La “mazzetta” di Theresa: Brexit, May accusata di comprare i voti Labour

Fotografia aggiornata della situazione: i tentativi di ottenere da Bruxelles “concessioni significative” e legalmente vincolanti che sciolgano il nodo della backstop sono arenati sul ‘no’ della Ue, ma Theresa May insiste nel puntare sulla ratifica parlamentare dell’accordo chiuso a dicembre e già sonoramente bocciato dalla Camera dei Comuni. Della ostinazione del primo ministro abbiamo detto più volte, ma ci sono risvolti meno nobili. L’ultimo ieri, quando il governo ha annunciato finanziamenti a pioggia per 1,6 miliardi in 7 anni a zone svantaggiate del paese.

Downing Street lo chiama “fondo di sostegno” ed è diretto a ex distretti minerari o costieri, prevalentemente nel Nord-Ovest e nelle West-Midlands. La linea ufficiale è che questi stanziamenti rispondano all’esigenza di ridistribuire ricchezza in modo più equo. Curiosamente, sono quasi tutte roccaforti leaver e laburiste. E non è indispensabile essere all’opposizione per dare voci al sospetto: non sarà che l’esecutivo si sta comprando il voto dei parlamentari laburisti pro-Brexit? Ieri diversi giornali scrivevano apertamente di bribes, mazzette; su Twitter è apparso l’hashtag #Brexitbribes e perfino il Financial Times, voce della City, nel suo Brexit briefing titolava “Le tangenti della Brexit di Theresa May non basteranno”.

Perché? Primo: come spesso nelle strategie della May, la mossa rischia di essere un pannicello caldo: 1,6 miliardi in 7 anni non risolvono i problemi di aree desertificate da decenni di abbandono e brutalizzate dagli ultimi anni di tagli; fra l’altro sono briciole rispetto ai fondi europei perduti in caso di Brexit. Possono forse oliare il voto di parlamentari laburisti già euroscettici, ma rischiano di far infuriare i rappresentanti di distretti Tories altrettanto derelitti.

Secondo: Caroline Flint, deputata laburista di un distretto pro-Brexit sostiene che 30 colleghi sarebbero pronti a sostenere il deal al secondo voto. Non abbastanza per far passare un accordo indigesto.

Mi manda Washington: Guaidó ritorna a Caracas

Con la protezione dichiarata degli Stati Uniti – “reazione rapida” in caso di minacce fisiche – Juan Guaidó, auto proclamatosi presidente del Venezuela il 23 gennaio in opposizione al governo Maduro, ieri è tornato nella capitale venezuelana nonostante il pericolo di essere arrestato per aver violato un divieto di uscita dal territorio.

Guaidó ha ritenuto di sfidare Maduro e i suoi militari avendo ottenuto rassicurazioni da Washington sulla sua incolumità: “Il rientro sicuro di Juan Guaidó in Venezuela è della massima importanza per gli Usa. Qualsiasi minaccia, violenza o intimidazione contro di lui non sarà tollerata e avrà una risposta rapida”, ha scritto il vice presidente Mike Pence, aggiungendo: “Il mondo guarda, il presidente ad interim Guaidó deve essere autorizzato a rientrare in Venezuela in tutta sicurezza”.

Un altro tassello per spingere Nicolas Maduro ad uscire di scena e permettere un cambio di rotta senza guerra civile o altri spargimenti di sangue dopo le pressioni di decine di Paesi che hanno riconosciuto Guaidó come presidente legittimo. Il rientro dell rappresentante del parlamento che ha assunto i poteri dell’esecutivo ha suscitato l’entusiasmo di migliaia di venezuelani, scesi in strada a Caracas e in altre città. Sulla piazza Alfredo Sadel, nella zona di Las Mercedes, a est di Caracas, è stata eretta una tribuna per un comizio di Guaidó che ha incitato i suoi: “Non saranno le minacce e le persecuzioni che ci fermeranno, siamo più forti che mai”.

Il leader dell’opposizione ha ringraziato i governi sudamericani che lo hanno appoggiato ed accolto durante le sue due settimane all’estero – Colombia, Brasile Cile, Perù, Argentina, Paraguay ed Ecuador – ed ha promesso di risolvere la questione degli aiuti umanitari fermi alle frontiere per i blocchi imposti dai chavisti: “La dittatura può bloccare strade e reprimere ma non potrà fermare un popolo coraggioso che resta mobilitato in piazza”.

Altri cortei si sono svolti a Barcelona, capitale dello Stato di Anzoategui, Valencia, capitale dello Stato di Carabobo, Maracaibo, capitalo dello Stato di Zulia.

Sebbene solo una settimana fa Diosdado Cabello, presidente dell’Assemblea Costituente e numero due del partito chavista (Psuv), aveva avvertito che se il dissidente fosse tornato in Venezuela in aereo avrebbe trovato ad attenderlo “un bel comitato di benvenuto”, in realtà il governo sembra attendere il momento buono per agire, lontano dai riflettori.

