Afghanistan, kamikaze sui dialoghi per la pace

Un attacco compiuto ieri mattina da miliziani armati contro un’azienda edile afghana ha fatto almeno 16 morti e nove feriti fra i dipendenti. Cinque assalitori sono stati uccisi. L’attacco è avvenuto a Jalalabad, capitale della provincia di Nangarhar, nell’Est dell’Afghanistan, al confine con il Pakistan. Secondo fonti ufficiali, due kamikaze si sono fatti saltare in aria all’ingresso della Entire Builders and Engineering, prima dell’attacco dei miliziani. L’azione non è stata rivendicata, ma nella zona è segnalata una forte presenza di elementi dell’Isis, il sedicente Stato islamico che, in rotta tra Iraq e Siria, avrebbe ricostituito qui alcuni suoi campi base.

C’è qualcuno cui non fa comodo la pace in Afghanistan: si muovono troppe cose, nella guerra più lunga e più costosa mai combattuta dagli Stati Uniti e c’è chi preferisce un Paese non pacificato, dove magari è più facile fare affari, ordire trame e nascondersi. Come sta ancora facendo lì, di qua e di là dal confine con il Pakistan, Hamza bin Laden, uno dei figli di Osama, la mente degli attacchi all’America dell’11 settembre 2001.

Gli Stati Uniti hanno offerto un milione di dollari a chi darà informazioni utili alla cattura di Hamza, che avrebbe ormai soppiantato alla guida di al Qaeda l’egiziano Ayman Al Zawahiri. Il giovane bin Laden ha sposato una figlia di Mohammed Atta, uno dei 19 dirottatori delle Torri Gemelle. La scorsa settimana, miliziani talebani avevano cercato d’impadronirsi d’una base militare nel sud dell’Afghanistan, il campo di Shorab, nella provincia di Helmand: 23 i soldati afghani uccisi e 16 i feriti. Sul terreno erano pure rimasti una ventina di miliziani.

Le cronache dall’Afghanistan, dove sono ora presenti, non senza interazioni e reciproche frizioni, talebani autoctoni, miliziani dell’Isis e terroristi di al Qaeda, testimoniano che gli scontri non sono diminuiti nelle ultime settimane, nonostante emissari degli Usa e dei ribelli conducano da settimane colloqui di pace in Qatar, che, per il presidente Usa Donald Trump, sono “costruttivi”. Si cerca uno sbocco al conflitto, che va avanti dal 2001 e che continua a essere letale: quasi mille i soli bambini uccisi nel 2018, l’anno più cruento per i civili afghani, stando ai dati dell’Onu. Il quinto round dei negoziati ad alto livello s’è svolto il lunedì 25 febbraio: c’erano l’inviato speciale Usa Zalmay Khalilzad e il mullah Abdul Ghani Baradar, vicecapo dei talebani. S’è parlato del ritiro delle truppe e di come garantire il mantenimento della pace nel Paese. Forse anche a causa dei ripetuti massacri, la Casa Bianca sta mettendo la sordina all’asserita volontà di ridurre le truppe di stanza in Afghanistan, dove c’è un numeroso contingente italiano. Un piano del Pentagono da discutere coi talebani prevede il ritiro in un arco di tempo tra i tre e i cinque anni. Il piano – secondo il New York Times, che ne ha dato notizia per primo – prevede di dimezzare i 14 mila soldati Usa attualmente presenti ed è stato già valutato insieme agli alleati europei. Non è esattamente quanto aveva detto tra fine 2018 e inizio 2019 il presidente Trump, che, però, non avverte l’imbarazzo di smentirsi. Prima di Natale, aveva annunciato il ritiro immediato di tutti i circa 2.000 militari americani in Siria, innescando le dimissioni, per disaccordo, del segretario alla Difesa James Mattis. Martedì, Trump s’è detto assolutamente d’accordo sul fatto che i soldati, almeno una parte di essi, debbano restare.

