’opera che nel corso dei decenni ha perso ogni logica. Lo sforzo che stiamo facendo come partito dei Verdi europei è di riportare il Tav a una discussione razionale, contro tutta la ‘fuffa’ che lo circonda.

Come i 300 milioni che l’Italia sta perdendo bloccando il Tav?

Sì, si tratta di una disputa immaginaria: l’Italia ha già perso i fondi che non potranno essere recuperati in alcun caso. I testi dell’accordo, alla base dell’aggiudicazione dei fondi, prevedono che i soldi messi a disposizione per il periodo 2014-2019 vadano utilizzati per lavori preliminari e studi da completarsi entro il 31 dicembre 2019 con un eventuale anno di proroga. Ma se stiamo ancora ai bandi è evidente che i lavori non potranno essere completati.

Una corsa inutile?

L’Ue ha una serie di progetti, come le reti di trasporto trans-europee di cui Tav fa parte, che nel corso degli anni si sono rilevati vuoti e in molti casi non più necessari. Quando a fine anno ci sarà la ridiscussione delle opere indicate dal regolamento europeo, la nostra battaglia sarà di riportare la logica al primo posto e impedire che un grande buco in una montagna possa ancora essere considerato un’opera utile. Del resto anche la Francia non considera il Tav strategico rimpallando all’Italia la responsabilità di decidere.

Il trucco francese: neanche un euro fino almeno al 2038

“Riesamineremo le spese e le risorse, per non fare più promesse non finanziate. I progetti già avviati superano di 10 miliardi i benefici prevedibili”. A parlare così del Tav Torino-Lione non è l’analisi costi-benefici del professor Marco Ponti, né la pur prudente disamina del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. È invece Elisabeth Borne, ministro dei Trasporti francese. Era il 19 luglio 2017. Alle parole sono seguiti i fatti, perché la Francia ha congelato fino al 2038 (le calende francesi) l’impegno a eseguire i lavori sulla sua tratta nazionale del Tav.

Lo ha stabilito il 1° febbraio 2018 il Coi (Conseil d’orientations des infrastructures), che ha escluso la tratta nazionale francese della Torino-Lione dai progetti infrastrutturali programmati fino al 2038: “Non è stata dimostrata l’urgenza di intraprendere questi interventi, le cui caratteristiche socioeconomiche appaiono chiaramente sfavorevoli in questa fase. Sembra improbabile che prima di dieci anni non vi sia alcun motivo per continuare gli studi relativi a questi lavori che, nel migliore dei casi, saranno intrapresi dopo il 2038”. Il Coi conferma, del resto, il rapporto della Commissione “Mobilité 21” che già nel 2013 aveva affermato che le opere di accesso dalla Francia alla galleria transfrontaliera non erano giudicate prioritarie. Ma questo non è un problema solo francese. Perché i 33 chilometri di linea per entrare nel supertunnel al di là delle Alpi, congelati “nel migliore dei casi” fino al 2038, comprendono anche i “tunnel a due canne di Belledonne e di Glandon”. Chiaramente citati nell’Accordo Italia-Francia che è il trattato bilaterale su cui si basa il Tav. Belledonne e Glandon sono 14 chilometri di galleria a doppia canna, tutti a carico del governo di Parigi. Sono le opere che giustificano il fatto che l’Italia paga di più la galleria di base: il 58 per cento della spesa totale (che è di 9,6 miliardi), benché il tratto italiano sia solo il 21 per cento del tunnel (12,5 chilometri), che al 79 per cento (45 chilometri) è in territorio francese.

Il risultato è che l’Italia paga il supertunnel 280 milioni a chilometro, la Francia 60 milioni a chilometro. Ma se i francesi non fanno la loro parte, rimandandola (“nel migliore dei casi”) al 2038, l’Accordo – articoli 4 e 18 – è di fatto violato. Perché mai l’Italia dovrebbe mettere i suoi soldi al posto della Francia? È la asimmetria degli impegni denunciata ieri anche da Conte: “C’è un’iniqua ripartizione degli oneri finanziari, giustificata con il fatto che la Francia ha una tratta più lunga da ristrutturare”.

