Le Fs vincono la guerra dei macchinisti con i privati

Ci risiamo: le Ferrovie dello Stato hanno bisogno di nuovi macchinisti e per la seconda volta in due anni vanno a pescarli nel luogo dal loro punto di vista più facile: le imprese private, soprattutto quelle del settore merci che poi sono anche le aziende concorrenti. Le quali di conseguenza si sentono danneggiate e sotto l’attacco del gigante ferroviario pubblico, accusato di approfittarsi della sua posizione dominante e sospettato di volere stringere il cappio al loro collo. Le piccole imprese del trasporto merci prese una per una sono meno che moscerini rispetto al colosso statale, ma tutte insieme sono diventate se non proprio una minaccia, quantomeno una spina nel fianco dell’ex monopolista, essendo riuscite nel corso di un quindicennio a occupare metà circa del mercato merci nazionale e quasi il 70 per cento di quello con l’estero.

Imprese come Captrain Italia, SBB Cargo Italia o Interporto Servizi Cargo si sono fatte largo grazie soprattutto alle macroscopiche inefficienze delle Ferrovie statali nel settore delle merci. Tutte insieme, come sistema della quindicina di imprese private, sono cresciute anche l’anno passato nonostante la crisi economica e nonostante abbiano dovuto rimediare alla emorragia di macchinisti causata dalla precedente incursione delle Fs. Rispetto al 2017 hanno prodotto un milione di treni/chilometro in più (che è l’unità di misura del trasporto ferroviario) guadagnando là dove le Ferrovie pubbliche perdono da sempre, avendo accumulato queste ultime in un decennio un rosso di oltre 2 miliardi di euro.

Nel corso del 2018 i macchinisti “rubati” dalle Fs ai privati furono 100, questa volta sono di più, 140 circa. Le selezioni sono iniziate il 5 marzo e proseguiranno per alcuni giorni. Alla fine le Ferrovie pubbliche otterranno quel che vogliono con pochi sforzi e ancor minori spese potendo aggiungere un altro manipolo di prescelti allo sconfinato parco macchinisti di cui dispongono. I macchinisti delle imprese private di solito accettano di buon grado l’offerta Fs. Per una serie di motivi. Il primo è la sicurezza del posto di lavoro che nelle Ferrovie pubbliche è come in cassaforte mentre in quelle private i rischi sono maggiori. Il tipo di lavoro offerto dalle Fs è inoltre ritenuto dai macchinisti meno gravoso, con turnazioni migliori rispetto alle aziende merci private.

Per queste ultime, però, il finale di partita sarà un po’ diverso e più burrascoso. Per loro sarà difficile rimediare in quattro e quattr’otto e senza sostenere ulteriori spese alla perdita improvvisa di 10 o 20 macchinisti ciascuna, che in alcuni casi rappresentano addirittura il 20 per cento di tutto il personale disponibile, lavoratori preparati e formati con mesi di corsi e con i costi relativi.

Normalmente le imprese ferroviarie i macchinisti se li preparano in casa, senza bisogno di andarli a sottrarre ad altri. Le aziende private del settore merci formano dai 350 ai 400 macchinisti ogni anno e di recente anche Trenord, impresa ferroviaria del trasporto regionale in Lombardia partecipata dalle Fs, ha avviato corsi di formazione specifici. Anche Trenitalia delle Ferrovie dello Stato in una nota inviata al Fatto Quotidiano informa che “assume figure non esperte da formare” e precisa che “a breve saranno operativi i macchinisti formati nell’arco del 2018”. Che però evidentemente non sono sufficienti a coprire tutti i buchi che si sono aperti a Trenitalia a causa del fisiologico invecchiamento dei dipendenti. La ripetuta pesca a strascico tra i macchinisti delle imprese private consente a Fs “un più veloce ricambio generazionale”.

Processo Eni, la società prova a pagare il viaggio ai testimoni

Il re degli Ikebiri non è mai entrato nell’aula del processo che si sta svolgendo a Milano contro l’Eni, accusata di corruzione internazionale in Nigeria. È però protagonista di un altro processo milanese, che si è aperto il 9 gennaio davanti al Tribunale civile: a nome della sua comunità Ikebiri, che vive nel delta del Niger, re Francis Ododo chiede all’Eni di bonificare le acque e le terre del suo popolo, inquinate da una imponente fuoriuscita di petrolio nel 2010. Nella prima udienza ha ottenuto un importante successo: il giudice ha respinto la richiesta di Eni di fermare il processo per mancanza di giurisdizione, spostandolo in Nigeria, e lo ha invece incardinato in Italia.

Un precedente, per le tante comunità che in futuro potrebbero chiedere alla compagnia petrolifera italiana di risarcire i danni ambientali provocati in giro per il mondo. Se il processo dovesse arrivare a una sentenza di condanna, sarà la prima volta che una società italiana verrebbe ritenuta responsabile da parte di una corte italiana di danni ambientali e violazioni dei diritti umani all’estero.