Pazza idea di Mbs: sostituire il padre sul trono di spade

Il 23 febbraio il re saudita Salman arriva a Sharm el Sheikh, in Egitto, per partecipare al primo summit fra capi di Stato e di governo dell’Unione europea e Lega araba. Il confronto è previsto per il giorno seguente. A togliere il sonno a Salman bin Abdulaziz Al Saud però non è la geopolitica: poche ore dopo aver messo piede a Sharm, i suoi consiglieri lo costringono a cambiare gran parte della scorta – circa 30 uomini – e insistono che persino quelli della sicurezza egiziana stiano a distanza di sicurezza: il timore è quello di un colpo di mano, e la regìa sarebbe quella del principe ereditario, Mohammed bin Salman (Mbs).

Una sceneggiatura degna del Trono di spade, solo che stavolta si parla di intrighi concreti e non di fiction, considerata la “tenacia” con cui Mbs persegue i suoi obiettivi per rafforzare il proprio potere e togliere di mezzo gli avversari.

Alcuni precedenti: nel novembre 2018, la Casa reale organizza una retata di dignitari e personaggi in vista: l’accusa è di corruzione. Secondo i dati messi a disposizione dal procuratore generale saudita, Saud al Mojeb, 381 persone sono state ‘convocate’ – alcune arrestate – e ci sono stati sequestri di beni per circa 400 miliardi di riyal (80 miliardi di euro). Solo sete di giustizia? Il New York Times ricorda che tra gli arrestati c’erano anche i proprietari di una delle maggiori società di comunicazione del mondo arabo, che bin Salman voleva comprare da un paio di anni. Un anno prima c’era stato il “rapimento” del presidente del Libano, Saad Hariri. Il 3 novembre era atterrato a Ryad, qualche ora dopo aveva annunciato le sue dimissioni. Considerato una creatura della Casa sunnita reale, sembra che Hariri abbia suscitato il malumore di Mbs per l’avvicinamento a Hezbollah – alleato di ferro dell’Iran sciita – dentro il governo di unità nazionale, a Beirut. Il “sequestro” del presidente sarebbe stato un monito da parte di bin Salman per ricordare chi comanda davvero.

C’è poi l’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi; l’editorialista del Washington Post era un acerrimo avversario di Mbs, denunciando che la politica di rinnovamento del principe ereditario era solo operazione di facciata. Il 2 ottobre scorso, Khashoggi entra di sua volontà nel consolato saudita a Istanbul, e non ne esce più. Nonostante i dinieghi di Ryad, la Cia e l’intelligence turca evidenziano la presenza di un commando che, mandato da Mbs a prelevare il dissidente, in realtà lo ha ucciso e ne ha fatto sparire il cadavere. Dunque, Mbs sarebbe capace di defenestrare anche il padre? Gli analisti si concentrano su quanto è avvenuto in assenza, e al rientro, del re saudita: bin Salman, rompendo il protocollo, non si è fatto trovare ad attenderlo, un segnale da non sottovalutare per Bruce Riedel, ex veterano della Cia e direttore del Brookings Intelligence Project, citato dal Guardian. Ci sono poi le nomine fatte – in autonomia? – da Mbs e che Salman bin Abdulaziz Al Saud avrebbe appreso dai notiziari; si tratta del fratello di Mbs, Khalid bin Salman, a capo del ministero della Difesa e della principessa Reema bint Bandar bin Sultan, nuova ambasciatrice negli Stati Uniti. Soprattutto la promozione di Khalid non sarebbe piaciuta al sovrano, che l’ha considerata “prematura”. La Casa reale nicchia: sollecitato dal Guardian, un portavoce dell’ambasciata saudita a Washington ha dichiarato: “È consuetudine per il re emettere un ordine che deleghi il potere di amministrare gli affari dello stato al suo vice, il principe ereditario, ogni volta che viaggia all’estero. È stato così anche durante la recente visita in Egitto di re Salman”. Insomma, tutto a posto. O forse no.

