Il primo aspirante beneficiario si fa vivo al Caf di Porta Vittoria alle 9. Si chiama Mustapha Aarboubi, 56 anni, marocchino. Vive in Italia dal 1989 ed è un estimatore di Salvini, anche se “il leghismo nasce con Bossi”. Piccola curiosità di una giornata normale, simile alle altre. Anzi, per usare le parole degli impiegati delle Poste di viale Gorizia, “identica alle altre”. Nessuna ressa, nessuna coda. In piazza Cordusio, nel cuore di Milano, le domande si contano sulle dita di una mano, mentre negli uffici postale decentrati, come quelli di via Giambellino, sono un po’ di più. Diversa la situazione ai Caf, dove le code ci sono. Ordinate e non molto lunghe, ma a presentarsi sono in prevalenza quelli che hanno già un appuntamento: “Ne abbiamo fissati circa 400 – spiega Massimo Scibona della Camera del Lavoro – proprio per evitare le resse, lasciando comunque slot liberi per le emergenze”. Soddisfatti gli utenti. Marcello – 48 anni, disoccupato, 2 figli a carico – ci mette 20 minuti per fare tutto: “Già conoscevo le condizioni. Una buona cosa, questa del reddito di cittadinanza. Si esce a cercare lavoro senza l’angoscia di arrivare a fine mese”. I 200 operatori dei Caf di Milano e provincia hanno espletato, nella giornata di ieri, più di 1.250 pratiche, tra appuntamenti e richieste di informazioni. Il numero è destinato a salire: si prevedono 3.500 persone fino al 13 marzo e altre 8-10.000 in aprile. Dai Caf arriva anche l’identikit dei richiedenti: tra i 45 e i 50 anni, risiedono in città e il 40% è straniero. Unici inconvenienti in provincia, a Magenta e Parabiago: qui i cittadini si fidano poco di Internet. Così si sono recati di persona per chiedere informazioni, intasando gli sportelli.
“Il Pd sta sbagliando a remare contro la misura dei 5Stelle”
Più importante di tutto è aver messo la lotta alla povertà nelle agende politiche e aver investito un sostanzioso finanziamento, che più o meno corrisponde a quello che era stimato per la messa a regime del Rei(il Reddito di Inclusione introdotto dal governo Gentiloni, ndr). Il reddito di cittadinanza ha questi aspetti positivi e altri assolutamente no. Di sicuro, se non ci fossero stati i Cinque Stelle, probabilmente non sarebbe mai neanche passato il Rei. Grazie alla loro perseveranza, la misura è diventata una questione di competizione politica. Dopo di che, ha una serie di errori che fanno capire come non si conoscano le caratteristiche della povertà né chi siano i poveri in Italia”: Chiara Saraceno è una sociologa della famiglia e accademica di fama.
Professoressa Saraceno, partiamo dagli errori del M5S?
La misura confonde politiche di sostegno al reddito dei poveri con politiche di attivazione. Eppure una quota rilevante di poveri assoluti, oggi, è occupata e quindi ha bisogno solo di una integrazione di reddito. Non tutti i disoccupati sono poveri e viceversa. Questa confusione ha prodotto un secondo errore, l’investire in modo prioritario sui centri per l’impiego.
Cosa c’è sbagliato?
Anche se diventassero molto più efficienti, non è loro compito occuparsi di assistenza. I centri per l’impiego devono far incontrare domanda e offerta di lavoro. Ma se si parla non di generici disoccupati, bensì di persone e famiglie povere – occupate o non occupate – il front office dovrebbe essere affidato ai servizi sociali, che poi indirizzino eventualmente ai centri per l’impiego. C’è bisogno di personale preparato per questo tipo di valutazione. Invece il patto per l’inclusione arriva dopo. Così si ignora la complessità dei bisogni, come per gli stranieri e i requisiti stringenti richiesti. Se sono comunitari non devono dimostrare possedimenti in Francia, Spagna o Romania. Se però non lo sono, devono farsi produrre documentazioni, certificati, verifiche. Procedimenti che costano un occhio della testa a carico proprio della fascia più povera della popolazione.