Su Guaidó saranno prese “misure adeguate”, lo ha detto la vicepresidente Delcy Rodriguez a Russia Today: “Il suo comportamento, le sue attività, sono analizzati con cura dalle istituzioni dello Stato e si prenderanno le misure adeguate; è una persona che si è autoproclamata presidente in una piazza pubblica, il che sembra veramente stravagante in Venezuela e sembra che vada avanti con la sua stravaganza, mettendo in ridicolo qualche altro paese, i cui governi sono meri satelliti degli Stati Uniti. In quanto venezuelana, non posso non sentire vergogna per una persona che non si limita a rendersi ridicolo nel suo Paese, ma anzi ora si dedica al ridicolo internazionale”.

Cuba, sindrome Venezuela. Come salvarsi dalla crisi

“La nuova Costituzione rappresenta un passo avanti per Cuba dal punto di vista economico e sociale. Apre alla proprietà privata e agli investimenti esteri. Garantisce nuove protezioni e diritti ai cittadini. Ma si tratta di principi generali, come deve essere per una Carta magna. Ora il problema fondamentale sono le leggi applicative, quelle che dovranno trasformare i principi in fatti. E qui si vedrà qual è la vera forza dei riformatori di fronte agli “ortodossi” del partito comunista, che resta l’unica forza politica che controlla il Paese”.

Il parere dello storico e politologo Enrique López Oliva è condiviso da una serie di intellettuali e artisti che hanno votato ‘Sì’ tappandosi il naso e ora chiedono che si diano segnali veloci e concreti di cambiamento, come la riforma del decreto legge 339 che di fatto introduce la censura nella creazione artistica”.

Il nuovo testo costituzionale – il precedente era del 1976 – è stato approvato una settimana fa con il voto favorevole dell’86,8% e con un’affluenza del 90%.

“Il ‘No’ ha ricevuto il 9% dei voti, mentre tra schede bianche e nulle si arriva quasi al 5%. Questo significa che si è trattato di un processo elettorale importante dove si è manifestata una dissidenza e un’opposizione di un certo peso. Anche in precedenza, durante i mesi di consultazione popolare per approvare il testo definitivo della Costituzione, la gente si è espressa in modo libero e ha dato il suo contributo. Questo per il presidente Díaz-Canel è sia uno stimolo che un avvertimento: le riforme dovranno proseguire a ritmo accelerato e in prospettiva anche nel campo politico”, afferma lo scrittore e accademico Esteban Morales. “Per il cubano de a pie, ovvero il cittadino comune, la nuova Costituzione non suscita grandi entusiasmi e passione politica: sarà valida solo se assicurerà un miglioramento del tenore di vita”, sostiene Yusneris Tamayo, una pediatra. E come lei la pensano gran parte dei cittadini, specialmente tra i giovani che attendono con ansia che si creino nell’isola alternative concrete all’aspirazione, oggi maggioritaria, di uscire dal paese per cercare quelle opportunità che non incontrano a Cuba.

La propaganda per il ‘Sì’ alla nuova Costituzione è stata martellante: in tv si sono ripetuti spot dove artisti, sportivi, commentatori e gente comune proponevano a ritmo quasi ossessivo le ragioni per andare a votare a favore del nuovo testo costituzionale. La scritta “Io voto sì” è apparsa quasi ovunque, sugli autobus pubblici, nelle vetrine dei negozi e negli scontrini di ricevuta di pagamento dei supermercati – e anche, quasi ironicamente – negli scaffali semivuoti.

“Ma quello che più ha funzionato come stimolo ad andare a votare è stata la paura che quanto avviene in Venezuela possa domani ripetersi a Cuba. Insomma, le minacce di Donald Trump di intervenire militarmente in Venezuela e di farla finita col socialismo in tutta l’America latina hanno costituito un’ottima propaganda per il sì”, dice López Oliva.

Nei mesi precedenti il voto il governo ha avuto messo alle strette le piccole formazioni politiche di opposizione. Non è stato concesso nessuno spazio pubblico alla propaganda per il ‘No’ ed è stata impedita o repressa ogni manifestazione contro la linea ufficiale.

Ma l’opposizione è stata apertamente e in modo concreto sostenuta dall’esterno, specie dalla Florida, con un uso degli sms e delle reti sociali già sperimentato negli ultimi mesi in Brasile e in Venezuela. Inoltre, per la prima volta, una parte delle chiese o sette evangeliche – anche queste collegate alle “case madri” negli Usa – si sono espresse per il ‘No’ alla nuova Costituzione.