Il processo è stato rinviato al 18 aprile. Ma potrebbe finire quel giorno, senza arrivare a sentenza. Perché Eni ha avviato una trattativa diretta con re Ododo, tagliando fuori l’avvocato italiano della comunità Ikebiri, Luca Saltalamacchia, e la ong che la supportava, Friends of the Earth Europe. La compagnia petrolifera ha promesso interventi nei villaggi degli Ikebiri e un buon risarcimento, in cambio della rinuncia a proseguire la causa in Italia. Re Ododo ci sta pensando. Senza sapere nulla dell’altro processo in corso, in cui Eni e i suoi vertici (l’amministratore delegato Claudio Descalzi e il suo predecessore, Paolo Scaroni, con altre undici persone) sono accusati di aver pagato una super-tangente da 1,3 miliardi di dollari versata da Eni e Shell a politici nigeriani per ottenere nel 2011 i diritti di sfruttamento del grande giacimento petrolifero Opl 245.

Le udienze si susseguono, ogni mercoledì, con pochi colpi di scena. I testimoni d’accusa comparsi finora hanno confermato che degli 1,3 miliardi di dollari pagati da Eni e Shell per Opl 245 non un cent è finito allo Stato nigeriano. I soldi sono andati tutti a governanti della Nigeria e a mediatori italiani e internazionali, con qualche stecca che – secondo l’accusa – sarebbe tornata nelle tasche dei manager Eni.

A movimentare le udienze, sono le bizze degli apparati tecnici del Tribunale di Milano per le videoconferenze durante le quali sono interrogati i testimoni in Nigeria: non proprio un esempio di efficienza tecnologica, con la voce che si perde e la connessione che salta. A queste si sommano le disavventure di traduttori inglese-italiano da far invidia ad Alberto Sordi.

Nell’udienza del 9 gennaio, l’interprete del Tribunale è stata cacciata per palese inadeguatezza, rilevata sia dall’accusa, sia dalla difesa. Per non bloccare il processo, il presidente del collegio giudicante Marco Tremolada ha chiesto in prestito una traduttrice alle difese, che Shell ha gentilmente concesso. Ma solo per un’udienza, “poi servono a noi”. Più generosa Eni, che dopo aver visto quanto sia difficile capire che cosa dicono i testimoni collegati in videoconferenza dalla Nigeria, a causa della cattiva qualità dell’audio e delle trasmissioni disturbate e instabili, nell’udienza del 16 gennaio ha fatto una proposta choc: ha offerto di pagare le spese di viaggio per fare arrivare i testimoni in Italia, in modo che possano parlare in aula a Milano, annullando le videoconferenze.

C’è voluta un’intemerata del pm Fabio De Pasquale per bloccare la proposta. La Procura – ha detto De Pasquale – si impegnerà a chiarire ai testimoni nigeriani che resta preferibile il loro trasferimento per le udienze in Italia, piuttosto che il collegamento dalla Nigeria. Ma si è opposto all’offerta dell’Eni di anticipare loro le spese di viaggio, poiché “è improprio che sia l’imputato a pagare il trasferimento dei testi”. Chissà se anche il re degli Ikebiri arriverà a Milano, alla sua udienza d’aprile.

Quel monopolio nei mari siciliani che il ministro Toninelli non vede

Mentre il ministro dei Trasporti Toninelli tuonava contro il monopolio marittimo di Tirrenia in Sardegna, quello dell’altra grande isola si rafforzava. A Palermo, la Ragione ha annunciato che dei 98 milioni (73 statali) – di cui dispone per supportare il trasporto pubblico locale marittimo – ne beneficerà Sns-Società di navigazione siciliana, partnership fra Caronte&Tourist e Liberty Lines concessionaria della convenzione statale 2016-2028 per il collegamento delle isole minori (55 milioni l’anno).

La procedura concorsuale prevista dal Ministero, ha spiegato il governatore siciliano Musumeci, sarà bypassata: la proprietà delle nuove navi resterà alla Regione se nel 2028 Sns non dovesse confermarsi concessionario del servizio. Ipotesi remota: l’ipersovvenzionato mercato delle rotte con le isole minori ha ormai un solo dominus. Sns è formalmente una joint venture fra la Liberty Lines degli armatori Morace e la Caronte delle famiglie Franza e Matacena, ma quest’ultima potrebbe a breve ritrovarsi monopolista di un mercato che fino al 2012 contava almeno 5 compagnie. Nel 2012 la statale Siremar fu privatizzata, con lo sbarco in Sicilia del gruppo Lauro. Ma il Consiglio di Stato nel 2016 – senza che l’Antitrust eccepisse – ribaltò la gara e il ministero dello Sviluppo Economico assegnò a Sns navi, personale, rotte e i 660 milioni della convenzione. Così da 5 operatori si passò in breve a 2: Liberty (allora Ustica Lines) e Caronte acquisirono rispettivamente Traghetti delle Isole e Navigazione Generale Italiana, titolari dei 5 appalti regionali per l’integrazione del servizio pubblico (115 milioni fra 2016 e 2020). A scardinare il duopolio l’inchiesta Mare Mostrum che nel maggio 2017 travolse i Morace (appena chiesto il rinvio a giudizio insieme all’ex governatore Crocetta, l’ex sottosegretario Vicari e altri): Ustica divenne Liberty, fu commissariata e vendette Traghetti delle Isole proprio a Caronte. Che, pronta a rilevare anche le restanti attività dei soci in rotta, è ormai padrona dei mari siciliani. Con l’avallo del ministro contrario ai monopoli marittimi. Ma solo in Sardegna.

