“Attento Zingaretti, questo non è un voto di fiducia al partito”

“Inumeri sono confortanti, vista la situazione, e Nicola Zingaretti, nelle condizioni date, ha ottenuto un ottimo risultato. Da qui a certificare che il Pd sia vivo e vegeto ce ne passa. Non vorrei che fosse, come dicono gli anglosassoni, il rimbalzo del gatto morto”.

Marco Revelli studia e soprattutto racconta nei suoi libri la sinistra. Ieri un popolo si è comunque visto e ritrovato.

Siamo lontani dai quattro milioni di Romano Prodi, che aprirono la stagione delle primarie. Però un segno, importante, c’è stato. Esiste una pubblica opinione di sinistra, e si è mostrata. L’occasione che aveva, le primarie, è stata colta al volo. Un pezzo di Paese non tollera più questo governo, subisce la disumanità di Salvini, la stupidità dei Cinquestelle. E ha afferrato la matita per reagire. C’erano i gazebo in piazza, e si è diretto lì. Non mi sembra un voto di fiducia al Pd, ma il senso di una presa di posizione civile prima ancora che politica. Se non ora, quando? si saranno chiesti. E giustamente aggiungo.

Lei ha votato?

Penso che si debba partecipare alle primarie se si crede nel partito che le organizza. Io non ho questa fiducia e in tutta sincerità non credo nemmeno che il Pd abbia agito da protagonista in questa consultazione.

Per Zingaretti sarà duro provare a dare un cuore e una nuova destinazione a un partito figlio di un altro tempo, che fino a ieri ha remato nella direzione opposta.

Il voto, e la dimensione straordinaria della partecipazione, dicono due cose. Il renzismo è morto, ma le scorie rimangono e non è detto che Matteo Renzi non faccia altri danni. Zingaretti deve gestire una linea politica in dissenso con i suoi gruppi parlamentari, selezionati dal leader oggi epurato. Ed è la prima questione.

La seconda è che questo voto produca solo un effetto ottico. Induce Zingaretti a immaginare il mondo nuovo e poi si ritrova in tasca solo il vecchio.

Non dovrà solo dimostrare di fare l’opposizione a questo governo, operazione piuttosto semplice. Dovrà invece far capire che il partito che guida si allontana dall’establishment economico, finanziario, anche giornalistico. Deve dare risposte nuove alla tragedia sociale: come affrontare la povertà crescente, progressiva, quasi inarrestabile.

Intanto la sua prima uscita pubblica è stata a Torino su questo benedetto Tav.

Scelta massimamente sbagliata e politicamente nociva. Non so chi glielo abbia consigliato. Il segretario del partito di opposizione che porta acqua al tema sul quale il suo avversario più temibile, cioè la Lega, lucra di più? Una sciocchezza bella e buona, ed evito di entrare nel merito di quest’opera sbagliata, inutile, figlia di una scelta del secolo scorso.

Zingaretti però fa simpatia, almeno questa è una novità, non crede?

Sì. Non ti sega subito i nervi. È tranquillo, non mi sembra narciso, appare ragionevole e persino di sinistra.

Appare.

Appare è il verbo giusto. Fare qualcosa di sinistra è una necessità. Ridare rappresentanza ai ceti popolari è la destinazione naturale di una forza che copre quella fascia. Ce la farà? La dirigenza del partito sarà all’altezza? I miei dubbi provengono da questa considerazione così elementare: a parte Zingaretti tutto è contrassegnato dal tempo di Renzi. Che già ha fatto male a questo partito e quando gli ho sentito dire “stai tranquillo” al nuovo segretario, mi sono ricordato dello “stai sereno” con il quale fece suicidare Enrico Letta. Le scorie del renzismo sono molto pericolose e il voto, questo numero così alto, vista la generale depressione nella quale era confinato il Pd, non rappresenta una cambiale in bianco.

Non è un voto di fiducia al Pd.

No, affatto, e nemmeno a Zingaretti.

Però è un fatto politico rilevante che dovrebbe allarmare i Cinquestelle.

Be’, sì. Nel milione e seicentomila c’è anche la quota dei pentiti, di chi in questo modo vuole sfiduciare il movimento grillino perché lo ritiene inabile alla prova del governo. Se lo capiscono…

Salvini non ha di che preoccuparsi.