Violenza madre d’Argentina

Bambine, adolescenti violentate, incinte e costrette a partorire con sentenze ad hoc o per ostracismo degli operatori sanitari coperti dall’obiezione di coscienza. Argentina, 2019. Sul tavolo operatorio è stesa P., 11 anni, violentata dal compagno della nonna e incinta di 23 settimane. “Già troppo per il suo corpo ancora non del tutto formato”, racconta Cecilia Ousset, la ginecologa che la assiste. Troppo avanti la gravidanza, visto che è stata ricoverata in ospedale alla 16esima settimana di gestazione, pronta per abortire, secondo la legge, entro le 23 settimane.

Peccato che tutti gli operatori si siano rifiutati di tirarle fuori “quello che il vecchio mi ha messo dentro”, come chiede da quando, dopo aver tentato il suicidio in casa, sua madre l’ha accompagnata a “risolvere il suo problema”, come da lei richiesto. Quando la ginecologa la stende sul lettino non si lascia neanche spogliare, devono sedarla per poter iniziare l’operazione, ha la pressione a 170/120. È a quel punto che il personale di sala – anestesista compreso – abbandona il tavolo operatorio invocando l’obiezione di coscienza. La dottoressa Oussett, anche lei obiettrice, chiama suo marito per farsi assistere, è anche lui chirurgo in una clinica privata e non è obiettore. Ma – dicevamo – è troppo tardi per l’aborto. La ginecologa è costretta a un taglio cesareo. P. dorme. “Il problema” è fuori, vivo. Ousset prova a spiegare ai poliziotti che la aspettano all’uscita della sala operatoria con il taccuino in mano di aver tentato di salvare entrambe le vite.

Perché dal 2012 l’aborto in Argentina è stato depenalizzato anche nel caso di una gravidanza causata da uno stupro oltre che nel caso di rischio di salute per la donna. P. rientra in entrambe i casi. E – come lei – centinaia di bambine e adolescenti nel suo Paese. Eppure c’è sempre un giudice o un ospedale pronti a negare loro questo diritto in nome di “una riscontrata volontà della ragazza di portare avanti la gravidanza”, come nel caso di una coetanea di P, a cui nell’autunno scorso è stata negato l’aborto. Sono 300 le adolescenti che quotidianamente diventano madri in Argentina, il paese in cui le gravidanze di minori rappresentano il 15% del totale. Tremila all’anno sono in tutto le gestazioni portate avanti da ragazzine tra i 10 e i 14 anni. Di queste, l’80%, secondo il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione sono il risultato di abusi sessuali, che per la maggior parte si consumano in famiglia.

Come nel caso di M. abusata dal compagno della madre, incinta a 14 anni e costretta nel 2013 – a pochi mesi dal- l’entrata in vigore della legge – a partorire e a dare in adozione la bambina dal giudice di Salta, la regioni del Nord tra le più conservatrici del Paese. E a niente servirono in quel caso le manifestazioni organizzate contro la decisione del magistrato da Cristina, la madre dell’adolescente che aveva sorpreso il suo compagno ad abusare della figlia e che – nel tentativo di fermarlo – era finita con lei in ospedale per le percosse dell’uomo.

La distorsione giuridica è all’ordine del giorno ed è causata dal fatto che – nonostante la legge sia statale – ogni regione ha elaborato un proprio protocollo di azione, come nel caso di Salta, che prevede che se la paziente ha meno di 18 anni debba essere affiancata da un assistente sociale che le spieghi pro e contro dell’aborto. Nella maggioranza dei casi, però, si tratta di un obiettore, che – contrariamente a quanto stabilito da un comma della legge del 2012, una volta che la paziente decide per l’aborto, ricorre al parere di un giudice per procedere. Tutto, pur di non lasciare che l’eccezione alla Costituzione antiabortista argentina venga attuata. Nonostante le restrizioni, in Argentina gli aborti sono il doppio che nel resto dell’America Latina, secondo un rapporto dei Human Rights Watch: dai 400 mila ai 600 mila per la precisione. In condizioni sanitarie deplorevoli e spesso “casalinghe” che hanno portato alla morte quasi venti giovani all’anno. Cifre incredibili nel 2019 che però non sono riuscite a convincere la Camera dei deputati che il 9 agosto dell’anno scorso ha bocciato il progetto di legge per rendere l’aborto legale, sicuro e gratuito. Niente hanno potuto neanche i diversi comitati delle Nazioni Unite che hanno chiesto agli Stati di modificare le proprie leggi per garantire l’accesso all’aborto sicuro.