Quella ottenuta dal presidente Díaz-Canel è una vittoria importante, ma ha tempi ristretti per sfruttarla. Per questo ha messo in chiaro che le prime leggi saranno presentate alla prossima riunione dell’Assemblea nazionale – il Parlamento unicamerale – in giugno. Le più urgenti riguardano l’economia e gli investimenti esteri. Ed è proprio in questo campo che negli ultimi giorni ha picchiato duro l’Amministrazione Trump.

Il presidente ha incrementato il sessantennale embargo contro Cuba estraendo dal cassetto, dove giaceva da 23 anni, il Titolo III della legge Helms-Burton che autorizza ogni cittadino statunitense a presentare di fronte ai tribunali degli Usa causa contro tutti gli stranieri che “traffichino” con proprietà che furono nazionalizzate dopo la Rivoluzione.

Dato che le proprietà statunitensi nell’isola prima della vittoria di Fidel Castro erano enormi si tratta di una nuova minaccia contro quegli investimenti esteri che la nuova Costituzione considera strategici. La misura sarebbe una rappresaglia per il sostegno cubano al presidente venezuelano Nicolas Maduro.

Carnevale di Formello, proteste e accuse per il carro razzista

In provincia di Romaun carro anti migranti ha sfilato domenica al carnevale di Formello. I video hanno fatto in poco tempo il giro del web scatenando la polemica. Le immagini mostrano un gommone circondato da onde di plastica e carta. A bordo dei bambini con la pelle colorata di marrone. Davanti al carro allegorico, una jeep per trainarlo con bandiere dell’Italia e cartelli con le scritte “Vogliamo il wi-fi” e “No pago affitto”. Al fianco un uomo con la maschera dall’ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Tantissimi sono stati i commenti di sdegno e le accuse di razzismo su Twitter e Facebook. Numerosi utenti hanno condannato l’episodio chiedendo all’amministrazione comunale e al sindaco di centrodestra Gian Filippo Santi di prendere le distanze “da un’immagine del genere”. “So che il Comune non prenderà mai provvedimenti visto che sono i primi a ridere di queste nefandezze”, si legge su Facebook. E ancora: “Hanno rovinato uno spettacolo veramente festoso peccato per il nostro momento storico, veramente strideva accanto alle bellissime opere delle scuole”.

Benko, il magnate che si è comprato Bolzano

L’uomo che si comprò una città. Ora vuole anche il museo di Ötzi, la mummia di Similaun, e l’aeroporto. Se guardi Bolzano dall’altura del Virgolo, ovunque vedi gru, palazzi, interi quartieri di proprietà del magnate austriaco René Benko. Perfino il Virgolo. L’ultimo capitolo è il museo di Otzi, simbolo dell’Alto Adige: “Ci sono tre proposte, ma la nostra è l’unica per una struttura nuova”, spiega Heinz Peter Hager, il più noto commercialista della città nonché braccio destro di Benko, “Abbiamo commissionato un progetto al famoso studio norvegese Snohetta”. È un museo-anfiteatro da 10 mila metri quadrati in un quartiere nuovo di zecca, anche questo realizzato da Benko, e raggiungibile in funivia (opera di Benko). Ma pochi in città sembrano farci caso. Due mesi fa è stata avviata la privatizzazione dell’aeroporto. La Provincia ha ricevuto una sola busta: la Signa di Benko con alcuni magnati locali.

Ma chi è il quarantenne René Benko? Le agiografie raccontano la parabola del figlio di un dipendente pubblico e di una maestra nella vicina Innsbruck. A 17 anni si lanciò nel mattone, il suo sogno. “Capì l’affare delle soffitte. Un fiuto eccezionale”, racconta Hager. Poi fondò Signa e diventò tra gli uomini più ricchi dell’Austria (4 miliardi di patrimonio). Le cronache raccontano amicizie e affari con Niki Lauda che sponsorizza i progetti dell’amico. Nel 2012 Benko deve difendersi dall’accusa dei magistrati viennesi di aver pattuito 150 mila euro con il premier croato Ivo Sanader perché intercedesse con Silvio Berlusconi (non toccato dall’inchiesta): “Secondo l’accusa, il Cavaliere avrebbe dovuto risolvere i problemi di Benko con il fisco italiano. Figuratevi!”, ha raccontato Hager. I giornali riferirono che Benko era stato condannato in Austria a un anno con la condizionale (oggi per la legge austriaca la sua fedina è pulita). Con il fisco italiano si arrivò a una rottamazione da 20 milioni.