Il Pd ha votato contro la misura e lei lo ha criticato.
Penso che il Pd non poteva votare sì, anche perché il decreto è legato a doppio filo a Quota 100 che, a mio parere, crea molte disuguaglianze. Ma neanche avrebbe potuto votare sì al solo Reddito che, in questa forma, rischia davvero di fallire. Però, se succedesse, sarebbe un disastro, non se ne parlerà più per decenni.
Cosa poteva fare il Pd?
Astenersi, spiegando molto bene perché e cosa ci sia di sbagliato. Ma il partito è debole: nel Pd c’è sempre stata una fortissima opposizione all’introduzione del reddito. Renzi era contrarissimo. In campagna elettorale erano scatenati contro il Rdc ma non con critiche puntuali o costruttive, bensì sostenendo fosse una misura per i pigri da poltrona che avrebbe favorito gli imbroglioni. Insomma, critiche molto simili a quelle della Lega. È stato addirittura proposto un referendum contro il Rdc, il governo ha dovuto dire di aver fatto delle “norme anti divano” per controbattere. Che è assurdo. I finti poveri ci sono, così come i finti ricchi, certo, ma questo non implica dover svilire il tema in questo modo.
Il Pd aveva però fatto il Rei.
Avrebbe dovuto farlo decente: i soldi per gli 80 euro sarebbero serviti e bastati. È vero che c’è chi ha portato in Senato proposte sensate da applicare al RdC, ma aveva alle spalle un partito addirittura già contrario al Rei. E discutere con i Cinque Stelle non è facile. Il problema, poi, è che le proposte in Parlamento non arrivano alle persone. Avrebbero dovuto fare una campagna pubblica seria, sui contenuti
E ora?
Si può lavorare alla Camera. Dal Pd, da un partito che continua a dire di essere di sinistra, mi aspetto che dica: ci teniamo che ci sia una misura sul reddito minimo, lavoreremo per mostrare dove funziona, dove non funziona e come cambiarla perché siamo intenzionati a far funzionare un intervento che sia di vero contrasto alla povertà e non aspettaremo che fallisca, per poi farne un altro.
Una chiamata di responsabilità…
A riformarlo, ad aiutarne la trasformazione ora e non ad aspettare un altro governo chissà quando e chissà dove per ricominciare da capo, come d’altronde ha fatto questo governo ignorando il Rei.
Reddito di cittadinanza, l’esordio senza apocalisse
Tanto tuonò che non piovve. Nel giorno di apertura delle domande per il reddito di cittadinanza non si è visto alcun assalto agli uffici postali o ai centri di assistenza fiscale. A fine giornata Poste Italiane ha comunicato di aver ricevuto 35.653 richieste, mentre quelle presentate su www.redditodicittadinanza. gov.it, secondo l’ultima rilevazione, si sono fermate a 8.492. Il podio è formato, in ordine, da Campania, Lombardia e Sicilia. Mancano i dati sulle pratiche passate attraverso le sedi dei Caf, il canale probabilmente più usato (oltre 3 mila solo in quelli Cisl). La consulta che riunisce i centri elaborerà oggi i numeri. Un’importante affluenza, insomma, ma niente file chilometriche né problemi di ordine pubblico. La campagna informativa dei giorni scorsi sembra aver funzionato. “Le macchine organizzative hanno preparato gli operatori a reggere l’impatto di migliaia di persone: in realtà l’uso degli appuntamenti, fissati già soprattutto per l’Isee, ha fatto sì che il temuto assalto non ci sia stato”, spiegano i coordinatori della Consulta, Massimo Bagnoli e Mauro Soldini. Rari i casi di affollamento in alcune città del Centro e del Sud, mentre a fare notizia è il “numero importante di richieste nei quartieri periferici di Milano e Torino”.