Comitato Consob, in difesa dei risparmiatori i soliti noti (e pure imputati o multati)

È un parterre de roi quello che dal 20 febbraio siederà per due anni nel Comitato operatori di mercato e investitori (Comi), nuovo organo consultivo di 30 membri istituito da Consob. I componenti, “scelti tra persone di specifica e riconosciuta esperienza e professionalità” in rappresentanza di operatori, esperti e associazioni dei consumatori, diranno la loro su temi regolamentari e di vigilanza per tutelare investitori e risparmiatori.

Alla presidenza è stato nominato Gian Maria Gros-Piero, membro dell’esecutivo Abi, presidente di Intesa Sanpaolo e di Astm, ex presidente di Iri, Eni e Atlantia, consigliere di Edison, ex consigliere di Fiat, Nomisma, Confindustria e Federazione banche assicurazioni finanza (Febaf). A marzo 2014 fu coinvolto nell’azione di responsabilità da 2,4 miliardi contro gli ex vertici di Seat Pagine Gialle, ma l’8 aprile 2014, secondo Reuters, scattò la prescrizione. Insieme a decine di altri banchieri a marzo 2005 il Tesoro su proposta della Consob lo sanzionò per i collocamenti ai risparmiatori dal 2000 al 2002 dei bond Cirio, quand’era consigliere di Crt.

Nel Comi c’è anche Alessandro Profumo, sanzionato come ad di UniCredit per i bond Cirio e poi ancora da Consob ad agosto 2007 per i derivati piazzati ai clienti dal 2003 al 2004. Ora ad di Leonardo, Profumo da aprile 2018 è a processo a Milano come ex presidente di Mps per aggiotaggio e falso in bilancio per la rappresentazione dei derivati Santorini e Alexandria, contestata da Consob a febbraio 2013. All’epoca Giuseppe Ursini, avvocato del Codacons anch’egli nel Comi, chiese alla Ue di bloccare gli aiuti di Stato a Mps perché basati su “informazioni non vere” e denunciò “il palese conflitto d’interessi” di Fabrizio Saccomanni, ex direttore generale di Banca d’Italia all’epoca ministro dell’Economia, anche lui nel comitato. C’è poi Victor Massiah, consigliere delegato di Ubi e membro dell’esecutivo Abi. Massiah è alla sbarra a Bergamo con Giovanni Bazoli e altri per ostacolo alla vigilanza per avere nascosto, secondo l’accusa, i patti occulti tra associazioni di azionisti bergamaschi e bresciani. A fornire elementi all’accusa hanno contribuito le istruttorie della Consob. Dal gruppo Ubi viene anche Marco Fumagalli, presidente e ad di Capital for Progress 2 ed ex manager Consob. L’ispezione condotta dall’8 febbraio al 23 luglio 2010 da Bankitalia sull’attività di capital markets di Centrobanca, guidata da Fumagalli dal 2002 ad aprile 2015, il 15 giugno 2011 portò a sanzioni per 339 mila euro. In quota Abi c’è Carlo Fratta Pasini, dal 1999 presidente di Popolare di Verona ora Banco Bpm. Il 17 settembre 2015 la Consob lo sanzionò insieme ad altri perché, dalle ispezioni condotte tra il 2013 e il 2014, era emerso che la banca vendeva ai clienti prodotti finanziari inadatti a loro che però le fruttavano di più. Per aver piazzato ai risparmiatori i bond di Giacomelli, Lucchini, Giochi Preziosi, Italtractor e Parmalat finiti in default, Consob sanzionò anche il membro del Comi, Luca Garavoglia, presidente di Campari, che dal 1999 al 2002 era nel cda della Popolare di Lodi con Fiorani.

Nel Comi c’è Bianca Maria Farina, presidente dell’associazione delle assicurazioni Ania, dal 2007 al 2017 ad di Poste Vita e Poste Assicura, consigliera di Poste e dell’Autorità finanziaria della Santa Sede. Poste Vita nel 2009 ha transato con i clienti danneggiati dalle sue polizze index linked, mentre Poste a ottobre ha calcolato in oltre 100 milioni i danni subiti dai clienti cui ha venduto quote dei fondi immobiliari Obelisco e Irs di Investire Sgr del gruppo Banca Finnat del banchiere Giampietro Nattino, indagato nel 2015 per presunto riciclaggio in Vaticano, ed Europa Immobiliare 1 di Vegagest Sgr, legata al crack di CariFerrara. In Comi c’è poi Marco Tofanelli, segretario generale di Assoreti e dal 2010 consigliere indipendente di Investire Immobiliare Sgr.

Anna Gervasoni, direttore generale di Aifi, l’associazione italiana del private equity e consigliere indipendente di Fondo Italiano d’Investimento, Banca Generali e Sol, fu multata nel 2014 da Consob per 25 mila euro insieme agli altri sindaci di Saipem per non aver comunicato irregolarità nelle commesse in Kuwait e Iraq e una frode in una controllata portoghese. C’è poi Marcella Panucci, dg di Confindustria e consigliere del Sole 24 Ore negli anni nei quali si verificarono le false comunicazioni sociali e la manipolazione di mercato per le quali Consob prepara sanzioni e la procura di Milano chiede il rinvio a giudizio dell’ex presidente Benedini, dell’ex ad Treu e dell’ex direttore Napoletano.

