Sgominati “quei bravi ragazzi”: lo spietato boss Massimino e un ex capo ultrà della Juventus

Il capoultrà de “I bravi ragazzi” della curva della Juventus Andrea Puntorno è stato arrestato ad Agrigento con l’accusa di far parte dell’associazione per traffico illecito di stupefacenti. Sono 32 le misure cautelari emesse, nell’inchiesta dalla Procura Distrettuale Antimafia di Palermo, per associazione mafiosa, spaccio di sostanze stupefacenti, detenzione abusiva di armi, sequestro di persona a scopo di estorsione e danneggiamento.

Figura di spicco dell’organizzazione sarebbe il presunto boss Antonio Massimino, autocelebratosi “il Papà”, già condannato per vicende di mafia, tornando in libertà nel gennaio 2015 avrebbe preso le redini della Cosa nostra agrigentina. La sua “caratura criminale” gli avrebbe consentito di tessere rapporti con le organizzazioni di Palermo, di Palma di Montechiaro e della ‘ndrangheta. Il trait d’union con la Calabria sarebbe stata favorita da Puntorno, “cugino acquisito” proprio del boss Massimino.

Dopo aver vissuto a Torino, il capo ultras era rientrato ad Agrigento, subendo qualche anno fa il sequestro di due appartamenti, in Piemonte e Sicilia dal valore di 500 mila euro, per traffico internazionale di sostanze stupefacenti proveniente dall’Albania.

Questa volta invece, secondo gli inquirenti, Puntorno avrebbe dato “un contributo concreto” alla mafia agrigentina, favorendone “il rafforzamento” per via dei contatti “con soggetti vicini alla ’ndrangheta calabrese”, creando un “canale d’approvvigionamento” e “fornire con continuità sostanze stupefacenti” al clan.

Gli affiliati nelle intercettazioni lo definiscono uno “grosso”, che “ha appoggi” e “agganci”, e che “anche se è senza soldi” può avere “qualsiasi cosa”, in riferimento alle partite di droghe, spesso sono chiamate in codice “pesce” o “bibite”, e in alcuni casi custodite in un vecchio deposito di una ex azienda di calcestruzzi.

Caso Orlandi: “Aprite quella tomba”. Il Vaticano valuta

Una lettera anonima, giunta alla fine della scorsa estate, riapre ancora una volta il giallo della scomparsa di Emanuela Orlandi. La famiglia della ragazzina vaticana, sparita nel nulla il 23 giugno 1983 all’uscita dalla parrocchia di Sant’Apollinare alle spalle di piazza Navona, non ha mai rinunciato alla speranza di ritrovarla, viva o morta che sia. Anche se negli ultimi dieci anni, da quando la procura di Roma ha riaperto l’inchiesta, in realtà si cerca soltanto una tomba e la lettera giunta allo studio dell’avvocato Laura Sgrò, legale della famiglia Orlandi, indica proprio una tomba vegliata da un Angelo che sorregge una lapide di marmo con la scritta “Requiescat in pacem”, che si trova all’interno della Città del Vaticano, in un giardino al confine delle Mura Leonine che ospita alti prelati e studiosi tedeschi, motivo per il quale questa piccola oasi è nota come Cimitero teutonico. Un luogo facilmente individuabile ma, per non lasciare nulla al caso, alla lettera è stata allegata una piantina molto dettagliata.

