Reddito di cittadinanza. La nuova leadership del Pd alla prova di “sinistra”

Pur volendo forzatamente riconoscere un’utilità presunta del Tav (la destra e il Pd sono forti sostenitori. Avranno un loro motivo), perché sbeffeggiare e screditare una grande manovra d’umanità quale è il reddito di cittadinanza? È più moralmente e umanamente utile far soffrire meno la fame a moltissime persone o far viaggiare merci (il treno per le persone c’è già) ad alta velocità? Perché sciupare miliardi che potrebbero essere aggiunti per un aiuto concreto alle persone che sono disoccupate, non perché disprezzino il lavoro ma perché oggi lavorare a tempo indeterminato è quasi assolutamente impossibile? Come mai non si pensa a chi per mille motivi non può guadagnare quel tanto da permettersi una vita più serena e dignitosa, se non illegalmente? Facciamo favori alle mafie? Cosa c’è più di sinistra se non il desiderio politico di aiutare chi ha veramente bisogno? Che tipo di sinistra è quella d’oggi che arriccia il naso verso i buoni propositi? Forse perché pensati da altri? Be’, sarebbe ora per una convergenza e non per una divergenza su temi molto ricchi di umanità. Altrimenti sarà sempre l’ipocrisia a muovere lo spirito.

Roberto Calò

 

Gentile Roberto, la sua lettera pone un tema, perché di fatto ricorda che il reddito di cittadinanza, la bandiera dei Cinque Stelle, potrebbe essere anche un metro per giudicare il neo-segretario del Pd Nicola Zingaretti. O meglio, per capire che rotta vorrà dare ai Democratici, dopo aver garantito la massima discontinuità con la gestione di Matteo Renzi. E in questo senso l’approccio nei confronti del reddito sarà quantomai indicativo. Perché è vero, la misura varata dal governo e ora all’esame del Parlamento evidenzia criticità strutturali, e pare di complicata applicazione pratica, per colpa anche dei tempi strettissimi (il M5S originariamente prevedeva almeno due anni per realizzare la riforma). Però l’atteggiamento di totale muro del Pd renziano è sembrato a tanti contronatura. Perché è innegabile, il problema della povertà diffusa è, o almeno dovrebbe essere, la prima urgenza di qualsiasi partito di sinistra. E allora i toni già in parte differenti di Zingaretti (“Non abolirei il reddito, ma lo rifarei completamente”) paiono l’inizio di un discorso e di un confronto diverso. E l’auspicio, da fuori, è che un confronto su questa misura ci sia, per davvero. Per i poveri, a fronte dei quali tutto il resto è veramente residuale.

Luca De Carolis

Quale politica uscirà dall’uovo?

Una strana epidemia affligge l’Italia. Partito dai politici, il contagio si è esteso dappertutto. Il morbo passa inosservato perché non è mortale, ma produce danni irreversibili. Si chiama miopia.

Comporta un’ossessiva concentrazione sul presente, l’incapacità di elaborare progetti di lunga durata, il ripudio di ogni visione strategica, l’indifferenza ai dati di fatto, il rigetto di ogni soluzione. Insomma, il lento suicidio di chi corre verso il precipizio ma non ci crede, e non cambia strada né mette il piede sul freno. Nasce così quel che con metafora ciclistica si chiama surplace: la tecnica di star fermi, in equilibrio sulle ruote, spiando l’avversario. Ma se tutti i ciclisti fanno surplace, la gara non parte mai. Questo flusso d’incoscienza pervade la scena politica. In luogo dei disastri sempre imminenti e sempre rinviati, genera stagnazione.

Calamandrei diceva che la Costituzione è presbite, perché guarda lontano; ma le istituzioni di governo sono in preda alla miopia. Il suo contrario è la chiaroveggenza: la capacità, o almeno il tentativo, di prevedere quel che accadrà, e non solo nell’immediato futuro. Il quadro di Magritte Clairvoyance è una vera lezione di lungimiranza. Un pittore siede davanti alla tela, pennello in mano, e fissa il suo modello, un uovo posato sul tavolo. Ma il pittore, chiaroveggente, dipinge l’uccello che nascerà: anticipa i tempi, “vede” il futuro che cova dentro il presente. Il suo sguardo a raggi X ‘legge’ nell’uovo il Dna, ‘sa’ se ne nascerà uno sparviero o un piccione.