Acqua passata. Intanto Benko investe a Bolzano: 700 milioni. Il primo passo è stato Walther Park: un intero quartiere accanto al Duomo. Qui stanno nascendo un centro commerciale, case, un albergo e 800 posti auto. Per rendere più digeribile il progetto – a Bolzano si tenne un referendum – è stata chiamata l’archistar David Chipperfield. Benko cementa i progetti con calce e buone relazioni. “Sì, nel complesso (oltre a negozi di Eataly, ndr) è previsto un albergo della Falkensteiner”, spiega Heiger. Una società partecipata da Otmar Michaeler. E qui il consigliere provinciale Riccardo Dello Sbarba (Verdi) scuote la testa: Michaeler è presidente della Volksbank, una delle due casseforti dell’Alto Adige, che ha finanziato la Sigma con 70 milioni. Il presidente del collegio sindacale della banca è Hager. È solo l’inizio: accanto al Walther Park, Benko ha realizzato la stazione pullman. Poco lontano, a Gries, ha acquistato la vecchia cantina dei viticoltori per realizzare un progetto da 60 milioni e 130 appartamenti. Poi il Virgolo. E ora l’aeroporto, che è della Provincia. Il presidente della società era Michaeler. Ma gli investimenti potrebbero andare ben oltre il miliardo, quando sarà liberato l’Areale delle Ferrovie, progetto da 381 milioni di opere pubbliche e 537 di residenziale, terziario e commerciale. Hager riferisce: “Benko è interessato”.

Uno sbarco con buone sponde politiche. C’è chi ricorda che la Provincia in mano alla Svp (allora alleata del Pd) votò quella che venne chiamata ‘Lex Benko’ che capovolgeva l’urbanistica bolzanina, lasciando la pianificazione ai privati. Ma oggi c’è la Lega. Nello staff del leghista Massimo Bessone (assessore all’Edilizia della Provincia) c’è Anna Pitarelli, già consigliere comunale Svp e animatrice di ‘Bolzano Domani’ che sosteneva i progetti Benko.

Le mamme di Tamburi vanno a “chiudere” l’Ilva

Dopo che due giorni fa il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci (Pd) ha emesso un’ordinanza per la chiusura delle due scuole del quartiere Tamburi, l’elementare Grazia Deledda e la media De Carolis, oltre 700 alunni più il personale docente, a fronte degli allarmanti dati sull’inquinamento dell’ex Ilva, di un incremento della concentrazione di arsenico, berillio cobalto e altre sostanze tossiche, ieri i genitori hanno dato vita a una protesta.

Al termine dell’assemblea si sono diretti in piazza Masaccio e hanno apposto i lucchetti sul cancello della direzione del Siderurgico dove hanno affisso il cartello: “Oggi vi chiudiamo noi” invitando tutti a firmarlo. La chiusura delle due scuole che sorgono proprio a ridosso delle “collinette ecologiche” che dividono il quartiere Tamburi dall’ex Ilva poste sotto sequestro un mese fa dalla magistratura perché fortemente contaminate da sostanze tossiche, non riapriranno prima del 31 marzo quando verranno effettuate nuove analisi.

La situazione è così allarmante da indurre il primo cittadino a vietare anche la produzione di alimenti, mangimi e il pascolo, nell’area della Salina grande dopo i risultati dei prelievi sul terreno effettuati dal Commissario Straordinario per gli interventi di bonifica e ambientalizzazione, Vera Corbelli. Gli abitanti di Tamburi non ce la fanno più ad impedire ai propri bimbi di giocare all’aria aperta, di poterli portare con i passeggini ai giardinetti perchè l’aria è irrespirabile e non vogliono più piangere i loro figli uccisi dal cancro. Li hanno ricordati, quei morti, con una fiaccolata oceanica svoltasi il 25 febbraio scorso per le vie del centro di Taranto. “I nostri bambini non possono andare a scuola? La misura è colma”, spiega Chiara una delle mamme davanti all’ex Ilva: “Noi chiusi in casa e la fabbrica che continua a ucciderci, come si può sopportare tutto questo?”.

Per comprendere la gravità della situazione a Taranto basta leggere questa sintesi della relazione pubblicata dall’Arpa (l’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale) sui Dati di monitoraggio della qualità dell’aria rilevati dalla ex Ilva 2018-2019: “…l’Agenzia ha più volte puntualizzato come risulti, tuttora, rilevante il contributo delle emissioni di inquinanti da parte dell’impianto siderurgico nelle concentrazioni rilevate nei quartieri limitrofi all’area industriale, in particolare durante i cosiddetti wind- days’, e come il rispetto dei limiti normativi europei della qualità dell’aria, nelle stesse zone, non garantisca in alcun modo l’assenza di effetti lesivi sulla salute della popolazione”. L’Arpa pugliese punta l’attenzione soprattutto sulla Cokeria che “resta un impianto di particolare criticità del ciclo siderurgico integrale, in quanto sorgente emissiva di inquinanti dannosi e cancerogeni (in particolare: benzene e idrocarburi policiclici aromatici) e non oggetto di adeguamenti sostanziali…”. Ma il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, che venerdì prossimo parteciperà a Taranto ad un vertice in Prefettura, cerca di non cedere agli allarmismi spiegando di aver inviato l’Ispra “il braccio armato del ministero dell’Ambiente, che assieme all’Arpa Puglia verificheranno se l’allarme che è stato lanciato sarà confermato”. Costa è cauto: “Aspettiamo che le strutture preposte ci diano risposta. Le centraline di rilevazione ci sono. I dati devono essere valutati”.