È stato proprio papa Francesco a dire alla madre, durante un incontro: “Emanuela è morta”, anche se su cosa si fondi questa certezza non l’ha detto, ma è convinzione diffusa che all’interno della Santa Sede siano in molti a sapere la verità. Anche il segreto rivelato dalla lettera anonima sembra condiviso da parecchie persone che si recano a portare fiori e a tenere acceso un lumino in memoria di Emanuela, benché in realtà si tratti di una tomba antica costruita più di cento anni fa per ospitare i resti della principessa Sofia e del principe Gustavo von Hohenlohe che nel 1857 fu nominato arcivescovo da papa Pio IX, l’Angelo sarebbe invece più recente. L’inchiesta condotta in questi mesi dall’avvocato Sgrò ha portato alla luce elementi anomali che hanno consentito alla famiglia di presentare un’istanza alla Segreteria di Stato, in particolare al cardinale Pietro Parolin, per ricostruire la storia di quel loculo ed eventualmente aprirlo per accertare se davvero ospiti i resti di Emanuela. Sembra infatti che la tomba sia stata aperta già una volta, anche se ora potrebbe essere necessaria l’autorizzazione delle autorità tedesche. Ma Parolin “valuterà” la richiesta, una disponibilità apprezzata da Pietro Orlandi: “La nostra istanza non è passata nell’indifferenza. Era auspicabile dopo 35 anni una collaborazione effettiva del Vaticano”.

Non è la prima volta che per far luce su questa intricata vicenda si scava negli ossari e nei segreti del Vaticano. È accaduto, su ordine del procuratore Pignatone, nella stessa Cripta della chiesa di Sant’Apollinare dove per oltre 20 anni è stato sepolto il boss della Banda della Magliana Enrico De Pedis, che a dire della sua amante Sabrina Minardi, avrebbe rapito la ragazzina per conto del cardinale Marcinkus all’interno di un complicato scenario da fine Guerra Fredda per ricattare papa Wojtyla. Più recentemente a destare allarme era stato il ritrovamento di resti umani sotto i pavimenti di un locale all’interno della Nunziatura Apostolica in via Po, ma erano scheletri risalenti a secoli fa. Infine l’avvocato Sgrò, considerata l’apertura degli Archivi Vaticani per il Pontificato di Pio XII annunciata ieri, ha fatto appello a papa Francesco affinché consenta l’accesso anche al fascicolo sulle indagini del caso Orlandi e ha consegnato un lungo elenco di prelati a conoscenza dei fatti. Fascicolo finora top sècret per la magistratura italiana.

Riparte il processo al capo delle Triadi: trovata traduttrice

Risolto il problema dell’interprete di un particolare dialetto della Cina al processo China truck che davanti al collegio del tribunale di Prato, presieduto dal presidente Francesco Gratteri, vede imputato Zhang Naizong, “il capo dei capi” delle triadi in Europa – come lui stesso si definiva mentre era intercettato – e altri otto imputati. Tutti cinesi, sono ritenuti responsabili di una sanguinosa guerra fra bande originatasi nella città toscana, durata anni e arrivata poi anche in Francia, per il controllo di contraffazione, estorsioni, droga, gioco d’azzardo, prostituzione, sfruttamento di migranti clandestini e controllo dell’attività di trasporto su gomma delle merci cinesi tra Prato e tutta Europa. Il processo era stato rallentato dalla necessità di tradurre un centinaio di intercettazioni telefoniche dove gli indagati parlavano non il mandarino ma il dialetto fuqing, uno di quelli diffusi nella regione del Fujian, da cui provenivano. Oggi ha giurato davanti al tribunale un nuovo perito, una donna cinese, diverso da quello incaricato in precedenza che era un interprete di madrelingua araba il quale si sarebbe avvalso di collaboratori cinesi. Nel giro di un mese saranno disponibili le traduzioni delle conversazioni mancanti.

“Punito per un’inezia, ora faremo ricorso”

Marcello Maddalena, ex procuratore capo ed ex procuratore generale di Torino è il difensore di Henry Jhon Woodcock al processo disciplinare per il caso Consip. Ieri, prima che entrasse in camera di consiglio, aveva lanciato un appello al collegio della sezione disciplinare del Csm, presieduto dal laico del Movimento 5 Stelle Gigliotti e composto anche dall’altro laico pentastellato Donati e dai togati Davigo. come giudice di legittimità, Cartoni e Mancinetti, come giudici di merito, Cascini, come pm. Marcello Maddalena aveva chiesto loro di avere quella “serenità di giudizio” nei confronti dei due pm “che onorano la magistratura italiana”, riconoscendo “la correttezza del loro comportamento” anche in un caso come questo che riguarda “i potenti di questa terra”.