Quale Italia dipingerebbe oggi il pittore di Magritte? Sul tavolo metterebbe non un uovo ma tre: quelli della Lega, dei Cinque Stelle e del Pd. Il codice genetico dell’uovo leghista non ha misteri: al Parlamento e spesso al governo da trent’anni, punta non a conquistare il potere ma a conservarlo, consolidarlo, allargarlo. Professa il trasformismo, passando dalla secessione al sovranismo nazionale, per poi rilanciare la secessione travestita da autonomismo regionale. Coltiva i potenti, da Confindustria in giù, ma anche l’uso strumentale di temi demagogici, dalla sicurezza alla razza. Pratica alleanze a geometria variabile: spesso con Berlusconi ma talvolta contro; contro il Pd, ma talvolta in combutta con esso; al governo coi 5S, ma per fagocitarne una fetta di elettorato. Insomma, in quell’uovo cova il rapace che già conosciamo, con tutte le sue incarnazioni da Bossi a Calderoli a Salvini.

Il codice genetico dell’uovo a Cinque Stelle è più o meno l’opposto. Miope come pochi, rifiuta e deride occhiali e oculisti, e nemmeno si accorge che qualcuno lo sta cuocendo a fuoco lento. Anzi, secondo la dottrina Grillo diffusa ex cathedra a Oxford, i 5S sono “sentimentali, l’esatto opposto dei machiavelliani competenti di prima” (Il Fatto, 25 gennaio): col che si scopre che il governo Renzi pullulava di competenti come, per dire, la Sig.a Boschi. In nome di tale priorità dei sentimenti predica la retorica dell’incompetenza, pratica l’improvvisazione mista a diffidenza, rifugge dall’analisi pur di “tenere il punto” di slogan elettorali. Si rassegna a veloci giravolte negandole con infantili trucchetti verbali (il 2,04% di deficit spacciato per sinonimo del 2,40%). Insomma, in quell’uovo cova un tacchino alla vigilia del Thanksgiving.

Il dna dell’uovo Pd è sfuggente, trattandosi di uovo con più tuorli che fingono di essere uno solo. Il suo vizio solitario è uno sconsolato attendismo, che nasconde l’assenza di progetto dietro lo zoccolo duro di fedelissimi con un piede nella fossa. Compulsa lessici elaborati da generazioni di burocrati di partito, convinto che rimescolando vecchie parole d’ordine con una qualche ‘modernizzazione’ si (ri)conquisteranno le masse in fuga. Ipotizza una leadership autorevole, ma spesso si affida a larve o ciarlatani. Pretende per diritto di nascita l’egemonia di governo, ma poi si consola con dosi massicce di pop corn. Passa dalla nostalgia di quando era “in mezzo al guado” alla voglia di allearsi con chicchessia pur di tornare in gioco. Se gli asini facessero le uova, sarebbe sicuramente l’Asino di Buridano (quello che, avendo a portata di bocca due mucchi di fieno, muore di fame perché non sa scegliere). Ma gli asini non fanno uova, dunque sarà, diciamo, una gallina fra due mucchietti di mangime.

Con queste premesse, l’esito è scontato: una frittata. Ma con che ricetta? La più probabile sembra a oggi la frittata leghista, che per ingredienti avrà un pezzo di elettori 5S e le destre, nonché chi nel Pd guarda a Berlusconi. L’alternativa ci sarebbe, la frittata 5S con quel pezzo di Pd che, vedendo la Lega divorare i 5S, rimpiange di non aver tentato una strategia analoga dopo le elezioni. Intanto si scontrano due opposte fazioni: i Benaltristi e i Menpeggisti. Gli uni sostengono che il governo in corso sbaglia quasi tutto, ma comunque è ben altro da quello prima e quello dopo, che sono ancor peggio. Gli altri ribattono che il governo prima e quello dopo hanno sbagliato e sbaglierebbero quasi tutto, ma sono comunque meno peggio del governo attuale. Nella generale miopia le due tesi si confondono, tutte le frittate si equivalgono, e insomma “non c’è alternativa”.

