Ferrero (SE): “No ai listoni, sì a una sinistra dei movimenti”

Paolo Ferrero è il vicepresidente del partito della Sinistra Europea ed ex segretario di Rifondazione comunista.

Come giudica l’elezione alla segreteria del Pd di Nicola Zingaretti con primarie che, a vedere i numeri, sono state un successo?

Il primo atto che Zingaretti ha fatto da segretario è stato correre a Torino a rassicurare Confindustria e il partito degli affari sul Tav. Tra le tante cose che poteva fare, come incontrare dei lavoratori in difficoltà, ha scelto questa, dimostrando di essere sulla stessa linea di chi l’ha preceduto. C’è invece una mobilitazione popolare che chiede un cambiamento, come si è visto nella piazza antirazzista di Milano o alla manifestazione unitaria dei sindacati a Roma.

Mdp, LeU e altri guardano a Zingaretti come interlocutore per un’alleanza futura. Lei?

Come partito della Sinistra europea stiamo lavorando per costruire una lista popolare, di sinistra e ambientalista, alternativa al Pd e socialisti. Vogliamo essere la casa dei movimenti, da Sinistra italiana a De Magistris, da Potere al popolo al movimento di Varoufakis. Per mettere in campo delle azioni che dicano no al razzismo e alle politiche liberiste che hanno peggiorato le condizioni di vita dei lavoratori.

È partito il reddito di cittadinanza. Se fosse in Parlamento, come voterebbe?

Un reddito di cittadinanza è sacrosanto, perché lo Stato o ti mette nelle condizioni di trovare un lavoro oppure deve darti un sussidio per vivere in maniera dignitosa. Così com’è, però, non mi piace, perché al suo interno contiene una forma di controllo sociale. Se fossi in Parlamento, lavorerei per migliorarlo e, nel caso, voterei sì. I 5Stelle hanno rappresentato una speranza, nata dal fallimento del centrosinistra. Il problema è che a loro volta hanno fallito, perché alle promesse non sono seguiti i fatti.

Calenda batte cassa: chiede il Tfr (che non ha pagato)

“Ho iniziato il governo con 850 mila euro di patrimonio personale, oggi ne ho 200 mila”. Povero Carlo Calenda. Povero, non esageriamo: gli resta sempre un bel gruzzoletto. Ma la politica ha prosciugato il suo conto in banca, almeno così dice. Sarà per questo, forse, che poco prima di lasciare il ministero dello Sviluppo aveva fatto domanda per l’assegno di fine mandato: circa 40 mila euro per una legislatura, che però la legge non prevede per i ministri non parlamentari e per cui lui non aveva versato un centesimo. Infatti la Ragioneria dello Stato gliel’ha rifiutato.

Predecessore di Di Maio al Mise (con cui non perde occasione di battibeccare), da circa un anno anche iscritto al Partito democratico senza troppa fortuna, fra inviti a cena mancati e polemiche continue, Carlo Calenda ha sempre fatto della trasparenza una crociata personale. Criticando duramente gli avversari, come di recente Paolo Savona, additato per aver fatto comprare al suo ministero degli Affari Europei svariate copie del suo ultimo libro (“una cosa indegna e anche piuttosto miserabile”, il suo commento). E rivendicando invece il proprio stile. “Sono un uomo pubblico, non ci sono segreti relativi a reddito e patrimonio”, tuonava perentorio giusto qualche giorno fa su Twitter. Sui social network l’ex ministro risponde ed elargisce informazioni sulla sua situazione economica, scendendo anche più nei dettagli rispetto al suo ultimo 730 pubblicato l’anno scorso sul sito del ministero, in cui dichiarava 102.786 euro. Spiega che durante il suo mandato ha guadagnato circa 7 mila euro al mese. Aggiunge con un pizzico di autocommisserazione che non ha neppure preso il Tfr. Tutto vero. Con una piccola omissione: il Tfr aveva provato a prenderlo, nonostante non ne avesse diritto.

