Il treno di spade

Quando c’era da decidere sul gasdotto Tap, i 5Stelle erano contro e la Lega era pro: Conte fece il presidente del Consiglio e, in base all’analisi giuridica sui costi-benefici, decise che ormai i rischi di pagare i risarcimenti previsti dal trattato internazionale erano troppo alti. E decise il sì, per la gioia di Salvini e la figuraccia di Di Maio, Di Battista&C. che avevano promesso l’opposto. I 5Stelle, per disciplina di governo, ingoiarono il rospo e tutti i pesci in faccia made in Salento. Ora la scena si ripete sul Tav: M5S contro e Lega pro. E Conte rifà il presidente del Consiglio, analisi costi-benefici economica e giuridica alla mano: convoca i due litiganti con i rispettivi tecnici (Di Maio e Toninelli si portano il prof. Ramella, che ha steso l’analisi con Ponti e altri tre colleghi; Salvini si porta Siri, 1 anno e 8 mesi per bancarotta fraudolenta) e ascolta le eventuali obiezioni, finora sempre millantate ma mai messe nero su bianco dalla Lega, alle 80 pagine dei tecnici governativi. Poi decide: se questi verranno smentiti con dati attendibili, il Tav si farà; se no, non si farà e i bandi del costruttore italo-francese Telt andranno bloccati. Anche perché l’analisi del governo quantifica il mega-spreco di denaro pubblico (2,5 miliardi italiani, più 4,5-5,5 francesi ed europei) e chi non lo scongiura ne risponde patrimonialmente alla Corte dei conti per danno erariale.

A quel punto la Lega ha due sole opzioni: o si uniforma alle decisioni del suo premier per disciplina di governo, come i 5Stelle sul Tap, e accetta l’idea che un governo di coalizione non può restare paralizzato su ogni cosa dai veti incrociati, dunque ora cede un partner e ora cede l’altro; oppure sfiducia il suo premier e apre la crisi di governo. Così si capisce se Salvini è sincero, quando dice di voler governare per cinque anni e rifiuta le avance di B., oppure mente anche su quello. Quando firmò con Di Maio il Contratto, in cui il M5S aveva preteso di inserire l’impegno a “ridiscutere integralmente” il Tav, sapeva benissimo che quello per i suoi partner era un punto dirimente al pari dell’Anticorruzione e del Reddito di cittadinanza, come per lui il Dl Sicurezza e il Dl Legittima difesa. Quindi il redde rationem di oggi non è una sorpresa dell’ultima ora: è uno snodo prevedibile, anzi scontato, che tutti dovevano mettere in conto, specie dopo il voto pilotato degli iscritti M5S sul processo Diciotti. Con l’aggiunta della devastante analisi costi-benefici del governo e della mozione parlamentare approvata da 5Stelle e Lega il 19 febbraio che impegna l’esecutivo a “ridiscutere integralmente” il Tav.

Se sul Tav cadrà il governo, sarà perché l’ha voluto Salvini: e non per difendere l’opera, che non serve a nessuno, men che meno a lui, ma per scopi ben più inconfessabili, che è bene far emergere quanto prima. Così com’è stato un bene che emergesse il tradimento degli intellettuali e dei media, che sul buco del Tav hanno dato il peggio di sé, a rimorchio dei loro mandanti politico-affaristici, a colpi di fake news, ipocrisie, imposture e doppiopesismi. Le collezioni dell’Espresso pullulano di inchieste ferocissime sull’inutilità dell’opera, da quella di Tommaso Cerno nel 2013 (“I No Tav sono un intero popolo”, “Tre generazioni appese al destino di un treno da 300 km l’ora. Nonni, figli e nipoti in guerra contro un mostro d’acciaio… La Val Susa ha tutta l’aria di un’italica striscia di Gaza…”) a quella di Giovanni Tizian nel 2016 (“Tav, e intanto si spreca. Le talpe continuano stancamente a scavare. Ma nessuno crede più a un modello di ‘grande opera’ superato dai fatti. E dal buon senso”). Poi più nulla. Report di Milena Gabanelli, nel 2011, mandò un inviato in Val Susa a dimostrare l’inutilità del Tav per mancanza di merci: “Lo pagheranno – concluse Milena – i nostri figli disoccupati”. Poi, silenzio anche alla Rai.