Ma arriverà mai un’alleanza di governo mirata non al piccolo cabotaggio del potere o a svuotare il serbatoio elettorale dell’avversario, ma ad analizzare problemi e progettare il futuro? Urge una coalizione d’intelletti capace di elaborare un’idea d’Italia e un’idea di Europa per cui combattere, di indicare traguardi lungimiranti, di rimettere al centro le competenze in senso non solo tecnologico, di puntare sulle generazioni future e la loro formazione. Ma questo orizzonte richiederebbe una mutazione genetica: qualcuno che, in questo popolo di Miopi, si decida a inforcare gli occhiali della Costituzione, a ripartire dai nostri diritti. È improbabile, certo. Ma non impossibile.

Nessun prestito, la pala di Caravaggio non si muove

Caravaggio non si muove. Con un provvedimento impensabile nell’era Franceschini, la Direzione generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del ministero per i Beni culturali (ora affidata a uno dei più fini conoscitori della legislazione del patrimonio culturale, Gino Famiglietti) ha risposto ‘no’ alla richiesta del prestito delle Sette Opere di Misericordia, la grande (389×256 cm) pala d’altare della chiesa del Pio Monte della Misericordia a Napoli. Dopo aver argomentato sul piano storico e conservativo (i restauratori inviati da Roma hanno definito la movimentazione “particolarmente rischiosa”), il ministero ritiene che “i rischi ai quali l’opera verrebbe esposta al solo fine di essere trasferita presso un’istituzione culturale (il Museo di Capodimonte) che si trova a poco più di 2 chilometri dalla chiesa nella quale essa è ben conservata sconsiglino di autorizzare il prestito”. Il ministero ha ottenuto la disponibilità del Pio Monte a ospitare in loco una sezione della mostra caravaggesca e invita dunque “gli organizzatori” a prendere in considerazione questa ottima alternativa. Insomma, hanno trionfato le ragioni della tutela, e quelle del buon senso: una volta tanto.

San Ferdinando, oggi all’alba lo sgombero di 1.500 persone

Inizierà questa mattina all’alba lo sgombero della baraccopoli di San Ferdinando dove, in poco più di un anno, si sono verificati diversi incendi in cui sono morti tre migranti. In seguito all’ordinanza di demolizione, 900 gli agenti di polizia, carabinieri e guardia di finanza sono stati mobilitati per lo sgombero del ghetto. A questi vanno aggiunti gli uomini del genio guastatori dell’esercito, i vigili del fuoco e il personale dell’Azienda sanitaria provinciale. Da giorni sono in corso i trasferimenti volontari dei migranti negli ex-Sprar e nei Cas. Tra quelli che hanno rifiutato e i lavoratori stagionali che da anni vivono in Italia e per questo sono fuori da ogni circuito dell’accoglienza, nella baraccopoli ci sono ancora 1.500 persone.

Alcuni di questi, stando ai piani della prefettura, saranno spostati nella nuova tendopoli e nell’accampamento realizzato vicino. La maggior parte, però, non avrà dove andare ed essendo persone libere, per legge, non possono essere obbligate a trasferirsi in strutture di prima e seconda accoglienza. Nonostante le rassicurazioni che lo sgombero avverrà in un clima sereno, stamattina è alto il rischio di proteste e tensioni. Lo si percepisce dallo schieramento delle forze dell’ordine e dal fatto che tra i mezzi schierati ci saranno alcuni idranti che – dicono fonti istituzionali – “entreranno in azione solo in caso di proteste massicce”. Il nervosismo lo si percepisce anche per la presenza dei giornalisti che hanno ricevuto una nota con le “istruzioni” di come comportarsi durante lo sgombero. “È prevista – si legge – una cinturazione dell’area da parte delle Forze di Polizia per ragioni di sicurezza a tutela della pubblica e privata incolumità. Alla stampa è riservata una zona di rispetto, ma appena le condizioni di sicurezza lo permetteranno operatori e giornalisti potranno accedere all’area dello sgombero accompagnati dalle forze di polizia”.