È morto il bimbo di 2 anni caduto dal carro di carnevale

Non ce l’ha fatta Gianlorenzo, il bambino di due anni e mezzo caduto da un carro di Carnevale, martedì pomeriggio, a Bologna. Era ricoverato in condizioni gravissime all’ospedale Maggiore, dove è morto ieri intorno alle 16. La tragedia è accaduta in centro città, al Carnevale dei bambini, durante la parata tradizionale del martedì grasso, mentre i genitori assistevano alla sfilata. Sono intervenuti gli operatori del 118, che con un’automedica hanno portato il piccolo in ospedale, dove è stato portato in condizioni critiche. La partenza della manifestazione, organizzata dalla Curia di Bologna, era da piazza VIII Agosto e i carri, dopo un passaggio nella centralissima piazza Nettuno, erano attesi in piazza Maggiore. Ma la festa purtroppo è finita in tragedia. Le indagini sono affidate ai carabinieri. Alcune telecamere di sorveglianza piazzate nella zona potrebbero avere ripreso immagini che potrebbero aiutare gli inquirenti a ricostruire la dinamica dell’incidente. La Procura ha aperto un fascicolo per lesioni colpose contro ignoti.

Strage di Bologna, nell’agenda dell’ex Nar due numeri dei Servizi

Due numeri: 342111-342121. Erano segnati nell’agenda di Gilberto Cavallini, ex componente dei Nuclei armati rivoluzionari di estrema destra, sotto processo per concorso nella strage di Bologna. Sono due numeri di telefono, “riservati e non rintracciabili”, localizzati in una zona di Milano e riconducibili ai Servizi segreti. Come anticipato a febbraio dal Fatto Quotidiano. Per gli avvocati di parte civile sono la prova del collegamento dell’ex Nar con il Sismi e con Adalberto Titta, personaggio legato alla struttura segreta “Anello”, sospettata di aver avuto un ruolo nell’attentato dell’80.

Lo conferma una memoria presentata ieri dai legali dei familiari e potrebbe rappresentare una svolta nel processo, il terzo, a distanza di quasi 40 anni dalla strage. Alla luce della rivelazione, infatti, la Corte d’Assise ha disposto l’audizione di tre nuovi testimoni: un funzionario della Sip dell’epoca e due finanzieri, che per conto della Procura generale hanno già svolto indagini a riguardo.

Quella di ieri è stata un’udienza movimentata, anche per l’atteggiamento dell’imputato Cavallini che ha polemizzato sia col rappresentante dell’associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto, Paolo Bolognesi, sia con il presidente della Corte. Al primo ha rinfacciato di voler “condizionare e mettere nel mirino l’intero collegio giudicante e il perito”. La replica di Bolognesi: “Le sue accuse sono quasi una medaglia al valore: facciamo di tutto per arrivare alla verità”. Poi il battibecco con Michele Leoni, che presiede la Corte, in merito alla rapina fatta dai Nar il 5 agosto del 1980 all’armeria Fabrini di piazza Menenio Agrippa a Roma, a cui parteciparono anche Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, condannati in via definitiva per la strage. Per Cavallini l’azione sarebbe stata un modo per “dissociarsi” dalla strage, rispetto a cui si sono sempre sentiti “al di sopra di ogni sospetto”: “Dopo la morte di Franco Anselmi, ucciso durante l’assalto a una armeria, i Nar ogni anno ne rapinavano una. Era un rito, ci caratterizzava. Siamo lì a morire se necessario, alla luce del sole, con la nostra faccia: l’assalto a una armeria è differente da una strage”. Il giudice non è d’accordo: “Voi non eravate rapinatori professionisti, le rapine per voi erano strumentali a finanziare l’attività terroristica. Continuo a pensare che se avevate questo bisogno di dissociarvi, di far vedere che facevate altre cose, significa che vi sentivate nel mirino. Ma questo è un convincimento mio, lasciamo, ognuno si tenga le sue idee.” Il processo, intanto, va avanti.