Sentiamo Maddalena poco dopo il verdetto di condanna e di assoluzione, arrivato intorno alle 16, dopo 3 ore di camera di consiglio.

Procuratore Maddalena, lei si aspettava questa sentenza?

Francamente no. Sono molto contento del fatto che, comunque, sono stati esclusi diversi addebiti, è stato accertato che non c’è stata nessuna scorrettezza nella conduzione delle indagini, che il comportamento del dottor Woodcock e della dottoressa Carrano verso il testimone Filippo Vannoni è stato perfettamente regolare. Inoltre, è stato riconosciuto che non c’è stato alcun tentativo di interferenza o scorrettezza nei confronti dei pubblici ministeri della procura di Roma.

Ma allora come se la spiega la condanna per scorrettezza grave nei confronti dell’ex procuratore reggente di Napoli Nunzio Fragliasso?

Aspetto la motivazione della sentenza per vedere come ha ragionato il collegio della sezione disciplinare del Csm perché, sinceramente, mi riesce difficile vedere una grave scorrettezza nell’operato del dottor Woodcock verso l’allora capo dell’ufficio di Napoli, il dottor Fragliasso.

Farà ricorso in Cassazione contro questa sentenza?

Sicuramente sì. Ammesso che ci sia una qualche responsabilità, la mia personale opinione è che ci troviamo di fronte a una scarsa rilevanza del fatto, in sostanza una scorrettezza da poco. Al massimo si tratta di qualche questione legata a una valutazione di opportunità

Vendetta Consip: Woodcock censurato per le frasi rubate

Condannato e assolto. Carriera azzoppata per Henry John Woodcock, che ieri è stato “censurato” dai giudici disciplinari del Csm, una sanzione che blocca di fatto per dieci anni la carriera dei magistrati che l’hanno subita: preclusi gli incarichi semi direttivi e direttivi.

È una condanna che nessuno si aspettava, a cominciare dall’accusa, perché riguarda esclusivamente la “grave scorrettezza” nei confronti dell’ex procuratore facente funzioni di Napoli Nunzio Fragliasso, per un comportamento legato a un articolo di Liana Milella su Repubblica del 13 aprile 2017, in merito alle polemiche politiche intorno all’inchiesta Consip e a Matteo Renzi, con virgolettati di Woodcock mai autorizzati dal pm. Escluse anche le contestate scorrettezze, per lo stesso articolo, verso i pm di Roma che hanno ereditato Consip.

Woodcock, invece, è stato assolto, così come la sua collega Celeste Carrano, da altri due capi di incolpazione – ben più gravi – perché mettevano in discussione la correttezza nella conduzione dell’indagine Consip: violazione del diritto alla difesa per la mancata iscrizione nel registro degli indagati di Filippo Vannoni, ex consulente di Palazzo Chigi, ascoltato come testimone (quindi senza avvocato), e le presunte pressioni per farlo parlare quando lo interrogarono nel dicembre 2106. Un’ assoluzione rilevante anche per il procuratore di Napoli, Giovanni Melillo: “La sentenza conferma la correttezza dell’agire processuale dei magistrati dell’Ufficio che ho la responsabilità di dirigere, i quali, posso assicurarlo, continueranno a lavorare in armonia e serenità d’animo”. Ieri, a dimostrare la vicinanza ai pm, c’era al Csm l’aggiunto Enzo Piscitelli.

Dunque, Woodcock, accusato mediaticamente di essere un magistrato alla ricerca della ribalta, è stato condannato per una incolpazione minore, legata proprio alla stampa. L’ipotesi che si può fare, in attesa delle motivazioni, è che i giudici disciplinari lo abbiano condannato non tanto perché parlò con Milella ma perché non lo disse a Fragliasso, da qui il riconoscimento di “grave scorrettezza” che prevede, in automatico, la censura.