Tanti sono ancora alle prese con la richiesta dell’Isee, l’indicatore della situazione economica famigliare che deve essere inferiore a 9.360 euro. La domanda di questo certificato viene inviata dai Caf all’Inps, che attesta la validità in una settimana. Una volta ricevuto il via libera dall’istituto di previdenza, si può chiedere il reddito di cittadinanza scegliendo tra tre metodi. Uno è l’invio telematico attraverso i Caf; l’altro è la compilazione dei moduli da consegnare in forma cartacea agli uffici postali. Il terzo prevede l’inserimento dei dati direttamente sul sito internet, ma per questo serve un’identità digitale. In avvio di giornata il portale ha avuto qualche problema, che però è stato risolto in breve tempo. Una volta inviata la domanda, l’Inps ha 30 giorni di tempo per verificare che il richiedente abbia tutti i requisiti, non solo l’Isee ma anche il reddito, il patrimonio, i risparmi, le auto e moto di proprietà. Entro fine aprile arriveranno tutte le risposte alle domande presentate tra ieri e il 31 marzo; subito dopo arriveranno le card con i soldi.
Più complesso sarà mettere in piedi il sistema che accompagnerà i beneficiari nella ricerca del lavoro. Sono in corso le trattative tra governo e Regioni sull’assunzione dei navigator nei centri per l’impiego. Dopo l’apertura di lunedì, ieri il ministro Luigi Di Maio è tornato all’idea iniziale di assumerne 6 mila tramite l’Anpal Servizi e 5.600 tramite le Regioni. I 20 assessori al Lavoro non condividono e vogliono che si aumenti il numero di quelli da reclutare direttamente nei propri centri per l’impiego.
Feltri allo scoperto: “Voglio comprare da Silvio il Giornale”
A livellodi gossip se ne parlava da tempo. Ma ieri l’ha confermato il diretto interessato. Vittorio Feltri vorrebbe comprare Il Giornale, il quotidiano della famiglia Berlusconi di cui Marina vorrebbe disfarsi e che a breve vedrà l’avvio di uno stato di solidarietà che prevede il taglio del 30% degli stipendi dei giornalisti. Cosa che sta generando tensioni molto forti nella sede di via Negri, dove si minacciano giornate di sciopero nei giorni caldi delle elezioni europee. “Se fosse possibile lo comprerei, al momento è solo un pourparler, ma l’interesse da parte mia c’è”, dice Feltri, che Il Giornale l’ha già diretto due volte.
“Con Mondadori un abboccamento c’è stato, siamo ai preliminari, non ancora a una vera trattativa. Su queste cose, si sa, decide Berlusconi e lui non ha mai venduto nemmeno un’auto usata…”, continua l’attuale direttore di Libero. “Il Giornale lo conosco bene, saprei dove mettere le mani per rilanciarlo e credo vi siano le condizioni per farlo. Poi, se non me lo vendono, non è che mi sparo…”, conclude il giornalista.
Non è chiaro, però, se Feltri continuerebbe a dirigere anche Libero oppure no.
Musica, Radio Rai già si mobilita per rispettare la “quota tricolore”
Come al solito in Rai sono sempre più realisti del re. La politica fa un bisbiglio e in viale Mazzini subito si esegue. La proposta di legge della Lega (Alessandro Morelli) che obbligherebbe le radio nostrane a trasmettere una canzone italiana ogni tre (una quota tricolore della musica) non è ancora legge, ma in Rai già ci si organizza. Con una comunicazione interna spedita ai tre direttori di rete, il vicedirettore di Radiorai Michele Gulinucci ha chiesto di conoscere le percentuali di musica italiana trasmessa dalle radio di Via Asiago in vista di un incontro esplorativo con la Siae sul pdl di Morelli. In particolare, si legge nella mail, si chiede di segnalare entro oggi “la percentuale di musica italiana, riprodotta o dal vivo, trasmessa nell’ultimo trimestre 2018 o nel primo bimestre 2019 nell’arco delle 24 ore, tanto meglio se all’interno di tale quota è possibile esplicitare la componente artisti emergenti”.