Repubblica pubblicava le inchieste di Luca Rastello sulla grande bufala del Corridoio 5 Lisbona-Kiev (poi raccolte nel saggio Binario morto) e i commenti di Adriano Sofri sul “Partito Preso, cioè quello che dice ‘ormai non si può più tornare indietro’ e non spiega mai perché. Il Partito dell’Ormai. Il Tav è una nuova religione rivelata, fondata su un mistero sacro, calato dall’alto, quindi indimostrabile ma indiscutibile: il dogma dell’Immacolata Costruzione”. Ora Repubblica tifa Tav senza se e senza ma. Sempre nel 2012 ben 360 professori universitari e professionisti firmarono sul Sole 24 Ore l’appello di Marco Ponti e Sergio Ulgiati al governo Monti perché, dopo il no alle Olimpiadi di Roma 2020, fosse altrettanto coraggioso cancellando lo spreco ben più cospicuo del Tav, citando studi del Politecnico di Milano e di Oxford (“La peggiore infrastruttura è sempre quella che viene costruita”: studio delle previsioni sballate su 260 mega-infrastrutture trasportistiche in ben 20 nazioni). Poi, salvo rare eccezioni, tutti zitti. Nel 2013 persino Renzi, nel libro Oltre la rottamazione, definiva il Tav “investimento fuori scala e fuori tempo… iniziativa inutile… soldi impiegati male” e invitava lo Stato a “uscire dalla logica ciclopica delle grandi infrastrutture e concentrarsi sulla manutenzione delle scuole e delle strade”, anche per “creare posti di lavoro più stabili”. Ora è Sì Tav. Nel 2017, su lavoce.info, Carlo Cottarelli firmò un altro appello di Ponti con 41 professori del Politecnico di Milano contro il Tav perché “analisi indipendenti… mostrano flussi di traffico, attuali e prospettici, così modesti da poter escludere che sia opportuno realizzarla nella forma prevista”. Ora firma addirittura pseudo-analisi pro Tav. Nel 1927 Julien Benda scrisse un pamphlet sul Tradimento dei chierici, cioè degli intellettuali. Non aveva ancora visto all’opera i nostri chierichetti e i nostri sacrestani.

“L’amore è attenzione all’altro che si è perso”

Musicista autodidatta (pianoforte e chitarra) e, soprattutto, compositore, Gino De Crescenzo (Pacifico) ha scritto per se stesso e la sua ex band Rossomaltese oltre che per Adriano Celentano (“Ti penso e cambia il mondo”), Antonello Venditti, Malika Ayane, Ornella Vanoni e Gianna Nannini. Con Gianna, Gino ha firmato “Sei nell’anima” e “Tu che sei parte di me”, unanimemente considerata la sua vetta artistica: “Devo farla dal vivo perché me la chiedono sempre. Ci ho messo un po’ di tempo ma ho capito che è arrivata davvero al cuore delle persone”, racconta Pacifico. Bastasse il cielo è il sesto disco scritto e realizzato a Parigi nello studio Pippapà, nome inventato dal figlio di sette anni.

E sono proprio quelli passati dall’uscita dell’ultimo album, segno della paternità consumata, raccontata a tratti ne “Il destino di tutti” (“Io come padre ci provo e non so come fare a cercare di cambiare ogni giorno e ad ogni giorno lasciarmi cambiare”) e in “ElectroPO” – musicalmente la traccia più raffinata – (“il fiume non ritorna indietro…”). “È un disco che parla di amore inteso come questione privata: per la persona che ami, per un figlio, l’amore che ti manca. È l’attenzione, lo sguardo rivolto all’altro che si è perso. E io ne sento la mancanza”. Tesi ben dipanata nel testo del singolo “Semplicemente”: “non c’è tempo per capire. Ogni riposta su ogni argomento mi sembra dica io non ho tempo”. Un disco non gridato, soft, delicato, antistress, con l’obiettivo di raccontare i sentimenti attraverso piccoli dettagli, alla maniera di Battisti-Mogol: “Per me Lucio è la sorgente. Vorrei aver scritto uno qualsiasi dei suoi brani con il suo talento vero”. Gino osserva e non giudica, “Molecole” ne è l’esempio palese, con umana compassione: “Io dico che è sempre meglio provarci, capirsi anche solo per decidere di andare via. A questo serve stare insieme. Stringersi a qualcuno che può dirti: ce la faremo…”. Nelle note del disco un filo di pessimismo: “La bellezza non ci salverà. La bellezza passa”. “L’amore è anche una costrizione, un bisogno” chiosa Gino, “quando ti dedichi a un altro è una cosa politica e sociale. Se tu lavi un vecchio che ha bisogno del tuo conforto stai facendo un atto di dedizione all’altro”. Si sono imbastarditi i rapporti? “Se penso ai social mi viene in mente Tex: quando è arrivato l’alcool nelle riserve indiane, non riuscendo a gestire il fenomeno i pellirossa ne furono travolti. Il narcisismo imperante fa aumentare il percepito: mio figlio vede le ombre fintanto che qualcuno non gli accende la luce. Tutta questa invidia, questa promozione ostentata altro non è che solitudine, il sentirsi trascurati”. Pacifico suonerà dal vivo – subito dopo i firmacopie negli store – dall’otto marzo, toccando Padova, Torino, Firenze, Milano, Bari e Roma.

“Al manicomio ho preferito il varietà. Come Kafka”

Inattuale più che storico, uno spazio scenico puramente immaginoso: così il regista Roan Johnson ha tradotto la Vigata di Camilleri di fine ’800 ne La stagione della caccia (in onda su Rai1 con ascolti formidabili). Dentro quella macchina dagli ingranaggi lenti, proverbialmente anti-televisivi, come prelevato dal teatro che è il suo amnio, Tommaso Ragno ha incarnato il marchese Filippo Peluso e suo fratello Don Totò (un virtuosismo di pura bravura). La sua faccia-paesaggio che cambia col variare della luce, del tutto atipica nel cinema italiano (lo vedremo anche nel nuovo film di Nanni Moretti), ha catturato lo spettatore di fiction, che l’aveva notato nel gioiello Il Miracolo di Niccolò Ammaniti.

Ha provato nostalgia del diaframma tra sé e il pubblico garantito dal buio del teatro? E del semi-anonimato?

