Segnali di schiarita fra il governo e la Banca d’Italia. Dopo lo stop sul nome di Signorini, la richiesta pubblica di ‘discontinuità’ e schermaglie verbali, il governatore Ignazio Visco ieri è andato dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, a Palazzo Chigi per una colazione di lavoro. Una riunione di due ore arrivata all’indomani di un segnale di pace dal vicepremier Di Maio che, dopo le dichiarazioni più ruvide delle scorse settimane, aveva detto di ‘fidarsi’ della Banca d’Italia con lo stesso Visco che aveva ribadito come “non ci fossero dubbi sull’operato dell’istituto centrale” chiedendo di fatto un’azione comune con il governo per la revisione delle regole europee sul bail in. Così la vicenda del vice dg Luigi Signorini, scaduto a febbraio, si avvia a una soluzione. Lo schema, per salvaguardare l’autonomia della Banca d’Italia è di lasciare allo stesso istituto centrale la scelta di nuovi nomi. In questo modo sarebbe rassicurato anche il Quirinale cui spetta il decreto di nomina. Al riguardo mentre sembra in uscita Valeria Sannucci, più incerto è il destino del dg Salvatore Rossi, un ruolo che potrebbe essere ricoperto dall’altro vice dg Fabio Panetta, riconfermato a settembre nel direttorio dal governo.
Due mozioni di sfiducia contro il ministro Pd e FI: “Ha mentito spudoratamente”
Proprio mentre si concludeva il vertice a Palazzo Chigi tra i vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini e il premier Giuseppe Conte con il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, ieri Pd e Forza Italia hanno presentato al Senato una mozione di sfiducia individuale contro Toninelli.
Le accuse sono pesanti. Nel testo presentato dai dem si legge che “Toninelli avrebbe spudoratamente mentito al Parlamento e al Paese nonché al governo francese e all’Unione europea, sottoponendo all’attenzione di tutti un’analisi costi/benefici palesemente infondata e ora oggetto di ‘aggiustamenti’ da parte del presidente del Consiglio”. E ancora: “La vicenda della Tav Torino-Lione è indicativa di come il ministro stia affrontando l’intera materia delle infrastrutture nel nostro Paese”. Nel testo si ripercorrono le tappe della vicenda, la discussione all’interno del governo, le proposte emerse, come l’ipotesi del ‘mini Tav’, giudicato dai parlamentari del Pd “come una maldestra exit strategy dalla situazione politica che si è venuta a creare nella maggioranza di governo”. Ieri, la conferenza dei capigruppo ha stabilito che entrambe le mozioni saranno discusse giovedì 21 marzo in aula al Senato. Fratelli d’Italia non presenterà alcuna mozione autonoma, ma è intenzionato a votare sì alle dimissioni del ministro.
Toninelli replica al Fatto sulle autostrade: “Nessun favore”. “Ma alcuni nodi restano”
In merito al commento apparso sul suo quotidiano in data 3 marzo dal titolo Autostrade, nessuna rivoluzione, a firma di Giorgio Ragazzi ritengo necessarie alcune precisazioni.
Segnalo che la delibera Cipe di fine 2018, in corso di registrazione, relativa alla Autostrada del Brennero stabilisce il recupero da parte dello Stato di tutti i benefici finanziari conseguiti dalla data di scadenza della concessione. Tale regolamentazione, totalmente nuova e, se vogliamo, rivoluzionaria, non solo consente allo Stato l’acquisizione di risorse altrimenti rimaste nella disponibilità delle società, ma rende non più profittevole l’indefinito allungamento della gestione da parte del concessionario scaduto. Tale disposizione risulta estendibile a tutte le società scadute, ivi incluso l’Ativa (Torino-Ivrea) e la Torino-Piacenza (A21) citate nell’articolo, nei cui confronti è in corso la regolazione dei rapporti economici.
Con riferimento al completamento dell’Autostrada Asti-Cuneo, ricordo preliminarmente che il ricorso al finanziamento incrociato costituisce la modalità più celere per la prosecuzione dei lavori, tenuto conto delle esigenze espresse dai rappresentanti del territorio. L’attuale esecutivo lavora per realizzare l’opera senza proroghe, senza esborsi per i cittadini e senza gravare sulle casse pubbliche, e a condizioni di massima convenienza per l’interesse pubblico. L’operazione prefigurata è infatti a costo zero per lo Stato: i 350 milioni di euro necessari non sono soldi pubblici, bensì deriverebbero da autofinanziamento del concessionario. La remunerazione prevista del 7% è inferiore alla proposta del precedente Governo approvata in sede UE ed in linea con i livelli di remunerazione stabiliti dall’Art per altre concessioni. Tale tasso è comunque parametrato al rischio imprenditoriale del concessionario e non è comparabile con i tassi di approvvigionamento della provvista finanziaria come erroneamente fatto dall’articolo.