Siamo ad aprile 2018, un mese dopo le elezioni politiche, in piene consultazioni per la formazione del nuovo governo: nei vari ministeri i rappresentanti del vecchio esecutivo Gentiloni cominciano a fare gli scatoloni. E dal Mise parte una strana richiesta, che quando è arrivata a via XX settembre lascia di stucco i tecnici della Ragioneria: Calenda chiede la “corresponsione” dell’indennità di fine mandato per le cariche da lui ricoperte al dicastero. Prima sottosegretario e viceministro dei governi Letta e Renzi da maggio 2013 a marzo 2016, quindi una brevissima parentesi di un paio di mesi a Bruxelles come rappresentante permanente Ue dell’Italia, per poi tornare a Roma, stavolta proprio come ministro, di nuovo per Renzi e infine per Gentiloni.

Praticamente l’intero arco della legislatura. Secondo la normativa di riferimento, il Tfr viene calcolato sulla base dell’indennità parlamentare: per ogni anno di mandato, si ha diritto all’80% del lordo mensile che ammonta a 10.435 euro. Sono circa 9.400 euro: così al termine di una legislatura l’assegno arriva poco sopra i 40 mila euro.

È più o meno la cifra che avrebbe voluto Calenda. C’è un problema, però: lui era un ministro non parlamentare, per cui l’ordinamento non prevede il Tfr. I membri del governo extraparlamentari prendono un’indennità, circa 9.500 euro lordi al mese. Dal 2000 è stata estesa anche a loro la diaria parlamentare (altri 3.500 euro netti), come rimborso delle spese sostenute nella Capitale. Non c’è però l’assegno di fine mandato. Anche perché loro non versano nulla, a differenza dei parlamentari a cui ogni mese viene trattenuta una quota dell’indennità (784 euro per i deputati, 699 per i senatori), come contributo per il trattamento di fine rapporto. Ed è proprio quello che gli ha risposto la Ragioneria dello Stato: per legge il Tfr non gli spetta. Non solo: riconoscerglielo avrebbe significato creare un onere per lo Stato sprovvisto di copertura, visto che lui non ha mai lasciato un centesimo della sua indennità nell’apposito fondo.

La richiesta è stata così archiviata nel giro di un paio di mesi. Resta una domanda: come mai un ministro preparato come Calenda batteva cassa per un emolumento a cui non aveva diritto? Contattato dal Fatto, il diretto interessato ha preferito non rispondere. Magari non conosceva la legge. O forse ci ha provato ugualmente. Come si dice: tentar non costa, specie se sono soldi dello Stato.

Il Gip archivia l’ex di Giulia Sarti (M5S): “Denuncia infondata”

Benedetta Vitolo, gip a Rimini, ha deciso, accogliendo la richiesta del pm, di archiviare l’indagine per appropriazione indebita nei confronti di Andrea Bogdan Tibusche, accusato dalla deputata 5Stelle Giulia Sarti, sua ex fidanzata, di aver sottratto denaro dal suo conto. La cosa venne innescata dalla scoperta che Sarti non aveva versato al fondo per il microcredito lo stipendio “eccedente” secondo le regole M5S, circostanza di cui lei incolpò appunto l’ex fidanzato. Scrive la Gip: “La querelante ha sempre avuto modo di controllare il proprio conto corrente”, quindi “implicitamente ha autorizzato le operazioni fatte” da Tibusche in possesso uti dominus (come ne fosse il proprietario) del token bancario. Il rapporto “fiduciario” tra i due esclude, insomma, l’appropriazione indebita e la denuncia di Sarti è da ritenersi “infondata e tale infondatezza va rilevata nella chat” con cui lei stessa avvisa l’ex compagno (“ti devo denunciare”). Tibusche “promette” nuove puntate: “Non finisce così”. Sarti ha scritto su Facebook: “Se il M5S, dopo aver letto le memorie e i riscontri con le evidenze bancarie che invierò, riterrà di dovermi espellere senza motivo, informerò tutti di quale sarà la mia decisione”.