Intanto nella città soffocata dai veleni alcuni gesti si ripetono. Così come la famiglia Riva dell’ex Ilva “offriva” all’amministrazione comunale anche le fontanelle al cimitero per annaffiare i fiori sulle tombe, ArcelMittal, più giocosa, a Natale ha donato ai ragazzi la possibilità di accedere gratuitamente alla pista di pattinaggio che ha installato in piazza della Vittoria.

L’assassino impulsivo piace soltanto se spara al ladro

Certo, riassunta così, la vicenda è roba per cui incatenarsi fuori dal tribunale. La presidente della Commissione Femminicidio, Valeria Valente, ha commentato: “Rischiano di annullarsi anni di battaglie e di conquista di diritti per le donne”. I senatori della commissione d’inchiesta sul femminicidio hanno affermato: “Enormi passi indietro sulla strada dell’emancipazione e della giustizia”. Il ministro Giulia Bongiorno: “Ho letto solo pochi brandelli di quella sentenza. Premesso che rispetto le sentenze (…), non condivido il principio grazie al quale è stata ridotta la pena a un uomo che ha ucciso la sua compagna. Leggo che è stato valorizzato come attenuante il suo stato d’animo, determinato dalla gelosia. (…) Stiamo tornando alla stagione del delitto d’onore”. Peccato che leggendo l’intera sentenza venga fuori che i giudici hanno considerato la gelosia dell’uomo “motivo di aggravamento in quanto integrante l’aggravante dell’avere agito per motivi abietti-futili”.

Quindi quella della Bongiorno o è una lettura poco attenta della sentenza o è quel populismo giudiziario tanto caro al suo “capitano” Matteo Salvini. Inoltre, si può discutere la scelta di un’espressione poco felice e soggetta a facili fraintendimenti come “tempesta emotiva” che letta da una donna – lo confesso – suona un po’ come l’odiato “era intrattabile, aveva le sue cose”, ma leggendo la sentenza risulta evidente che l’assassino attraversava una fase non di tempesta, ma di tsunami emotivo. Parliamo di un uomo che dal 2013 si era rivolto a un centro di salute mentale per malesseri psichici dopo la separazione, a cui il medico aveva prescritto farmaci, che aveva tentato il suicidio nel 2014 dopo la fine della sua nuova relazione, che aveva subito un Tso, a cui era stato diagnosticato un disturbo della personalità, che abusava di alcol, che aveva tentato il suicidio dopo l’omicidio di Olga. Che l’uomo abbia ucciso per futili motivi è stato riconosciuto, che fosse una persona profondamente disturbata pure.

Quello che si potrebbe discutere, al limite, è l’abolizione del rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo, ma per i giornali e per una buona fetta di donne che sarebbero dalla parte giusta, “basta rito abbreviato” è uno slogan meno facile, meno demagogico, meno virale del “torniamo al delitto d’onore!”.

Eppure, si può rimanere femministe, emancipate, in prima linea nella battaglia contro il patriarcato, ammettendo che perfino nel tragico, odioso ambito degli omicidi in famiglia, gli stati emotivi di chi commette un omicidio (e che in questo caso erano devastanti), non possono essere ignorati. Pure se si parla di uomini. Se così non fosse, dovremmo smettere di condurre battaglie anche in altre direzioni, per esempio quella complessa e dolorosa degli infanticidi compiuti da donne che attraversano la fase del baby blues o vittime di depressione. Dovremmo non concedere attenuanti neanche a una donna che uccide un figlio, eppure – proprio perché siamo creature empatiche – riusciamo a riconoscere, in quei delitti orrendi, l’ombra della depressione, dell’ansia da prestazione, del trauma del parto, dell’incapacità di accudimento. Della tempesta emotiva, verrebbe quasi da dire. Non avremmo trovato altrettanto offensiva la stessa espressione se un giudice l’avesse scomodata per una donna depressa, con un figlio nato da poco, che è finito in un torrente o giù da una finestra.

Un paio di considerazioni a margine, poi, sulle ultime uscite del ministro Bongiorno. Da una parte, dichiara che la tempesta emotiva è un concetto arcaico, dall’altra però trova che Salvini abbia fatto bene ad andare a trovare in carcere un uomo che ha sparato in petto a un ladro di gasolio già picchiato e inerme mentre era a terra. Lì evidentemente l’attenuante della tempesta emotiva è valida. Lì la responsabilità penale dovrebbe tener conto dello tsunami psicologico subito da un uomo vessato dai continui furti di gasolio. Lì il ritorno al fucile e alla giustizia fai da te non è un concetto arcaico, è modernità.