 

Il Comune trascrive il figlio di due papà: è la prima volta di una “gestazione per altri”

Svolta a Milano per i figli di coppie gay: il Comune ha trascritto un certificato di nascita con due padri per via amministrativa, ovvero senza aspettare che glielo ordinasse il Tribunale. È la prima volta che succede da quando la giunta ha deciso di fermare le pratiche per via del dibattito sulla “gestazione per altri” che divide la maggioranza di centrosinistra. Da ottobre ci sono già stati altri numerosi casi di trascrizioni, almeno cinque, ma sempre su indicazione dei giudici.

La vicenda è quella del piccolo Alessandro (il nome è di fantasia, ndr), raccontata sul Fatto Quotidiano lo scorso 22 dicembre. Secondo figlio di una coppia di uomini diventati genitori grazie all’intervento di una portatrice in America, Alessandro non era stato riconosciuto all’anagrafe proprio perché il sindaco Beppe Sala aveva stoppato le trascrizioni, al contrario di quanto era stato deciso pochi mesi prima per il fratello maggiore e a favore del quale c’era stata anche una pronuncia del Tribunale. A fine novembre, dopo aver cercato inutilmente un’intesa con gli uffici, i due padri avevano presentato ufficialmente la domanda anche per il secondo figlio. Non ricevendo risposta nei tempi canonici, si sono rivolti al Tribunale che il 20 febbraio ha ordinato al Comune di decidere entro un mese. A quel punto, gli uffici hanno concesso la trascrizione. Potevano anche negarla, pur conoscendo l’orientamento favorevole del Tribunale, ma questa volta non l’hanno fatto. “Il nostro figlio maggiore adesso ha un fratello anche per lo Stato italiano, che finora non lo riconosceva”, raccontano felici i due padri, assistiti dall’avvocata Susanna Lollini. Per la presidente dell’associazione Famiglie Arcobaleno, Marilena Grassadonia, si tratta di “un passo in avanti, che speravamo Sala facesse prima. Ci auguriamo che indichi un cambio di rotta di cui potranno beneficiare anche altre coppie”.

La gru si stacca dalla piattaforma. Morto il manovratore, trovato in fondo al mare. Due feriti gravi

Una gru si stacca dalla piattaforma Eni “Barbara F.” e precipita in mare trascinando con sé un addetto di 63 anni. Il suo corpo rinvenuto dopo sei ore, incastrato dentro la cabina, e individuato a 70 metri di profondità. Tragedia ieri mattina prima delle 8 a bordo della piattaforma della Eni E&P (Esplorazione e perforazione), posizionata a circa 60 chilometri dal porto di Ancona, in Adriatico. Per cause ancora in fase di accertamento la gru che stava caricando una bombola di azoto prelevata dall’imbarcazione, una supply vessel, di una ditta in appalto, la Bambini di Marina di Ravenna, si è spezzata finendo in acqua. Per il gruista, Egidio Benedetto, 63 anni di San Salvo (Chieti), non c’è stato nulla da fare. Benedetto era un dipendente Eni e presto sarebbe andato in pensione. Miracolati i due operai addetti della Bambini, coinvolti nella dinamica dell’incidente e colpiti dal gancio della gru prima che finisse in mare: “Indossavo il casco – racconta Giuseppe Berardi, 47enne di Mola di Bari, ricoverato con un trauma cranico e una ferita alla testa all’ospedale regionale di Ancona, ma non in pericolo di vita – e questo mi ha salvato. Appena il tempo di guardare in alto dopo uno strano rumore e ho visto la gru cadere dall’alto. Pochi attimi e ho sentito un colpo alla testa, da quel momento non ricordo più nulla. Sono un addetto esperto, da dodici anni lavoro sulle piattaforme e una cosa del genere non mi era mai accaduta”. L’altro operaio, Carmelo Catalano, 53 anni originario di Catania, ha riportato una serie di traumi agli arti e all’addome ed è stato sottoposto ad intervento chirurgico, ma non è in pericolo di vita. La procura di Ancona ha aperto un’inchiesta e come primo atto ha posto sotto sequestro la gru di sollevamento. L’ipotesi del cedimento strutturale dell’impianto resta quella più accreditata. L’autorità giudiziaria ha disposto l’invio di tecnici della Guardia costiera e dei vigili del fuoco per stabilire le cause dell’accaduto.