Faccio poi presente che il modello attualmente ipotizzato dal Mit per la Asti-Cuneo prevede l’applicazione della regolamentazione tariffaria Art a decorrere dal 2022, che potrà garantire una ulteriore riduzione dei livelli tariffari, della remunerazione e del valore di subentro per la Torino-Milano.
È infine assolutamente privo di fondamento affermare che con il nuovo schema si proroga, di fatto, la concessione della Torino-Milano al gruppo Gavio. Il valore stimato dell’indennizzo da subentro, già attualmente limitato in relazione alla capacità di autofinanziamento della tratta, non determina alcuna limitazione alla partecipazione di terzi alla gara o, eventualmente, anche al subentro nella gestione da parte dello Stato.
Danilo Toninelli
Sono ben lieto di riconoscere al ministro questa innovazione, molto importante, della delibera Cipe che permette di recuperare allo Stato i profitti fatti dalle autostrade durante il periodo di proroga della concessione. Resta però aperta la domanda sul perché, per le due concessioni scadute, la Torino-Piacenza e la Ativa, non viene presa in considerazione l’idea di ridarle allo Stato con una gestione inhouse. In relazione all’indennizzo da subentro per la Asti-Cuneo concesso al gruppo Gavio, è invece utile ricordare che un indennizzo molto elevato rende molto più difficile per altri concessionari, e per lo Stato, subentrare nella concessione. Resta poi un mistero il perché la maggioranza della Asti-Cuneo debba andare a un concessionario che apporta come capitale solo una piccola frazione di quanto speso dallo Stato o pagato dai pedaggisti della Torino-Milano.
Giorgio Ragazzi
Le ultime bufale dei fan francesi sui fondi mancanti
In quello che doveva essere il giorno della verità sul Tav, fa sentire la sua voce Louis Besson, presidente della commissione intergovernativa franco-italiana per la Torino-Lione. “È totalmente falso che la Francia non abbia stanziato i fondi. I soldi ci sono, sono pronti”, ha dichiarato a Radio anch’io, il programma di Rai Radio 1. Che non ci fossero lo aveva scritto il Fatto Quotidiano ieri, ricordando che l’Accordo tra Italia e Francia del 2012 che stabilisce le regole per la realizzazione della Torino-Lione, all’articolo 16 dice che “la disponibilità del finanziamento sarà una condizione preliminare per l’avvio dei lavori delle varie fasi della parte comune italo-francese della sezione internazionale”.
Questa “condizione preliminare” non è soddisfatta – sostiene anche la Commissione tecnica Torino-Lione – perché la Francia non ha reso finora “disponibile” neppure un euro per la fase che dovrebbe iniziare l’11 marzo a Parigi, con il lancio, da parte del consiglio d’amministrazione di Telt (la società italo-francese che deve realizzare la Torino-Lione), dei primi due bandi – valore 2,3 miliardi di euro – per la realizzazione del tunnel di base (costo totale 9,63 miliardi). L’Italia è pronta da tempo: ha stanziato, per questa fase dei lavori, 2,63 miliardi, il 27 per cento della spesa totale, assegnati dalla legge di stabilità 2013 (governo Monti) e approvvigionati in quote annuali nel bilancio dello Stato tra il 2015 e il 2027. L’Unione europea per i lavori del tunnel ha messo a disposizione 0,57 miliardi, il 6 per cento. La Francia zero: non c’è traccia in alcun documento contabile dello Stato francese dell’impegno a finanziare l’opera, come richiesto dall’articolo 16 dell’Accordo italo-francese.
Non ha messo nero su bianco alcuna programmazione futura su base pluriennale per i finanziamenti del traforo. Il Fatto Quotidiano ha chiesto al ministero dei trasporti francese quali sono le modalità di finanziamento dell’opera, quali sono le cifre e in quale documento sono indicate. Non ha ricevuto alcuna risposta.
Senza una chiara indicazione di finanziamento “disponibile”, l’Italia potrebbe ritenere violato l’articolo 16 dell’Accordo, con la conseguente impossibilità, per il cda di Telt, di lanciare i bandi. Comunque ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, dopo un incontro con i ministri Luigi Di Maio, Matteo Salvini e Danilo Toninelli, ha garantito che venerdì il governo prenderà una decisione sul Tav, a partire dall’analisi costi-benefici.