Inoltre, in piena tempesta ddl Pillon e con il senatore omonimo nonché suo compagno di partito che parla, assieme al ministro leghista della Famiglia, Fontana, di abolizione del divorzio e dell’aborto e lei che sdogana lo scivoloso concetto di alienazione parentale, la Bongiorno, ieri, se ne esce con la frase: “Dobbiamo fare leggi spudoratamente a favore delle donne” (non “a tutela”, ma “a favore”). Infine, ci sarebbe la sua ultima dichiarazione: “Veniamo da secoli di legislazione contro le donne. Oltre il delitto d’onore, pochi ricordano che cosa fosse lo ius corrigendi, ovvero il diritto dell’uomo di correggere la donna, picchiandola”. Peccato che proprio mentre il ministro Bongiorno ci ricordava come agli uomini venisse concesso di punire le donne e “correggerle”, il suo capitano Salvini postasse su Facebook la foto di una donna che osava contestarlo con un cartello (aveva già postato foto di sue contestatrici minorenni in passato). Una sorta di ius corrigendi in cui a correggerla stanno provvedendo migliaia di ultrà di Salvini a suon di “Ti ci vorrebbero 4 africani”, “Tanto ora riaprono le case chiuse” e così via. Verrebbe da insinuare che il ministro Bongiorno soffra di un discreto caso di alienazione da quel che fanno e dicono i suoi compagni di partito, più che parentale.

“Tempesta emotiva”: cosa dice davvero la sentenza

Davvero i giudici di Bologna hanno dimezzato la pena (da 30 a 16 anni) in appello, per un femminicidio perché hanno giustificato la “soverchiante tempesta emotiva e passionale” dell’assassino? Ni, viene da rispondere, dopo aver letto le motivazioni del verdetto che ha scatenato un vero putiferio. La sentenza riguarda l’omicidio di Olga Matei, strangolata a Riccione il 5 ottobre 2016 da Michele Castaldo (che poi tentò maldestramente di inscenare il suicidio della donna).

In primo grado, Castaldo aveva avuto il massimo della pena, ovvero 30 anni (e non l’ergastolo perché optò per il rito abbreviato): furono riconosciuti i motivi “futili e abietti” e negate le attenuanti generiche. Su Castaldo era stata fatta anche una perizia psichiatrica, secondo cui l’uomo aveva agito sì in preda a una “soverchiante tempesta emotiva e passionale”, ma per niente rilevante ai fini della sua capacità di intendere e di volere.

In appello è andata diversamente: il Procuratore generale aveva chiesto la conferma della condanna, ma la Corte d’assise d’appello di Bologna ha dimezzato la pena – da 30 a 16 anni – perché, a differenza del giudice per l’udienza preliminare,ha riconosciuto le attenuanti generiche, equivalenti all’aggravante dei motivi “futili e abietti” (anche in questa sede confermata). Prima attenuante – spiegano ora i giudici nella motivazione – la confessione. Altra circostanza attenuante, ha cominciato a risarcire la figlia della vittima. E, infine, la “soverchiante tempesta emotiva e passionale”: per i giudici, un elemento che influisce sulla “misura della responsabilità penale”, responsabilità che è stata comunque pienamente riconosciuta dalla Corte che ha ritenuto di concedere le attenuanti anche perché “l’immediata e spontanea confessione, irrilevante quanto al punto della responsabilità (qui si condivide il giudizio del primo giudice)”, è “risultata determinante quanto al punto dell’aggravantedell’avere agito per gelosia e dunque per motivi abietti-futili”.

I giudici sono quindi partiti dalla pena base di 24 anni (ovvero il massimo previsto per questo tipo di reato) “commisurata allabrutalità dell’omicidio, commesso a mani nude e pertanto con un’azione prolungata”, e hanno applicato lo sconto di un terzo per il rito abbreviato: pena rideterminata in 16 anni. Contro questa decisione la Procura generale di Bologna ha annunciato che farà ricorso in Cassazione. Il presidente della Corte di appello di Bologna Giuseppe Colonna ha spiegato: “La gelosia non è stata consideratamotivo di attenuazione del trattamento, anzi, motivo di aggravamento in quanto integrante l’aggravante dell’avere agito per motivi abietti-futili”. E poi: “La misura della responsabilità (sotto il profilo del dolo) era comunque condizionata dalle infelici esperienze di vita, affettiva, pregressa dell’imputato. Questo – prosegue Colonna – è il dato rilevante al di là della frase, che è comunque tratta testualmente dalla perizia: ‘soverchiante tempesta emotiva e passionale’”. L’unico approccio “a un tema così complesso è quello squisitamente tecnico”, conclude Colonna. Sono tre “i motivi convergenti”: la confessione e il risarcimento, “motivi oggettivi e ineccepibili”, e il terzo punto, quello discusso, “comunque congruo in quanto inerente l’aspetto della vita pregressa e della responsabilità sotto il profilo del dolo d’impeto”.