C’è poi un altro argomento che l’Italia può sfoderare nella prossima trattativa con la Francia: la violazione dell’articolo 16 dell’Accordo, che impone la disponibilità dei finanziamenti per avviare i lavori. Il governo di Parigi non ha stanziato la sua parte per il tratto transfrontaliero, cioè il supertunnel. In queste condizioni, è impossibile lanciare le gare, come invece vorrebbe Telt (la società italo-francese nata per realizzare la galleria) nel consiglio d’amministrazione convocato per lunedì 11 marzo. I favorevoli al Tav spiegano che la Francia ha un sistema diverso dal nostro, che non specifica gli stanziamenti in bilancio. Altra asimmetria che l’Italia potrebbe contestare, perché viola l’articolo 16 e non dà al partner alcuna garanzia che gli accordi saranno rispettati.

Se n’è accorta anche la politica francese, tanto che già nel 2016 l’allora primo ministro Manuel Valls aveva promesso di modificare il sistema francese: “I finanziamenti devono essere garantiti per tutta la durata del progetto. Per questo motivo il progetto beneficerà del finanziamento di un fondo dedicato e sostenibile, il Fondo per lo sviluppo di una politica di trasporto intermodale nelle Alpi”. Mai realizzato.

Tav, Conte si schiera per il no. Salvini: “Mai stop all’opera”

Il presidente del Consiglio che è anche avvocato cerca una norma, un cavillo. Insomma un appiglio, per spingere i bandi per i lavori, cioè il guaio dei guai, un po’ più avanti di lunedì. Almeno di sei mesi, il tempo di superare le elezioni europee ed evitare il baratro, all’ultimo minuto utile. Perché i due vice, quelli che prima non litigavano mai, ormai minacciano apertamente la crisi di governo nel nome del Tav, il treno che non c’è ma che pure li divide come un burrone. Con Luigi Di Maio che in serata arringa i suoi in assemblea: “Per noi i bandi dell’opera devono essere sospesi perché stiamo ridiscutendo l’opera, come previsto dal contratto”. E lascia al capogruppo in Senato Stefano Patanuelli l’avvertimento: “Se c’è il Tav non c’è governo, se c’è governo è perché non c’è il Tav”.

Ma Matteo Salvini non può mica abbassare le penne. Così suona le sue consuete note in tv, a Dritto e rovescio : “L’Italia ha bisogno di più infrastrutture, dobbiamo andare avanti”. Fino a battere il tamburo di guerra: “Nessun ministro della Lega firmerà lo stop all’opera. Io voglio continuare a fare il ministro e conto di continuare a farlo con questa formazione, a meno che i no diventino troppi. Vediamo chi ha testa più dura tra me e Di Maio”. E inevitabile, arriva la controreplica dell’altro vice: “Salvini viola il contratto e minaccia pure di far cadere il governo? Se ne assuma la responsabilità di fronte agli italiani, è un comportamento irresponsabile”. E la sintesi è che dopo nove mesi l’esecutivo rischia davvero di inabissarsi. Così a scongiurare il tutti a casa dovrà essere il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che ieri ha abbandonato i panni di arbitro istituzionale per dire che la Torino Lione non la vuole neanche lui: “Ho forti dubbi e perplessità sulla convenienza dell’opera, se lo dovessimo cantierizzare oggi mi batterei perché non fosse realizzato”.