Ci sono, infine, uomini delle big four della revisione contabile. Deloitte è stata multata da Consob per 80 mila per i bilanci 2012 di CariFerrara. Nel 2016, insieme a Pwc, è stata chiamata in causa civile dai commissari liquidatori per 100 milioni. Pwc è stata sanzionata da Consob per “gravi irregolarità” nei bilanci 2014 e consolidato 2015 di Veneto Banca (600 mila euro) e 2012 di Banca Etruria (180 mila euro). Kpmg ha ricevuto da Consob sanzioni per 300 nila euro per i bilanci 2014 della Popolare Vicenza e per 450 mila euro per i bilanci 2008 e 2009 di Mps. Reconta Ernst & Young è stata bastonata da Consob per 200 mila euro per il bilancio 2010 di Fondiaria Sai e per 30 mila euro per quello 2011 di Pierrel.

Il silenzio tra Roma e Bruxelles: nessuno tratta più sui conti 2020

Nessuno sta trattando: per la prima volta da molti anni, il dialogo tra governo italiano e Bruxelles sui conti pubblici è fermo, proprio ora che ce ne sarebbe più bisogno. Il ministero del Tesoro guidato da Giovanni Tria non ha ricevuto alcuna indicazione politica da Palazzo Chigi. E anche il premier Giuseppe Conte sembra avere tutt’altri pensieri al momento: dopo aver escluso ogni manovra correttiva per il 2019, non ha più espresso alcuna linea di politica economica. Anche il suo uomo più fidato nelle trattative con Bruxelles, il consigliere Piero Cipollone, non sembra attivo in questa fase.

Eppure la situazione è delicata. I fondi speculativi, nel loro continuo sforzo di individuare momenti spartiacque che potrebbero giustificare un rapido cambio dei prezzi sul mercato obbligazionario, guardano a maggio. Non per le elezioni europee, che pure sono importanti. Ma perché la Commissione Ue dovrà presentare le sue raccomandazioni specifiche per ogni Paese, sulla cui base i governi devono (o dovrebbero) impostare le leggi di Bilancio in autunno. In altri anni, di questi tempi, al ministero del Tesoro era un gran fermento per contenere i danni, per evitare richieste inaccettabili. Oggi, invece, nulla.

“La turbolenza manifestatasi nella seconda metà del 2018 è stata anche frutto di fraintendimenti circa le intenzioni di questo governo in tema di appartenenza all’Unione europea che hanno portato ad atteggiamenti di alcuni operatori che prescindevano da una valutazione concreta dei fondamentali del nostro Paese e della oggettiva sostenibilità del suo debito pubblico. Questi fraintendimenti sono oggi superati”, ha detto il ministro Tria alla Camera un mese fa. Una dichiarazione, come tante altre sue, simile a un auspicio, più che a un impegno.

La questione delle raccomandazioni è importante per il precedente del 2018. La Commissione formula la sua proposta di raccomandazioni il 23 maggio 2018, quando in Italia ancora un governo non c’è. Ma quelle raccomandazioni vengono poi votate dal Consiglio europeo, cioè dai capi di Stato e di governo che si assumono l’impegno ad applicarle, il 28 giugno. In quel momento Conte si è già insediato da quasi un mese, l’Italia gialloverde vota degli impegni precisi: contenere l’aumento spesa corrente allo 0,1 per cento del Pil nel 2019, fare la riforma del catasto, riformare le agevolazioni fiscali, “ridurre il peso delle pensioni di vecchiaia nella spesa pubblica al fine di creare margini per altra spesa sociale”. Il deficit obiettivo era lo 0,8 per cento del Pil, molto lontano da quel 2,1 che poi sarà alla fine del negoziato. L’unica parte che sarà di fatto rispettata, oltre alla riduzione dei crediti deteriorati nei bilanci delle banche, è quella che riguarda la riforma delle politiche attive del lavoro, nell’ambito della legge che introduce il reddito di cittadinanza.

A giugno, a Bruxelles, Conte prende degli impegni poi torna in patria e, nonostante le rassicurazioni che Tria aveva dato ai mercati finanziari e agli interlocutori internazionali, fa esattamente il contrario. Commissione e Consiglio non l’hanno presa bene. È vero che il 26 maggio ci sono le elezioni europee, ma tutto questo negoziato lo gestirà l’attuale Commissione guidata da Jean Claude Juncker. E cosa pensa del governo si capisce dall’ultimo country report sull’Italia pubblicato nei giorni scorsi: debito preoccupante, il cui costo reale implicito (che considera inflazione e durata dei titoli) continua a crescere più del Pil, cosa che lo rende insostenibile, la spesa per interessi che passerà dal 3,6 per cento del Pil nel 2019 al 3,8 nel 2020, la riforma di quota 100 che ha aumentato proprio la spesa per le pensioni di vecchiaia che l’Italia aveva promesso di ridurre.