Eco e “Il nome della rosa”; miracolo tv, altro che “I Medici”

In origine era il libro, un libro sulla natura sovrumana dei libri. In origine è stato Il nome della Rosa, romanzo-saggio spartiacque, colto e popolare, apocalittico e integrato, l’Altissimo e il basso sdoganati l’uno per l’altro. Il testo seminale della rinascita del noir e del neogotico, per dire quanto è lastricata di buone fonti la strada che porta a Dan Brown. Trentotto anni dopo, il capolavoro di Umberto Eco conferma la sua natura anfibia, postmoderna, diventando un’ambiziosa serie tv per Rai1, dove Guglielmo da Baskerville se la vede con il Rust di True Detective, mica con Don Matteo. La calibrata regia di Giacomo Battiato conserva l’equilibrio tra i generi, pota le digressioni erudite, la furia tassonomica, dà all’intreccio qualche tocco sentimentale (quanto alle descrizioni, cadono da sé, essendo il cinema la letteratura dei profani). Il cast è di autentica caratura internazionale, niente a che vedere con il Rinascimento da fotoromanzo dei Medici. John Turturro è un Guglielmo da Baskerville tratto di peso dal San Francesco di Zurbaran, il Bernardo Gui di Rupert Everet è immerso nella luce enigmatica di Velazquez. L’abbazia a tratti tende al Trono di Spade, ma è un attimo, poi si torna nel Medioevo colto di Eco specchiato nell’iconografia secentesca. E se Raifiction cercava il salto di qualità regge anche il paragone con un passato più recente. Da un buon romanzo spesso nascono film mediocri, ma da un film mediocre può nascere una competitiva serie Tv.

L’indegna apologia del ladro di libri

“Montanari, che l’ha allertata sulle abilità menzognere e manipolatorie di De Caro, ha letto il libro?’ ‘Sì, l’ha detestato. Ha detto che mi sono fatto abbindolare, che mi sono innamorato del personaggio. Non credo sia andata così, anche se non avrò scoperto tutte le sue bugie e sfondato tutte le sue reticenze. Giudicheranno i lettori”.

Prendo questo dialogo dall’intervista che Sergio Luzzatto – ordinario di Storia moderna all’Università di Torino – ha concesso al Venerdì di Repubblica. È il modo più efficace per saltare i preliminari, e finire subito in mezzo alla palude rappresentata dal libro di cui si parla: Max the Fox. O le relazioni pericolose.

C’è un motivo per cui quell’intervista ha tirato in ballo il mio giudizio sul libro: ne sono un personaggio. E ce n’è anche un altro: Luzzatto ritenne di dovermi chiedere il permesso di scriverlo, questo benedetto libro. E visto che egli ha deciso di svelare il mio terzo ruolo, quello di privato censore, mi ritengo autorizzato a spiegare perché, sì, trovo ‘detestabile’ il libro e sbagliata la decisione di Einaudi (che è anche il mio, di editore) di metterlo in catalogo. Il 29 ottobre del 2015, mi arriva questa email: “Caro Tomaso, parlavo oggi con un libraio antiquario di Torino che a quanto pare conosci anche tu, e scambiavamo idee sulla vicenda Girolamini: da film, sostiene giustamente il libraio. Domanda: tu ci scriverai un libro? Perché se non lo farai tu, mi verrebbe voglia di scriverlo io … Un caro saluto, Sergio”.

Il lettore reclamerà qualche lume sulla “vicenda Girolamini”. Nel giugno 2011 riesce a farsi nominare direttore della Biblioteca statale dei Girolamini a Napoli (una delle più importanti d’Italia) Marino Massimo De Caro. Nessuna laurea, e una scia di indizi che lo fa ritenere un protagonista del commercio illegale dei libri antichi, su scala globale. Una volpe a guardia del pollaio: ma il ministro per i Beni culturali è Giancarlo Galan (ex Publitalia) e De Caro è il braccio destro del bibliofilo Marcello Dell’Utri, già capo di Publitalia. Il 25 marzo del 2012 vengo informato (dal collega e amico Filippomaria Pontani, a sua volta allertato dai bibliotecari Piergianni e Maria Rosaria Berardi) che De Caro sta saccheggiando sistematicamente la Biblioteca. Vado, vedo e decido di denunciarlo sulle pagine di questo giornale, il 30 marzo: è l’innesco di una bomba. Mentre infuria una dura battaglia giornalistica (il Mattino e il Tg1 col ladro; Gian Antonio Stella, dal Corriere, contro) e politica (i berlusconiani fanno quadrato in Parlamento e fuori) interviene Gianni Melillo, allora procuratore aggiunto di Napoli. La biblioteca viene sequestrata, De Caro arrestato. Ne scaturisce la più grande inchiesta sul mercato illegale di beni culturali della storia repubblicana: i riflessi sono internazionali, il titolare di una casa d’aste tedesca finisce in carcere, a Napoli. De Caro è condannato in via definitiva per peculato, mentre è ancora a processo, insieme ad altri complici, per associazione a delinquere, e devastazione e saccheggio. Tra poco si aprirà il processo a Marcello Dell’Utri, nelle cui mani arrivò il fior fiore dei libri su cui studiò Giovan Battista Vico.