Quindi si allinea al capo politico del M5S dopo settimane di cammino solitario, nel nome dell’analisi costi-benefici “che è fondata”, come scandisce in conferenza stampa a Palazzo Chigi. Nella speranza di mettere l’altro vice, Salvini, nella condizione di non poter spingere il bottone rosso. Ma per scongiurare la fine serve altro, e prima del lunedì in cui il Cda di Telt, la società che gestisce la Torino-Lione, si riunirà per decidere se e come indire i famosi bandi da 2,3 miliardi. E allora il premier torna a guardare all’Europa: “Alla luce dei forti dubbi emersi, l’unica strada è procedere ad un’interlocuzione con i partner di questo progetto, Francia e Unione, per condividere questi dubbi e le perplessità”. Anche perché, punge, “c’è un iniqua ripartizione degli oneri finanziari giustificata col fatto che i francesi hanno una tratta nazionale più lunga”, che però non c’è più. E la traduzione è che aiuterebbe, molto, se Parigi concedesse che l’accordo con l’Italia va rivisto. Mentre la Ue potrebbe dire che uno stop ai bandi, ma con proroga, non significherebbe la perdita dei finanziamenti. Speranze, ipotesi, congetture, “anche se la verità è che ci siamo incartati” come riconosce un big dei 5Stelle. E lo specchio del pericolo sono i racconti sulla maratona di mercoledì notte a Chigi, in cui Salvini e Di Maio si sono detti in faccia di non voler cedere. Con il leghista che ha giurato di dover dire per forza di sì al Tav “perché altrimenti non terrei più i governatori del Nord, mi accuserebbero di non poter chiudere neanche sulle autonomie”. E Di Maio che è rimasto sul no, “perché se accettassi mi esploderebbe il gruppo parlamentare, e il Comune di Torino salterebbe subito”. Quindi è caduta nel vuoto la proposta avanzata da Salvini, per nulla inattesa: “Facciamo partire i bandi lunedì, poi eventualmente li revochiamo nei sei mesi successivi”. Ergo, l’ormai famigerata clausola di dissolvenza. Respinta dal capo dei 5Stelle, perché all’esterno e ai suoi apparirebbe come una sconfitta.

E poi ci sono le riserve dell’avvocato Conte, che ha parlato di “approfondimenti giuridici” ancora in corso. Ma che a Di Maio e al suo staff lo ha già detto: “Ho forti dubbi che i bandi possano essere revocati”. Altro nodo, in una partita che si gioca anche sul filo delle norme e della loro interpretazione. Così la certezza sono i leghisti che spingono per l’avvio dei bandi in ogni conciliabolo. Contrapposti al Di Maio che in serata ribadisce la linea in un’assemblea congiunta: “Non sono disposto a mettere in discussione il no alla Torino-Lione”. E a ripetere le ragioni tecniche è il ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli: “Lo stato di avanzamento dei lavori definitivi è zero, e la Francia non ha alcuna intenzione di finanziare la sua tratta prima del 2038”.

Così si ritorna ai vicini d’Oltralpe, a cui è vietato (dal Quirinale) dare battaglia dopo le scaramucce delle settimane scorse. Però serve uno spiraglio. E non lo è stato l’apparizione di ieri a Palazzo Chigi dell’ambasciatore francese Masset. “Non ha visto Conte, era un incontro tra i rispettivi consiglieri diplomatici” spiegano. Piuttosto, la ministra dei Trasporti Elisabeth Borne ci mette il carico: “La Francia ha firmato un trattato con l’Italia che prevede la realizzazione di questo tunnel: spero che domani (oggi, ndr) gli italiani ci diranno che lo realizzeranno insieme a noi”.

Invece Conte incontra il direttore generale di Telt, Mario Virano, a Chigi. E con lui discute del possibile rinvio dei bandi. Un passo non facile, tecnicamente. Anzi. Ma in un giovedì sera da cannonate incrociate pare l’unica via. “Escludo la crisi di governo, sarebbe assurdo” giura il premier. Ma l’assurdo in politico fa rima con normale.