Cari Gufi, buon lavoro a tutti voi

Oggi è il 6 marzo 2019, il mio pensiero, e il mio augurio di un buon lavoro, vanno ai gufi di tutto il Paese. Oggi, infatti, ha inizio una storia davvero sorprendente: il governo dei ragazzi della porta accanto, e con il gorilla sulle spalle, è riuscito ad avviare la prima forma possibile di diritto al reddito collegato al fatto stesso di essere cittadini. Si tratta soltanto del primo passo, eppure stormi di gufi hanno già la bava alla bocca. Passano compulsivamente dalla denuncia di un “provvedimento assistenzialista” a quella diametralmente opposta: ci avevano già pensato loro. Eppure il gufo viene considerato simbolo di saggezza; resta da chiedersi la ragione di tanto accanimento gufatico.

Addentriamoci nel bosco dei gufi e cerchiamo di analizzarli: non è credibile l’ipotesi di una gufaggine legata all’invidia, sanno bene che interessarsi agli ultimi non porta mai vantaggi in termini elettorali oppure di popolarità. Si tratta di una rosicheria più preoccupante e oscura: i frou frou, infatti, credono di avere eletto qualcuno alla segreteria pidina.

Nel loro immaginario sono di nuovo al governo in una specie di delirio di massa. All’insegna del tutto fa brodo si comportano come professionisti allo sbaraglio, sono gli stessi mandanti delle primarie a capeggiarli: Rumino Bersani, Calenda Calenda e il Menomato Morale*. Sono individui il cui coefficiente di incompatibilità vale, almeno ascoltandoli, oltre 10 o 20 DI-SA (la DI-SA è la differenza fra DI Maio e Salvini, assunta come l’unità di misura universale della differenza fra uomini politici).

Ovviamente ha vinto Zingaretti, che tutti i pidini hanno voluto allo spasimo, dimenticando che non potrà mai coprire l’arco completo dagli ultraliberisti sino ai comunisti di petto! Presto farà ambarabà ci-ci coco e si libererà di una frangia del popolo frou frou, sarà dura.

Ecco spiegata l’origine del gufamento: “Ma come è possibile… un governo di gente così diversa e incapace è riuscito a fare una cosa del genere mentre noi, i professionisti allo sbaraglio, siamo ancora alle prese con il liberismo estremo che non si accoppia con il comunismo?”.

Sennò, perché gufare? Aiutare la frazione più sfortunata del nostro popolo a riprendere in mano le proprie vite – lo sappiamo tutti – riguarda comunque una minoranza elettoralmente poco significativa. Sono convinto che gufare vi terrà ancora un po’ uniti e rassicurati, quindi e di nuovo: auguri gufi di tutta Italia: oggi è la vostra giornata!

*l’uomo che usa i domiciliari dei genitori come pretesto per criticare il torbido autosalvataggio governativo dall’affare Diciotti

Striscioni, assenze e il Sì grillino a “una cosa di centrodestra”

Quando li vede nel cortile di Montecitorio mettersi in posa con il cartello “La difesa è sempre legittima”, la vicepresidente della Camera in quota Cinque Stelle, Maria Edera Spadoni, fraternizza senza enfasi con i colleghi leghisti: “Sono felici, è come noi con l’anticorruzione”. Eccola, la sintesi del governo gialloverde: quand’è contento uno, l’altro al massimo stiracchia un sorriso. Dieci minuti prima, l’aula ha dato il via libera a un’altra delle leggi-bandiera di Matteo Salvini. Non è il sì definitivo, dovrà tornare al Senato per una correzione sulle coperture, ma è come se lo fosse. E anche stavolta, come per il decreto Sicurezza, poco hanno inciso le perplessità grilline. Tanto che, nel Movimento, la terapia di autoconsolazione si fonda sul confronto con la legge oggi in vigore: “Non è cambiato poi granché, è solo una campagna mediatica di Salvini”.