Ad aprile il governo presenterà un Documento di economia e finanza, secondo quanto risulta al Fatto, senza alcun indizio su come affrontare i grandi problemi della legge di Bilancio 2020: nessuna manovra correttiva, nessuna scelta sulla clausola di salvaguardia da 23 miliardi sull’Iva (sale l’imposta sui consumi o il deficit?), nessuna presa d’atto che l’obiettivo di 18 miliardi di privatizzazioni non sarà raggiunto. Ma a maggio la Commissione chiederà conto. E a fine giugno le raccomandazioni dovranno essere approvate dal Consiglio europeo, Italia inclusa. Già a dicembre Conte non ha seguito negoziati importanti, come quelli sulla riforma del fondo salva Stati, e poi ha provato a mettere il veto alla fine, senza successo. Questa volta tale approccio rischia di essere ancora meno utile. Nell’ultimo report la Commissione avverte che “nel 2020 le misure fiscali già approvate produrranno un deterioramento più marcato del rapporto tra debito e Pil, senza considerare le entrate aggiuntive dovute alla clausola Iva”.

Sarà impossibile chiedere alla Commissione di rinviare ancora i problemi. I dati Istat sul Pil dell’ultimo trimestre 2018 dicono che la recessione è meno grave che nelle prime stime – Pil -0,1 per cento invece che -0,2, calo contenuto di consumi e investimenti – ma la crescita dell’1 per cento nel 2019 promessa dal governo pare impossibile. E sui mercati c’è chi comincia a scommettere che il momento della verità sui conti per il governo arriverà già entro giugno e non a dicembre, quando si scrive davvero la legge di Bilancio.

Dottrina Monroe, Venezuela, media e geopolitica: un caso di scuola

Era fatale ed è successo. Non bastava che Trump avesse nominato Elliott Abrams, vecchio arnese del golpismo Usa in Sudamerica, “inviato speciale” per il Venezuela; ora il consigliere per la Sicurezza John Bolton dice l’indicibile: “Questa amministrazione non ha paura a usare la frase Dottrina Monroe”. Che poi sarebbe quella teoria che, variamente articolata nei decenni (vedi il Corollario Roosevelt), sostiene che gli Stati Uniti nel loro continente fanno un po’ come cazzo gli pare. Per farlo, però, hanno bisogno di massaggiare un po’ l’opinione pubblica mondiale. Funziona così: ricordate il deputato di opposizione venezuelano Freddy Superlano e suo cugino, avvelenati dai sicari di Maduro in Colombia dopo il concerto “umanitario” di Richard Branson (Virgin)? Ecco, quello che sappiamo di quell’episodio è questo: i due, dopo una notte di festa, si appartano con due prostitute in un motel; al mattino li ritrovano assai malmessi, drogati con la scopolamina; sparite invece le due signorine e con loro soldi, gioielli e cellulari; Superlano è in ospedale, suo cugino è morto. Parrebbe un furto finito male (questa tecnica è assai diffusa nell’area), ma il deputato ultra-conservatore Usa Marco Rubio – uno che ha promesso su twitter a Maduro che farà la fine di Gheddafi (con foto allegata) – ha detto che si trattava di un omicidio chavista, probabilmente per mano russa. E così è stato raccontato. Prove? Zero. Dal che si deduce che se il Sudamerica è “il cortile di casa” degli Usa, i media occidentali sono la cuccia del watchdog.

“Rolls Royce” da inno alla droga al Mulino Bianco

Esattamente un mese fa prendeva il via il Festival di Sanremo numero 69, l’edizione più musicale della storia (24 canzoni in gara, praticamente una maratona) una delle meno polemiche di sempre. Con una sola eccezione: Achille Lauro, il trapper che ha scelto come nome d’arte quello dell’armatore monarchico ed è stato accusato di aver portato all’Ariston un inno all’ecstasy (su alcune pasticche c’è scritto Rolls Royce, che è il titolo della canzone). Striscia la notizia si è appassionata al caso, poi ne hanno parlato praticamente tutti i giornali e le televisioni dell’orbe terracqueo. Lui ha rifiutato il Tapiro, sostenendo che il testo della canzone allude ai simboli del lusso e non all’uso di droghe. Ma la cosa non è finita lì. È intervenuto perfino Don Mazzi tuonando con parole durissime contro la Rai: “Il servizio pubblico che sceglie di mettere in gara una canzone che, non solo inneggia alla droga, ma che contiene una frase che mi sconvolge perché va al di là della droga, ma parla anche della fine (‘Voglio una vita così, voglio una fine così’). Non siamo stupidi”. Una polemica così ghiotta se la poteva forse far scappare il nostro onnipresente ministro dell’Interno? Naturalmente no. “È terribile: mi fa schifo solo l’idea” ha detto Matteo Salvini, parlando – immaginiamo noi – da papà.