Nessuna nostalgia. Il mio è un lavoro legato al corpo e si svolge nel regno dell’effimero davanti a un pubblico vivente, a differenza di quello di uno scrittore che può contare su un pubblico di lettori anche dopo la sua morte. Quanto all’essere esposti al giudizio, per un attore è necessaria una certa dose di presunzione e masochismo, oltre al talento, per salire su un palco.

La televisione dissipa un’aura, apre all’agorafobia, distrugge la simultaneità magica del teatro?

È una domanda molto bella a cui è complesso rispondere. L’aura è il manifestarsi di una lontananza, per quanto vicina essa sia. Qualcosa di molto simile a un sogno o a un innamoramento. Accade quando si guarda uno spettacolo teatrale o musicale dal vivo, non legato alla sua riproducibilità tecnica come avviene col cinema, la tv (per la radio è un altro discorso, proprio perché non legata alle immagini) o quando si è di fronte a un’opera d’arte. È in questi “luoghi” che avviene l’evento aurale, irripetibile, nel qui e ora.

È vivo il teatro in Italia? Che ricordo ha di Strehler e di Carmelo Bene? Esistono ancora attori irresponsabili, liberi?

Più che vivo, mi pare in stato di convalescenza sin da quando ho iniziato. E non è una cosa negativa. Ho iniziato frequentando la “Paolo Grassi” di Milano, facendo per trent’anni soprattutto teatro con Martone, Cecchi, Ronconi, Servillo. Di Strehler ho un ricordo di un genio fatto di magia, vigore, passione, cultura immensa, e un pizzico di cialtroneria, perché un teatrante è anche questo, ma soprattutto è portatore di un messaggio “malgrado sé stesso”, come scrive Jouvet. Di Carmelo Bene penso sia stato il più grande artista del Novecento italiano. Attori “irresponsabili” e morali in senso autentico, visto che estetica ed etica non sono disgiunte: Carlo Cecchi fra tutti. E Toni Servillo. Sono stato abbastanza fortunato da poter servire dei re della scena in Italia.

Il cinema italiano le piace?

Mi piace quando torna capace di ciò che in passato è stato. Penso alla prova straordinaria, quasi grotowskiana per capacità di svuotamento di sé, di Alessandro Borghi nel film Sulla mia pelle.

Il film più importante della sua vita.

2001 Odissea nello Spazio continua a turbarmi ogni volta che lo rivedo. Il ruolo che più mi sarebbe piaciuto fare tra tutti i personaggi della storia del cinema è la scimmia di quel film.

A cosa pensa quando recita? C’è nell’attore la “dimenticanza di sé” di Giorgio Manganelli?

Amleto, dopo aver visto uno degli attori convocati da lui a corte commuoversi recitando un brano che descrive Ecuba, rimasto solo si domanda: “Chi è Ecuba per lui e lui per Ecuba?”. Per me è tutta qui la domanda su cosa sia recitare. Cioè: inizia a cercare la tal cosa chiamata personaggio che è una convenzione e forse la tal cosa verrà a cercare te. Per arrivare su un orizzonte mitico che non è più legato a te ma a qualcosa di più grande. Più che dimenticarsi, è, come dice Umberto Saba in un verso all’inizio dell’Isola di Arturo della Morante: “E io, se in lui mi ricordo, ben mi pare”.

Una certa dose di patologia cognitiva è connaturata nell’attore. Di quali psicosi soffre?

La motivazione a fare l’attore deriva da una fissazione dello sviluppo. Crescendo te ne fai una ragione e la incorpori nella tua vita. Se riesce a diventare il tuo lavoro sarai abbastanza fortunato da non finirne schiacciato. Come dice la scimmia di Kafka in Relazione per un’accademia quando viene affidata al primo istruttore: “Vidi due strade a me aperte dinanzi: o il giardino zoologico o il varietà. Non esitai un attimo. Mi dissi: punta con tutte le tue forze al varietà, quello è lo scampo, il giardino zoologico è solo un’altra gabbia, se finisci lì sei perduto”. Il giardino zoologico ovviamente è il manicomio. Di qualunque tipo uno se lo figuri.

Che bell’Eco nella serie tv: pare un libro illustrato

Prima viene lo spazio, mai ben definito, della cultura di Eco. Tantissimi gruppi di studiosi e studenti arrivavano, riunendosi in parti diverse di quella cultura, ciascuno convinto di essere nell’unico punto giusto. Poi viene, lungo il percorso di tantissime opere, il romanzo, questo romanzo, che è altra cosa sia dalla narrazione che dal saggio, perché è uno strano e armonioso mosaico di tutti gli strumenti e modi di comunicazione di una storia, munito di tutti gli espedienti di attenzione, e di tensione, che funzionano qualunque sia il pianerottolo (il livello di informazione culturale) a cui puoi o devi fermarti.

Adesso arriva la serie televisiva che non è exploitation, ovvero uso ulteriore ed estremo del valore commerciale del libro (che, dopo ciò che è accaduto negli anni, è impossibile superare). È, piuttosto, un esperimento: può il formato tv reggere il peso del maggior romanzo (stiamo parlando della immensa vendita) degli ultimi decenni, e di un solido film che gira ancora con onore nelle tv del mondo, nei programmi e nei cataloghi interattivi?