“Cantù come Locri” Intimidazioni in aula a cronisti e Antimafia

“Mio nonno? L’ho visto solo in galera. Mio padre? Ucciso dai carabinieri o dalla polizia, non si è mai saputo. Dello Stato non mi fido. Le scuole? Sono arrivato alla terza media. E ora sono diventato pure ’ndranghetista, così dicono”. Giuseppe Morabito, camicia bianca e pantaloni blu, parla davanti al giudice Valeria Costi. Imputato per mafia a Como con altri otto, non tutti per 416 bis. Sono giovani, come lui che è nato ad Africo nel 1986, ma che da 15 anni vive qua al nord, a Cantù. Lui nipote di Giuseppe Morabito detto u Tiradrittu, re di mezzo Aspromonte, oggi al 41-bis. Corte d’assise, aula ampia, una squadretta di avvocati, gli imputati nel gabbione, dietro studenti e parenti.

Processo dell’anno quello ai nuovi presunti ’ndranghetisti di Cantù. In lista, per loro, risse e pestaggi, esecuzioni sommarie, gambizzazioni, contatti con i primi livelli della ’ndrangheta lombarda e di Cosa nostra, controllo del territorio e della movida canturina. Questo sostiene l’accusa. Lunedì l’ennesima udienza. Dopo che la precedente aveva mandato in archivio una sospensione per le intemperanze dei parenti (ola e applausi), reticenze dei testimoni e una secca presa di posizione del capo dell’antimafia milanese Alessandra Dolci che ha paragonato “Cantù a Locri”, attaccando il Comune perché non si è costituito parte civile.

Insomma tutto nel copione più classico della nuova mafia al Nord. Lunedì poi, tra il pubblico, è comparso un manipolo di politici. Era la prima volta. Casacche della minoranza, chi Pd chi liste civiche, e un cartellino in mano: “Cittadino di Cantù”. Antimafia dal basso? Alcuni avvocati hanno sollevato il caso: “Niente politica in aula”. In tribunale la politica fino a lunedì non si era fatta vedere. Ma del resto a Cantù tra poco si vota, a breve saranno depositate le liste elettorali e quindi un po’ di antimafia fa bene alle urne.

Dopo la politica è toccato alla stampa, rea, secondo alcuni avvocati, di “aver messo in piedi un circo mediatico esagerato”. Dito puntato contro i bravi cronisti locali che da settimane raccontano il processo. “Così – chiosa un legale – arriveremo ad avere gli striscioni in aula e un tifo da stadio”. Insomma, sul banco degli imputati a Como ora ci vanno i giornalisti non i presunti mafiosi. Ci si attende una reazione del giudice. Macché. Dice Valeria Costi: “Ammonisco la stampa sui toni”. A difesa solo il pubblico ministero Sara Ombra: “Gli articoli pubblicati rispondono a un principio di civiltà non capisco dove sia il problema”. Insomma niente male. Tanto che un imputato, durante l’interrogatorio, parlerà anche lui di “circo mediatico”. Si tratta di Domenico Staiti già condannato in primo grado per la gambizzazione di Ludovico Muscatello, erede dell’omonimo casato mafioso, ferito nei pressi della discoteca Spazio di Cantù il 10 ottobre 2015. “Ho appoggiato la pistola al ginocchio – dirà Staiti – e sparato due volte”. Dopo di lui farà fuoco anche il nipotino Rocco Depretis. Altro che “circo mediatico”.

Insomma il processo è tutto da seguire. Sul banco, lunedì, sono sfilati i nove protagonisti. Non tutti accusati di mafia, alcuni di rissa, o di altri reati, aggravati, in certi casi, dal metodo mafioso. Ci sono “i calabresi” come Morabito, Staiti e altri tre. Ci sono “i lombardi” spesso di famiglie per bene, anche agiate che si ritrovano a vivere un incubo. E poi c’è Luca Di Bella, figlio di Giuseppe, ex collaboratore di giustizia che ha svelato gli interessi più nascosti della ’ndrangheta in Lombardia.