Alla fine, 25 deputati Cinque Stelle non si presentano all’appuntamento: ma solo una decina, secondo i calcoli, sarebbero quelli che hanno voluto dare un segnale politico, gli stessi che martedì scorso hanno disertato il voto sulle pregiudiziali di costituzionalità. Tra loro c’è certamente Gloria Vizzini che, come aveva annunciato al Fatto due settimane fa, non ha partecipato al voto; c’è Doriana Sarli che ha spiegato a Repubblica le sue ragioni (“Si dà un messaggio dannoso”) e Rina De Lorenzo, autrice del dossier di 10 pagine sul rischio Far West, rimasto inascoltato. Ieri la De Lorenzo non ha parlato: si è limitata a postare su Facebook le ultime parole di Luigi Di Maio sul tema: “È una legge della Lega – ha detto a Rtl – non ci entusiasma, ma noi siamo leali”.

Quasi tutto il gruppo, alla fine, ha seguito le sue indicazioni. E una ventina di deputati, al momento dell’approvazione, si è perfino lasciata andare ai festeggiamenti, con applausi e abbracci, tra gli sfottò dei banchi del Pd che, immemori della fallita riforma targata Ermini, li bollano come “l’appendice di governo della destra”.

A presiedere l’Aula, in quel momento, c’è Roberto Fico: è arrivato una mezz’ora dopo l’inizio delle dichiarazioni di voto, lasciando presagire che anche stavolta, come per il decreto Sicurezza, avrebbe evitato di dirigere i lavori nel giorno in cui si approva una legge che non condivide. Invece è lì, e ha solo un sussulto, peraltro regolamentare, quando i deputati di Forza Italia sguainano una decina di striscioni con una frase di una violenza inversamente proporzionale alla sua banalità: “Finalmente una cosa di centrodestra”. È il messaggio, neanche tanto in codice, al loro alleato elettorale, quel Matteo Salvini che sta a Palazzo Chigi con i nemici. Gli votano la legge, seppur “poco coraggiosa”, e Mariastella Gelmini gli ricorda che “si può fare di meglio” se si decide a mollare Luigi Di Maio e seguire l’onda “di tutte le competizioni elettorali dopo il 4 marzo”.

Sui banchi del governo ci sono solo i ministri della Lega, ma senza Salvini. Per il Carroccio parla Flavio Di Muro e dice in estrema sintesi che la riforma serve perché “non possiamo mettere un poliziotto in ogni casa”. Per motivare il loro sì, i Cinque Stelle hanno scelto il deputato Gianfranco Di Sarno, di professione avvocato: “La voce del popolo merita di essere valutata e discussa”, dice appellandosi alla “grande sensibilità” sul tema che si respira “nelle case degli italiani”. Ma rassicura pure quelli meno “sensibili”: “Nessuna legittimazione a uccidere, le norme sul possesso delle armi restano stringenti, la sicurezza dei cittadini resta una prerogativa dello Stato”. Applausi e pacche sulle spalle dei colleghi. Matteo Dall’Osso, già grillino ora forzista, si avvia verso la porta: “Io, io – scandisce rivolto agli ex colleghi M5S – non sono cambiato e ringrazio Forza Italia che mi lascia libero di uscire dall’aula. Vi invito a fare come me”. Il tabellone s’illumina di verde: approvata.