Uno dice: perché rivangare questa storia? Perché è di ieri la notizia che il brano è stato certificato disco d’oro? No. Perché ieri tutti i giornali online pubblicavano un video “Mulino bianco” in cui una famigliola in auto (padre, madre, due sorelline e una di loro amica) cantavano e ballavano la suddetta canzone. Non è una famiglia qualunque, ma una delle più amate dagli italiani, quella di Zingaretti. Luca, non Nicola: ovvero il commissario più amato dagli italiani. Tutto questo lo raccontiamo non certo per censurare il video o i suoi protagonisti, ma solo per notare quanto il dibattito pubblico sia ostaggio dell’isteria del momento, senza che ci sia mai alcun filtro critico. Rolls Royce è passato in un mese dall’essere un inno alla droga che manco I’m waiting for the man dei Velvet Underground, alla colonna sonora di un divertente video familiare. Ovviamente il significato della canzone non può cambiare a seconda di chi la canta, che se è la famiglia felice del commissario Montalbano allora diventa educativo… Un congiuntivo che lo sbagli Zingaretti (stavolta Nicola) o Di Maio è la stessa cosa. Eppure non si sono uditi alti lai contro l’ignoranza del nuovo segretario Pd, al massimo qualche buffetto sui social. A parte il fatto che alzi la mani chi non ha sbagliato una volta la declinazione di un verbo, la questione non è se Zingaretti sia migliore o più colto di Di Maio (cosa che probabilmente è). È che siamo ormai ostaggio della prima cazzata che diventa trend topic sui social. E allora si traduce in un pezzo sui siti dei quotidiani, quando non sui quotidiani stessi. Ma i media dovrebbero appunto mediare.

Ora, il filtro che s’invoca non è quello della censura, semplicemente quello di un pensiero razionale, in grado di separare le sciocchezze dalle cose degne di essere pubblicate. Altrimenti, incuranti della morale di Pierino e il lupo, saremo davvero condannati all’irrilevanza. E se vale per una cosa piccola piccola come la canzone di Achille Lauro, figuriamoci quanto questo processo incide sulle grandi questioni che i media dovrebbero prendersi l’onore e la responsabilità di veicolare al pubblico.

Riuscirà il nostro eroe Z. a tenere insieme Calenda e i precari di Amazon?

Leggo in ogni dove consigli, incoraggiamenti, vaticini, messaggi speranzosi, pacche sulle spalle, profondi respiri d’orgoglio ritrovato e gran dispiegamento di suggerimenti su tattiche e strategie per il nuovo segretario del Pd Nicola Zingaretti. Mi associo agli auguri, non gli invidio il titanico compito. Confesso però una difficoltà: a leggere gli incoraggiamenti e i messaggi di stima, non si capisce esattamente come facciano (faranno) ad andare d’accordo tra loro i tanti sostenitori di Zingaretti. Perché tra post, tweet, gruppetti più o meno organizzati, ex missionari del verbo renzista velocemente riconvertiti, sinceri democratici, generici di sinistra che sperano in una svolta e scettici vari, non pare che la base sia granitica.

Verrebbe da dire: meglio! In questo modo un grande partito ricomincia a discutere, litiga, si confronta. Però è impressionante vedere quanto lontane siano le anime in coabitazione. Vogliono unità, si legge nei sondaggi e nei carotaggi della pubblica opinione che ha votato alle primarie, ed è una bella cosa, ma poi bisogna vedere unità tra chi, e chi vuole cosa, e come farlo. A quanto pare il contenitore contiene un po’ di tutto, dai Calendiani del Settimo Giorno ai Renziani Redenti, ai nostalgici della Ditta e del prodismo, a molta sinistra dispersa che non sa più dove sbattere la testa. Insultatori seriali da social e pensosi strateghi convivono per ora, in questa piccola luna di miele zingarettiana.

Ora che le faccende politiche corrono molto in fretta, che la cronaca supera il pensiero, non sarebbe male, invece, guardare un po’ al di là. Al di là anche delle Europee, delle grandi opere, al di là degli scenari contingenti. Chiedersi come debba stare al mondo una forza di (ritrovata?) sinistra. Il pensiero, insomma, qual è? Si possono tenere insieme blocchi sociali così eterogenei? Si può stare allo stesso tempo con le madamine della collina torinese e con i magazzinieri Amazon che corrono dietro ai loro pacchi senza nemmeno riuscire a fermarsi per pisciare? Mi scuso per l’ampiezza della domanda, cercherò di farla breve: puoi rappresentare allo stesso modo uno che tifa Calenda, che si fa dettare la linea da Il Foglio, o rimpiange Marchionne, e uno che chiede soluzioni sulla sua precarietà, sul suo lavoro pagato male e sulla strenua difesa del poco welfare rimasto?

Chi ha visto la manifestazione di Milano, un fatto politicamente notevole, ha capito che una spinta da sinistra c’è, ed è forte. E nemmeno tanto generica, a sentire discorsi, striscioni e slogan sulla questione immigrazione. Un sussulto antisalviniano evidente e conclamato, bene. La domanda per il nuovo segretario è se sia possibile accogliere quelle energie, ma anche come connetterle alla dottrina Minniti sull’immigrazione, sempre difesa nella campagna per le primarie.

Non si chiedono soluzioni immediate, ovvio, però già la presa di coscienza che non si può tenere insieme tutto e il contrario di tutto sarebbe una bella svolta. Dal punto di vista politico la differenza è già evidente: chi vuole la guerra senza quartiere al governo gialloverde e chi spera di staccare, alla lunga, il giallo dal verde, rimescolando le carte.