Ecco dunque Il Nome della Rosa, la serie. Sei milioni e mezzo di italiani hanno visto lunedì 4 marzo la prima puntata. So che Eco ha partecipato ai primi lavori o almeno ne ha visto l’inizio. E a lui, l’esploratore curioso e apparentemente spensierato del nuovo, che intanto si portava dietro, senza dare il minimo segno di fatica, un bel po’ di passato (cultura, costumi, testi, leggende, storia e favole), pare che non sia dispiaciuto. E capisco perché. È un romanzo illustrato, molto più di un film tratto dal romanzo.

Questa constatazione spiega il fascino che c’è in questa narrazione nonostante le non poche citazioni visive delle tante narrazioni “in costume” che occupano la vasta produzione serializzata dei nostri giorni, che nell’insieme oscilla fra una collezione di presidenti degli Stati Uniti e una collezione di papi, ciascuno con amanti e traditori.

Qui invece l’espediente è che la trama leggera del genere “serie tv” copre (o meglio scopre, consegna) la narrazione di Eco in modo molto più diretto e senza la sovrapposizione dell’altro impegno narrativo, il film, con la sua personalità e la sua autonomia. Ricorderete che, nonostante l’amicizia con Annaud (regista francese del film Il Nome della Rosa), Eco non ha mai voluto parlare del film né assistere in alcuna fase al lavoro sul set. Qui invece credo che avrebbe partecipato o almeno osservato volentieri da vicino, perché sarebbe stato il libro a parlare, non gli espedienti di sceneggiatura e la qualità inventiva delle riprese di un altro artista.

Tutto ciò spiega il modo di lavorare (di cercare, pensare, scrivere) di Eco. Il più socievole degli uomini (capace di far cantare in coro un vagone di cinesi, bambini inclusi, sul treno che attraversa il deserto del Gobi, durante tutta una notte di sosta per tempesta di sabbia) si calava da solo nel suo lavoro e da solo si aggirava nei sotterranei del suo sapere e ricordare e connettere. Seguiva la religione, come i narratori di Wall Street cercano i soldi, si muoveva in un mondo di monaci e guerrieri già apparentemente esplorato da Storia e leggenda, e scopriva degli immensi spazi nuovi, a volte inventati a volte trovati, a volte possibili, senza alcuna sfida (semmai conferma) di ciò che era già noto e provato. Benché non abbia mai usato per sé questa parola, e non l’abbia mai avallata, Eco sapeva che “capolavoro” in certi casi può essere constatazione, come Federer che vince con precisione tranquilla 100 tornei, o lo scalatore di pareti rocciose lisce e inclinate in avanti, dove nessun umano troverebbe un appiglio, che sembra muoversi nel vuoto e continua l’arrampicata con l’inclinazione impossibile.

Ciò che accade nella serie Il Nome della Rosa è che Eco accompagna i visitatori come in quei viaggi difficili, organizzati da quotidiani, in cui, se ti iscrivi, viene con te sul posto un esperto di quel giornale. Qui Eco c’è. È così che la serie sembra un libro illustrato. Le illustrazioni sono belle, eleganti, precise, rispetto alla narrazione di personaggi ed eventi del film, con poche divagazioni facilmente identificabili e che comunque non alterano il rapporto fra figura e parola.

Le illustrazioni sono immagini da grande fumetto (nel senso del bel disegno) con effetti un po’ teatrali di nebbia, precipizi o rocce e torri che si alzano al cielo come nella scenografia di cartoni animati, Colori seppiati. Ed è proprio la bellezza semplice e molto giovane delle figure che ti induce a restare per vedere dove stiamo andando, anche se sai la storia. Qui, per chi ha condiviso con Eco molte vicende di vita, è indispensabile ricordare un nome che era caro a entrambi e che, misteriosamente, la serie evoca nella sua impostazione delle immagini. Parlo di un celebre illustratore ai tempi della nostra infanzia, Rino Albertarelli, che entrambi abbiamo conosciuto come illustratore di Salgari su Topolino e poi su L’Audace. Adesso i personaggi del film di Battiato sembrano uscire dalla scena per accostarsi agli spettatori e dire: leggiamo insieme la storia di Eco. Aggiungete a questo, che a me sembra un successo.

Il volto meridionale di John Torturro ci appare intensamente, pittoricamente italiano nel doppio senso della grande pittura dell’epoca e della documentazione fotografica dei nostri giorni. Naturalmente la serie, realizzata da persone che vi hanno lavorato così da vicino, non poteva nascondere la leggendaria passione di Eco per il gioco. Gioco, si intende, di figure e di idee. Qui è a carte scoperte. Ogni pezzo del gioco (personaggio, situazione, episodio) viene messo bene in vista e offerto al montaggio di chi partecipa. Qui c’è uno straordinario autore popolare, non il grande Accademico. Ma l’Accademico veglia sullo svolgimento del gioco. Dunque arrivederci alla seconda puntata.

La sfida di Danzica con il sindaco donna e pro minoranze

Icittadini di Danzica hanno avuto le idee chiare quando, domenica 3 marzo, sono stati chiamati alle urne per scegliere il sindaco: Aleksandra Dulkiewicz, 39 anni, è stata eletta con un plebiscito dell’82,2% dei consensi, “polverizzando” i due oppositori di estrema destra, Grzegorz Braun e Marek Skiba (che hanno racimolato rispettivamente 11,86% e 5,92% dei voti). Dulkiewicz raccoglie un testimone impegnativo: il suo predecessore Pawel Adamowicz, che ricopriva l’incarico dal 1998, assassinato il 13 gennaio scorso durante un concerto di beneficenza, era diventato un baluardo del progressismo e dei diritti dei migranti. La sua morte aveva sollevato le accuse contro il governo per aver creato un clima di odio e di terrore, nel quale l’omicidio dell’ex sindaco si inseriva perfettamente. Ora, sarà compito della neo-eletta mantenere la linea di opposizione ai partiti polacchi di estrema destra.