Gulinucci spiega inoltre che “questo primo dato aggregato non sarà esibito, almeno per il momento, ma se il dibattito assumerà profili più formali potrebbe rendersi necessario un report analitico per fasce orarie”. Insomma, per il momento ci si prepara, se poi la legge andrà avanti la Rai sarà pronta a mostrare le percentuali già in onda di musica italiana e, se necessario, colmare il deficit. Nella comunicazione del vice di Roberto Sergio si tiene poi a precisare che “per produzione musicale italiana il testo di legge intende opera di autori e artisti italiani incisa e prodotta in Italia” e che tale definizione “potrebbe non comprendere generi diversi dalla musica leggera alla quale l’iniziativa sembra rivolgersi in via prioritaria”. Come a dire: probabilmente non dovremo stare a contare pure le opere di Verdi rispetto a quelle di Wagner.
Al momento la proposta di Morelli, ex direttore di Radio Padania, giace nella commissione Trasporti e Telecomunicazioni di Montecitorio di cui è presidente. Ma l’idea ha già avuto l’adesione entusiasta di Mogol che, oltre a essere il grande paroliere di Lucio Battisti, è anche presidente della Siae. Mentre il mondo della canzone si è diviso. Francesco De Gregori, per esempio, l’ha bocciata. In Rai, intanto, ci si organizza. Hai visto mai di farsi trovare impreparati dal Palazzo.
Sì al piano Salini: alla Lega il “controllo” di tutti i talk
Il piano industriale Rai di Fabrizio Salini passa, ma il cda di Viale Mazzini si spacca. Contro hanno votato Rita Borioni (in quota Pd) e il consigliere eletto dai dipendenti Riccardo Laganà. La prima ha contestato tutto l’impianto, puntando il dito sull’occupazione gialloverde della tv pubblica. Il secondo, invece, ha chiesto precise garanzie su “trasparenza, risorse economiche, criteri di nomina e valorizzazione delle risorse interne, a partire dalle sedi regionali” che non hanno avuto risposta. A favore, invece, si sono espressi Beatrice Coletti (M5S), Igor De Biasio (Lega), Giampaolo Rossi (FdI), più il presidente Marcello Foa e lo stesso Salini. La versione definitiva del piano (elaborato dall’ad con uno staff di una quindicina di persone) è il frutto delle trattative e delle limature degli ultimi giorni, dovute alle richieste di Foa, De Biasio e Rossi. Seduti a un tavolo, Salini e Foa hanno trovato la quadra di un progetto che rispecchia l’alleanza di governo tra M5S e Lega, con tutte le fibrillazioni del caso.
La rivoluzione sarà che in Rai si ragionerà per contenuti e non per reti. Rai1, Rai2, Rai3 e le altre non avranno direttori ma “channel manager” senza budget che dovranno stare sotto le nove direzioni di contenuto: intrattenimento day time, intrattenimento prime time, cultura, fiction, cinema e serie tv, documentari, format, kids, approfondimento news. Quest’ultima struttura, voluta da Foa e Rossi, avrà il compito di intervenire sui contenuti informativi delle trasmissioni di news, da Porta a porta a Popolo sovrano, da Fazio a Carta Bianca. Un posto di grande potere che andrà a una persona vicina alla Lega, così come richiesto da Matteo Salvini. Chissà se il leader leghista avrà usato i suoi emissari o l’avrà detto direttamente all’ad in un incontro rivelato da Repubblica e non smentito da Viale Mazzini.
Notizia che ha suscitato le reazioni dell’Usigrai e di diversi esponenti d’opposizione in Vigilanza. “Neanche nella Prima Repubblica accadevano cose del genere!”, ha tuonato il dem Michele Anzaldi. Altro posto strategico sarà il direttore di distribuzione, che dovrà decidere la giusta collocazione di ogni singolo programma. Arriva poi la differenziazione per genere, con un nuovo canale al femminile e Rai4 con programmi al maschile.