Sulla mancanza dell’evidenza dei finanziamenti francesi, la spiegazione data da chi è schierato a favore della Torino-Lione è che “in Francia si fa così”. L’Accordo tra i due Paesi li impegna a rendere disponibili i finanziamenti – provano a spiegare – ma ciascuno secondo le modalità della propria finanza pubblica. In Italia c’è l’intervento del Cipe e la chiara elencazione degli stanziamenti pluriennali. In Francia niente di tutto questo. C’è stato un voto del Parlamento che si è impegnato per l’intera opera. Poi è l’Esecutivo a erogare di volta in volta i fondi, attraverso l’agenzia pubblica Afitf (Agence de financement des infrastructures de transport de France).
Che il sistema sia incerto, buono per finanziare una strada provinciale ma non certo una grande opera da 9,63 milioni di euro, è ben chiaro anche al presidente Emmanuel Macron, che infatti ha annunciato di essere impegnato a cambiarlo. Con una nuova legge che stabilisca meccanismi più chiari e certi per i finanziamenti delle grandi opere. La nuova legge, però, non c’è ancora: in queste condizioni, l’articolo 16 è rispettato?
Tav, Di Maio sfida Salvini: decide Conte o salta tutto
Il treno che non c’è procede su una lastra di ghiaccio. Più o meno come il governo gialloverde, a cui in un martedì isterico Giuseppe Conte e Matteo Salvini pronosticano lunga vita. Ed è la migliore spia di quanto rischi l’esecutivo. Perché il Tav è un crepaccio tra Lega e Cinque Stelle, ora lontani anni luce. E Luigi Di Maio, il capo del Movimento, è pronto a giocarsi tutto al tavolo con Salvini, anche il governo. Nel nome del no, irremovibile, alla Torino-Lione. E adesso, raccontano, il vicepremier si chiede se Salvini sia disposto perfino a sfiduciare Conte. Perché è da lui che si ripartirà stasera, nella riunione a oltranza già fissata a Palazzo Chigi: dall’avvocato diventato premier, che viveva di mediazioni e arbitrati, e che ora promette un’intesa di governo “entro venerdì”. Ossia prima della riunione di lunedì prossimo del Cda di Telt, la società che gestisce l’opera. E non sarà facile. Perché nell’incontro di ieri mattina, sempre a Chigi, non si è vista neppure l’ombra di un accordo. Con Di Maio che ha ribadito il muro, totale, alla Torino-Lione. E Salvini fermo nel ripetere che il Tav va fatto, e basta.
Così si cercherà ancora un punto di caduta a partire da questa sera, col tavolo composto dal trio di governo e un po’ di tecnici, “e si partirà dall’analisi costi/benefici” sostiene Conte in una conferenza stampa improvvisata. E la certezza è che non esiste una terza via, quella in base a cui si potrebbero anche far partire i bandi dei lavori, e poi eventualmente revocarli nel giro di sei mesi. Conte ai microfoni lo dice indirettamente: “Sui bandi non può essere presa decisione oggi o domani, alla fine di questo percorso, in base alla nostra decisione, partiranno o meno”. E da Palazzo Chigi lo precisano, dritto: “I bandi partono se diremo sì, altrimenti diremo no, e li fermeremo”.
Ed è la chiave. Perché il Conte ufficialmente arbitro e il suo vice Di Maio sono allineati, sul Tav. E il filo rosso che li tiene assieme è chiaro, spiega una fonte del Movimento: “Salvini dovrà dimostrare nel merito che l’analisi costi benefici è errata e che la Torino-Lione è utile, altrimenti sarà no”. Con il premier pronto a varare un dpcm (decreto del presidente del Consiglio dei ministri) per imporre a Telt lo stop ai bandi. Anche perché, ragionano sempre dal M5S, i ministri rischiano di rispondere di danno erariale in caso di via libera a un’opera inutile, nonostante un rapporto commissionato dal governo. Ma far deporre le armi al Carroccio sarà un’impresa. E dal M5S ammettono: “Su questa vicenda il governo è in bilico”.