La forza trainante è la sua. Fa premio la disumanità con la quale il ministro dell’Interno si è distinto, la volgarità del messaggio e la retrocessione del dibattito politico a una selva di improperi ne è l’esito scontato. In politica conta ciò che appare. E questo, purtroppo, è.

Atp Finals, Appendino “Luigi ci sostiene”. Ma termine è scaduto

Il vicepremier Luigi Di Maio “ha confermato l’interesse del governo ad andare avanti” sulle Atp Finals di tennis. La candidatura di Torino sembra sfumata, dopo che il governo non ha concesso le garanzie, ma Chiara Appendino non si rassegna: ieri il leader del M5S era nella sua città (per la presentazione del fondo nazionale innovazione) e la sindaca ne ha approfittato per tornare alla carica. “Luigi era consapevole del grande impegno delle realtà del territorio e mi ha confermato l’interesse del governo. Faremo tutto il possibile per raggiungere questo traguardo”, ha scritto su Facebook. Appendino continua a mostrarsi ottimista e incassa un’altra dichiarazione di sostegno dai vertici del Movimento. Fin qui, però, non sono mancate le parole ma i fatti. O meglio, i soldi: alla candidatura serviva una garanzia governativa di 80 milioni e il sottosegretario Giorgetti non l’ha firmata. L’ultimo termine utile è scaduto venerdì scorso, tanto che la FederTennis è stata costretta a scrivere a Atp una lettera che sa tanto di rinuncia. Ora Appendino prova a riaprire i giochi, ma potrebbe essere troppo tardi (e comunque della fideiussione non ci sono tracce all’orizzonte). La scelta della sede avverrà a metà marzo.

“Siamo sulla stessa barca”: consigli per il neo segretario

A Nicola Zingaretti consigliamo di trovare il tempo di andare al cinema e guardare In the same boat, che non è un film ma una illuminante illustrazione di come siamo messi e soprattutto di come staremo. Molto peggio di oggi, se può interessare. Il documentario si fa largo a fatica nelle programmazioni serali e finora – benché sia da tempo confezionato – è giunto per qualche giorno a Roma e a Milano. Rudy Gnutti, il curatore di questo bel lavoro, ha girato il mondo in lungo e in largo interrogando sul nostro futuro i maggiori pensatori e ricevendo la stessa crudele risposta: siamo sulla stessa barca, ma stiamo messi peggio di come mai avremmo potuto ritenere. La produzione cresce ma il lavoro diminuisce, anche quello intellettuale, ritenuto ora superfluo, eccedente. Il ceto medio si è fatto povero, i poveri sono divenuti poverissimi. I ricchi, ricchissimi. Per la prima volta negli Stati Uniti l’1 per cento della popolazione detiene oltre il 40 per cento della ricchezza, mentre l’80 per cento dei suoi abitanti può avere tra le sue mani solo il sette per cento di quella ricchezza. La rivoluzione tecnologica sostituisce non le braccia ma il cervello dell’uomo, supera i suoi limiti e per la prima volta travolge anche la dimensione della sua esistenza.

Se Zingaretti guarderà questo documentario, avrà ancora altri elementi per comprendere perchè la paura ha trasformato il senso comune e la destra, scopertasi sovranista, ora raccoglie i consensi di chi sta peggio, mestiere che avrebbe dovuto fare la sinistra. E capirà che nonostante tutto – incredibile a dirsi – il reddito di cittadinanza è una misura di sinistra, che economisti di grande reputazione ritengono indispensabile. E soprattutto penserà che sia oggi indispensabile studiare e avviare una grande redistribuzione del reddito, e si domanderà, per esempio, perché negli anni la tassazione delle rendite finanziarie è stata ridotta del 50%. Per esempio.

“Ora col Pd parleremo, ma restiamo fuori”

“La vittoria di Nicola Zingaretti alle primarie del Pd è un fatto positivo che ci permette di tornare a guardare a una possibile alleanza a sinistra per costruire un’alternativa”. A parlare è Roberto Speranza, coordinatore nazionale di Mdp-Articolo 1.

Siamo a Roma, allo spazio Margana, nell’omonima piazza dietro il Campidoglio, dove il movimento nato dalla scissione dal Pd ieri ha organizzato un incontro per parlare di reddito di cittadinanza, che questa settimana arriverà a Montecitorio.