Aleksandra, una formazione in legge, ha fiducia nei suoi concittadini: “Cari gedanesi, chiedo il vostro sostegno e aiuto. Abbiamo bisogno di critiche costruttive ma senza mai dimenticare che dobbiamo saper essere una comunità ed essere migliori l’uno verso l’altro”, ha dichiarato dopo le elezioni. Le sue posizioni improntate alla tolleranza e alla difesa dei diritti delle minoranze, si contrappongono nettamente alla tensione crescente nel Paese, accentuata dall’omicidio di Adamowicz. A questo si aggiunge la pressione sovranista che proviene da Varsavia, dove nel giorno dell’Indipendenza Nazionale, l’11 novembre, i rappresentanti dello Stato hanno sfilato al fianco dei neofascisti. In questo contesto, Dulkiewicz dovrà rappresentare il volto (femminile) dell’opposizione.

C’era una volta Trudeau: fuga di ministri, il governo annaspa

Justin Trudeau, ultimo leader liberal, ancora giovane e bello, di quello che un tempo era il Mondo libero, finisce nel polverone di un’indagine in cui s’intrecciano favori e corruzione, mentre il suo governo perde i pezzi. Tutto avviene a sette mesi dalle elezioni politiche che potevano decretarne la conferma e che adesso rischiano di sancirne il tramonto.

A lasciare è Jane Philpott, di fatto ministro del Tesoro ed ex ministro della Sanità. Le dimissioni sono collegate allo scandalo che sta coinvolgendo il premier e i suoi fedelissimi, che avrebbero esercitato pressioni per evitare un’indagine a carico di una grande azienda canadese di costruzioni, la Snc-Lavalin.

“Devo adeguarmi ai miei valori, alle mie responsabilità etiche ed agli obblighi costituzionali” dice Philpott, che segue la via tracciata, a gennaio, dall’ex ministro per i veterani, Jody Wilson-Raybould.

Quando era al dicastero della Giustizia, la Wilson-Raybould avrebbe subito pressioni dall’ufficio del premier per agevolare la Snc-Lavalin, che avrebbe pagato milioni di dollari in tangenti in Libia ai tempi di Gheddafi. Il sospetto che grava sul premier è quello di favoreggiamento: avere agito per evitare che l’azienda finisse sotto processo. La grana agita le acque del governo e irrita l’opinione pubblica, proprio mentre il Canada è nel pieno di una tempesta giudiziaria e commerciale con la Cina, dopo l’arresto a dicembre della direttrice finanziaria di Huawei, Meng Wanzhou, su mandato di cattura Usa: Washington ne chiede ora l’estradizione. In attesa che la giustizia si pronunci, Meng è bloccata da tre mesi a Vancouver, con l’accusa di avere violato le sanzioni Usa contro l’Iran, e ha fatto causa al governo canadese per la violazione dei suoi diritti. Pechino preme su Ottawa con ritorsioni.

Nell’affare Huawei, Trudeau paga un riavvicinamento agli Stati Uniti, dopo che nel Vertice del G7 del luglio scorso Trump aveva fatto le peggio scortesie al padrone di casa. L’affare Snc-Lavalin appare, invece, un intreccio di arroganza e di dabbenaggine. La Wilson-Raybould sarebbe stata degradata dalla Giustizia ai Veterani per non avere assecondato le richieste ricevute, Trudeau nega ogni coinvolgimento.

Secondo le ricostruzioni dei media canadesi, l’obiettivo del premier e dei suoi fedelissimi era che s’arrivasse a un accordo per consentire alla società di evitare il processo, pagando una sanzione. Senza un processo, la Snc-Lavalin non andrebbe incontro a condanne penali ed eviterebbe anche d’essere bandita per un decennio dagli appalti governativi: un brutto colpo per gli oltre 50 mila dipendenti in tutto il mondo, di cui 12 mila in Canada. I conservatori, in crescita nei sondaggi, gongolano e sperano in un crollo del leader liberale, che ha solo 47 anni, ma pare già in declino. E il governo rischia d’implodere da un momento all’altro, mentre l’opposizione chiede le dimissioni del premier.

Vincitore delle elezioni nell’autunno del 2015, Justin Trudeau, figlio d’arte – il padre Pierre fu più volte premier, a due riprese – aveva restituito il Canada ai suoi valori e alle sue tradizioni, dopo quasi 12 anni di governo ininterrotto di Stephen Harper, neo-con sopravvissuto all’era Bush, ma aveva poi perso presto la sintonia con il Paese, complice la moglie Sophie, soprannominata la Maria Antonietta dell’Ontario per qualche pretesa giudicata eccessiva. Politicamente, Justin si colloca nel solco del padre, un leader di spessore mondiale, più in sintonia con Jimmy Carter che con Ronald Reagan; Trudeau andava più d’accordo con Obama che con Trump. E ha pure una madre importante: Margareth Joan Sinclair, donna di cultura e di mondo. I Trudeau furono coppia da gossip ante litteram: lei ebbe una storia con Ted Kennedy, prima di frequentare i Rolling Stones, pare anche Mick Jagger.