Giocondo e Pantalone

Ieri, durante la conferenza stampa di Giuseppe Conte sul Tav, ho capito Lorella Cuccarini. Detta così, lo ammetto, è da perizia psichiatrica. Ma cerco di spiegare questo ennesimo pensiero che non condivido. La Cuccarini ha fatto una gaffe a Otto e mezzo, dicendo che in Italia non si votava da 10 anni. E tutti l’hanno sottolineata, con quel surplus di perfidia che è riservato a chiunque passi per “sovranista” (anche Landini e Zingaretti sbagliano qualche congiuntivo, ma non sono sovranisti e dunque vengono risparmiati). Ora, è indubitabile che in Italia si voti al massimo ogni cinque anni. Ma l’impressione che ha causato la gaffe della showgirl l’abbiamo avuta in tanti: che, cioè, dopo le elezioni del 2008 vinte per la terza e ultima volta da B., i governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni prescindessero dal nostro voto. O lo ribaltassero. O se ne fregassero proprio di noi elettori: non tanto per i premier “non eletti” (l’elezione diretta del premier qui non esiste), ma perché rappresentavano la minoranza degli italiani (estrogenata dal premio incostituzionale del Porcellum); e perché seguivano programmi opposti a quelli che i cittadini avevano votato. Per questo, fra l’altro, il governo Conte continua a godere di tanto consenso, malgrado i tanti errori, carenze, divisioni e qualche vergogna: perché rappresenta, dopo tanti anni, la maggioranza degli italiani. E perché dà mostra di non infischiarsene degli elettori.

Salvini è il cazzaro troglodita che è: ma passa le giornate a rivolgersi direttamente alla gente, col linguaggio della gente, sui problemi della gente (anche se le sue soluzioni sono xenofobe e/o propagandistiche). I 5Stelle sono l’armata Brancaleone che sono: ma parlano a persone vere e tentano, a volte con successo altre volte con pasticci, di risolverne i problemi. Anche se il governo cadesse domani e non ci tornassero mai più, i “grillini” dovranno vergognarsi di tante cose (dal voto sulla Diciotti a quello sull’illegittima difesa). Ma potranno andare orgogliosi di averle tentate tutte per fermare il Tav e ancor di più di aver avviato il più forte investimento contro la povertà, che nel primo giorno ha portato 60 mila cittadini in difficoltà a fare compostamente domanda alle Poste e ai Caf, sperando in un futuro finalmente dignitoso (tra le risate di una “sinistra” indecente, le previsioni di assalti ai forni di una stampa manigolda e le scomuniche di una Cei vergognosa). Dall’altra parte, basta leggere l’ultima intervista del figlio di babbo Tiziano al Corriere per capire l’abisso scavato da questa jattura ambulante fra la sinistra e il popolo.

Non contento dei danni fatti all’Italia e al suo partito, ora si congratula con se stesso per aver detto no a Di Maio e – parole sue – “distrutto i 5Stelle”. Veramente, al momento, ha distrutto il Pd. Ma, a voler seguire il suo delirio, i punti persi dal M5S nei sondaggi sono finiti tutti a Salvini, mentre i dem sono fermi al 18%: dunque il suo no ha raddoppiato la Lega. Se questo era il suo nuovo, mortifero obiettivo, chapeau: missione compiuta. Cercare nell’intervista un solo accenno all’interesse nazionale, al bene dell’Italia o almeno della sinistra, è sforzo vano: la gente non è un problema suo (è lui che è un problema per la gente).