Ocse taglia le stime sul Pil per l’Eurozona Italia a -0,2% da +0,9%

Rallenta tutta l’eurozona, con l’Italia che però finisce in territorio negativo, al -0,2%. Dopo la recessione tecnica della seconda parte del 2018, confermata l’altro ieri dall’Istat – seppure con un lieve miglioramento dei numeri sul quarto trimestre – è l’Ocse la prima grande istituzione a tagliare la proiezione sul 2019 italiano con la previsione di crescita abbassata di 1,1 punti percentuali rispetto al precedente outlook di novembre. Mentre per l’Ocse il Pil italiano tornerà di segno positivo, 0,5%, nel 2020. Il 0,2% è un dato lontano dall’1% previsto dal governo a dicembre al quale reagisce il premier Giuseppe Conte: “Siamo consapevoli della congiuntura economica sfavorevole, dobbiamo puntare su export e sostegno a domanda interna”. L’Italia segue il trend di tutta l’area euro: l’Ocse ha tagliato di 0,8 punti anche le stime di crescita dell’eurozona che ora è prevista all’1% nel 2019 e dell’1,2% nel 2020. Il Pil mondiale dovrebbe invece attestarsi al 3,3% nel 2019 (-0,2 rispetto alle precedenti stime) e del 3,4% nel 2020 (-0,1). L’incertezza politica, le tensioni commerciali e un’ulteriore erosione della fiducia dei consumatori sono tra le cause che contribuiscono al rallentamento della crescita al livello globale.

Processo Eni a Milano, la società non pagherà il viaggio ai testimoni

L’avvocato Nerio Diodà, legale dell’Eni al processo di Milano sulle presunte tangenti in Nigeria per il giacimento Opl 245, inizia l’udienza citando il Fatto Quotidiano, che ieri aveva scritto che la compagnia petrolifera aveva proposto di pagare le spese di viaggio, dalla Nigeria all’Italia, ai testimoni convocati a Milano. Per l’Eni era un modo “generoso” di ovviare alle faticose videoconferenze dalla Nigeria tenute finora, con collegamenti difficili e connessioni incerte. Visto il problema sollevato dal Fatto, annuncia Diodà, il comitato etico dell’Eni ha deciso che per la compagnia petrolifera non è opportuno anticipare i soldi del viaggio a Milano del teste Ernest Olufemi Akinmade, ex dipendente di Agip Nigeria (controllata Eni), la cui testimonianza in aula era prevista per la prossima udienza. Il presidente del Tribunale ha preso atto della decisione della compagnia. Il pubblico ministero, Fabio De Pasquale, si era già vigorosamente opposto all’offerta dell’Eni di anticipare loro le spese di viaggio, sostenendo di ritenere “improprio che sia l’imputato a pagare il trasferimento dei testimoni”.

Fondi spesi, traffici, “penali” lo scontro al tavolo sui dati

Dopo mesi di baruffe, con un’acrobazia politica, alla fine, lo scontro finale sul Tav si apre e si chiude sull’analisi costi-benefici, affidata dal ministro Danilo Toninelli agli esperti guidati dall’economista Marco Ponti, bersagliata per mesi dalla propaganda Sì Tav fatta propria dalla Lega (“carta straccia”, “dati falsi”, “manipolata”). Per quegli strani giri della malafede, ai pasdaran dell’opera è riuscito il gioco di rovesciare su Ponti e colleghi l’onere della prova sull’utilità dell’opera. L’analisi è stata stroncata da un coro bipartisan – con l’eccezione dei soli 5Stelle e di LeU – che ha schierato una potenza di fuoco incredibile, dalla grande stampa ai rivali accademici di Ponti: i suoi colleghi sono prevenuti, la metodologia è “una truffa”, i dati sono “sottostimati” e via dicendo. Senza mai fornire argomenti decisivi per smontare il dossier. Ecco i nodi.

I costi. L’ultima tesi, ribadita ieri sera da Matteo Salvini, è che “il Tav costa di più farlo che non farlo”. Ma i dati non lo confermano. Il dossier di Ponti & C. quantifica costi superiori ai benefici (circa 800 milioni, di fatto inesistenti) per 7 miliardi. Anche considerando i costi per ripristinare i luoghi e ammodernare il vecchio Fréjus, il risultato resta negativo per 5,7 miliardi. La Lega, usando i dati di Telt, il promotore italo-francese dell’opera, parla di 4,2 miliardi di costi dallo stop dell’opera, tra spese già effettuate – 1,4 miliardi – costi di ripristino dei cantieri, rimborsi per i contratti già firmati, perdite finanziarie e “penali”. Secondo l’analisi tecnico-giuridica del ministero delle Infrastrutture, però, il conto, nell’ipotesi peggiore – considerata “difficilmente raggiungibile” – non supera 1,7 miliardi. Anche sommando l’ammodernamento del Fréjus non si va oltre i 3,2 miliardi. A fronte di costi totali per 12 miliardi, di cui 5 a carico dell’Italia. Pur considerando i soli costi italiani, come effettuato nel supplemento di analisi chiesto da Toninelli, il dossier resta negativo per 2,5 miliardi. La proposta della Lega è di eliminare la tratta nazionale al tunnel (costo 1,7 miliardi), ma non cambia il segno dell’analisi: diminuiscono i costi ma anche i benefici.