E chissà quanta voglia ha di alzare l’asticella Salvini, che in giornata rende noto di attendersi “una decisione finale per domani”, cioè oggi. E ovviamente è un modo per mettere altra pressione su Di Maio e Conte. Mentre i suoi circolano per il Parlamento sfoggiando sorrisetti. E un big del M5S geme: “Noi siamo devastati, e questi se la ridono”. Perché per il Movimento questa storia è una ferita, a prescindere. “Ma non possiamo cedere, esploderemmo in Piemonte e se ne andrebbero subito anche alcuni parlamentari, innanzitutto in Senato”. E di certo direbbe addio il senatore Alberto Airola, storico no Tav. Di Maio lo sa bene. Come sa che cedere sulla Torino-Lione potrebbe voler dire perdere tanti elettori della prima ora, quelli dello zoccolo duro. Quindi vuole reggere, e andare a guardare il possibile bluff del Carroccio. Ma Salvini sa combattere le sue battaglie. Così fa rosolare al fuoco delle indiscrezioni il ministro dei Trasporti grillino, Danilo Toninelli. Criticato dai piani alti del M5S, dove gli contestano alcuni passi falsi sul Tav. E atteso dal voto sulla mozione di sfiducia del Pd, previsto per il 21 marzo in Senato. Proprio il giorno dopo la votazione sull’autorizzazione a procedere per il ministro dell’Interno, legata al caso Diciotti. E dal centrodestra giù ululano: “Se la Torino-Lione verrà fermata, la Lega farà saltare Toninelli”. Ed è fantapolitica, magari.
Ma il Carroccio lascia che i cattivi pensieri si dilatino. Mentre il capogruppo a Palazzo Madama del Movimento, Stefano Patanuelli, al Fatto giura: “Non c’è nulla che compatti di più il gruppo parlamentare del no al Tav”.
Però alla fine la partita si giocherà lì, a Chigi. Con Conte che alla vigilia parla come un preside alle prese con studenti agitati: “Non accetto che sul tavolo pesino posizioni pregiudiziali, né della Lega né del M5S”. Ma che se la giocherà con numeri e dati per sedare Salvini. Poco disposto a farsi catturare. Quindi stasera si aprirà il tavolo, e potrebbe durare anche per tutta la giornata di giovedì. Perché in ballo non c’è mica solo un treno, c’è il governo.
Trova le differenze
Chi, nella propria abitazione o nel luogo di lavoro, con “un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo”, “difende la propria o la altrui incolumità” o i “beni propri o altrui” dal ”pericolo di aggressione” di un uomo che non “desiste”, esercita una “difesa legittima” e dunque non è punibile se “costretto” dal “pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Lo dice il Codice penale (articolo 52), modificato dal centrodestra nel 2006 (ministro della Giustizia Roberto Castelli, leghista) in senso più favorevole ai derubati. Se poi ricorrano o meno queste condizioni, lo stabilisce il giudice che, in caso negativo, procede per “eccesso colposo di legittima difesa” (articolo 55). Ora quegli articoli, e anche altri sulle pene per i furti in appartamento e le violazioni di domicilio, stanno per essere di nuovo modificati dalla legge voluta dalla stessa Lega e già approvata in Senato a novembre dalla maggioranza giallo-verde. I 5 Stelle, salvo sorprese e con molti mal di pancia, la voteranno anche a Montecitorio. Il Pd, invece, alza le barricate e grida alla barbarie e al Far West. E non avrebbe tutti i torti, se nel 2017 non avesse a sua volta approvato alla Camera col resto del centrosinistra una riforma della materia, firmata da David Ermini (ora vicepresidente del Csm) e poi lasciata morire in Senato. Ora facciamo un gioco: “Trova le differenze”.
Questa è la modifica targata Pd all’articolo 52 sulla legittima difesa: “Si considera legittima difesa, nei casi di cui all’articolo 614 (casa, negozio, ufficio, azienda ecc, ndr)…, la reazione a un’aggressione commessa in tempo di notte ovvero la reazione a seguito dell’introduzione nei luoghi ivi indicati con violenza alle persone o alle cose ovvero con minaccia o con inganno”. Questa invece è la principale modifica targata Lega allo stesso articolo, oltre a quella che stabilisce “sempre” a priori la proporzionalità fra difesa e offesa in caso d’intrusione: “Nei casi previsti dall’articolo 614 (casa, negozio, ufficio, azienda ecc., ndr)… agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone”. A parte la leggendaria boiata del “tempo di notte” (che il Pd promise di eliminare al Senato, estendendo la norma “h 24”), le conseguenze delle leggi Pd e Lega sono identiche. Anzi, le maglie di quella del Pd erano persino più larghe, perché parlavano genericamente di “reazione” (che comprende tutto, anche il colpo alla nuca del ladro in fuga).
Invece la Lega si limita al più prudente verbo “respingere” (che non pare includere il colpo mortale).