Achtung populisti! Germania, solo i Verdi opposti all’onda nera

Il 2019 sarà un anno decisivo per capire dove sta andando la Germania, se riuscirà a fermare l’ondata nera dell’Afd alle elezioni europee e alle Regionali. In autunno, infatti, si voterà nei 3 Länder orientali – Brandeburgo, Sassonia e Turingia – dove il partito nazionalista di ultradestra è andato molto bene alle ultime elezioni federali del 2017, raggiungendo in Sassonia addirittura il 27%.

Al momento c’è un solo un partito in grado di contrastare l’avanzata di Alternative für Deutschland: i verdi. Secondo i dati resi noti dal segretario generale dei verdi, Micheal Kellner, il partito nel 2018 ha avuto un netto balzo in avanti, raccogliendo un 15% in più di iscrizioni su tutto il territorio federale.

Gli iscritti al partito hanno superato quota 75 mila, e le iscrizioni nel 2018 sono state 10.246. Ancora più chiara è stata la crescita nei Länder orientali: in Sassonia si registra un aumento del 26%, in Sassonia del 23% e la media di crescita nei Länder orientali è del 19%, ha detto Kellner al quotidiano Die Welt. Tutto questo a fronte di una perdita costante di iscritti nei grandi partiti di massa tedeschi nel 2018. La Cdu ha perso nell’anno appena trascorso 11 mila iscritti, la Csu bavarese 2.400, e l’Spd 5 mila. “L’emersione di movimenti come Pegida e Afd ha svegliato le persone che ora vogliono impegnarsi per la democrazia e per l’apertura verso il mondo” ha commentato il segretario generale dei Verdi. Soprattutto nei Länder orientali “c’è una grande nostalgia” di un ambiente pulito, di protezione della natura, di conservazione della biodiversità, ha proseguito.

Ma la crescita dei Verdi a Est non è l’unica novità. Ad aumentare è soprattutto la presenza delle donne nel partito. La già alta percentuale femminile nei Verdi “è salita leggermente passando dal 38,9 al 40,5%” ha detto Kellner, mentre parallelamente l’età degli iscritti è scesa, passando da 49,9 a 49 anni. Per statuto i Verdi prevedono già una doppia leadership, maschile e femminile e sui 67 deputati nel Parlamento federale 39 sono donne, il 58%. “Saremo più femminili, più giovani e più tedeschi-orientali” in futuro, ha detto Kellner commentando i dati.

La rimonta dei Verdi non è una novità di oggi. Già dalle elezioni regionali in Baviera lo scorso settembre si è visto che il partito ecologista, guidato al livello federale da Anna Lena Baerbock e Robert Habeck, aveva il passo giusto per superare l’Spd, provato da tre edizioni di governo in coalizione con la Cdu.

Gli ottimi risultati raggiunti alle elezioni bavaresi dai Verdi, dove la capolista era una irrefrenabile 33enne – Katharina Schulze – sono ancora migliorati negli ultimi mesi e nei sondaggi di questi giorni il partito è dato stabilmente al 20%.

Appena al secondo posto dietro l’Unione di Cdu-Csu (al 30%), e davanti all’Spd (che oscilla intorno al 16%), mentre l’Afd non supera quota 12%.

I Verdi devono molto della loro rimonta mediatica ed elettorale a una prestazione non brillante del governo di coalizione Cdu-Csu-Spd nel 2018 e al modo pragmatico e ragionevole con cui hanno affrontato le trattative per formare un governo di coalizione con l’Unione e l’Fdp, poi fallite per la rottura dei liberali, senza perdere di vista i loro obiettivi. Dal novembre del 2017 i Verdi non hanno mai smesso di presentarsi come un’alternativa di governo credibile e affidabile, meno “movimento” rispetto al passato e più partito che vuole rappresentare “il centro della società”, come più volte ripetuto dal leader del partito, Robert Habeck. “Abbiamo il compito di spostarci nel centro della democrazia” aveva detto Habeck, all’indomani delle elezioni bavaresi. Il flirt con la Cdu e la “corrispondenza di amorosi sensi” soprattutto con la nuova presidente del partito conservatore tedesco, Annegret Kramp-Karrenbauer, è uscita allo scoperto nel corso di una doppia intervista della ex leader dei verdi, Katrin Goering-Eckardt, con la neo-presidente della Cdu a Bild Am Sonntag, domenica scorsa. “Qui al tavolo siedono due donne che volentieri vogliono governare. Cosa che è evidente non vuole più fare l’Spd” ha detto Goering-Eckardt. “Naturalmente Verdi e Cdu hanno diversi punti di vista ma di base siamo disponibili al compromesso perché vogliamo che qualcosa si muova”, ha proseguito la ex leader dei Verdi.

Un’autocandidatura per un nuovo possibile governo di coalizione, l’ha definita la stampa tedesca. Una fuga in avanti? Non del tutto. In un momento in cui l’Spd è prigioniero della propria crisi di consensi, che lo spinge a rincorrere obiettivi sempre più clamorosi e costosi, non in linea con le intenzioni della Cdu, le condizioni per cambiare partner di coalizione e riproporre una coalizione Giamaica (cioè Unione Csu-Cdu-Verdi-Liberali) in teoria ci sarebbero. Il leader dei Verdi Habeck però preme sul freno e fa sapere che “naturalmente dobbiamo essere in grado di fare le coalizioni. Ciononostante siamo in concorrenza politica gli uni con gli altri non siamo dei partner di coalizione in predicato”, ha chiarito in un’intervista a Handelsblatt. Ma non è detta l’ultima parola.