Ma più che la strategia politica interessa la prospettiva ideale (se è consentita la parolaccia, ideologica): si vuole risarcire chi in questi anni ha pagato la crisi e colpire finalmente chi l’ha usata per arricchirsi? La sensazione per ora è che sia saltato il tappo renzista che bloccava tutto, e che si possa ricominciare a ragionare. Ecco, bene. Ma ragionare di cosa, quali priorità darsi, sarebbe da decidere in tempi brevi. “Tornare a sinistra” si legge nel sentimento diffuso, bella notizia, ma questo vorrebbe dire cambiare radicalmente le politiche degli ultimi anni. Riuscirà il nostro eroe… eccetera eccetera?

Grandi opere inutili, il ventennio perduto

Le Grandi Opere nascono trionfalmente nel 2001 con Berlusconi, ovviamente senza bisogno di alcuna analisi di alcun tipo: le ha decise lui e tanto basta. Il Pd strilla fortissimo. Poi un po’ meno forte, alla fine contro una sola su 19, il ponte sullo Stretto di Messina. Nei governi successivi emergono voci dissonanti dal “nuovo che avanza”: Matteo Renzi e il suo ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio esprimono perplessità su questo uso dei soldi pubblici. Delrio, appena diventato ministro, con molto coraggio dichiara che occorrono accurate valutazioni per decidere, e mette a punto delle linee-guida, basate sull’analisi costi-benefici. Anche lo scrivente, entusiasta, collabora, insieme a molti altri studiosi.

Improvvisamente arriva la Grande Svolta Operistica di Renzi: deve raccogliere consensi, e cosa c’è di meglio delle Grandi Opere? Anche se risultassero inutili, si saprà tra un decennio, intanto si fanno contenti i costruttori, i sindacati (allora la Fiom di Maurizio Landini era contraria…), i politici locali e gli utenti che, indipendentemente da quanti saranno, non pagano. I contribuenti non sanno e non protestano.

Delrio si adegua e rinuncia a ogni analisi, persino alle previsioni di traffico. C’è grande costernazione tra molti studiosi, ma non tutti. Anche l’introduzione di un po’ di concorrenza nei trasporti, che era nel programma iniziale renziano cui lo scrivente collaborò, si ferma (vedi la fusione tra Ferrovie e Anas per creare un colosso pubblico senza molto senso se non anti-concorrenziale).

Con questo nuovo governo il programma iniziale di Delrio riprende la marcia, certo in modo in po’ affrettato: molti cantieri sono stati incautamente avviati o resi difficilmente reversibili. E fare analisi costi-benefici, per la prima volta, potrebbe servire a dire anche dei “No” motivati.

Nere nuvole si addensano su alcune opere pubbliche di dubbia utilità, o almeno priorità. Mai era successo prima: giustamente gli interessati, che a vario titolo si aspettavano i 133 miliardi promessi dal governo precedente, reagiscono attraverso i media. Il sistema delle grandi opere pubbliche in tutto il modo è poco aperto alla concorrenza, per ragioni tecniche sulle quali qui non possiamo dilungarci. La riprova è che quelli delle maggiori imprese nazionali sono sempre in prima linea in queste battaglie: se ci fosse anche una remota possibilità di gare vinte da perfidi stranieri forse si agiterebbero meno.

Anche il mondo accademico si mobilita per la causa: studiosi che mai hanno pubblicato qualcosa sul tema, ma soprattutto che mai hanno fatto realmente analisi costi-benefici, si trovano espertissimi della materia, criticando severamente la metodologia che rischia di dire dei “No”. A questi ovviamente si aggiungono studiosi che analisi ne hanno davvero fatte, ma che per ragioni stranissime non hanno mai (mai!) avuto risultati negativi. “Tutto va ben, madamina la marchesa”, perché dubitare dell’avvedutezza dei nostri saggi governanti? Certo le metodologie che dicono dei “No” devono essere sbagliate. Che il settore abbia una fenomenale storia di corruzione e di penetrazione della malavita organizzata è un altro dettaglio del tutto trascurabile.

Ora, val la pena di ricordare qualche aspetto macroeconomico che caratterizza il settore delle grandi opere civili: creano molta poca occupazione per euro speso (sono capital-intensive), tale occupazione è temporanea, ci vogliono dieci anni a finirle (cioè non sono anticicliche), rispetto ad altri settori hanno un modesto contenuto di innovazione tecnologica, sono alquanto impattanti sul territorio, e, come abbiamo già visto, non sono molto apribili alla concorrenza (mentre sono più apribili ad altri attori meno simpatici…). Se hanno un rapporto benefici-costi negativo, fanno diminuire il Pil, non lo aumentano (in realtà la faccenda è più complicata di così, ma non ci si può dilungare qui). Tutto il contrario di investimenti in tecnologia e in manutenzione dell’esistente, soprattutto nel settore dei trasporti.

Guardiamo il futuro: lo sviluppo del Mezzogiorno sembra a chi scrive una priorità certo ancora maggiore che intervenire nel Nord sviluppato. E non sono certo opere civili o di trasporto di dubbia utilità che lo faranno crescere. Secondo molti studiosi anzi queste sono un “gelato al veleno”, dati i rischi che, per ragioni geografiche e demografiche, rimangano fortemente sottoutilizzate.

Qui davvero la tecnologia e la manutenzione sembrano scelte irrinunciabili, e le analisi economiche e finanziarie possono essere un fondamentale strumento per migliorare le decisioni, piuttosto che la secolare tradizione dell’“arbitrio del principe”.