Accise. La Lega, riprendendo il refrain caro all’ex commissario di governo per il Tav, Paolo Foietta, ha contestato la decisione di inserire come costi le mancate accise per lo Stato pagate dai mezzi le cui merci si trasferiranno sulla ferrovia. Eppure è lo stesso metodo usato da Foietta per stilare l’ultima analisi-costi benefici del 2011, dove le previsioni erano assai più levati (la perdita fiscale superava i 7 miliardi) grazie a stime dei traffici astronomiche. È una metodologia standard internazionale e risponde alla logica economica in un Paese dove il traffico su gomma è pesantemente tassato. Accanto alle mancate accise, la relazione quantifica anche i benefici per gli utenti che effettuano il “cambio modale” dalla strada alla ferrovia e quelli ambientali, che però, sono molto bassi. Parliamo di 500-800 mila tonnellate annue di Co2 in meno, quando il solo traffico di Roma ne genera 4,5 milioni.

Traffici. Altra accusa: la relazione sottostima le previsioni dei traffici che la nuova opera attirerebbe. Problema: l’autostrada del Fréjus, che dovrebbe decongestionare, è la meno trafficata d’Italia (2.154 mezzi pesanti al giorno). Nella relazione, poi, Ponti e colleghi nello scenario “ottimistico” partono proprio dai dati stellari di Foietta del 2011: un tasso di crescita dei flussi del 2,5% annuo; con il Tav che acquisirebbe un flusso pari al 18% di quanto oggi transita via Svizzera (Sempione e Gottardo), al 30% dei flussi stradali che transitano al confine di Ventimiglia – distante 200 chilometri – al 55% di quelli del traforo del Fréjus e al 40% di quelli del Monte Bianco. Dati 25 volte superiori ai flussi odierni del vecchio Fréjus.

I fondi Ue. Ieri l’Ansa ha fatto spere che in caso di no al Tav, l’Ue è pronta a inviare una lettera per spiegare all’Italia che la cosa “comporterà la violazione di due regolamenti Ue del 2013 e la perdita di circa 800 milioni di cui 300 milioni entro marzo”. Al netto di considerare fondi non spesi da restituire come una perdita per l’Italia, secondo l’analisi tecnico-giuridica, finora ne sono stati versati dall’Ue solo 131 milioni. Gli unici effettivamente da restituire in caso di stop all’opera.

“Quale buco? I lavori per la linea esistente costano di meno”

Se fermano il grande buco nella montagna, c’è un’alternativa? “Sì”, risponde Alberto Poggio, membro della Commissione tecnica Torino-Lione, il gruppo di specialisti incaricato di supportare il Comune di Torino e i Comuni della Valle di Susa. “La linea esistente del Frejus è già più che sufficiente a trasportare le merci che viaggiano tra l’Italia e la Francia, che sono in calo dal 1997 a oggi”.

Sono però necessari dei lavori di miglioramento, o una nuova galleria del Frejus, come proposto dal sindaco di Venaus?

Nuovi lavori sarebbero irrinunciabili comunque, anche se si facesse il tunnel di base, perché questo sarebbe pronto, se va bene, tra 15 anni. E sono lavori che costano venti volte meno del tunnel e si possono completare in pochi anni. Sulla nuova galleria proposta, sono necessari approfondimenti tecnici.

Che lavori sono necessari?