Altra novità sarà la newsroom unica che però, per mano di Foa, è stata parecchio ridimensionata e non toccherà il personale dei Tg. Sulla prima versione, infatti, si era scagliato il centrodestra: “Così si mette a rischio l’identità delle testate e il pluralismo dell’informazione”. Ad essere accorpate in un primo step saranno Rainews, Rainews.it, Tgr e Televideo. Il secondo passaggio sarà realizzare una newsroom che si occuperà di confezionare servizi su “notizie non rilevanti”, lasciando quelle “rilevanti” ai giornalisti del Tg, secondo il modello Mediaset.
Per il momento sparisce la resurrezione del direttore generale, che potrebbe tornare più avanti. Mentre va in porto il progetto di un canale istituzionale e soprattutto del canale in inglese, che finirà sotto RaiCom, la consociata che si occupa di commercializzare i prodotti Rai nel mondo di cui è ad Monica Maggioni e presidente lo stesso Foa. Un’asse Foa-Maggioni voluto dalla giornalista, che però ha scatenato le reazioni di Laganà e Borioni. Salini, infine, punta sulla razionalizzazione delle spese: 10 milioni si recupereranno da risparmi su appalti e artisti e 15 dal taglio dei manager. “Puntiamo a tornare in utile di 10 milioni nel 2021”, la previsione dell’ad.
Consob, Savona butta la palla in tribuna: “Per me tutto a posto”
La notizia,che circola da qualche giorno, non lo ha turbato e ne ha ben donde: l’Anac – dopo aver ricevuto un esposto – ha chiesto a Consob un parere sulla sua nomina a presidente, ma non ha trovato granché. E così Paolo Savona si presenta in audizione alla Camera (il Senato ha già votato a favore) tranquillo e persino baldanzoso: “Se la mia nomina è legittima, come mi è stato assicurato, sarò felice” di presiedere lAutorità sulla Borsa, “altrimenti non brigherò, come non ho mai brigato, per entrare in carica”. Le stesse parole dette a Palazzo Madama, cui aggiunge una postilla: “Anzi la tentazione è forte alla mia età di tornare a prendere il sole in Sardegna. Il mio curriculum dovrebbe dare una risposta sulla mia indipendenza”. Quanto al merito (Savona ha possibili profili di incompatibilità per le leggi Severino e Madia) “sono passati oltre 30 giorni dalla nomina e quindi governo e Parlamento hanno avuto tempo di consultare i propri legali: io non ho informazioni personali”. Quanto al conflitto di interessi per il fondo Euklid (di cui è stato presidente e di cui possiede circa il 5%), secondo Savona non esiste: “Il fondo ha cominciato a operare nell’agosto 2018 e mi sono dimesso prima di diventare ministro”.
Il ricorso del governatore contro il decreto Fisco
Il nuovo segretario del Pd, Nicola Zingaretti non molla la poltrona di governatore del Lazio. E non ha neppure intenzione di rinunciare all’incarico di commissario alla sanità regionale. Per questo ha deciso di rivolgersi alla Corte costituzionale contro il cosiddetto decreto Fisco che ha sancito l’incompatibilità per i presidenti delle Regioni in disavanzo di rivestire qualunque altro incarico istituzionale. Alla Consulta ha pure chiesto di sospendere nel frattempo la norma che consente a Palazzo Chigi di sostituirlo a brevissimo con un nuovo commissario “di comprovata professionalità nonché specifica esperienza di gestione sanitaria”, come promette la legge che tratteggia i requisiti di chi sarà incaricato di riportare i conti in ordine in tempi ragionevoli.