Il giovane Luca ha un’accusa per rissa e un altro reato aggravato dal metodo mafioso. Parla in aula. “Per anni – dice al giudice – ho avuto paura di morire per mano della mafia. Quando ero piccolo sono stato allontanato dalla famiglia, avevo otto anni. Mio padre lo vedevo in luoghi protetti, due ore poi doveva scappare. Dal 1998 mi segue una psicologa. Negli ultimi anni ho preso in mano la mia vita, mi sono fatto una famiglia, stavo per realizzare i miei sogni, poi sono stato arrestato”. Dopo di lui gli altri. Volti, storie e un unico spartito: il controllo dei locali di piazza Garibaldi a Cantù e quelle consumazioni mai pagate perché, ragiona l’accusa, “quei bar erano roba loro”. Chi denuncia sono i titolari. Eppure il refrain in aula è lo stesso per tutti: “Io ho sempre pagato”. Alcuni curriculum degli imputati sono poi già di tutto rispetto. Antonio Manno, appena 24 anni, ne sta scontando addirittura 12 per tentato omicidio. Rocco De Pretis e lo zio Domenico Staiti si ritrovano condannati per la gambizzazione di Muscatello. Staiti per 40 anni ha vissuto ad Africo, poi è arrivato a Cantù, è entrato nel giro dei locali ma, sostiene, “non sono un affiliato”. In Calabria, aggiunge, “ho fatto anche il vicesindaco e il presidente della squadra di calcio di Africo”. Poi è sceso qui giù al Nord.

Discorso al congresso Md: i laici del Csm contro David Ermini

Polemiche al Csm per l’intervento anti governo del vicepresidente David Ermini, che è intervenuto l congresso di Magistratura Democratica, sabato scorso.

Ad attaccare Ermini sono stati alcuni laici: Il vicepresidente “ha l’obbligo di evitare prese di posizione non compatibili con la sua funzione e che si inseriscono in un dibattito politico dal quale l’organo di autogoverno, come organo di rilievo costituzionale, deve rimanere e apparire estraneo. Ciò al fine di garantire l’autonomia e l’indipendenza dello stesso Consiglio”, hanno scritto in una nota, letta in plenum Filippo Donati (M5s), Emanuele Basile (Lega), Michele Cerabona e Filippo Lanzi (Fi). Secondo i consiglieri, Ermini, durante il suo intervento, ha “formulato gravi accuse alle regole che presidiano, nel nostro Paese, non solo l’amministrazione della giustizia ma anche l’assetto costituzionale, senza fornirne alcun esempio concreto “. Un altro consigliere laico, il leghista Stefano Cavanna, invece, ha scritto al presidente Sergio Mattarella per esprimere la sua “preoccupazione” per quel discorso di Eimini. Il vicepresidente ha incassato senza replicare.

“Pamela era ancora viva e lui la squartava”

Parole che hanno tramortito quelle pronunciate ieri, alla seconda udienza del processo di Macerata per l’omicidio di Pamela Mastropietro, dal “pentito” Vincenzo Marino (nome di copertura), confessione che avrebbe raccolto l’8 luglio scorso nel carcere di Ascoli Piceno direttamente dal compagno di detenzione Innocent Oseghale, l’uomo accusato di violenza sessuale, omicidio, occultamento e vilipendio di cadavere: “Pamela era ancora viva quando Oseghale le tagliò una gamba”. E ancora: “Desmond Lucky voleva avere un rapporto a tre, Pamela si rifiutò, la colpì alla testa e se ne andò. Lei cadde a terra svenuta. Oseghale cercò di farle riprendere i sensi gettandole acqua fresca, lei si riprese, la spogliò ed ebbe con lei un rapporto sessuale completo. Al termine la ragazza voleva andare a prendere il treno per Roma, altrimenti l’avrebbe denunciato. Hanno litigato e Oseghale le ha dato una coltellata all’altezza del fegato. Pensando che fosse morta, Oseghale, mi raccontò che andò ai giardini Diaz per chiedere, invano, l’aiuto a un connazionale poi tornò a casa e la squartò iniziando dal piede. La ragazza iniziò a muoversi e lamentarsi le diede una seconda coltellata”. Poi raccontò che “l’aveva lavata con la varechina perché così non si sarebbe saputo se era morta di overdose o assassinata. Disse che aveva un sacco in frigo dove mettere i pezzi, ma che non ci andavano e che l’ha dovuta tagliare e l’ha messa in due valigie”. Chiamò un taxi, ma mentre era in auto “la moglie lo chiamava ed è andato nel panico. Se fece tutto da solo? Non mi fece il nome di nessuno”, ha proseguito.