I facchini di Zara alzano la posta. Quanto vale lo sfruttamento?

Al lavoro per ben 230 ore in un mese con una busta paga che ne contava solo 170. Contratti part time finti, con turni giornalieri che in alcuni casi superavano anche le 12 ore. Straordinari che sforavano di tanto il massimo consentito dalla legge, ferie e tredicesime non riconosciute.

Nei magazzini di Zara, multinazionale dell’abbigliamento, situazioni come queste hanno finora rappresentato la normalità in diverse zone d’Italia, dal Lazio all’Emilia Romagna. A pagarne le spese sono stati soprattutto centinaia di facchini stranieri impiegati dalle cooperative che, in appalto per conto del marchio spagnolo, gestiscono gli spostamenti delle merci. Una classica storia nel settore della logistica: le esternalizzazioni nascondono irregolarità e sfruttamento. Oggi nei satelliti di Zara le cose stanno cambiando, la rivolta dei lavoratori e le denunce dei sindacati hanno spinto le coop a prestare più attenzione alle norme. La situazione sta migliorando, ma questo non basta a sedare le proteste. Proprio in questi giorni sono ancora in corso scioperi e manifestazioni: a Bologna i facchini si sono fermati lo scorso fine settimana, mentre a Roma stanno organizzando un sit-in davanti al punto vendita di via del Corso, probabilmente durante le mobilitazioni dell’8 marzo o al massimo lunedì 11. In queste ore è in corso una trattativa per cercare un accordo che possa riconoscere un risarcimento a chi per anni ha subito queste condizioni. “Quando queste aziende hanno presentato un’offerta da 8 mila euro a testa, i lavoratori l’hanno percepita come una provocazione – spiega Alessandro Antonelli, segretario della Filt Cgil Lazio – Questa cifra non può essere ritenuta congrua da chi ha vissuto queste situazioni per 15 anni”. I sindacati vogliono 40 mila euro per ognuno di loro. “Gli addetti coinvolti – aggiunge Antonelli – sono soprattutto extra-comunitari, in particolare egiziani. Le cooperative hanno giocato sulla loro non conoscenza delle leggi e sullo stato di bisogno. Comunque non mancano anche gli italiani, i quali sono stati trattati poco meglio, ma pur sempre non regolarmente”.

“Abbiamo scoperto che queste aziende avevano tutte la sede presso lo studio di un commercialista – dice Danilo Morini della Filt, che segue la questione a livello nazionale – Presumibilmente sono state costituite appositamente per queste attività. Fino a poco fa operavano con il contratto nazionale del commercio, non corretto per questa situazione. Solo dal primo febbraio hanno applicato quello della logistica. Ora cerchiamo una soluzione che sani il più possibile il pregresso”.

Il metadone monetario prepara la prossima crisi

Nei bei tempi andati la politica monetaria era (o appariva) semplice. La maggior parte dei banchieri centrali nelle grandi economie di mercato adottava (più o meno consapevolmente) una regola elementare, talora rozza, ma tutto sommato efficace, logica e comprensibile. Essa considerava il tasso di crescita nominale una metrica ragionevole del tasso di interesse neutrale. In pratica le banche centrali regolavano i loro tassi in base alla somma del tasso di crescita del Pil reale e del livello dei prezzi. Una versione più sofisticata fu enunciata da John Taylor (analizzando le decisioni della Federal Reserve americana nel tempo): la banca centrale fissa un tasso reale (intorno al 2%) e poi aggiunge o sottrae punti percentuali reagendo, con medesima intensità, a due variabili: 1) lo scostamento dell’inflazione effettiva dall’inflazione programmata e 2) lo scostamento della crescita attuale dalla crescita potenziale.

Tuttavia una vistosa eccezione alla “Taylor Rule” fu operata in seguito al lunedì nero di Wall Street il 19 ottobre 1987. Alan Greenspan, appena insediatosi al vertice della Fed, conosceva il profluvio di studi sul crollo del 1929 che accusavano la Fed del tempo di aver inasprito l’impatto sull’economia con politiche monetarie restrittive. Quindi mise in azione gli idranti della liquidità salvando la Borsa Usa e quelle mondiali. La Banca del Giappone seguì una ricetta simile quando pochi anni dopo si trovò a fronteggiare analoghi tonfi.

Tali strategie tornarono in auge con lo scoppio della bolla delle dotcom nel 2000-01, esacerbato dall’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre. Con il crollo epocale del 2008 l’eccezione si trasformò in regola: la Fed e le altre grandi banche centrali aprirono le cateratte del credito in misura mai nemmeno ipotizzata. Il sistema finanziario mondiale è passato dall’assumere occasionalmente un potente antidolorifico, come quello somministrato nel 1987, ad assuefarsi a dosi sempre più massicce di oppiacei creditizi distribuiti dal 2008. E come tutte le assuefazioni è difficile da debellare.