Già altri governatori hanno minacciato battaglia contro il tentativo di scippo da parte del governo. Per tutti si tratta di un disastro ereditato, ma nessuno a quanto pare vuole cedere la mano: il presidente del Molise Donato Toma oltre che alla Corte costituzionale si è rivolto pure al Tar. Vincenzo De Luca, tanto per cambiare, spariglia. Annusata l’aria di sostituzione ha gridato al complotto: “Lo scorso luglio, abbiamo presentato 5 anni di bilancio in attivo: non ci sono ragioni, se non di squadrismo politico, per tenere in piedi il commissariamento della Campania”. E Zingaretti non sta certo con le mani in mano e minaccia di fare della sanità una trincea, con buona pace del triplice ruolo che gli pesa ormai sulle spalle: governatore, commissario alla sanità e segretario di un partito in sala di rianimazione.
“Si è prevista l’automatica sostituzione dei Commissari/Presidenti regionali in carica, con ciò recidendo drasticamente il requisito di prossimità alla realtà regionale interessata. Il mantenimento in un organo regionale della funzione commissariale rispondeva infatti all’esigenza di conciliare gli interventi per un rapido ripiano del deficit di bilancio con gli strumenti strutturali di riorganizzazione complessiva del sistema dei servizi sanitari regionali”, denuncia Zingaretti nel suo ricorso. Il cui mandato da commissario alla sanità è iniziato il 21 marzo 2013: quasi sei anni che non sono bastati a ripianare il disavanzo. Anche se in realtà di anni non ne sono bastati 11 dal momento che la regione Lazio è in regime di emergenza dal luglio 2008.
Fatto sta che il governatore-segretario non ci sta a mollare l’osso: il buco non l’ha certo creato lui che in questi anni si è anzi prodigato sul rientro dal disavanzo che – dice – è quasi a portata di mano. E dunque tuona, nel ricorso, contro le norme che “appaiono gravemente elusive del principio di leale collaborazione, nonché a cascata, delle competenze legislative concorrenti in materiadi tutela della salute e coordinamento della finanza pubblica”. I motivi dell’illegittimità violerebbero, almeno a suo dire, una manciata di articoli della suprema Carta. Anzi un paio di manciate.
“Zinga” ricicla Zanda, il dittatore renziano dei canguri al Senato
Non è mai troppo tardi per una nuova vita. Democristiano, abituato al potere, alla Sardegna e poi Venezia e poi Roma, per passare da Francesco Cossiga a Nicola Zingaretti, attraverso infiniti passaggi: Carlo De Benedetti, Lottomatica, Rai, Matteo Renzi e Dario Franceschini. Luigi Zanda Loy, 76 anni, cinque legislature sulle spalle, prende ora il posto di Francesco Bonifazi come tesoriere del Pd, appena nominato dalla nuova segreteria dopo che con la vecchia, nella scorsa legislatura, era diventato capogruppo al Senato dei dem.
E fu compito ingrato, allineato con la frenesia renziana pronta a tutto per portare a casa riforme elettorali, civili, costituzionali senza temere l’uso di forzature in aula. In cinque anni i voti di fiducia sono stati 108: 10 con Enrico Letta, 66 con Renzi, 32 con Gentiloni, in aumento rispetto ai 96 dei governi Berlusconi e Monti, ai 42 del biennio Prodi e ai 65 della XIV legislatura, ancora a guida Berlusconi. Braccio armato del decisionismo renzista – più per pragmatismo che per convinta adesione personale, sussurrano in tanti –, è anche tramite Zanda che le cronache politiche si sono riempite di canguri, tagliole e ghigliottine. Le opposizioni chiedono tempo sulla riforma del Senato? “Ritirino gli emendamenti, altrimenti procederemo con la cosiddetta tagliola”, luglio 2014, mese 6 del governo Renzi. Tradotto: a ciascun gruppo si assegna un certo tempo per gli interventi; sforato quello, i parlamentari del gruppo non possono più parlare, ma soltanto votare. Bisogna sveltire i tempi per l’Italicum? Via in un lampo 35 mila emendamenti grazie al “super-canguro”, che accorpa in un unico voto proposte di modifica simili.