La mamma di Pamela non ha retto al racconto ed è scoppiata in lacrime. Questo sarebbe quanto gli avrebbe confidato Oseghale dopo che fra i due detenuti si era consumato uno scontro. “Uscì dalla mia cella e vidi Oseghale e gli dissi: cornuto, pezzo di m… che facesti? E gli lanciai una bottiglia. In carcere lo chiamavano macellaio. Fummo divisi con il divieto di incontrarci. Giorni dopo, un altro detenuto mi disse che Oseghale voleva chiarirsi”, ha continuato.

Oseghale, sempre secondo la testimonianza di Marino, oltre a raccontargli i dettagli dell’omicidio gli disse anche di essere “uno dei referenti dei nigeriani a Macerata a livello di prostituzione e spaccio di droga”. Marino, nome di copertura affidatogli quando entrò nel sistema di protezione da cui venne escluso nel 2013 per aver commesso reati, dopo essere stato arrestato per mafia, ha deposto a viso scoperto nonostante la sua famiglia sia stata minacciata di morte. Moglie e figlia hanno ricevuto una bambola senza testa accompagnata dal biglietto: “Fate la sua fine”, ha spiegato il suo legale Maria Claudia Conidi che ha chiesto garanzie sulla sua protezione e quella della sua famiglia.

Una testimonianza scioccante che, se reggesse, incastrerebbe definitivamente Innocent Oseghale. Ma a smentire la versione di Marino ci sono tre detenuti, compagni di cella di Oseghale. Il processo riprenderà il 13 marzo, mentre sono stati indagati per violenza sessuale altri due uomini che Pamela incontrò quando fuggì dalla comunità. Con uno di questi trascorse la notte prima di essere uccisa.

“Avevano già cercato di farlo” Arrestati i tre violentatori

Per incastrare i tre stupratori della 24enne di Portici violentata martedì pomeriggio nell’ascensore della stazione Circumvesuviana di San Giorgio a Cremano (Napoli), tre giovanissimi maggiorenni tra i 18 e i 19 anni sottoposti a fermo di polizia ieri, gli agenti del commissariato locale e della squadra mobile di Napoli hanno incrociato le immagini della videosorveglianza con quelle dei profili facebook degli indiziati. I loro nomi sono stati forniti da un quarto ragazzo: un conoscente della vittima, che le presentò i tre, originari di San Giorgio a Cremano. La ragazza ha visionato le foto sul social network e li ha riconosciuti.

Poi si è rinchiusa in camera, a piangere ed elaborare il suo dolore. Non è uscita nemmeno durante la visita dei sindaci di San Giorgio a Cremano e Portici, Giorgio Zinno e Vincenzo Cuomo, che ieri mattina hanno visitato i familiari per offrire, oltre alla solidarietà di rito, un sostegno legale in questi primi, decisivi giorni di un’inchiesta che si preannuncia rapida, sotto il coordinamento del procuratore aggiunto di Napoli Raffaello Falcone e del procuratore capo Giovanni Melillo.

La 24enne proviene da una famiglia di gente semplice, i genitori sono separati e lei vive con la madre, insegnante. “La nostra città oggi si sveglia consapevole che i mostri esistono, ma che qui vengono immediatamente presi e buttati in cella”, ha commentato Zinno su facebook. Il sindaco ha poi rilanciato un’idea della signora Oriana Rosso, organizzando in poche ore una fiaccolata di candele rosse “da usare come simbolo perché a volte le parole non bastano”, che si è svolta ieri sera in piazza Trieste e Trento.