Un provvedimento su cui LeU (gruppo parlamentare all’interno del quale siedono deputati e senatori di Mdp, insieme a quelli provenienti da Sinistra italiana) non chiude la porta. Anzi. In Senato, dove i loro emendamenti sono stati bocciati, si sono astenuti. “Ora li ripresentiamo alla Camera e vediamo che succede, ma di fronte a un provvedimento che stanzia oltre 6 miliardi per contrastare la povertà, io ho qualche difficoltà a dire no. E una forza di sinistra non può voltarsi dall’altra parte, come fa il Pd. Il reddito di cittadinanza non si può banalizzare, né sbeffeggiare”, sostiene Speranza. Cui non piace però che un provvedimento ancora da approvare sia già stato avviato.

La distanza dal Pd in questo senso è netta. Se il maggior partito della sinistra si avvia verso il no al reddito, Mdp, pur restando al momento sull’astensione, non esclude il voto a favore. “Personalmente voterei sì. Il reddito di cittadinanza, con tutti i suoi limiti e inadeguatezze, ha il merito di aver posto al centro del dibattito politico la povertà nel nostro Paese e il fatto che milioni di italiani sono in difficoltà e non ce la fanno. Il reddito non è ‘la’ risposta, ma è ‘una’ risposta”, afferma Speranza.

La critica, però, è su come si finanzia. Per la sinistra, infatti, non si tratta di una redistribuzione sociale, come viene presentata dai 5 Stelle, ma di uno spostamento di risorse. “I soldi per il reddito sarebbero dovuti arrivare tassando i grandi patrimoni, invece arrivando dal debito equivale a spostare il problema più avanti”, sostiene l’assessore al Lavoro della Regione Lazio, Claudio Di Berardino.

A un anno esatto dalle Politiche del 2018 (ieri era il 4 marzo), per Speranza, Arturo Scotto e Alfredo D’Attorre s’inizia a vedere una luce in fondo al tunnel. “Prima la piazza del 6 febbraio a Roma con Cigl, Cisl e Uil uniti. Poi la bella piazza antirazzista di sabato a Milano. Infine la grande partecipazione alle primarie del Pd e la vittoria di Zingaretti”, dice Speranza mettendo in fila gli eventi. “Voglio rassicurare Giachetti: non rientreremo nel Pd. Ma con Zingaretti si può avviare un dialogo per la costruzione di un nuovo centrosinistra, cosa che prima, con Renzi, era impossibile”.

Di Maio tenta Zingaretti: “Votate il salario minimo”

Il Tav resta un bel problema, mentre le file ai gazebo dem potrebbero diventarlo. E chissà cosa vorrà fare con i Cinque Stelle Nicola Zingaretti, non domani ma dopodomani, dopo quelle Europee che saranno uno spartiacque. Così nell’incertezza Luigi Di Maio fa la mossa. Per dare una bottarella a destra e una a sinistra, a Matteo Salvini e al neo segretario del Pd. Ma soprattutto per rivendicare il peso del M5S che pure se la passa male, ovvero per ricordare che “l’ago della bilancia, ora e in futuro, saremo comunque noi 5Stelle” come sostiene un big.

Ed ecco perché ieri il capo politico del Movimento cala l’offerta a Zingaretti: “Gli do il mio in bocca al lupo. Il M5S fra pochi giorni porta in Parlamento una misura che introduce ed estende il salario minimo a tutte le categorie di lavoratori. Una battaglia di tutti, e mi auguro di vedere un’ampia convergenza parlamentare, a partire proprio da Zingaretti”. E nel giro di pochi minuti a rilanciare arrivano altri big, come il capogruppo in Senato Stefano Patuanelli. Quindi è una mossa pianificata: ma non con Roberto Fico, il presidente della Camera con il cuore a sinistra, che domenica aveva formulato gli auguri “di buon lavoro” a Zingaretti su Twitter (beccandosi una robusta dose di insulti sotto il tweet). “Luigi ha deciso da solo” assicurano. Però l’apertura al dialogo parlamentare con i dem è anche un segnale a Fico, che vive come un enorme peso l’accordo di governo tra Movimento e Lega.