Quando Luzzatto mi propone di scrivere un libro su tutto questo, immagino subito la serietà e l’acume con cui uno storico della sua cultura e della sua bravura saprà spiegare come è stato possibile che il sistema della tutela e l’intero establishment culturale napoletano si squagliassero di fronte all’imbarazzante, povera figura del direttore-ladro. Molte sono ancora le domande aperte: sulla complicità del mercato internazionale dei libri antichi; sulla vera entità del danno, drammaticamente incurabile; sulla pavidità colpevole di ministri e alti funzionari dei Beni culturali…

Invece, quando mi arriva la prima stesura del libro, è il 28 maggio del 2018, mi cade la mascella. Il titolo è: Un eroe del nostro tempo, e sotto campeggia la fotografia di De Caro col berretto da carabiniere. Non è un libro “sulla vicenda dei Girolamini”: è un libro (un’apologia, una dichiarazione d’amore, un atto di empatia…) per il saccheggiatore. Anzi, un libro sul rapporto tra personaggio e autore, ritratti mentre tubano, via Skype (dove De Caro è Max the Fox) e di persona.

Un rapporto che valica una soglia impensabile: “‘Se dal tuo libro viene fuori un film (e, ti assicuro, non può che venirne fuori un film!, ha aggiunto sorridendo) – dice il ladro al professore –, per la vendita dei diritti facciamo fifty-fifty’. Cosa potevo rispondergli, lì per lì, sui due piedi? Ho sorriso a mia volta, ho accettato la proposta, ci siamo stretti la mano. Il mio primo deal con un reo confesso, ho pensato”. Un passaggio opportunamente eliminato dal libro Einaudi: e tuttavia mi chiedo se quel patto sia sempre valido. Se, cioè, il lettore che compra il libro stia inconsapevolmente contribuendo ad arricchire, in prospettiva, il distruttore della Biblioteca dei Girolamini.

“Parole come verità, o realtà, sono divenute per qualcuno impronunciabili a meno che non siano racchiuse tra virgolette, scritte o mimate”, ha scritto Carlo Ginzburg stigmatizzando la deriva relativistica che porta – e queste sono parole di Ernest Gombrich – “alla rinuncia dell’eredità più preziosa di qualsiasi attività umanistica, che è la convinzione di partecipare alla ricerca della verità”. Luzzatto a questa eredità ha rinunciato, in scioltezza: egli sceglie di non visitare la Biblioteca, di non parlare nemmeno una volta con i bibliotecari, eroici ma ancora precari. Vuole dimostrare che la storia del presente non sia possibile. Che sia vano cercare la verità storica, persa in un labirinto di specchi che rimandano all’infinito solo l’immagine dell’eroe De Caro e del suo empatico esegeta. Un lavoro tutto da scrivania, proprio come quello dello scrittore: senza la scomodità di archivi e biblioteche (quelle superstiti, intendo).

Un esempio: De Caro gli dice che è riuscito a farsi regalare dalla Biblioteca Vaticana le prime edizioni delle opere di Galileo appartenute al suo grande antagonista, papa Urbano VIII Barberini. Una notizia clamorosa, che Luzzatto non prova nemmeno a verificare in Vaticano, come qualunque storico farebbe. Non lo fa perché si convince di stare scrivendo un libro di letteratura. Come quelli di Carrère e Cercas: come Truman Capote, certifica l’italianista Gianluigi Simonetti, sulle pagine dedicate appunto ai romanzi dal Sole 24 Ore. Accostamenti lusinghieri, che non saprei vedere. Vedo, invece, l’ambiguità morale dell’operazione: quella che manda in estasi Giuliano Ferrara, che sul Foglio ha svelato che Luzzatto aveva pensato, prima di decidersi per De Caro, di dedicare un libro a lui stesso. Un’orgia di narcisismo.

La quarta di copertina ricorda per ben tre volte che Luzzatto è uno storico, e un professore di Storia: perché è sulla sua consolidata reputazione di storico (e non sul possibile talento da scrittore) che si fa leva per vendere il libro, di cui pur si nega il carattere storico. Un’operazione cinica: che non sarebbe stata possibile se la straziata Biblioteca dei Girolamini fosse a Milano o a Torino, invece che in una Napoli mai così remota dalla coscienza civile italiana.

Come mi han detto, sconsolati, i bibliotecari (unici veri eroi civili di una storia vera), c’è poco da fare: i poteri (mediatici, editoriali, intellettuali) in questo Paese stanno sempre dalla parte giusta. Quella del potere.