Sarti, lite coi vertici: “Non me ne vado”

È tornata a Montecitorio, nella commissione Giustizia che presiedeva fino a pochi giorni fa, per votare quella che sarà la sua sostituta alla presidenza: e Giulia Sarti fa sapere che, di mollare, non ha nessuna intenzione.

Dopo aver dato il suo sì alla nomina di Francesca Businarolo, la deputata 5 Stelle finita nella bufera per il caso delle finte restituzioni è stata intercettata dalle telecamere de ilfattoquotidiano.it. E alle domande di Manolo Lanaro ha risposto secca: “Non sono espulsa dal Movimento Cinque Stelle. Io non lo lascio, l’ho fatto nascere”, per poi aggiungere che confida “assolutamente” di rimanere nel Movimento visto che “non ho fatto nulla”. E Di Maio che ha parlato di “doverosa espulsione”? “Avrà avuto i suoi motivi”, chiude la Sarti, come a dire che adesso le cose sono cambiate.

E invece no. Immediato, filtra sulle agenzie il disappunto dei vertici grillini che tornano a parlare di “doverosa” cacciata. La parola adesso è nelle mani del collegio dei probiviri, che lunedì ha avviato il procedimento disciplinare e lo ha comunicato all’interessata. Sarti ha dieci giorni di tempo per inviare la sua memoria difensiva sui 7 bonifici non andati a buon fine. Si tratta di un totale di 23 mila euro, restituiti solo dopo che le Iene un anno fa hanno svelato l’arcano: secondo la Sarti, che lo ha denunciato dopo essersi consultata con i portavoce M5S Rocco Casalino e Ilaria Loquenzi, sarebbe stata una truffa dell’allora fidanzato, Bogdan Andrea Tibusche. Per lui, nel frattempo la Procura ha chiesto l’archiviazione. Ma la storia è molto complicata e “appare estremamente torbida – fanno sapere i vertici M5S – quindi va chiarita per bene”. Dopo aver discusso la memoria difensiva, i probiviri potranno archiviare o sanzionare la deputata. L’aria che tira è quella del pugno duro. Ma lei ieri ha ostentato altrettanta fermezza.

Il Belpaese tripolare non è morto, anzi rilancia

Una settimana fa, sull’onda dell’entusiamo per il tracollo grillino in Sardegna, taluni osservatori e politici dell’Ancien Régime hanno salutato con sommo gaudio il rinascente bipolarismo vecchia maniera, quello della Seconda Repubblica tra centrodestra e centrosinistra. Il dato sardo, a detta dei nostalgici, implicherebbe una repentina estinzione del M5S come già l’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini.

In realtà, i sondaggi usciti in concomitanza del primo anniversario del Quattro Marzo del Diciotto hanno confermato la foto di un anno fa: tre partiti medio-grandi cui tocca l’onere di allearsi per governare. Questo significa che non solo il bipolarismo d’antan non è alle viste, ma che è lontano anche il bipartitismo immaginato da Luigi Di Maio in più d’una occasione e imperniato su Lega da un lato e Cinquestelle dall’altro. Che poi dentro la cornice tripolare i rapporti di forza nel governo gialloverde si siano ribaltati a favore della Lega questo non intacca il sistema venuto fuori dal Rosatellum. Semmai Matteo Salvini, diventando il nuovo padrone della scena, sarà il leader della forza centrale di questo tripolarismo, a fronte anche del suo persistente rifiuto a tornare nel classico centrodestra. E che l’Italia resta tripolare, almeno in questa fase, lo conferma il segnale di vitalità dato dal Pd con le primarie che hanno eletto Nicola Zingaretti segretario, domenica scorsa. A differenza della berlusconiana Forza Italia, ormai sotto il dieci per cento, il Pd è riuscito a conservare il suo modesto risultato del marzo scorso: 18 per cento era e 18 per cento è rimasto. Nessun aumento, seppur minimo, ma neanche un’erosione graduale a favore dei Cinquestelle. Anzi, le percentuali dei sondaggi addirittura prevedono una lotta tra M5S e dem per il secondo posto. Probabilmente non sarà così, ma il tripolarismo del Rosatellum gode di ottima salute. Lo tengano a mente gli scienziati che inventano listoni e coalizioni.