A chi parlava, invece, Conte? Appena nominato premier, suscitò l’ilarità dei fini dicitori perché si definì “avvocato del popolo”. Ieri s’è capito cosa intendeva dire: anziché rifugiarsi nei meandri tecnici dell’analisi costi-benefici sul Tav, l’ha sminuzzata in parole semplici perché tutti capissero l’“interesse nazionale” e il “bene dei cittadini”. Non si rivolgeva ai giornalisti presenti in sala (fatica sprecata), ma ai cittadini che da trent’anni sentono parlare di questa nuova Grande Muraglia o Piramide di Cheope e non hanno idea di cosa sia, a che serva, quanto costi e chi la paghi. Parlava soprattutto agli elettori leghisti e pidini, che in buona fede han creduto alle imposture dei loro leader sulla grande occasione di sviluppo dell’immondo buco. E spiegava le ragioni per cui l’enorme spreco di denaro pubblico va fermato finché si è in tempo: l’opera è vecchia e superata; non c’è traffico merci sufficiente a giustificarla; non basta scavare buchi e stendere binari per trasferire le merci da gomma a rotaia, essendo più conveniente caricare i container sui Tir anziché fare su e giù fra Tir e treni; Italia, Francia e Ue butterebbero 15-20 miliardi (con le solite lievitazioni) per perderne 7-8. Poi – parlando ai “sovranisti”, se così vogliamo chiamare chi non ha scritto “Giocondo” in fronte – Conte ha ricordato che la Francia non ha stanziato un euro per il buco; e, anche se lo stanziasse, pagherebbe la metà dell’Italia per un tunnel che insiste per i due terzi in territorio francese. Un regalino a Parigi che dobbiamo a B.&Lunardi e ai successori fino a Renzi&Delrio, giustificato col fatto che la tratta di collegamento al buco costa più ai francesi che a noi: peccato che quelli non l’abbiano né iniziata, né finanziata, né progettata. E noi chi siamo? Pantalone che paga per tutti? Al posto di Salvini, ci preoccuperemmo più del linguaggio “populista” e “sovranista” di Conte, concorrenziale al suo e diretto alla sua base, e meno dell’eventuale blocco delle gare: per la prima volta un presidente del Consiglio ha fatto capire all’inclita e al colto (categoria, quest’ultima, che esclude il salviniano medio) che a bloccare il Tav ci guadagniamo tutti, tranne una piccola cricca di affaristi. In un Paese serio, gli autori dell’analisi costi-benefici verrebbero ringraziati per averci fatto risparmiare un sacco di soldi. Invece vengono sputacchiati da giornali e politici prezzolati che, non contenti di averci portati alla bancarotta, ora la vogliono pure fraudolenta.

Un altro finale per “Mamma Roma”: così PPP disegnò Anna Magnani

“Ettore è immobile sopra il letto di cemento stretto dalle inutili cinghie. Non si muove e non parla più. La luce del sole ha invaso la cella. Fine”. Avremmo potuto vedere questa scena al termine di Mamma Roma, se solo Pier Paolo Pasolini avesse deciso di non mostrare la disperazione di Anna Magnani che urla sul lettino di Ettore e tenta di farla finita, fermata appena in tempo dal gruppo che l’ha seguita a casa. Un prezioso volume su uno dei capolavori dell’intellettuale bolognese esce oggi, giorno in cui si sarebbe festeggiato il compleanno della grande attrice, edito dalla Cineteca di Bologna. L’opera, curata da Franco Zabagli, è ricca di documenti originali, scritti “a lapis” dell’autore, testimonianze dei protagonisti, la ricostruzione delle polemiche e del dibattito critico che ne accompagnarono l’uscita nel 1962, con la prima proiezione alla Mostra del Cinema di Venezia. Chicca per intenditori: i bozzetti delle scene del PPP “pittore”.