La vittima aveva già visto in precedenza i suoi aguzzini. In circostanze inquietanti. I tre infatti già nelle settimane scorse avrebbero provato ad aggredirla sessualmente. Il tentativo risalirebbe a febbraio, era iniziato proprio nella stazione di San Giorgio e poi proseguito nelle vicinanze. La ragazza, particolarmente debole e sottile, era riuscita a sottrarsi. Ma non aveva denunciato. E l’altroieri è stata riavvicinata dai tre ragazzi con il pretesto di chiederle scusa per l’accaduto. Lei è caduta nel tranello ed entrata nell’ascensore. Qui è stata violentata a turno, mentre gli altri due tenevano le porte aperte per bloccarlo.

Le telecamere hanno ripreso tutto. Gli inquirenti hanno prelevato materiale per risalire al dna dei tre. Potrebbero tornare utili. Il dna verrà comparato con le tracce biologiche repertate dalla polizia scientifica sul luogo dello stupro. Oggi il pm chiederà le convalide al Gip.

La politica si è gettata su questa storia riuscendone a fare terreno di scontro. “Tre ragazzi hanno violentato una donna a San Giorgio a Cremano. Sono italiani, sono criminali. Non essendo di colore ancora il tweet di Salvini non è arrivato. Ma aspettiamo soprattutto più forze dell’ordine, più telecamere, più luci. Hanno vinto un anno fa: quando iniziano a governare?” ha scritto sul social l’ex ministro Pd Maria Elena Boschi. Il tweet del ministro dell’Interno poi c’è stato: “Nessuna pietà per chi violenta donne e bambini, in galera a vita”.

Da registrare lo scivolone di Umberto De Gregorio, il deluchiano presidente dell’Eav, la holding del trasporto pubblico campano che ha finanziato la videosorveglianza nelle stazioni Circum. In un’intervista a Fanpage, a una domanda su cosa si sentisse di dire alla vittima ha risposto “…di guardarsi dalle amicizie perché questi che l’hanno violentata pare che fossero amici”, e all’ovvia replica che la ragazza non ha colpe per la violenza subìta, ha aggiunto “non è neanche colpa mia”. De Gregorio ha contestato il montaggio del video (poi andato in Rete integralmente) definendo Fanpage “killer e stupratori dell’informazione”. Parole e aggettivi sgradevoli, visto il contesto.

 

L’autonomia del Veneto spiegata per bene. Così lo sapete

Cosa manca all’Italia? Molte cose, si sa, e una delle non meno importanti è un dibattito pubblico all’altezza delle sfide che affronta. In queste settimane s’è finalmente iniziato a parlare dell’autonomia differenziata chiesta da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. In mezzo a tante reticenze sul senso di questo passaggio, spicca per sincerità il resoconto di un incontro (lunedì a Venezia) della Consulta per l’Autonomia voluta da Luca Zaia e pubblicato dal Gazzettino: “L’autonomia porterà più soldi al Veneto. E li toglierà a quelle Regioni che oggi hanno di più. Perché è il Veneto oggi a essere penalizzato. È adesso che esistono cittadini di serie A e di serie B. E quelli di serie B sono nelle ricche e virtuose regioni che a norma di Costituzione pretendono l’autonomia. Va da sé che le regioni sprecone domani potranno avere meno”. Nelle parole del tributarista Andrea Giovanardi, uno degli esperti che aiuta il governatore: “Se lo Stato centrale non è in grado di sistemare le ingiustizie e tollera lo spreco di altre regioni, questo non è un problema dell’autonomia”. Nella stessa pagina, il capo degli industriali veneti Stefano Zoppas (quello delle acque San Benedetto) ribadisce che l’autonomia è in sostanza un modo per tagliare la spesa pubblica. Il contesto che ottimisticamente definiremmo culturale è quello dell’attacco allo “Stato-ladro” e al suo ruolo redistributivo a tutti i livelli (classi e territori). Dunque, se per sollazzarvi usate la mano invisibile del mercato, l’autonomia (della mano) è quel che fa per voi. Ora lo sapete.