Dai grillini al centrodestra: inciuci e poltrone di “Zinga”

Lunedì, il battesimo di Nicola Zingaretti segretario del Pd, è stato anche il primo anniversario della sua rielezione a governatore del Lazio, che guida da febbraio 2013. Negli ultimi dodici mesi in Regione, mentre il partito a livello nazionale sprofondava ad ogni tornata elettorale, il nuovo leader dem ha sperimentato buona parte del suo campionario di tattiche politiche, fatto di mediazione e passi sempre calcolati. Un percorso che nel tempo lo ha portato a dialogare sia con il Movimento 5 Stelle, sia con le altre opposizioni presenti nel parlamentino regionale.

Alla rielezione, pur combattuta, Zingaretti è arrivato rivendicando il percorso per l’uscita dal commissariamento dei conti sanitari, attivato nel 2007 quando il debito sfiorava i 2 miliardi di euro, mentre oggi il disavanzo è di circa 48 milioni. Una strada a cui manca l’ultimo miglio: la parola finale per chiudere il commissariamento arriverà entro giugno dagli uffici ministeriali che dovranno certificare il nuovo corso dei bilanci della sanità regionale.

Nel 2018 il Lazio ha ottenuto un punteggio di 180 nei livelli essenziali di assistenza, con la soglia minima fissata dal ministero della Salute a 160. Un traguardo raggiunto attraverso un mix tra tagli ai costi di gestione di medicinali, personale, beni e servizi e riduzione dell’acquisto di prestazioni sanitarie da strutture private accreditate. E poi con la razionalizzazione dei presidi ospedalieri: emblematica l’apertura a dicembre scorso dell’ospedale dei Castelli Romani (dopo 8 anni di lavori) ad Ariccia, accompagnata dalla dismissione delle due strutture delle vicine Albano e Genzano.

Per garantire la tenuta della maggioranza, uscita dalle urne con due seggi meno del necessario, la scorsa estate il Pd ha proposto alle opposizioni un patto d’aula su 10 temi invero piuttosto generalisti, strizzando l’occhio soprattutto al M5S. La reale blindatura è arrivata solo dopo l’assegnazione di due incarichi, una vice presidenza d’aula e la presidenza di una commissione, a Giuseppe Cangemi ed Enrico Cavallari: il primo è un ex forzista, già assessore regionale con Renata Polverini, l’altro è stato eletto nella Lega ed ha un passato nella giunta di Gianni Alemanno in Campidoglio. Una soluzione che però ha indispettito una parte del gruppo pentastellato.

Nel corso dell’ultimo anno non sono mancati i grattacapi giudiziari, con il suo ex assessore all’Urbanistica, Michele Civita, coinvolto nell’inchiesta della procura sulla presunta corruzione attorno al progetto di costruire il nuovo stadio dell’As Roma. Un’indagine che coinvolge anche l’immobiliarista Luca Parnasi, proponente dell’impianto sportivo e del business park, che Zingaretti aveva già incrociato nella intricata vicenda dell’accorpamento degli uffici della ex Provincia di Roma. Con i ‘poteri forti’ del mattone cittadino, a partire dal capostipite Francesco Gaetano Caltagirone, invece i rapporti sono sempre rimasti di circostanza. Anche perché negli ultimi decenni sono stati altri esponenti politici romani, sia nel Pd, sia nel centrodestra, a cercare un contatto diretto con quei mondi. Gli ultimi dodici mesi, insomma, riassumono l’approccio che Zingaretti cercherà di portare nel “nuovo Pd”: fare di necessità virtù. Il primo obiettivo è pungolare il governo, giocando sulle differenze tra Lega e M5S. E poi costruire un campo largo, che va dalle formazioni di sinistra, al movimentismo per i diritti fino ai cattolici, senza chiudere al dialogo con l’elettorato che aveva trovato un nuovo approdo nei 5 Stelle. Una sfida che renderà complessa la costruzione di un’agenda politica condivisa tra tutti questi mondi. Anche perché ve ne sono altri pronti a pungolare il nuovo leader dem: “Alcune delle sue scelte, a partire dall’urbanistica, sono in contrasto con il cambiamento radicale che promette”, sostiene Anna Maria Bianchi dell’associazione Carte in Regole.