Questa è la modifica targata Pd all’articolo 55 sull’eccesso colposo di legittima difesa: “La colpa dell’agente (chi uccide o ferisce l’intruso senza alcun diritto, ndr) è sempre esclusa quando l’errore è conseguenza del grave turbamento psichico causato dalla persona contro la quale è diretta la reazione”. Questa invece è la modifica targata Lega allo stesso articolo: “La punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o dell’altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui all’art. 61, primo comma, n.5 (“l’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa”, ndr), ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”. Anche qui conseguenze identiche: si giustifica pure chi uccide chi non minaccia nessuno con due supercazzole a fotocopia: il Pd con il “grave turbamento psichico”, la Lega col “grave turbamento” da “pericolo in atto”. Cioè si può ammazzare pure l’intruso disarmato che però minaccia, anche implicitamente (senza dirlo), di usare un’arma.
La legge Pd prevedeva (e giustamente) che fosse lo Stato a pagare le spese processuali e gli onorari degli avvocati degli imputati assolti o prosciolti per legittima difesa. La legge Lega prevede (e giustamente) che sia lo Stato a pagare le spese processuali e gli onorari degli avvocati degli imputati assolti o prosciolti per legittima difesa.
Fine del gioco. Che ha una conclusione e una morale. La conclusione è che, per fortuna, il Pd e la Lega non sanno mai quello che fanno: pensano che basti una legge, peraltro scritta coi piedi, per impedire ai magistrati di indagare chi uccide l’intruso; e intanto inventano sempre nuove condizioni (“grave turbamento”, “situazione di pericolo”) che andranno accertate dai pm e dai giudici (e da chi, se no?), indagando e talora processando gli sparatori che essi pensano di immunizzare anche dalle indagini. La morale è che quasi tutto quel che avviene nel primo anno dell’Era dei Cattivi era già accaduto – in scala, in nuce o tale e quale – negli ultimi anni dell’Era dei Buoni. Naturalmente quelli del Pd sono liberissimi di cambiare idea e di criminalizzare chi fa quel che facevano loro fino all’altroieri. Non sarà la prima né l’ultima volta: hanno insultato la Raggi per il no alla candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024 dopo aver approvato e applaudito il no di Monti alla candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2020; hanno deriso B. perché la menava col Ponte sullo Stretto e poi hanno rilanciato il Ponte sullo Stretto; hanno promesso l’Anticorruzione, con la blocca-prescrizione e il Daspo ai corrotti, poi hanno votato contro e gridato al “giustizialismo manettaro” quando l’ha presentata il ministro Bonafede. Come se le leggi fossero giuste solo perché le propongono loro e sbagliate solo perché le presentano gli altri. Da questi voltagabbana non si può pretendere coerenza. Ma sarebbero gradite almeno le scuse.
Addio Keith Flint, pioniere Prodigy: ultima vittima dei suoi stessi demoni
Il rave è finito davvero. E questa volta riprendersi dall’hangover sarà molto più difficile. Keith Flint, cantante, ballerino e frontman dei Prodigy, si è suicidato a 49 anni. La notizia si è diffusa rapidamente ieri mattina, con il ritrovamento da parte della polizia del cadavere dell’artista nella sua casa nell’Essex. L’uscita di scena volontaria è stata confermata in un comunicato della band. “Un vero pioniere, un innovatore, una leggenda”: così viene ricordato Flint nelle parole di Liam Howlett e Maxim (Keith Palmer), con i quali aveva fondato il gruppo nel 1990. Il luogo dell’incontro dei tre (e di Leeroy Thornhill, che avrebbe abbandonato nel 2000) non poteva essere più appropriato e simbolico: un rave party. Così come un simbolo degli anni 90, nonostante abbiano prodotto altri dischi importanti anche nei successivi due decenni, rimarranno per sempre i Prodigy, e Keith Flint una delle icone più inquietanti (il video della celeberrima Firestarter venne vietato dalla Bbc perché la figura del cantante “turbava i bambini”), inconfondibili e visivamente potenti di quel periodo. Con lui se ne va, a distanza di una settimana dalla scomparsa di Mark Hollis, un altro protagonista – pur se in tempi e con modi diversissimi – della storia del pop inglese. In questo caso quello più votato al ballo, all’impatto fisico, all’unione di elettronica e attitudine punk. I Prodigy furono tra i principali e più influenti protagonisti, anche in virtù della loro capacità di penetrare l’immaginario mainstream con una perfida naturalezza da Sex Pistols di nuova generazione, di un’era nella quale le barriere tra i generi musicali crollavano sulla spinta propulsiva dei beat. Anzi, dei “big beat”, definizione che meglio di ogni altra rendeva l’idea dell’aggressività stordente di album come Music for the Jilted Generation (1994) e The Fat of the Land (1997). Nel loro mescolare techno, hip hop, jungle, hardcore e tormentoni pop, i singoli spacca-classifiche e riempi-pista della band inglese tornavano a mettere in circolo sotto spoglie dance una carica “rock” (in senso lato) che il rock già venti e più anni fa aveva irrimediabilmente perso. Pezzi come la citata Firestarter, Breathe, No Good, Voodoo People, Smack My Bitch Up (altro video bannato, e titolo che oggi non verrebbe fatto passare con la facilità di allora) erano davvero “musica per una generazione abbandonata”.