La musica a corredo del racconto: il nuovo esperimento di Benvegnù

Paolo Benvegnù ha pubblicato un disco in cui non canta. Parla, con la voce, solo una volta. Il resto di ciò che ha da dire lascia che lo faccia la musica, quella che ha scelto di “contorno”, come dice lui, ai testi scritti e interpretati da Nicholas Ciuferri. Insieme prendono per mano gli ascoltatori ne I racconti delle nebbie, titolo dell’album e del libro appena usciti per Woodworm. Uno spettacolo dal vivo diventato (poi) un lavoro artistico che sembra strizzare l’occhio all’ormai fertile terreno dei podcast. A ognuno dei nove capitoli del volume, introdotto dall’illustrazione di Alessio Avallone, corrisponde una traccia musicale d’autore, cioè quella di Benvegnù: “Spesso sono in auto e vengo rapito da Fahrenheit o Ad alta voce (Radio 3). Quando sento interi libri letti in radio, la trovo una cosa bellissima; ma non ho fatto calcoli”. È venuto tutto come doveva venire, improvvisando sui racconti di questo studioso di storia, autore e docente, che una volta ha incontrato alla fine di un concerto a Gubbio. Gli chiedeva di costruire dei corsi di avvicinamento alla musica per i ragazzi delle superiori: “Ho accettato e quando ho scoperto che Nicholas scriveva storie originali, per conoscerlo meglio, gli ho chiesto di farmele leggere”. Affascinato dallo sguardo sulle cose di Ciuferri, intriso di passione per la storia (che li accomuna), un giorno gli dice che ha fissato una data a Perugia, di lì a un mese. Ciuferri non afferra subito. “Non mi sono spiegato – gli precisa il cantautore – tu leggi, e io musico”. Ciuferri deglutisce, ma si prepara. Benvegnù rincara la dose: “Ah, ne ho trovata un’altra di data, a Firenze. Tra due giorni”. Come per molte delle cose che valgono, bisogna essere in due ad assumersi il rischio del salto nel vuoto. Benvegnù e Ciuferri lo fanno, e a quasi un anno di distanza, la serie di reading-concerti sta per approdare all’Università di Princeton (14 marzo), all’Istituto Italiano di Cultura di Toronto e di Montreal e anche alla McGill University.

I racconti delle nebbie non è articolo per distrazioni facili: lo sguardo che ha colpito Benvegnù è lo stesso che inchioda chi sente al ripetuto ascolto, per sapere se ha capito bene, se c’è ancora un altro livello da scoprire. Storie che prendono la banalità di un tradimento coniugale per svelarne la matrice omosessuale, visto dagli occhi di una moglie (Anna Bonaiuto) che credeva di sapere, e invece non sapeva abbastanza. Altre che parlano dei lavoratori del sesso, di un gigolò che detesta quello che fa tanto quanto si detesta la cliente (a interpretarla, Micol Pavoncello), in un ribaltamento dei ruoli: chi si sta prostituendo, e chi vive di un amore completamente dissociato?

Un’alterità di prospettiva che, in qualche modo, ha tirato fuori Benvegnù dalla sua dimensione solitaria: “La mia non è una solitudine bella, ma rabbiosa. Ho capito che mescolandomi viene fuori il bello di me, che vado verso la gioia. Soprattutto perché esco dai limiti che ho. So che a molti sembra understatement, ma lo penso davvero, che dovremmo tutti sentirci poco”.

Dall’unione tira fuori “un colore diverso, un riverbero che nella mia ricerca solitaria non trovo”. È successo nel tour con Marina Rei – “Canzoni contro la disattenzione” – e in questo nuovo progetto. Ma Benvegnù cantautore, come lo conosciamo tornerà nel 2020: “Sto studiando, potrebbe capitare anche di scrivere belle canzoni. Ma io ho la media di Zarrillo: quattro, cinque belle in cinquant’anni”.

Torino e Milano quasi amici: al Salone ci saranno tutti

La guerra è finita. Non è il remake del film di Alain Resnais sulla guerra di Spagna, bensì la filosofia che declina il nuovo corso del Salone internazionale del Libro di Torino. Librolandia riparte dopo le traversie finanziarie e giudiziarie della vecchia gestione, e anche alla luce del naufragio della concorrente fiera milanese di Tempo di Libri. Ma la manifestazione guidata dallo scrittore Nicola Lagioia riprende la corsa, addirittura, con un’intesa con gli ex nemici ambrosiani. Insieme all’ingresso dell’Associazione Italiana Editori (Aie), che aveva dato vita a Tempo di Libri, nel comitato di indirizzo della kermesse subalpina, la novità più rilevante della trentaduesima edizione, in programma dal 9 al 13 maggio e che è stata presentata ieri, è proprio la collaborazione con la capitale lombarda. Si traduce in una sorta di joint venture con BookCity, la festa dei libri, degli autori, dei lettori e dell’editoria nata nel 2012.