De Luca, l’asceta della democrazia

Sono lontani i tempi della “frittura di pesce” e del voto clientelare “organizzato, scientifico, razionale come Cristo comanda”. Oggi Vincenzo De Luca è un militante qualsiasi. Un laico. Uno che non si sporca le mani. Il governatore campano ha fatto sapere di non essere andato a votare alle primarie del Pd che hanno eletto segretario Nicola Zingaretti. “Non ho ritenuto di impegnarmi direttamente in questa vicenda – ha detto don Vicienzo – ho lasciato il popolo libero di orientarsi secondo i propri istinti”. Che statura, che fiducia nella democrazia: chi l’ha detto che De Luca è un capobastone? Lui lascia il popolo libero. Strano però. Perché il presidente campano aveva deciso di appoggiare la corsa di Maurizio Martina. E – vedi un po’ – proprio in Campania Martina ha ottenuto i suoi risultati migliori, vicini al 40%, il doppio della sua cifra a livello nazionale. E sempre in Campania è arrivato l’unico risultato a sorpresa delle primarie di domenica: è stato eletto segretario regionale del Pd il deluchiano Leo Annunziata, anche lui legato alla mozione Martina (ma ha ottenuto ben dieci punti in più dell’ex ministro dell’Agricoltura). Don Vicienzo non c’entra, per carità: è il popolo che oramai sa orientarsi benissimo da solo.

RaiCom, il canale inglese per far felice Maggioni

Oggi il Cda di Viale Mazzini approverà il piano industriale presentato dall’ad Fabrizio Salini, frutto di un compromesso con i consiglieri ma soprattutto col presidente, Marcello Foa. Che è intervenuto pesantemente sulla parte che riguarda l’informazione, con l’idea di una direzione approfondimento news (la nona direzione di contenuto), che inciderà sui programmi di informazione, e con il ridimensionamento della newsroom unica, che non toccherà i tre Tg.

Ma un altro capitolo del piano sta facendo discutere a Viale Mazzini. Parliamo del nuovo canale in inglese che finirà sotto il cappello di RaiCom, la società consociata che commercializza i diritti e i prodotti della Rai nel mondo (film, serie tv, musiche, libri, dvd) di cui è diventata presidente Monica Maggioni. Da tempo in Rai si parla della nascita di un canale in lingua inglese per realizzare programmi che pubblicizzino le bellezze del Paese e il made in Italy. Nella passata gestione a spingere molto era proprio l’allora presidente Maggioni. Tanto che le voci la indicavano come futura direttrice. Poi le è andata anche meglio: è diventata presidente di RaiCom. Ma senza mollare il suo pallino, la tv in inglese.

Il problema, però, è che RaiCom non può produrre contenuti. Il nuovo canale, di fatto, sarà una rete come tutte le altre, con budget, palinsesto, prodotti editoriali. A sfuggire è il motivo per cui, invece di stare dentro la Rai, la nuova rete stia invece fuori, a RaiCom, con un’operazione che obbligherà a cambiare lo statuto della consociata.

Poi c’è un problema di risorse. Dove si prenderanno i soldi? Verranno stornati da RaiCom togliendoli a Viale Mazzini? Oppure si finanzierà col canone che, in teoria, non può essere utilizzato da RaiCom? Un gran pasticcio, con il sapore della forzatura. Siccome Maggioni vuole realizzare il nuovo canale, lo si è messo dentro la scatola di RaiCom, per gestirlo in autonomia editoriale e finanziaria.