O che si compiaceva di considerarsi tale, senza immaginare che a quella successiva sarebbe andata decisamente peggio. Per chiunque abbia avuto all’epoca tra i quindici e i trent’anni (stando stretti sia a un estremo che all’altro) le bordate dei Prodigy riportano con la forza di una electro-madeleine proustiana a un periodo fatto in parti uguali di edonismo e spaesamento, quando il benessere diffuso cominciava a rivelarsi una truffa e la rivoluzione digitale stava già cambiando le carte in tavola a un livello ben più profondo di quello meramente sonoro. Ma in fondo bastava ancora ballare, e non pensarci. In tutto questo il ruolo di Keith Flint fu tutt’altro che secondario, nonostante il suo contributo strettamente musicale fosse irrilevante. A lasciare il segno sono state la sua fisicità contagiosa, il suo look cartoonesco ed estremo, ma anche testi più interessanti e genuini di quanto la loro immediatezza sloganistica lasciasse intendere. “I’m the trouble starter, punkin’ instigator/I’m the fear addicted, a danger illustrated”. Un pericolo incarnato e un combina-guai senza paragoni, ma forse anche una persona rimasta sola davanti ai suoi fantasmi. Una cosa è certa: di incendiari così ne vedremo sempre meno.
Luke Perry, l’altro Dylan a segnare una generazione
Jeans, estati, amori e altri disastri, si fa per dire. Luke Perry, in arte Dylan McKay, era il ragazzo che non deve chiedere mai. Insieme, il ragazzo a cui tutti noi, adolescenti e più negli anni 90, abbiamo chiesto qualcosa: di poter essere come lui o di poter avere uno come lui, a seconda delle inclinazioni. “Sembri Dylan” era meglio di un bacio, per lui e con lui venivi proiettato in una dimensione mitologica, di più, cosmogonica: “Te la tiravi”, sì, per interposto immaginario collettivo.
Come Dylan nessuno mai: forse prima, non dopo, giacché è lui a officiare anima e ciuffo il rito di passaggio tra cinema e tv, e i rispettivi pubblici. Nel piccolo schermo di Beverly Hills 90210, codice d’incantamento generazionale più che d’avviamento postale, incarna un’aura data per scomparsa: nella riproducibilità seriale, qualcuno è ancora e per l’ultima volta Humphrey Bogart e James Dean, icona ardente e gioventù bruciata. Non c’è la magia, non c’è il buio in sala, ma sul divano postmeridiano qualcosa nondimeno accade: la fascinazione ha gli occhi sottili, la mascella volitiva ma con giudizio, e quel nome ineffabile.
Ciuffo alto, maglietta bianca e Ray-Ban neri, Dylan McKay è grammatica televisiva, sintassi cinematografica, lascito antropologico. Passano le Brenda (Shannen Doherty), le Kelly (Jennie Garth), lui no, rimane a farci innamorare di sé. Anche ora che Luke Perry non è più: colpito da un ictus mercoledì scorso, l’attore statunitense è morto al St. Joseph Hospital di Burbank, California, circondato – come si dice – dall’affetto dei suoi cari, i figli Jack e Sophie, la fidanzata Wendy Madison Bauer, l’ex moglie Minnie Sharp, la madre Ann Bennett. Meriterebbe funerali di Stato, per come ha sublimato le nostre adolescenze in qualcosa di archetipico, per come le ha forgiate in senso, moderatamente, antagonista. Ribelle senza causa, e senza tigna.
Aveva 52 anni, di cui dieci – dal 1990 al 2000 negli Stati Uniti, dal 1992 al 2011 in Italia – spesi a immagine e somiglianza di Dylan, con la lontananza nel triennio 1995-1998 che è come il vento. Non ha doti attoriali particolari, Perry, ma sovrapponendosi a McKay cristallizza un “figo” da manuale: irretisce, conquista e avvince, e nemmeno sai perché. Gli altri, però, aiutano: Brandon Walsh (Jason Priestley) piace alle mamme, Ian Ziering (Steve Sanders) non piace a nessuno, lui piace a tutti. Perché è come appare: “Dylan McKay l’ho creato io, è mio”. Con beneficio d’invenzione: dal padre Jack in odore di malavita, eredita un ingente patrimonio e il vuoto esistenziale, cui rimedia svuotando bottiglie. Gioca al maudit tra tavole e moto, s’intorcina con classe, e i dolori del giovane Dylan aprono all’immedesimazione: anche i ricchi piangono, e anche lui, non è meraviglioso? Per lenire l’angustia, il miliardario suo malgrado sperimenta le geometrie variabili dell’amore: Brenda, Kelly, ripetere, e la sventurata Toni, cui tocca la sorte più tragica dell’intera serie. Sì, pure la mafia voleva Dylan: roba da non credere – e in effetti si fatica.