AAA campagna elettorale offresi alla mafia. Arrestato il pd Ruggirello, “calamita” di voti

“Mi sto giocando tutte le carte per questi politici, vedi che mi devi dare una mano ah! Una mano buona! Dobbiamo raccogliere voti”, dice il boss Pietro Virga al telefono, aggiungendo: “Tu… lo sai che se le cose vanno bene a me… vanno bene a tutti, mi pare che è stato sempre così qua…”. Sono frammenti di una vera e propria delega in bianco lasciata dalla politica a Cosa Nostra, una sorta di outsourcing delle campagne elettorali affidate ai boss quella che emerge dalle oltre 500 pagine dell’operazione Scrigno, 24 tra boss e gregari arrestati ieri dai carabinieri nel Trapanese, insieme a un ex deputato regionale, Paolo Ruggirello, accusato di mafia e indicato dal procuratore di Palermo Franco Lo Voi come ”il ponte tra la mafia e le istituzioni”.

Voti in cambio di soldi, di assunzioni, di appalti per fare eleggere uomini (e donne) fidati delle cosche: “Deve salire a dritta, il marito è uno che ha amicizie forti là a Roma. E se noi arriviamo a questa a portarla là, qualche cosa possiamo concludere, è giusto?”, diceva Virga riferendosi a un’altra candidata, Ivana Inferrera, dell’Udc, poi non eletta. Al centro dell’inchiesta Paolo Ruggirello, deputato regionale per tre legislature, figlio di un ragioniere che negli anni 50 diventò proprietario della Banca Industriale di Trapani sfidando il monopolio sul territorio della Banca Sicula, di proprietà della famiglia dell’ex sottosegretario agli Interni, Antonino D’Alì, anch’egli sotto processo per concorso in associazione mafiosa. Poi non eletto nelle Regionali del 2017, Ruggirello è accusato di avere promesso soldi e finanziamenti pubblici ai mafiosi di Mazara del Vallo, “l’assunzione a tempo indeterminato in ospedale per la figlia di un mafioso, Giovanni Buracci, di Campobello di Mazara”, e avrebbe manovrato per spingere Calogero Giambalvo, nipote dell’associato mafioso Vincenzo La Cascia, dentro il consiglio comunale a Castelvetrano, quale primo dei non eletti, promettendogli anche un lavoro all’interno del Parco archeologico di Selinunte”. Ma anche di avere incontrato riservatamente alcuni fedelissimi del superlatitante Matteo Messina Denaro.

La novità sta proprio nel ribaltamento del rapporto mafia politica, oggi sono i secondi a offrirsi ai boss, in un rapporto che appare di pieno asservimento alle cosche: “Contrariamente a fatti simili già processualmente accertati – scrive il gip nell’ordinanza – sono proprio i rappresentanti locali della politica che si offrono ai mafiosi, proponendosi come loro punti di riferimento, arrivando, in alcuni casi, addirittura ad affidare loro la gestione, seppur parziale, della propria campagna elettorale”. Gestita dai boss porta a porta, contattando gli elettori attraverso i galoppini mafiosi: “A tutti questi già quando gli dà 50 euro, 20 euro per fare la spesa…”, spiegava al telefono Virga. L’inchiesta ha svelato anche le mani di Cosa Nostra su Favignana, finora immune: a capo della cosca c’è un detenuto del carcere dell’isola, poi rimasto, Vito D’Angelo. Che deve rapportarsi con Virga, scontento della gestione: “Minchia in questo Favignana quante persone c’è interlocutore? … Perché minchia se devono mangiare tutti. A noi noccioline ci rimangono”.