Fonti Rai la spiegano così: “RaiCom produce già contenuti con delle testate al suo interno, quindi non occorre cambiare lo statuto. Inoltre, avendo il compito di distribuire i prodotti Rai nel mondo, questo è il contenitore giusto dove mettere il nuovo canale, la sua sede naturale”. Per quanto riguarda le risorse, poi, si osserva che “la Rai è già un sistema misto, l’importante è la non ingerenza dei privati sulle news”. Molti, però, non concordano. “Lo statuto dovrà essere cambiato e, inoltre, tra Rai e RaiCom bisognerà stipulare un contratto di servizio. Ricevere soldi pubblici cambia la natura giuridica della consociata che, in virtù delle modifiche, dovrà sottostare agli obblighi di trasparenza, anticorruzione e aderire al codice degli appalti. Inoltre ricevere soldi da privati, che potranno finanziare programmi, si pone al di fuori della mission di servizio pubblico”, spiega il consigliere Riccardo Laganà. Al di là delle norme, a colpire è che quella che per la Rai è stata sempre una risorsa economica, col canale in inglese in pancia rischia di diventare un costo. E non da poco.

Gli Usa dissero a Salvini: molla i tuoi collaboratori filo-russi

Luigi Di Maio rincorre Matteo Salvini ovunque, anche in politica estera. E almeno qui è in vantaggio. Il capo dei Cinque Stelle ha trattato con gli Stati Uniti una visita a Washington per la fine di marzo, dovrebbe incontrare Mike Pence, il vice di Donald Trump. Salvini resta in lista d’attesa. Questa cortesia istituzionale, che gli americani hanno negato a lungo a Di Maio, non mitiga la complessiva diffidenza degli alleati verso Roma, soprattutto per le connessioni pericolose tra Salvini e la Russia.

Il ministro dell’Interno, come ha raccontato il Fatto, da tempo è impegnato in una complicata manovra di riavvicinamento a Washington. Salvini ha archiviato la propaganda filo-russa, ha smesso di annunciare la sospensione delle sanzioni (per l’annessione della Crimea) e più volte s’è recato da Lewis Eisenberg, ambasciatore degli Usa a Roma, per spiegarsi e ascoltare, ma non è ancora reputato un interlocutore del tutto affidabile. Almeno finché avrà tra i collaboratori uomini che gli Usa considerano emanazioni del Cremlino. Dagli ambienti americani Salvini ha ricevuto un messaggio preciso: per ottenere la nostra fiducia devi interrompere i rapporti con personaggi come Gianluca Savoini e Claudio D’Amico, che in questi anni hanno curato la sinergia tra la Lega e Mosca. Savoini, che ha anche una moglie russa, è presidente dell’associazione Lombardia-Russia; D’Amico, ex deputato oggi assessore a Sesto San Giovanni, è stato addirittura osservatore elettorale nel referendum in Crimea nel 2014.

Salvini ha mutato la dialettica pubblica, ha ridotto i colloqui con Sergey Razov, il rappresentante di Mosca a Roma, e tentato di sottrarsi alla protezione dei russi che l’ha avvolto sin dal giorno della nomina a segretario del Carroccio. L’inchiesta dell’Espresso sui presunti affari (non sappiamo se conclusi) di Savoini – e l’ipotesi di un finanziamento di 3 milioni di euro al Carroccio da Mosca attraverso una fornitura di gasolio – ha rammentato a Salvini che il legame con Mosca è troppo stretto e troppo fresco. Salvini è consapevole che per raggiungere Palazzo Chigi il consenso popolare può non bastare, occorre un sostegno all’estero, in primo luogo degli Stati Uniti. Le imprese americane sono furiose per il blocco delle trivellazioni in mare. La Segreteria di Stato non ha gradito le tante sfumature sul Venezuela (il governo un po’ contro Maduro e non a favore di Guaidó). Inoltre, l’Italia è l’unico grande Paese che ha ceduto lo sviluppo della tecnologia del 5G ai cinesi di Huawei – accusati dagli Usa di spionaggio – senza neppure un minimo di dibattito pubblico.