Un motivo in più per esortare alla collaborazione il segretario dem: proprio nel giorno in cui il governatore del Lazio e il vicepremier sono entrambi a Torino, ma con intenti opposti, visto che Zingaretti scandisce il suo sostegno al Tav. E ovviamente lo fa anche per ricordare che quella tratta è la grana delle grane per il governo gialloverde. Ma Di Maio schiva, non incrocia la lama. E aspetta che a rispondergli stizziti siano due renziani, come Debora Serracchiani e soprattutto il capogruppo in Senato, Andrea Marcucci: “Di Maio è sempre sbadato, è il M5S che se vuole, potrà votare il disegno di legge sul salario minimo che a ha presentato il nostro collega Mauro Laus”.

E per i 5Stelle è un favore, tanto che Patuanelli replica subito: “Negli anni in cui siete stati al governo non avete fatto nulla sul tema”. Sillabe per rimarcare la differenza con i primi avversari, i renziani. Invece il nuovo segretario del Pd, quello che ha promesso discontinuità massima con il fu rottamatore, è un oggetto non ancora identificato per i vertici a 5Stelle, che nei discorsi riservati si chiedono se da qui a un futuro medio termine possa essere un interlocutore. E nell’attesa provano a snidarlo sui temi, “quelli di sinistra”. E non è un caso che lo facciano alla vigilia del vertice sulla Torino-Lione, perché l’apertura sul salario minimo serve anche a ricordare a Salvini che non è l’unico a poter parlare con un altro “forno”.

Ovvero, se il leghista può tornare nel centrodestra per ogni elezione amministrativa, anche il Movimento può guardare altrove. Ma per fare cosa? “I gruppi parlamentari li ha costruiti Renzi, quello è innegabile” ammette un maggiorente. Come a dire che una nuova maggioranza in Parlamento non sarebbe neanche teoricamente possibile. E d’altronde Zingaretti non è certo inesperto. E da veterano in serata ributta la palla nel campo dei 5Stelle: “I processi politici non si fanno con le furbizie”. Come a dire che il giovane Di Maio non deve provare a sfidarlo sulla tattica. E che serve tempo, tanto, per pensare a un cambio di scenario.

Però il leader del M5S vorrebbe comunque giocare di politica. Rimettendo il M5S al centro, meno schiacciato sulla Lega e più dialogante con i dem, “perché in fondo un Pd più forte ci potrebbe essere perfino utile, ricreando una vera dinamica tra tre poli”. Con il Movimento in mezzo, nella speranza di condizionare gli altri. E nell’attesa il capo politico ha preso altro tempo sulla riorganizzazione interna. La prima consultazione degli iscritti sulla piattaforma web Rousseau sarebbe dovuta partire ieri. Ma ci vorrà qualche giorno in più. “Luigi vuole muoversi con cautela, i gruppi sono nervosi” sussurrano. Insomma rivoluzione sì, ma con i suoi tempi. E possibilmente senza strappi, ossia senza una nuova struttura fatta solo di dimaiani. Perché nel M5S gli equilibri contano. Come le sfumature, nei comunicati.

Genny vs. Fazio: la Rai è fratricida

Al Tg2 di Gennaro Sangiuliano va riconosciuto se non altro il coraggio: quello di togliersi i guanti e sporcarsi le mani. La battaglia del telegiornale più salviniano del reame si combatte senza guardare in faccia nessuno: nemmeno la stessa azienda per cui si lavora. Nel Tg2 di ieri – ore 13 – è andato in scena un attacco clamoroso (specie nella forma) nei confronti di Fabio Fazio e della sua intervista a Emmanuel Macron, andata in onda su Rai Uno domenica sera. Rai contro Rai, seconda rete contro prima rete. A memoria, non si era mai visto niente del genere. Il conduttore di Che tempo che fa viene fragorosamente preso per i fondelli a causa delle domande non proprio scomodissime poste al presidente francese: “Fazio porge argomenti, Macron sceglie come affrontarli (…). Nessun accenno alle polemiche sui gilet gialli (…). Fazio annuisce, non incalza (…) e a noi tornano in mente le interviste ai capi di Stato, quelle vere. Per sintesi due soli esempi, distinti e distanti, eppure maiuscoli: Oriana Fallaci al cospetto dell’ayatollah Khomeyni; Gianni Minà, sei ore di fila di domande a Fidel Castro”. Meraviglioso. Anche se rimane il dubbio: sono maiuscole invece le frequenti interviste del Tg2 all’attuale ministro dell’Interno?