Salento, la giornalista Mastrogiovanni da oggi è sotto scorta

La giornalista Marilù Mastrogiovanni, direttrice de Il Tacco d’Italia, da oggi è sotto scorta per decisione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza di Bari. La protezione delle forze dell’ordine la seguirà ogni volta che si recherà in Salento, il territorio in cui la giornalista ha vissuto fino a quando, un anno fa, in seguito all’aggravarsi della pressione intimidatoria, si era trasferita, insieme alla sua famiglia, da Casarano (Lecce) a Bari. La giornalista ha ringraziato le autorità per avere preso in considerazione le sue denunce con la dovuta tempestività. “Sono grata – ha dichiarato a Ossigeno per l’informazione, l’osservatorio promosso dalla Fnsi e dall’Ordine dei Giornalisti sui cronisti minacciati e le notizie oscurate in Italia con la violenza – al Questore di Lecce e in particolare alla Prefetta Cucinotta che con grande sensibilità e competenza ha saputo cogliere in tutta la loro portata, come mai era accaduto finora, la gravità e la fondatezza dei fatti denunciati”. Nel capoluogo pugliese era già stato assegnato a Marilù Mastrogiovanni un servizio di protezione denominato vigilanza dinamica.

Così “Osservatore politico” insinuava sul relax del Divo

Pubblichiamo alcuni brani tratti da “Dossier Op – Le notizie riservate di Mino Pecorelli”. Questi articoli dedicati ad Andreotti dal discusso e spesso ambiguo “Osservatore Politico” sono del 1/3/1977 e del 16/4/1977.

Un presidente del Consiglio dei ministri in carica non è, contrariamente a quanto sospetta la gente della strada, un automa, una macchina alimentata dal moto perpetuo al servizio quotidiano della comunità. È semplicemente un uomo al quale l’attività politica ha addossato un ulteriore fardello. Più di ogni altro sente perciò il bisogno, qualora le incombenze del suo alto incarico lo permettano, di rilassarsi, di estraniarsi dalle amare vicende della politica. L’attuale presidente del Consiglio dei ministri, Giulio Andreotti, è più di ogni altro suo predecessore vittima del surmenage: la bancarotta nazionale, i rapporti con il Pci, la Siai Marchetti, i conti all’estero, da uscirne pazzi. Più di ogni altro politico, perciò, Andreotti apprezza i rari momenti di libertà. Ci dicono che ami trascorrere alcune ore al mese gironzolando, seguito da scorta competente, nelle vie della vecchia Roma. I luoghi, in sostanza, che hanno visto attraverso trent’anni di vita politica la sua ascesa. Ci dicono che con particolare commozione si ritrova spesso a transitare sotto l’ex Albergo Dragoni. Ne ammira la facciata, e con l’occhio avido scruta le finestre delle stanze nelle quali, giovanotto focoso e già politico di razza, amava trascorrere le ore di libertà che allora erano più numerose di quanto siano ai giorni nostri. Inevitabilmente, nel corso di questo pellegrinaggio un sudore freddo gli attraversa la schiena. Ricorda quella drammatica sera nella quale stava per perdere al tempo stesso l’onorabilità e la futura carriera politica. Lui, pallido in attesa del fatidico: “Documenti”; i suoi giovanissimi ospiti in preda al timor panico. Una scena da incubo. È nel ricordare quella terribile esperienza che il cuore di Giulio Andreotti (che tutti riteniamo erroneamente essere una spugna secca) si allarga in un fiotto di riconoscenza per la buonanima di Giovanni De Lorenzo.