L’Italia sarà anche il primo membro del G7 a firmare il memorandum per la nuova Via della Seta tra un paio di mesi con Di Maio e forse Giuseppe Conte che, il 22 marzo assieme a Sergio Mattarella, avrà un vertice a Roma col presidente cinese Xi Jiping. Il premier è il più scaltro del gruppo e ha preparato già una trasferta riparatrice negli Stati Uniti in primavera.

Al Pentagono pretendono di sapere chi comanda, se l’Italia è fedele agli accordi Nato e se la Difesa è capace di impegnare i fondi richiesti. Ancora sorridono al quartier generale militare degli Stati Uniti per la missione di Angelo Tofalo. Il sottosegretario dei Cinque Stelle, in viaggio al Pentagono lo scorso gennaio, ha garantito sui caccia F-35, sugli stanziamenti della Difesa, sul supporto negli scenari mondiali, i cosiddetti territori di crisi. Mentre rientrava in Italia, però, il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta (del suo stesso partito), ha annunciato il ritiro delle truppe dall’Afghanistan. Salvini sfrutta l’alibi dei Cinque Stelle e le loro contraddizioni. Gli Stati Uniti gli chiedono di decidersi: se vuole guidare l’Italia nell’orbita Usa deve tagliare ogni ponte con Mosca.

Arrestata la direttrice del Consiglio ricerca in agricoltura (Crea)

Per avere piena autonomia e selezionare un immobile privato a discapito di quelli demaniali, avrebbe indicato un numero di dipendenti superiore a quello reale. Per questo motivo Ida Marandola, direttrice generale del Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea), è stata arrestata. La donna, moglie del capo segreteria di Gianni Alemanno quando era ministro dell’Agricoltura, non è l’unica a essere entrata nel mirino della Guardia di Finanza di Roma. Nei suoi confronti il gip ha disposto gli arresti domiciliari, mentre altri quattro funzionari dell’ente dovranno presentarsi quotidianamente alla polizia giudiziaria. Secondo la procura di Roma gli indagati, accusati a vario titolo di peculato, falso e abuso d’ufficio, avrebbero anche alterato i contratti per l’affidamento dei servizi di trasloco e facchinaggio, allo scopo di non superare le soglie oltre le quali è previsto il ricorso a una gara pubblica. E ancora sarebbero emerse collaborazioni fittizie e anomalie nella stabilizzazione di alcuni precari. Anche per questo il gip ha disposto il sequestro di 8 milioni di euro.

Dossier e defezioni, ma la legittima difesa va

Il capo della Lega, Matteo Salvini, potrà festeggiare il suo compleanno, il 9 marzo, avendo incassato il sì della Camera alla legittima difesa. È atteso infatti già per la giornata di oggi il via libera a Montecitorio al provvedimento bandiera del Carroccio che passerà a larga maggioranza e senza modifiche per poi approdare al Senato per una correzione formale. E quindi diventare legge entro la fine del mese in corso. Che si prospetta particolarmente fruttuoso per il Capitano dato che sempre a Palazzo Madama, il 20, l’aula ratificherà la decisione della Giunta per le autorizzazioni a procedere che ha sbarrato la strada alla richiesta dei giudici del Tribunale dei ministri di Catania che volevano mandarlo a processo sulla gestione dei migranti della Nave Diciotti.

L’ok al testo sulla legittima difesa già di per sé è davvero un bel regalo per Salvini che ieri ha presidiato i lavori della Camera lo stretto necessario per ribadire che la riforma si avvia ad essere incassata, come annunciato ai quattro venti. E senza traumi.

Del resto il provvedimento può godere dell’appoggio dei suoi ma anche della pattuglia di deputati di Forza Italia, di Fratelli d’Italia e della stragrande maggioranza dei deputati del Movimento 5 Stelle, al netto di alcuni malpancisti. Il dissenso interno ai pentastellati è stato più che altro di testimonianza simbolica: non poche assenze (una trentina tra uscite tattiche dall’emiciclo e deputati in missione), ma quantitativamente non significative al momento del voto in aula sugli emendamenti. E senza gesti clamorosi o gridati: nessuno strappo.