Partito come bello e dannato, diventa quasi una bandiera civile, ma a tutto c’è un limite: la settima e ottava stagione della serie originaria le salta a piè pari, dallo spin-off del 2008 si astiene senza remore, né il suo nome era circolato per il reboot che la Fox ha da poco annunciato.
Schivo e dilaniato, il nostro sex-symbol pomeridiano ha saputo gestirsi, insomma, anche se il personaggio non l’ha più abbandonato, e viceversa: “Sarò legato a lui per il resto della mia vita, ma va bene così”.
Dopo quel ruolo, nulla di clamoroso (Il quinto elemento di Luc Besson non lo è), anzi: nel 2017 Perry trova un po’ di lustro con la serie Riverdale, un altro teen drama: non si sfugge. Viceversa, comparirà postumo, per la regia di Quentin Tarantino, in un titolo oltremodo sintomatico, Once Upon a Time in Hollywood. O, meglio, in Beverly Hills 90210.
‘C’è tempo’ per Veltroni di trovare la giusta via
Sotto l’arcobaleno, piovono citazioni: “più di cinquanta”, solo per rimanere a quelle cinematografiche tout court. Tanto che l’idea di “un concorso per maniaci”, confessa, lo solletica. Temendo un deficit di cinefilia da parte della stampa o non volendo smobilitare dalla vocazione maggioritaria che fu, le citazioni però le enumera lui: “La padella bucata per le castagne è quella de La grande guerra, l’elmo viene da Brancaleone alle crociate, il notaio Lolotta Cortona prende il nome dal Miracolo a Milano di Cesare Zavattini e il cognome dal Bruno de Il sorpasso”, per tacere dei conferenzieri “che sono tutti nomi del cinema italiano”. Finito?
Manco per sogno: c’è la pistola rossa a pois bianchi di Dillinger è morto di Marco Ferreri, autore “colpevolmente dimenticato”, laddove pur conscio che “oramai la gratitudine è un sentimento poco trendy” lui nel film ha messo “i ringraziamenti alle persone importanti nella mia vita”.
E giù a sciorinare, complice una commedia per il ceto medio riflessivo che somiglia pericolosamente a un album di famiglia in cornice digitale: ecco Ettore Scola e Marcello Mastroianni d’archivio che discettano di commedia e ridere in commedia; ecco sequenze de I 400 colpi; ecco Laura Ephrikian, che rimanda “a un bellissimo genere del cinema italiano”; ecco un estratto di Novecento di Bertolucci; ecco l’albergo di Prima della rivoluzione, sempre di Bertolucci; ecco, il cammeo di Jean-Pierre Léaud, ossia il truffautiano Antoine Doinel. Il viaggio, ipse dixit, “è a rallentare”, comunque sentimentale: un adulto obeso, caotico e osservatore di arcobaleni, un bambino orfano, indeciso e cinéphile, Walter Veltroni li mette su un Maggiolino, “una macchina aperta, non per caso”, a incontrare se stessi, a sperimentare la fratellanza e “quella meraviglia che è il diverso da sé”. Il grande è Stefano Fresi, il fratellastro l’esordiente Giovanni Fuoco, il film C’è tempo, e anche il titolo è una citazione: “il più bel testo della musica italiana”, firmato da Ivano Fossati. Già che ci siamo, ci informa Veltroni, sul fronte letterario i rimandi sono tre: Staccando l’ombra da terra, debitamente e lungamente inquadrato, di Daniele Del Giudice, Passami il sale della compianta Clara Sereni e, per un pallone calciato a San Casciano e atterrato a Parigi, il sommo poeta Dylan Thomas. Di certo, Walter non le manda a dire.
Eppure, l’eccitazione citazionistica non mortifica mai la sana attitudine popolare, che il neo-regista di finzione mutua indefettibilmente dalla gloriosa “commedia all’italiana, nel senso tradizionale del termine: Monicelli, Scola, Risi, Age e Scarpelli, Sonego, Benvenuti, gente coltissima, che aveva letto tutto, ma non si rivolgeva a chi aveva letto quei libri”. “Certo”, Walter deve rintuzzare un puntuto cronista, “l’obiettivo del film era qualcosa che trasmettesse una struttura importante, ma con linguaggio popolare”.