Gli standard di sicurezza e di funzionalità della linea esistente sono già garantiti. Del resto, ci sono in Italia un migliaio di chilometri di gallerie con caratteristiche simili al Frejus. Si può e si deve migliorarli: soprattutto aumentando la facilità di evacuazione dei passeggeri in caso di incidente, realizzando uscite intermedie e gallerie di sicurezza.

La galleria esistente, dicono i fautori del Tav, non ha una sagoma sufficiente a far passare le merci.

Non è vero. La sagoma è già stata allargata e portata allo standard B+ che permette il transito, anche contemporaneamente nei due sensi di marcia, dei più grandi tra i container esistenti. Semmai il problema riguarda le gallerie tra Genova e Torino, che sono troppo strette.

Non possono passare però i “modalohr”, cioè i camion caricati sui treni.

Possono passare, ma non contemporaneamente nei due sensi di marcia, perché nel tratto francese hanno risparmiato sui lavori di adeguamento della sagoma del tunnel. È comunque una modalità di trasporto marginale, non conveniente, che già oggi Italia e Francia sovvenzionano pagando il 67 per cento dei costi, ma senza riuscire a riempire i treni.

Un prefetto francese ha stabilito che nella galleria non possono passare contemporaneamente passeggeri e merci.

Una valutazione della sicurezza è ancora in corso. È una galleria a canna unica come lo sono anche i tunnel della Bologna-Firenze dove pure s’incrociano a 300 all’ora i treni dell’Alta velocità.

La linea esistente ha forti pendenze, sale fino a quota 1.300 metri, mentre il tunnel di base non supera i 600 metri.

I problemi di pendenza si possono superare utilizzando due o tre locomotori. Lo fanno normalmente gli svizzeri sulle loro linee. E comunque i treni merci stanno diventando più leggeri: trasportano sempre meno lamiere, carbone, cereali, oggi i beni trasportati hanno più volume e meno peso.

La linea esistente permette però il passaggio di treni meno lunghi.

Lo standard europeo di lunghezza è di 750 metri. Non è soddisfatto dalle linee esistenti, ma si può raggiungerlo facilmente costruendo (o allungando) i necessari binari di stazionamento per rendere possibili i sorpassi.

Il tunnel di base farebbe passare anche i passeggeri sul Tgv, riducendo i tempi di viaggio tra Torino e Lione, dunque anche tra Milano e Parigi.

Guardi un orario ferroviario: vedrà che il Tgv parte da Milano e poi ferma a Novara, Vercelli, Torino, Oulx, Bardonecchia, Modane, Saint-Jean-de-Maurienne, Chambéry, Aix-les-Bains e infine Lione. Ci mette 3 ore e 44 minuti da Torino a Lione, 2 ore e 53 quando fa meno fermate. In 5 ore e 40 minuti porta da Torino a Parigi. Se volessero ridurre il tempo, basterebbe eliminare gran parte delle fermate, come fa il Frecciarossa tra Milano e Salerno. La verità è che non le vogliono ridurre, le fermate, perché questo Tgv serve ai parigini per andare a sciare sulle Alpi. Se ci fosse il tunnel di base, non lo prenderebbero perché il tunnel taglierebbe fuori tutte le località sciistiche. Nel tratto italiano, il Tgv non fa neppure la linea ad alta velocità che già c’è, la Milano-Torino, perché preferisce la linea normale, che ha un canone molto più basso, e permette di fare le fermate di Novara e Vercelli, che portano passeggeri e fanno vendere biglietti. Insomma: non ha alcun senso spendere 9,6 miliardi per un tunnel che tra 15 anni farà passare merci che già ora possono viaggiare sulla linea esistente, e passeggeri che tra Torino e Lione guadagnerebbero mezz’ora di tempo.