Facciamo questa ipotesi perché la giornalista ha testimoniato a favore del pm: “Ho tradito la fiducia di Woodcock. Avevo dato la mia parola d’onore che non avrei scritto”. Lei, che da oltre vent’anni è amica del pm e che mai ha pubblicato una riga di quello che si sono detti, durante il periodo incandescente di Consip viola il patto di amicizia e riservatezza e sia pure con l’escamotage di frasi de relato, pubblica la conversazione. Dopo l’uscita dell’articolo, Woodcock dice a Fragliasso che in realtà era stato lui a parlare con Milella. Senza quella “confessione per onestà”, ha detto durante le dichiarazioni spontanee, questa incolpazione “non ci sarebbe stata”. Ma i giudici devono aver ritenuto “gravemente scorretto” il suo comportamento perché, prima che uscisse l’articolo, ha chiamato Fragliasso per metterlo in contatto con Milella per un’intervista, senza però dirgli che lui stesso, sia pure riservatamente, aveva parlato con la giornalista. E la testimonianza di Fragliasso deve aver avuto un peso determinante. Ai giudici del Csm ha detto di avere “stima professionale” per Woodcock, suo uditore, ma che in quel casosi sentì “umanamente tradito” perché “quando caldeggiò che io parlassi con Milella, avrebbe dovuto dirmi” che le aveva già parlato.

L’assoluzione di Woodcock e Carrano dall’accusa di mancata iscrizione nel registro degli indagati di Vannoni sarà, invece, verosimilmente il punto principale di un ricorso in Cassazione del sostituto pg della Cassazione, Mario Fresa, che aveva molto insistito per una condanna alla censura di Woodcock (per Carrano chiesto il più leggero ammonimento) proprio per questa incolpazione: la linea della procura generale è sempre stata che i pm, per le carte che avevano in mano e per la scelta di iscrivere nel registro degli indagati altri personaggi coinvolti in quel filone, avevano l’obbligo di indagare Vannoni e di sentirlo con un difensore. Infatti, Fresa nella sua breve replica di ieri aveva ribadito: “Sono stati usati due pesi e due misure”. Non, però, secondo i giudici disciplinari, che possono aver tenuto conto anche di una testimonianza importante: quella del procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo. L’estate scorsa disse al Csm: Vannoni l’abbiamo indagato sulla base degli stessi elementi in possesso dei colleghi napoletani, “ma è stata una nostra valutazione”, poteva essercene “un’altra diversa”.

“Brutta Italia” il ministro sui carri di Düsseldorf

Due neonatiaccigliati e grassi bevono avidamente dal seno di un uomo: sono il razzismo e il nazionalismo. E l’uomo è il ministro dell’Interno Matteo Salvini, o meglio, il suo gemello di cartapesta, che sfila tra la folla nella città tedesca di Dusseldorf, stringendo tra le mani due bandiere tricolori. Su di una di esse, c’è scritto “brutta”, sull’altra “Italia”: questo il messaggio lanciato dal carnevale più politico d’Europa, nella giornata di ieri. Anche Vladimir Putin, Donald Trump,  Jamal Khashoggi e Theresa May sono stati rappresentati, insieme al vicepremier nostrano, nella grande festa satirica. In passato, gli unici politici italiani che hanno ispirato un carro allegorico sono stati Romano Prodi e Silvio Berlusconi. Ma, si sa, non c’è due senza tre e ora anche Salvini ha preso parte alla marcia, con un tatuaggio disegnato sulla spalla sinistra: c’è scritto “mafia”, e la parola è circondata da un cuore.