Prima dell’apertura dell’edizione 2019 del salone del Lingotto, spiegano gli artefici dell’alleanza, “Milano ospiterà in diverse sedi alcuni eventi che avranno per protagonisti autori che saranno presenti al Salone Internazionale del Libro di Torino, così come durante la manifestazione torinese sarà presente BookCity Milano”. È presto per dire se attraverso i libri si sanerà in parte l’antica querelle fra le due grandi città del Nord, che si era acuita con la candidatura di Milano alle Olimpiadi invernali del 2026, a scapito di quella di Torino. In ogni caso è un buon segnale, così come si sancisce la vittoria del Salone del Libro torinese sul tentativo milanese di crearne uno analogo.

Librolandia ricomincia l’avventura nonostante le ombre del pesante deficit (una decina di milioni di euro) della precedente fondazione, ora in liquidazione, e l’inchiesta della magistratura sulle presunte malversazioni. Il presente è fatto da una nuova cabina di regia, metà pubblica e metà privata. Se la parte culturale è in mano pubblica, cioè della Fondazione Circolo dei Lettori, quella privata ha come guida l’associazione “Torino, la Città del Libro”, formata dai fornitori e soprattutto creditori della kermesse degli anni passati. Tutto nuovo, o quasi. A dare forma al cuore del Salone del Libro è ancora Nicola Lagioia, che ieri ha annunciato il tema portante dell’edizione del maggio prossimo: sarà “Il Gioco del Mondo”, mutuato non casualmente dal titolo e dallo spirito del famoso romanzo di Julio Cortázar.

Un salone, quello del 2019, che, come è stato spiegato, afferma che “la cultura non contempla frontiere o linee divisorie”, e che “la cultura i confini li salta. Supera divisioni, frantuma muri, balza dall’altra parte. Per creare. Come fa il lettore del ‘contro-romanzo’ di Cortázar, grande maestro del Novecento, libro sconfinato e invito alla ribellione, alla fuga e all’avventura”.

La cultura va oltre le frontiere, come la lingua. Sarà una lingua, lo spagnolo, e non un singolo Paese, l’ospite internazionale. Dalla Spagna all’America del Sud all’Asia, narratrici e narratori, filosofi, storici, donne e uomini dell’arte E dello spettacolo verranno a Torino nel denominatore comune di una lingua “tra le più parlate al mondo e tra quelle che la letteratura ha scelto per esplorare a fondo il cuore degli uomini”. Troneggerà persino una “Plaza de los lectores”, con spazi dedicati alle istituzioni e alle varie rappresentanze del multiforme universo ispanico. L’inaugurazione della fiera, poi, attraverso una lezione magistrale spetterà a Fernando Savater, uno dei più autorevoli intellettuali spagnoli di oggi.

Nella carta geografica del Salone 2019, nel suo “gioco del mondo”, ci sono naturalmente molti altri luoghi e protagonisti: dalle Marche, la regione ospite, a Sharjah, negli Emirati Arabi, scelta dall’Unesco come capitale mondiale del libro di quest’anno. Fino a Matt Salinger, il figlio dell’autore de Il giovane Holden, al premio Nobel Wole Soyinka e alla giornalista russa Masha Gessen.

Nel nome del Padrino: mezzo secolo di Don Vito

Veniva da una famiglia numerosa Mario Puzo, settimo di otto fratelli, e lui stesso di figli ne ebbe cinque. Non stupisce dunque che la famigghia abbia giocato per lui un ruolo di primo piano nel suo capolavoro: la famiglia che protegge, e dalla quale proteggersi. Alla fine degli anni Sessanta, quest’uomo dal faccione tondeggiante alla Aldo Fabrizi con occhiali grandi come televisori, si rintana in uno scantinato, distante dagli strepiti dei marmocchi e dalla confusione di Hell’s Kitchen, con l’idea di scrivere un bestseller. Ne viene fuori un romanzo di quasi 600 pagine che esce il 10 marzo del 1969. Sulla copertina nera la sagoma di una mano che regge i fili bianchi di un burattino. Il titolo è secco, esplosivo come un colpo di pistola: The Godfather, Il padrino.