Già la scorsa settimana era abortito sul nascere il tentativo di abbozzare una forma organizzata di resistenza quando si era ragionato tra i recalcitranti del Movimento sull’eventuale presentazione di proposte di modifica che avrebbero messo tutti gli altri nell’imbarazzo di doverle bocciare. Alla fine non se ne è fatto niente. A vuoto anche il tentativo di sensibilizzazione di cui si è fatta carico la deputata Rina De Lorenzo che ha fatto circolare una mail in cui erano evidenziati i punti più indigesti del testo che, tra l’altro, introduce la presunzione assoluta di proporzionalità delle reazioni difensive domiciliari.

Ma la vulgata prevalente nel Movimento è che l’azione dei magistrati non verrà limitata dalle nuove norme. E che la bandierina della legittima difesa è in fondo un piccolo prezzo da pagare all’alleato di governo. Forza Italia, che aveva giocato una fiche sullo strappo che invece non si è consumato, ha parlato per bocca di Jole Santelli di una “Caporetto” per i 5 Stelle. Il Pd ha sottolineato “l’imbarazzante silenzio” dei banchi pentastellati. “Qui in aula sono quasi tutti esponenti della Lega, sarà che i 5 Stelle devono vergognarsi?” ha incalzato il dem Walter Verini rincarando la dose rispetto all’altro deputato del Pd Enrico Borghi che ha usato la mano pesante: “Voi rappresentate il partito del ministro della Giustizia. Ma a cosa si deve questo silenzio? Per caso a uno scambio che stamattina avete fatto in commissione Giustizia?”.

Lo scambio sarebbe quello del voto di ieri mattina sulla nuova presidenza della commissione Giustizia dopo le dimissioni di Giulia Sarti per la storiaccia delle mancate restituzioni che l’ha vista coinvolta insieme all’allora fidanzato-assistente. Forza Italia aveva sperato che la Lega facesse mancare i numeri per eleggere il nuovo presidente indicato dai 5 Stelle. Invece Francesca Businarolo è passata senza problemi: l’accordo tra Lega e 5 Stelle ha tenuto. Così come terrà anche quello sulla legittima difesa.

La Lega non molla: vuole togliere a B. anche il Piemonte

La Lega è pronta ad alzare la posta. E dopo la rinuncia di Lucia Borgonzoni a correre per il Carroccio come candidato presidente per la regione Emilia Romagna sono in molti a credere che alla fine gli accordi del centrodestra per le amministrative dovrebbero essere ridiscussi. A partire dal nome da mettere in campo per le elezioni in Piemonte dove il candidato spetta a Forza Italia. Che però non ha ancora sciolto la riserva sull’europarlamentare Alberto Cirio in attesa di conoscere il suo destino giudiziario nello scandalo Rimborsopoli: la decisione potrebbe arrivare solo dopo la presentazione delle candidature per le regionali piemontesi. E questa tempistica – ragionano tra i forzisti che meno sono convinti della scelta di puntare su di lui – potrebbe rivelarsi un azzardo.

Cirio da parte sua non deve temere la concorrenza di Guido Crosetto di Fratelli d’Italia, su cui si erano appuntati i sospetti dopo l’annuncio delle sue dimissioni da deputato. Ma il gigante di Giorgia Meloni ha detto di sentirsi vincolato alla parola data. E anche dalle parti del Carroccio si giura fedeltà agli accordi già sottoscritti: “Siamo pronti a votare Cirio anche se non dovesse ottenere l’archiviazione. Ma certo bisogna fare i conti con l’eventualità che la magistratura applichi anche nei suoi confronti gli stessi criteri adottati in casi simili nella stessa inchiesta” fanno trapelare in casa Lega in cui sul risiko delle candidature si ragiona, eccome. E ovviamente non si tratta di ragionamenti disinteressati: è noto che il Carroccio accarezzi l’idea che alla fine il centrodestra possa convergere su un altro candidato ritenuto di maggiore caratura. Magari l’imprenditore Paolo Damilano, indipendente ma ritenuto molto vicino al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e maggiorente del Carroccio, Giancarlo Giorgetti.