Un secolo di Andreotti, beatificato pure dall’Ue

“Di feste in mio onore – disse una volta Giulio Andreotti al Corriere – ne riparleremo quando compirò cent’anni”. Oggi il Divo non c’è più, eppure avrebbe motivo di orgoglio nel vedere come l’Unione europea celebrerà il centenario della sua nascita. Il grande evento è previsto per domani: “Celebration of 100 years since the birth of President Giulio Andreotti”, nella sede del Parlamento di Bruxelles. A fare gli onori di casa sarà il Partito popolare europeo, il gruppo a cui appartengono anche Forza Italia e Udc.

Difficile però, visti gli invitati, immaginare cenni alle ombre politiche e giudiziarie di Andreotti, ormai accertate da sentenze definitive. Come quelle relative ai rapporti con la mafia, che hanno portato la Corte d’appello di Palermo ad assolvere il Divo per i fatti successivi al 1980, riconoscendolo però colpevole – seppur prescritto – del reato di associazione a delinquere per il periodo precedente, come poi ribadito in Cassazione.

Tutti argomenti per cui oggi Ignazio Corrao, eurodeputato 5 Stelle, non ci sta: “Un convegno su Andreotti significa quasi beatificare la mafia, chiudere gli occhi su una delle pagine più buie del nostro Paese e per altro mai chiusa”.

A ricordare Andreotti ci sarà Pier Ferdinando Casini, uno dei più longevi eredi della Dc, eletto per la prima volta alla Camera nel 1983. Una storia politica che di certo non rinnega Belzebù: “Non mi sembra una cosa così clamorosa – minimizza Casini – commemorare un signore senatore a vita, diverse volte presidente del Consiglio e ministro per cinquant’anni. È controverso, divisivo persino nel suo partito, ma è stato tra i fondatori del Ppe e celebrarlo, essendo stato lui uno degli europeisti più coerenti, mi sembra tutto meno che inappropriato”.

La versione convince poco Corrao: “Ognuno può organizzare ciò che vuole, ma riconoscano che questo convegno è assolutamente inopportuno. A questo punto, non ci stupiremmo se ne facessero uno anche su Vito Ciancimino o su Salvo Lima”.

A presentare l’evento saranno poi Lorenzo Cesa e Elisabetta Gardini. Il primo, oggi segretario dell’Udc, già esponente della Balena Bianca fino al 1994 e poi delle sue molteplici riproposizioni. La seconda, berlusconiana dopo un meno fortunato debutto alle urne con il Patto Segni, ancora ammaliata dal Divo: “Quando i processi finiscono con un nulla di fatto, che sia per assoluzione o per prescrizione, si dovrebbe smettere di parlarne. Quanti oggi maramaldeggiano su Andreotti si chiedano che cosa è diventata l’Italia dopo la sua uscita di scena e perché rimase solo contro il Trattato di Maastricht”. Presente anche Antonio Tajani, che proprio come Gardini non ha mai nascosto di rimpiangere la credibilità internazionale dell’Italia ai tempi del Divo: “Quando c’era lui – ha dichiarato lo scorso anno – funzionava, Berlusconi aveva ricominciato a tessere una tela di rapporti anche in Europa e dopo siamo scomparsi”. Altro che terza Repubblica.

“Tutti in galera”: Salvini contro i (piccoli) pusher

Pene raddoppiate, manette per tutti, confisca della macchina: la Lega mette nel mirino i (piccoli) spacciatori. Nella settimana in cui arriva in aula la proposta di legge sulla legittima difesa, Matteo Salvini rilancia con un altro dei cavalli di battaglia del Carroccio: lotta senza quartiere alle droghe.

Il disegno di legge era in cantiere già da un po’, l’attualità ha fornito al leader leghista un assist perfetto per accelerare: “Siamo qui per annunciare un disegno di legge che la cronaca ci dice essere urgente”, ha detto in una conferenza stampa a Montecitorio in cui già si promettono tempi rapidi di approvazione. Il riferimento è al caso di Porto Recanati, dove una coppia di genitori è morta (gravi anche i figli piccoli) dopo uno scontro con un’auto guidata da uno straniero con precedenti per droga. “Un tossico coinvolto in un reato per 225 chili di droga, era a spasso. Non è possibile”.