Sono passati 50 anni e quel romanzo ha venduto oltre 15 milioni di copie in tutto il mondo. La trasposizione cinematografica in tre episodi di Francis Ford Coppola è uno dei film più visti, citati, e anche più belli, del Novecento.

Cos’aveva indovinato quest’italoamericano, originario di un paesino dell’avellinese, per essere letto e recepito in tutto il mondo? In primis un grande protagonista, Vito Andolini, per tutti Don Corleone, con il riferimento toponomastico al cuore della Sicilia, incarnato nella pellicola da uno strepitoso Marlon Brando, con il mento sporgente e la bocca piena di ovatta. Un capofamiglia e un capomafia, investito da un’aura divina, come appare etimologicamente dal titolo inglese.

Don Corleone è colui che tutto può a New York, che tutto realizza, non per vile denaro, ma per il rispetto. A lui bisogna rivolgersi con devozione e umiltà. Nella prima memorabile scena del romanzo la colpa di Amerigo Bonasera, un genitore umiliato dall’assoluzione dei due ragazzi che avevano tentato di stuprare la figlia, è quella di essersi rivolto alla giustizia americana. Non può esserci la giustizia della divisa, della polizia, dei tribunali. La giustizia è solo quella veterotestamentaria di Don Vito, il dio padre che vuole vedere i suoi sudditi, i suoi adepti, i suoi fedeli inginocchiati. Se pregato, dispenserà favori e miracoli. Proteggerà. Chiedendo un baratto a tempo debito.

L’altra grande trovata de Il padrino è rappresentata dall’opposizione etica del terzogenito, Micheal. Il figlio minore che allo scoppio della seconda guerra mondiale sfida l’espresso divieto del padre e si arruola nei marines a combattere “per gli stranieri”. Don Vito corrompe medici, stipula alleanze, ma i ventuno anni di Micheal e la sua testa dura hanno la meglio. Ferito nel Pacifico, il ragazzo resta un paio di settimane nella casa paterna e poi una nuova fuga, con il risultato di fidanzarsi con la più insipida delle americane, quella foglia di lattuga di Kay Adams. Altro che moglie e buoi dei paesi tuoi. Che disdetta un figlio che indossa la divisa e sogna di sposare gli ideali degli Stati Uniti e una biondina. Un figlio traditore, eppure il più amato.

Per fortuna di Don Vito, sono molto più tradizionalisti i primi due figli, Sonny e Fred. Di Santino, come lo chiama il padre, Puzo dà una serie di particolari anatomici che lo rendono famoso presso le sue conquiste femminili (La moglie Sandra sostiene di non farcela più e di aver acceso un cero alla Vergine Maria alla scoperta delle amanti di Sonny). Eccola la grande miscela della storia di Puzo: conflitto fra bene e male, ribaltamento etico di legge e giustizia, brama di potere, sesso. E poi c’è tutta la tradizione del romanzo crime che viene ribaltata. Un genere si era riempito di investigatori duri e seduttori, di uomini a margine alcolizzati e cinici, uomini soli. Da Sam Spade a Philip Marlowe.

Puzo, inserendosi in una catena letteraria che attinge fino a Dickens, ce lo racconta dal punto di vista dei cattivi, radicandosi alla mitopoiesi della mafia. Non è che i mafiosi siano proprio cattivi cattivi, son dovuti diventare così attingendo alla storia del brigantaggio, difendendo gli interessi calpestati dei più umili. Stronzate da un punto di vista storico. Ma è una leggenda che ha il suo fascino, come la violenza che ritroviamo nelle storie di Don Winslow sul narcotraffico e di Ellroy sulla corruzione.

E l’ultimo segreto? Quello di pulcinella: la famiglia. Quell’entità che gli americani vedevano distrutta e dilaniata dalla guerra in Vietman, quell’entità alla quale si sapevano aggrappare quegli esotici degli emigranti italiani.