Il motivo è lampante. Quando il costo del debito si azzera, si tampona una ferita, ma si producono conseguenze nefaste: 1) si tengono in vita artificialmente aziende zombie non in grado di sostenere i debiti; 2) si incentivano attività inutili o dai rendimenti risibili, sottraendo risorse a progetti solidi di lungo periodo; 3) si concede credito per immobili, auto, elettrodomestici, vacanze eccetera a chi ha redditi esigui; 4) si spingono i gestori del risparmio, in particolare i fondi pensione, alla disperata ricerca di rendimenti più alti per poter mantenere fede agli impegni (o giustificare le commissioni); 5) si privilegiano operazioni finanziarie azzardate focalizzate su profitti immediati; 6) si invogliano i governi a trascurare la disciplina fiscale; 7) si svaluta la moneta.

In sintesi: si esagera con la leva finanziaria per raddoppiare o triplicare i rendimenti, si ricercano investimenti esotici in paesi inaffidabili (l’Argentina prima di finire nell’ennesima bancarotta aveva emesso a tassi stracciati debito pubblico in dollari con scadenza a cento anni!), si sprecano risorse pubbliche, si sottovalutano i rischi, abbagliati da rendimenti improbabili on insostenibili, si gonfiano le valutazioni dei titoli. In tempi di finanza allegra, i freni inibitori e la prudenza finiscono in pattumiera come lische di Pesci d’Aprile.

Pertanto non appena le Banche centrali rialzano i tassi, il sistema finanziario entra in fibrillazione alla stregua di un tossico in crisi astinenza. Accadde con il taper tantrum nel 2013 (la Fed ventilò la fine della politica monetaria ultra lasca e nel mercato dei bond scoppiò il panico) ed è accaduto di nuovo nel 2018. Una volta esauritosi l’effetto del metadone fiscale di Donald Trump, in autunno i mercati finanziari hanno subìto l’impatto dei tassi americani (e del dollaro) in rialzo e della riduzione del portafoglio della Fed (in gergo quantitative tightening) oberato a dismisura attivi finanziari comprati stampando moneta. Pertanto tra dicembre e gennaio la Fed ha dovuto ignominiosamente rimangiarsi gli annunci di ulteriori aumenti dei tassi e ammettere che potrebbe addirittura abbassarli. Il quantitative tightening finirebbe altresì in congelatore. In parole povere, i Federal funds in Usa sono intorno al 2,5% contro una crescita nominale a un soffio dal 5% (e un tasso di disoccupazione al 4% vicino ai minimi storici), ma il sistema finanziario viene esposto al tracollo non appena la Fed si avvia a ristabilire la norma storica.

I banchieri centrali ormai non si chiedono che tasso di interesse sia compatibile con la crescita e l’inflazione, ma che tasso di interesse sia compatibile con il livello di rischi e leva nei bilanci. In altri termini, l’obiettivo (anzi l’ossessione) della politica monetaria diventano i corsi di borsa per scongiurare il crollo del sistema finanziario reso pericolante dalla politica monetaria stessa. In Europa il circolo è analogamente perverso: la Bce, che mantiene tassi negativi e che aveva appena finito di acquistare titoli sul mercato, con la Germania in panne sta valutando un ulteriore mega stimolo al sistema bancario (imbottito di debito pubblico). Quando e come finiranno cotali disfunzioni non è prevedibile sulla base dell’esperienza storica o del buon senso. Ma parafrasando Giuseppe Ungaretti si acuisce la sensazione che “si sta come d’autunno, un mutuo subprime, sul bilancio di Lehman Brothers”.

Il porto di Genova resiste al Morandi e alla recessione grazie ai sussidi

I traffici del porto di Genova nel 2018 sono cresciuti, in tonnellate movimentate, dello 0,3%. Risultato che rispecchia la congiuntura dell’economia del Nord-Ovest servita dallo scalo, con un primo semestre in crescita e un secondo in recessione, caratterizzato da numeri negativi a partire da luglio e con un segnale di tiepida contro
tendenza a dicembre.

Evidentemente, per quanto il crollo del Morandi abbia accentuato il trend, l’effetto è stato relativo e l’andamento dei traffici, anche grazie al pronto ripristino della ferrovia e alla rapida apertura di una strada intraportuale alternativa, ha soprattutto seguito dinamiche congiunturali. Lo confermano altri due dati: il porto de La Spezia, teorico primo beneficiario dei cali genovesi, ha chiuso il 2018 in perdita e nel capoluogo, mentre i passeggeri dei traghetti (in larga parte italiani) sono rimasti quelli dell’anno prima, sono cresciuti del 9,3% i crocieristi, quasi tutti stranieri).

In nome del Morandi, però, il decreto Genova ha stanziato risorse importanti per le due categorie portuali più riottose: autotrasportatori (180 milioni) e camalli (proroga quinquennale dell’autorizzazione che vale 50 milioni l’anno) e per l’Autorità portuale (220 milioni e deroghe uguali a quelle per la ricostruzione su appalti per 1 miliardo).

Con la campagna elettorale regionale 2020 al via, un set di strumenti formidabile per il presidente dell’ente Paolo Signorini, fedelissimo del governatore Giovanni Toti: la narrazione del porto in ginocchio ha funzionato, col supporto dell’alleato (in giunta) Edoardo Rixi (ex assessore e oggi viceministro), il benestare forzoso del M5S (all’opposizione in Liguria ma al governo a Roma) e il silenzio del Pd. Peccato che i numeri raccontino altro.