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Concediamoci una pausa di distensione e di riflessione. Vivendo in mezzo al marasma di scandali di palazzo, di crisi istituzionali, di presidenti ladri, di sequestri camorro-politici, si ha bisogno, ogni tanto, di staccarsi dalla pesante realtà quotidiana e di affondare nell’oblio dei ricordi. Alcune settimane fa riferivamo delle deambulazioni notturne di Giulio Andreotti. Seguiamolo ancora: è un personaggio di prim’ordine dal quale tutti abbiamo qualcosa da imparare. Lo ritroviamo (quanta nostalgia!) sotto le finestre del palazzo che anni fa ospitava il compiacente Albergo Dragoni. Andreotti ripassa sempre più spesso sotto quelle finestre che gli ricordano le rapide ore rubate (del tutto legittimamente) al Paese e dedicate agli incontri con la sana gioventù romana degli anni 50 e 60. Ma l’itinerario romano del presidente del Consiglio non si esaurisce certamente all’Albergo Dragoni. In pochi minuti, con veloci passettini, Andreotti si ritrova in via degli Schiavoni, un tempo sede del primo postribolo della Repubblica gestito dall’indimenticabile Mary Fiore. Nel salotto di Mary Fiore sono passati i più augusti nomi della Repubblica, politici di primo piano, banchieri e industriali, monsignori e agenti segreti di mezzo mondo. Anche Andreotti ne era ospite abitudinario? Per carità! Mai un errore del genere: perché affittare il corpo di una donna in un luogo dove microfoni e telecamere erano lo strumento secondario ma determinante di reddito della proprietaria nominale?

Caso Pecorelli, la Beretta dell’omicidio riapre il caso

Diverse indagini, processi da 128 udienze e 231 testimoni, ma nessun colpevole. L’omicidio di Mino Pecorelli resta uno dei misteri italiani irrisolti. Adesso, quando mancano meno di due settimane al quarantesimo anniversario della morte del giornalista ucciso il 20 marzo 1979 a Roma, la Procura della Capitale apre una nuova indagine. Saranno gli uomini della Digos a occuparsi del caso, riaperto in seguito alla richiesta della sorella della vittima, Rosita Pecorelli, 84 anni: “Dopo aver appreso l’esistenza di nuovi elementi ho ritenuto che non si potesse lasciare nulla di intentato. Io non ho mai smesso di sperare e lottare. La verità è ciò che voglio di più al mondo prima di chiudere gli occhi per sempre”, aveva detto al Fatto quando, il 16 gennaio scorso, accompagnata dall’avvocato Valter Biscotti, aveva presentato un’istanza al procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Un’inchiesta giornalistica capace di collegare testimonianze e ritrovamenti di armi aveva “acceso la speranza” della signora Pecorelli.

La giornalista Raffaella Fanelli, nel dicembre scorso, aveva messo in relazione due fatti su EstremeConseguenze.it. Il primo risale al 27 marzo 1992. È la testimonianza dell’estremista di destra Vincenzo Vinciguerra. L’uomo, a quei tempi recluso nel carcere di Parma, aveva rivelato al magistrato Guido Salvini di aver saputo da un altro detenuto, nel 1982, che “Magnetta (un altro estremista, ndr) si stava comportando male in quanto gli aveva fatto sapere che o veniva aiutato a uscire dal carcere o lui avrebbe consegnato le armi in suo possesso, fra cui la pistola che era stata utilizzata per uccidere il giornalista Mino Pecorelli…”. Una rivelazione importante che però non aveva trovato elementi indiziari capaci di confermarla. Un duro colpo per la famiglia, che l’anno prima aveva già visto finire nel nulla l’indagine che aveva coinvolto, tra gli altri, Massimo Carminati.

Il 4 aprile 1995, però, avviene un secondo fatto. Mentre gli inquirenti indagavano sulle rivelazioni del pentito Tommaso Buscetta, che ai magistrati di Palermo aveva detto che anche Giulio Andreotti (che poi verrà assolto in Cassazione dopo essere stato condannato in appello) era coinvolto nel delitto Pecorelli, nel bagagliaio della macchina di Domenico Magnetta, a Monza, vengono sequestrate numerose armi. Tra queste c’è anche una pistola semiautomatica calibro 7.65 Beretta, lo stesso tipo di arma da cui partirono i quattro colpi esplosi contro il direttore di Op, quando era appena salito sulla sua auto parcheggiata in via Orazio, nel quartiere romano di Prati. “Cerco la verità e non mi arrenderò finché non l’avrò scoperta”, dice Rosita Pecorelli. Ed è per questo che, dopo aver letto l’inchiesta giornalistica, ha chiesto la riapertura del caso. E, adesso, l’indagine sembra finalmente ripartire.