Divulgativo, esplicativo, di più, pedagogico, a partire dalle note di regia contenute nel press-book: “Quelle che state per leggere vengono definite le ‘note di regia’. Cioè il racconto di chi ha costruito il film, la spiegazione del linguaggio scelto, il senso della storia raccontata”. Due indizi fanno una prova: pur critico cinematografico a sua volta, della stampa, almeno quella di settore, Veltroni non si fida. A sua parziale discolpa, va detto che il road movie stesso – aggiornando Kerouac, la meta non è più il viaggio ma la tappa – tenta sempre di spiegarci che cosa esso sia, con un flusso di coscienza prevalentemente automobilistico, saltuariamente familiare, sovente relazionale, sempre popolare.
Il calcio è una fede, i carabinieri tengono la maglia della Lazio sotto la divisa, le mogli sono ingrate, le madri dementi senili, la cucina ottima e abbondante, i cinesi “cinesi” ma senza razzismo, le fortune alterne, meglio, alternate, giacché Stefano ci prova con una cantante (Simona Molinari), ma è Giovanni a baciarne la figlia (Francesca Zezza).
Con C’è tempo (prodotto da Palomar e Vision Distribution, dal 7 marzo distribuito su 250 schermi), Veltroni ce la mette tutta, anzi, troppa: troppo e troppo grande il cinema altrui che introietta, perché la differenza non salti drasticamente all’occhio; troppo potere alla parola anziché all’immagine, con i personaggi che verbalizzano sempre quel che gli abbiamo appena visto fare, in una lunga teoria di didascalie; troppi i “buoni sentimenti”, anche se “oggi – dice Walter – il pericolo è l’opposto”.
“I difetti che vedrete li farò miei”, concede infine alla stampa, e l’onore delle armi, quantunque spuntate, gli va concesso: “ossessionato dal buio e dalla paura, dalla paura della paura”, Veltroni elogia la luce e illumina tutto, diceva un altro, “smarmella, apre tutto”. Alla speranza, si capisce.
Kallas, un acuto per fermare populisti e Mosca
Il simbolo della destra europeista che ha vinto le elezioni in Estonia è il suo pettinatissimo ed impeccabile caschetto biondo. Kaja Kallas, 41 anni, fino a ieri a capo dell’opposizione, sarà la prima premier donna del paese. Adesso sorride e promette agli elettori che governerà seguendo solo “il buon senso”.
Più che una vittoria del partito riformista, è un verdetto storico del Paese alle urne che predilige la diarchia delle regine di Tallin: la Kallas affiancherà Keresti Kaljulaid, la prima presidente donna del paese, eletta nel 2016. Quasi il 29% dei voti: la pallida Kallas ha portato alla vittoria i liberali della destra del suo partito, Reform, infliggendo una sconfitta sonora alla coalizione al potere, formata del partito di sinistra e quello di centro, fermi alla soglia del 23%, con cui però la premier deciderà probabilmente di formare un governo nei prossimi giorni.
Una sola elezione ma due vittorie. Una è della Kallas, l’altra dell’ala destra che trionfa ai seggi. Della troika baltica, l’Estonia è il paese chiave e questo era un test per il populismo nordico. Premiato dagli elettori delle aree rurali del paese, svetta il partito dell’estrema destra Ekre, che raddoppia i suoi voti rispetto alle ultime elezioni, raggiunge il 17,8% delle preferenze e diventa la terza forza tra gli scranni del Riigikogu, il Parlamento estone. Governare con l’Ekre “è l’unica opzione che non è sul tavolo”: la premier ha già escluso dai giochi delle alleanze il leader destrorso Mart Helm, annunciando che il futuro governo sarà formato da “due partiti grandi, o uno grande e due piccoli”.
Figlia d’arte, l’avvocatessa, già europarlamentare con l’Alde, alleanza democratici per l’Europa, è legata al padre Siim Kallas che è stato premier estone e presidente del partito Reform, e ora ricopre il ruolo di commissario europeo. Nel paese con il debito pubblico più basso d’Europa e stime sulla crescita del 2.7% per il prossimo anno, la Kallas ha vinto parlando di tre cose in campagna elettorale: tasse da tagliare, sussidio di disoccupazione (che nel paese non raggiunge il 5%) da concedere, educazione giovanile da riformare. La premier erediterà una spinosa questione da risolvere ed è tutta scritta in cirillico: riguarda l’educazione della minoranza russa – Mosca con l’Estonia fa sempre la voce grossa e minacciosa – che costituisce un quarto della popolazione totale del paese, di poco più di un milione.