Non sono ammessi ritardi, le discussioni – persino quelle interne – sono ridotte all’osso. Sulla legge Cirinnà, che introduce le unioni civili, anno 2016, altro tentato canguro che questa volta porta a uno scontro in parte pubblico con Pietro Grasso, presidente del Senato ancora iscritto al Pd, reo di essersi opposto alla forzatura. “Non sempre condivido le sue decisioni e la sua conduzione d’aula”, dirà poi Zanda, utilizzando l’eufemismo per fotografare un rapporto parlamentare tormentato con l’ex presidente e culminato con l’addio di Grasso ai dem. Sono i giorni dei dissidi con la minoranza del Pd, sempre più in contrasto sia con la linea politica sia con i metodi utilizzati dal partito.
Liti che riemergono anche a fine 2017, quando la legislatura è ormai all’ultimo rettilineo ma la maggioranza approva insieme al centrodestra il Rosatellum bis. Cinque voti di fiducia al Senato per rimediare – si fa per dire – a quelli posti appena due anni prima sull’Italicum, stroncato dalla Corte Costituzionale e mai più corretto se non a ridosso delle elezioni: “La fiducia è necessaria, altrimenti non so se il governo avrebbe retto”, dirà Zanda mentre M5S e sinistra occupano l’aula e espongono cartelli di ogni tipo.
Di rancori personali, però, non ne restano. Cresciuto all’ombra di Cossiga, di cui fu portavoce al Viminale durante il rapimento di Aldo Moro – “giorni terribili: al ministro vennero i capelli bianchi, a me impazzì la pressione” – quando ancora compariva in pubblico col secondo cognome (il papà Efisio Zanda Loy fu capo della Polizia negli anni settanta), Zanda ha imparato che in politica il tempismo è tutto. Candidato dopo vent’anni da manager – L’Espresso, Consorzio Venezia Nuova, Lottomatica, il Giubileo, la tv pubblica – è entrato in Parlamento nel 2003 grazie a elezioni suppletive in cui era l’unico concorrente: 100 per cento delle preferenze, affluenza al 6 per cento. A suo modo, un record irripetibile. Chiusa l’epoca di Rutelli ha lasciato in tempo la nave renziana, ponendosi adesso come punto di riferimento – visti l’età e il curriculum – per i senatori dem non allineati dietro l’ex premier. Ora, nel nuovo corso di Zingaretti cui partecipa – dicono – in quota Franceschini, Zanda parla di Pier Luigi Bersani come di “un amico”, assicura di essere “inclusivo per natura e per predisposizione politica”. lasciando intendere ai fuoriusciti che gli screzi, i colpi di fiducia e le bagarre in aula sono acqua passata e il dialogo è più che mai possibile.
Soltanto con loro, però, e non certo con il Movimento 5 Stelle, cui Zanda ha di recente sbarrato la strada dopo che già lo scorso anno, a urne chiuse, aveva escluso ipotesi di governo con i grillini: “Siamo troppo diversi, non è possibile trattare”. Ma magari anche in questo caso sarà solo questione di tempo. E del solito tempismo.
Giovanardi-Aemilia: per la Consulta serve l’autorizzazione
La Cortecostituzionale regala tempo a Carlo Giovanardi: i magistrati che gli contestano di aver fatto pressioni su funzionari della prefettura di Modena per salvare dall’interdittiva antimafia una società di costruzioni attiva nella ricostruzione del terremoto del 2012, dovranno richiedere l’autorizzazione alla Camera per utilizzare i tabulati telefonici di utenze intestate a terzi coinvolti nell’inchiesta della DIA di Bologna: per la Consulta sono coperti dallo scudo dell’articolo 68 della Costituzione a tutela della funzione dei parlamentari.
Per quasi due anni la sua posizione giudiziaria è rimasta congelata in attesa della decisione. Giovanardi è indagato per minaccia a corpo politico, amministrativo e giudiziario dello Stato, minaccia a pubblico ufficiale, rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, con l’aggravante mafiosa.
Il titolare dell’azienda per cui si sarebbe speso, è stato condannato insieme a uno dei referenti della cosca di Cutro, nell’ambito del processo Aemilia.