Ecco allora il ddl leghista, che modifica il codice di procedura penale e soprattutto il vecchio testo unico sulla droga del 1990. Per “togliere dalle strade coloro che campano spacciando, non c’è nessun intento punitivo nei confronti di chi consuma”, assicura Salvini. Anche se in realtà la nuova legge colpisce proprio i piccoli spacciatori: secondo i dati del Viminale, oltre il 50% dei reati commessi ricade nella casistica di “lieve entità”, che può essere riconosciuta in relazione al contesto e soprattutto alla quantità e alla qualità delle sostanze. Praticamente solo su questi casi interviene il ddl: ad esempio con l’estensione dell’arresto in flagranza, da cui gli episodi meno gravi erano fino ad oggi esclusi. Adesso scatteranno per tutti le manette, senza distinzioni. “Non esiste la modica quantità, ti becco a spacciare e vai in carcere con le misure cautelari”.

Di fatto si tratta di una retromarcia rispetto all’ultimo intervento in materia, lo “Svuota carceri” del 2014, che per evitare sanzioni sproporzionate aveva previsto “un reato autonomo” per la lieve entità. La legge Salvini non lo cancella, ma ne aumenta le pene: il massimo edittale passa da quattro a sei anni, la multa da 10 a 20 mila euro. Non basta: viene tolta la possibilità al giudice di disporre per i tossicodipendenti una pena alternativa al carcere, come ad esempio il lavoro di pubblica utilità. D’ora in poi solo galera. Gli ultimi due articoli prevedono la confisca della macchina e la revoca della patente: non soltanto per chiaro nesso tra attività criminosa e mezzo di trasporto, ma come semplice misura preventiva.

Una stretta su tutta la linea, che però riguarda il piccolo spaccio, non i boss del narcotraffico. Resta da capire cosa ne pensino gli alleati 5stelle: dalle primissime reazioni, pare nulla di buono. Di recente il Movimento aveva anzi rilanciato la legalizzazione delle droghe leggere, questione ben distinta dallo spaccio ma che di sicuro sembra andare in direzione opposta alla crociata leghista. Infatti il senatore Matteo Mantero, firmatario del ddl sulla cannabis, è subito critico: “Togliendo la modica quantità si perseguono i clienti e si salvano gli spacciatori”. “La droga non la togli dalle strade solo arrestando piccoli pusher”, aggiunge il senatore Airola.

La Lega però va di corsa: ieri il testo è stato depositato in Senato e il capogruppo Massimiliano Romeo assicura che sarà calendarizzato “alla prima occasione utile” in Commissione giustizia (guidata dal leghista Andrea Ostellari). Il ddl rischia di rappresentare un nuovo elemento di tensione sulla sicurezza, proprio quando la maggioranza ha trovato la quadra sulla legittima difesa: l’accordo tra Lega e M5S è fatto, non ci dovrebbero essere brutte sorprese o dissidenti sul voto finale. Ma per un fronte che si chiude, Salvini è già pronto ad aprirne un altro.