Anche di questo si parlerà lunedì al Consiglio federale del Carroccio che ha all’ordine del giorno le comunicazioni del segretario Salvini, ma soprattutto la questione delle elezioni europee e il dossier sulle amministrative.

Un appuntamento che seguirà la decisione attesa da Palazzo Chigi sulla questione Tav che sta facendo fibrillare il governo gialloverde e che farà da spartiacque: facile prevedere che quanto verrà deciso a Roma prima di lunedì 11 darà la stura al dibattito interno alla Lega. Dove in molti chiedono di mollare i grillini e altrettanti chiedono invece di scaricare il candidato di Forza Italia in Piemonte.

Pure tra i forzisti si è ben consapevoli che dei giuramenti della Lega ci si può fidare fino a un certo punto. Perché se le elezioni in Sardegna avessero fatto incassare il pienone a Matteo Salvini e indebolito ulteriormente Forza Italia già uscita con le ossa rotte in Abruzzo, sarebbe stato inevitabile rimettere in discussione tutto.

Ora bisognerà attendere l’esito delle amministrative in Basilicata il 24 marzo. Ma soprattutto ricorrere alla moral suasion con Silvio Berlusconi per mettere in campo una candidatura in grado di competere con Sergio Chiamparino che non solo si sta giocando la rielezione sul sì al Tav, ormai diventata questione nazionale. Ma poi può pure contare sull’effetto trascinamento determinato dalla ripresa accreditata al Pd. Che dopo un anno di agonia, ora ha scelto il nuovo segretario che non a caso ha scelto proprio il Piemonte per la sua prima uscita pubblica.

“La regione si vince limitando i danni a Torino dove la sindaca Chiara Appendino dei 5 Stelle è in caduta libera e assicurandosi alcuni presidii significativi, come ad esempio Alessandria che da sempre è un indicatore dell’aria che tira in regione. E sia sotto la Mole che in quei territori del cosiddetto Piemonte 2, noi siamo fortissimi. Certo più di Forza Italia” confidano sempre dalla Lega. Dove il sogno è quello di smentire il presagio di Umberto Bossi (“se il Carroccio vince al sud perde al nord”). Anche per questo il partito di Matteo Salvini punta al poker: Lombardia, Veneto, Friuli e Piemonte.

Anarchici, chiesti 204 anni di carcere. Corteo contro la Appendino

In totale sono 22 le richieste di condanna e 204 gli anni di reclusione: è la richiesta della procura di Torino contro gli anarchici che “hanno scelto la lotta armata” avanzata ieri in Corte di Assise nel maxiprocesso “Scripta Manent” contro le cellule della Fai-Fri, la Federazione anarchica Informale che dal 2003 al 2016 ha firmato una interminabile catena di attentati con plichi esplosivi e ordigni. Per Alfredo Cospito, già condannato in via definitiva per avere gambizzato a Genova nel 2012 Roberto Adinolfi, ad dell’Ansaldo, il pm ha invocato 30 anni di carcere. Per Anna Beniamino, sua ex convivente, definita “una delle menti delle Fai-Fri”, ne ha chiesti 29. Le carte processuali elencano moltissimi casi, dall’invio di pacchi bomba nel 2005 a Sergio Cofferati e nel 2006 a Sergio Chiamparino, fino alla questure di Lecce. Per tutto il processo il pm ha insistito sulle differenze nella galassia anarchica, anche sottolineando casi di proselitismo tra i No Tav. Ieri, intanto, gli anarchici hanno protestato per lo sgombero a Torino del centro sociale “Asilo occupato”. Hanno sostato per due volte davanti al negozio gestito dal marito della Appendino. “La sindaca non dormirà sonni tranquilli, la scorta non le basta”.