Tav, Salvini arruola l’Ue e schiera il bancarottiere

Più che un vertice ristretto, è un rassemblement, in cui i leghisti si presentano in massa per alzare la pressione. La riunione a oltranza per decidere le sorti del Tav (e del governo gialloverde) inizia in anticipo, alle 19.30. Era previsto ci fossero il premier Giuseppe Conte, i due vice Luigi Di Maio e Matteo Salvini, oltre al ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, i tecnici che si sono occupati dell’analisi costi-Benefici insieme agli esperti chiamati dal campo leghista. La delegazione del Carroccio, però, all’ultimo minuto si ingrossa: a Chigi si presentano anche il vice ministro Edoardo Rixi e il sottosegretario Armando Siri, l’ideatore della Flat Tax leghista che quattro anni fa ha patteggiato 1 anno e 8 mesi per bancarotta fraudolenta, dirottato a Porta Pia senza nessuna esperienza nel settore.

La riunione va avanti fino a notte fonda. Mentre andiamo in stampa, la mediazione non è stata trovata. La scadenza è fissata per venerdì, visto che lunedì il cda di Telt, il promotore italo-francese dell’opera, dovrà decidere se approvare i bandi per l’intera tratta francese del tunnel (2,3 miliardi). M5S si presenta compatto, (con Di Maio ci sono anche il capogruppo 5Stelle al Senato, Stefano Patuanelli, e il presidente della Commissione Lavori pubblici, Mauro Coltorti) deciso a fermare l’opera e a puntare, come arma di scambio, a un potenziamento della vecchia linea del Frejus proposta dal sindaco di Venaus e sostenuta dai No Tav. La lega resta ferma sul diktat: il Tav va fatto a ogni costo. “Non ci sarà un forse”, avvisa Salvini entrando. Come sempre, per le decisioni in grado di spaccare la maggioranza, i due alleati scaricano il peso della decisione sul premier.

A inizio riunione, il capo della Direzione generale per le infrastrutture ferroviarie del Mit, Luigi Navone, illustra il progetto. Poi, il confronto serrato sull’analisi costi-benefici, con i leghisti pronti a stroncarla. Al tavolo, il project manager della task force che ha curato il dossier, Francesco Ramella, e uno dei commissari del team, Paolo Beria. Dall’altra parte Rixi schiera il fedelissimo nominato nella struttura tecnica di missione del ministero, Francesco Parola, docente di Economia dei Trasporti all’università di Genova e un Coup de théâtre: Pierluigi Coppola, l’ingegnere napoletano – l’unico tra i tecnici chiamati dal ministero già ai tempi di Graziano Delrio – che non ha firmato l’analisi costi-benefici. La notizia è bastata a far parlare di “commissione spaccata”, anche se Coppola non ha mai lavorato al dossier, salvo contestarne il risultato con una nota di 6 pagine (l’analisi di Ponti e compagnia è di 79 pagine) finita sui giornali arricchita di dati che l’esperto non aveva citato.

Il governo si è dato 24 ore per decidere. Altrimenti lunedì il cda di Telt darà il via ai bandi. L’ipotesi di farli partire e prendere altro tempo resta sul tavolo ma, per ora, viene scartata. Il Mit non sa come fermarli, ma li considera comunque revocabili entro sei mesi anche se questo aprirebbe il fianco al rischio di contenziosi. Il Tesoro ritiene che non possano essere fermati, senza il rischio di contestazioni per danno erariale visto che si perderebbero i finanziamenti Ue. Posizione sostenuta dal ministro Giovanni Tria, che ha fatto infuriare ancora di più i 5Stelle dopo le uscite pro-tav dei giorni scorsi. La pressione è alle stelle.

Ieri Bruxelles è entrata in campo con una mossa senza precedenti per condizionare il vertice: ha fatto filtrare un colloquio avvenuto sul Tav tra il vicepresidente Jyrki Katainen e Salvini (senza spiegare a che titolo si consulti il vicepremier senza alcuna delega in materia) e di essere pronta a spedire una lettera per avvisare che, in caso di no all’opera, Roma perderà 800 milioni di fondi, 300 già da marzo. Soldi, però, già a rischio visto che secondo il cronoprogramma andavano spesi entro il 2019.