La legislatura lunga solo 12 mesi

Per carità,un consiglio su come cambiare piano tariffario, a Paola Taverna tocca darlo lo stesso: 300 euro al mese, francamente, sono una cifra altrettanto spropositata. Ben lontana, però, dai 1.500 euro ogni trenta giorni che Repubblica aveva sparato dalle sue colonne. Colpa di una svista mica da poco: le cifre sui rendiconti dei parlamentari grillini che il quotidiano aveva diviso per 12, in realtà andavano calcolate su 57 mesi, l’intera durata della legislatura a cui facevano riferimento. Così, poco alla volta, il pezzo è cambiato. Prima con una semplice correzione che sostituiva le parole “in un anno” con “in cinque anni”, poi con una nota in coda che spiegava come l’unico riferimento alla legislatura , sul sito da cui avevano tratto i dati (maquantospendi.it), fosse nei grafici e non nelle tabelle. Pazienza, è andata così. Anche se ovviamente non valgono più nemmeno i 2.300 euro al mese di benzina o i 10 mila euro di alloggio spesi da Barbara Lezzi, né i 1.200 euro al mese di taxi della stessa Taverna o i 28 mila euro annui del collega Lello Ciampolillo. Il blog delle Stelle lo chiama “sensazionalismo becero” fatto per “aumentare le condivisioni”. Di certo, qualcosa è aumentato (e no, Taverna, non sono le bollette del cellulare).

Piazze contro palazzi: solita sindrome

Chissà se Nicola Zingaretti ha chiesto a Greta Thunberg, la sedicenne simbolo dei ragazzini ecologisti, cosa pensa del Tav. Dedicare la propria vittoria a una teenager che ogni venerdì invece di andare a scuola va in piazza per protestare contro la devastazione del pianeta e poi andare a celebrare lo sventramento delle montagne piemontesi non è certo una prova di coerenza.

Zingaretti punta sul fatto che, fuori dal Piemonte, sul Tav non si pagano prezzi politici troppo alti e che andare a omaggiare “le grandi opere” significa coprirsi a destra e sul fronte delle imprese. Però quell’incoerenza non sarà sostenibile a lungo.

Nel discorso pronunciato a caldo la sera dell’elezione, il neo-segretario ha ringraziato gli uomini e le donne del Pd, i “partigiani”, le “femministe” (fra pochi giorni è l’8 marzo) e poi due piazze: quella sindacale del 9 febbraio e quella, antirazzista, di Milano. Due piazze che hanno giocato un ruolo importante in questa elezione perché hanno rimesso in moto delle energie e creato delle aspettative che il neo-segretario dovrebbe incarnare. Basta leggere i messaggi che ieri gli hanno inviato il segretario della Cgil, Maurizio Landini, e la presidente dell’Arci, Francesca Chiavacci. Due organizzazioni “pesanti” della vecchia sinistra, messe fuori gioco da Matteo Renzi, che ora reclamano un ruolo nella nuova fase.

Alle dichiarazioni formali va sommata la diffusa percezione che l’affluenza alle primarie del Pd abbia attirato anche una galassia di elettori che tradizionalmente si collocano a sinistra di quel partito. Il vecchio fantasma del “voto utile” è tornato ad aleggiare – lo si legge nelle conversazioni tra i militanti della sinistra – e non è detto che a sinistra del Pd ci sia ancora lo spazio per una proposta elettorale. Tanto più dopo che il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, si è tirato indietro lasciando a due partiti tradizionali, Sinistra italiana e Rifondazione comunista, il compito di formare una lista per le Europee: “Abbiamo aspettato finora, ma ora dobbiamo andare avanti” dice Maurizio Acerbo segretario di Rifondazione comunista. Ma il rischio di essere vittime di un Pd “pigliatutto” è forte.

Esiste, quindi, un oggettivo spazio per una collocazione più socialdemocratica, come del resto al Pd rimprovera il segretario di +Europa, Benedetto Della Vedova, facendo intendere che non farà parte di un listone democratico, e a cui guardano, invece gli ex scissionisti legati a Pier Luigi Bersani.

Zingaretti, invece, sceglie come prima mossa l’appoggio ai cantieri Tav, delineando piena continuità con quel “partito degli affari” che ha portato il Pd quasi alla scomparsa. “Nicola è uno che per attitudine è abituato a ricomporre”, dice chi lo conosce bene. Però, come sempre da quando il Pd è nato, ricorre l’oscillazione fra un’adesione alla Piazza e una rispondenza a Palazzi e Salotti. E nessun segretario prima di Zingaretti ne è uscito indenne.