 

Mail box

 

I 5Stelle avrebbero potuto ribaltare gli equilibri politici

L’errore grave dei Cinque Stelle non è stato tanto quello di aver sottratto Salvini alla magistratura, quanto quello di essersi sottratti, loro, dal fare politica. Forse per paura, forse per poltronismo, forse per ingenuità. Nel grande gioco di questi giorni, il caso li aveva portati al banco del tiro al bersaglio e aveva messo loro di fronte il pupazzo con premio, distante non più di cinquanta centimetri: sarebbe bastato, per vincere, stendere il braccio e poggiare il colpo. Il Capitano sarebbe finito in guai seri: un processo con rischi tutt’altro che remoti di condanna e, a seguire, l’eventuale fine della sua carriera politica. Chi aveva paventato la caduta del governo sarebbe stato in errore, poiché mai la Lega avrebbe abbandonato il potere nella condizione di debolezza in cui si sarebbe trovata con il capo a processo. E poi a che fine? Per cumulare la loro alla debolezza di Berlusconi? I Cinque Stelle avrebbero potuto fare tutto ciò senza remore, poiché risaputa era stata fino a quel momento la loro coerenza in questioni giudiziarie. E, soprattutto, avrebbero potuto ribaltare la sottomissione politica che ora li sta schiacciando. Se, poi, avessero voluto sottrarre Salvini alla magistratura, almeno avrebbero dovuto pretendere qualcosa in cambio: prescrizione bloccata già da subito e non dal 2020; conflitto d’interessi; leggi antimafia; ecc… Senza bisogno di scomodare il Machiavelli, la politica è commercio ragionato con il male, cioè cozzi ed equilibri di forze, per il bene della comunità. Da troppo tempo i politici italiani commerciano con il male per i beni propri.

Daniele Barni

 

La forza del neo-segretario è anche la sua debolezza

Sono contento che Nicola Zingaretti abbia vinto le primarie per la nomina del nuovo segretario del Pd; era sicuramente il meno peggiore dei tre candidati. Ma neanche lui mi convince. Lui insiste sulla costruzione di un partito che non escluda ma che includa mentre gli altri due candidati (Martina e Giachetti) non lo hanno fatto.. Ma io vedo non solo aspetti positivi ma anche negativi nella posizione di Zingaretti. Il rischio è che questa tendenza a non escludere nessuno sfoci nel consociativismo, cioè nella tendenza a includere anche chi dovrebbe essere escluso. Se il Pd non emarginerà i suoi peggiori rappresentanti rischierà di continuare a dare un’immagine negativa di sé stesso e a non rappresentare quella forza politica rinnovata di cui c’è bisogno.

Franco Pelella

 

DIRITTO DI REPLICA

I centri antiviolenza e le attiviste per i diritti delle donne hanno criticato fortemente la sentenza della Corte d’Appello di Bologna nei confronti di Michele Castaldo, che era stato condannato in primo grado a 30 di reclusione per aver strangolato a mani nude Olga Matei, con la quale aveva una frequentazione da un mese. Ho letto che il Fatto Quotidiano ne ha dato una lettura opposta.

Vorrei portare le ragioni delle attiviste dei diritti delle donne. Ci sono più elementi che sono stati messi in discussione. Il primo è la contraddittorietà di una sentenza che da una parte reputa la gelosia un’aggravante, mentre dall’altra riconnette la “soverchiante tempesta emotiva e passionale”, elemento per il quale sono state concesse le attenuanti, al sentimento di gelosia. Ciò che era uscito dalla porta rientra dalla finestra.

La gelosia quindi, checché ne dica la Corte d’Appello, c’entra nella valutazione della concessione delle attenuanti. Ebbene, quanti uomini si sentono autorizzati ad uccidere dalla cultura del possesso, da quella gelosia che è in realtà esercizio di controllo sulla vita delle donne? Quel “mia o di nessuno” (pronunciata dallo stesso Castaldo) diventa una motivazione talmente forte da uccidere. I giudici sono chiamati a prendere parola su ciò che turba l’ordine sociale e a dare letture con le quali restituiscono una rappresentazione simbolica della realtà e delle relazioni umane. La domanda che si fanno le attiviste per i diritti delle donne è: fino a quando il sentimento di gelosia o gli stati emotivi ad essa connessi potranno assumere un valore ed un peso tali da attenuare il disvalore dell’assassinio di una donna? Il giudice di primo grado la sua risposta l’aveva data. La Corte D’Appello ha scelto diversamente.

Nadia Somma

 

Sono Matteo Baroni, dipendente dell’Autorità del Sistema Portuale di Livorno. In merito al vostro articolo dell’edizione online (“Livorno, favorivano illegalmente il gruppo Grimaldi: interdetti i vertici dell’autorità portuale, al via commissariamento”) segnalo che mi avete erroneamente inserito tra gli indagati. Faccio presente che non sono indagato nell’indagine in oggetto e che in nessun modo vi sono coinvolto, non essendo mai stato dirigente, e occupandomi di tutt’altro che demanio.

Matteo Baroni

È a causa di un refuso: il correttore automatico ha modificato il nome corretto. Ce ne scusiamo con l’interessato e con i lettori.

a.m.