Il deputato leghista che fa da guida alle bellezze di Roma

Onorevole Gualtiero Caffaratto, per gli amici Cicerone. Il deputato della Lega, infatti, ha aderito all’iniziativa di un’agenzia di viaggi di Bagnolo Piemonte, la Polaris di Aldo Bruno, proponendosi come guida d’eccezione per tutti coloro che vogliono conoscere i segreti e le bellezze della Capitale. Questo perchè il tour non includerà solo tappe tradizionali, ma offrirà l’occasione di entrare dentro le sale di Montecitorio con la guida di Caffaratto, culminando la visita con una cena in compagnia dello stesso. E non finisce qui: la gita, che si svolgerà dall’11 al 13 marzo (partenza da Torino), accontenterà anche i credenti più ferventi, che potranno assistere all’udienza del mercoledì del Papa e visitare San Pietro. Insomma, un mix di cultura e religione, arte e politica che ha entusiasmato l’onorevole Caffaratto al punto da accettare che il proprio volto apparisse sui volantini pubblicitari. Tutto per la comunità: “La nostra gente vuole andare a Roma con ‘ciceroni’ che parlano il dialetto”, spiega il tour operator.

Primo nodo: sì ai renziani, ma no a Lotti e alla Boschi

Voltare pagina, cambiare facce, ridisegnare il Pd, dal punto di vista politico, organizzativo ed economico. Per Nicola Zingaretti, il lavoro è tanto. La prima data cerchiata sul calendario è il 17 marzo, quando verrà proclamato ufficialmente dall’Assemblea, dove avrà la stragrande maggioranza, con 650 delegati. Si dovrà presentare con la direzione già composta, i nomi del presidente del partito, del tesoriere e del vicesegretario (se deciderà di farlo). La prima casella spetta a Paolo Gentiloni. La vice dovrebbe essere una donna, presumibilmente Paola De Micheli, a capo del suo Comitato congressuale. Per il tesoriere, una prima idea era Antonio Misiani, che già svolse questo ruolo ai tempi di Bersani: ma lui lo trova inopportuno. La scelta potrebbe ricadere su Luigi Zanda.

Per la direzione, i problemi saranno tutti in casa dei renziani, ormai ridotti a esigua minoranza: tra martiniani e giachettiani non avranno più di 35 posti a disposizione. Accoltellamenti garantiti.

Al Nazareno, Zingaretti ci entrerà dopo il 17. E solo allora farà la nuova segreteria. Ufficialmente, una questione di stile, in realtà non è ancora pronto. Anche perché di classe dirigente intorno a sé non ne ha poi tanta, a parte il “demiurgo” Goffredo Bettini e il suo uomo ombra, Massimiliano Smeriglio, vicepresidente in Regione. I nomi che si fanno sono quelli dello stesso Misiani, di Gianni Cuperlo e di Tommaso Nannicini, che ha appoggiato Martina, ma è molto stimato dal presidente del Lazio. E poi, c’è la questione “ricompense”. A Dario Franceschini e Andrea Orlando non saranno dati più di un paio di posti a testa: il vincitore ha vinto così bene da potersi permettere di non pagare pegno. Zingaretti sarebbe dell’idea di aprire anche ai renziani. Con un’avvertenza: via tutte le prime file del Rottamatore, tipo Maria Elena Boschi e Luca Lotti, via anche le “figurine”, del genere di Alessia Morani. Casomai ci sarà spazio per qualche renziano geneticamente modificato. La questione dei capigruppo non sarà affrontata immediatamente: il neosegretario preferisce prenderseli uno a uno, i parlamentari messi in lista dall’ex segretario. In Senato, resta la ridotta renziana, quindi Andrea Marcucci è inamovibile. Potrebbe cambiare il capogruppo a Montecitorio: ma Graziano Delrio è ormai più vicino al governatore che a Martina, quindi potrebbe rimanere dov’è.

Il dossier più urgente è quello delle Europee. Anche perché Zingaretti punta a un secondo posto. Le liste vanno presentate il 15 aprile, e dunque nei prossimi giorni il segretario incontrerà Benedetto Della Vedova di +Europa, Federico Pizzarotti di Italia in Comune e i Verdi per proporgli di entrare in un listone con il Pd. Se dovessero dire di no, si passerà alla costruzione della coalizione. Tra i volti corteggiati come candidati: Giuliano Pisapia, Ilaria Cucchi, Massimo Cacciari, Giuseppe Antoci e Carlo Calenda.

Il tema dei rapporti a sinistra è caldissimo. Agli scissionisti di LeU Zingaretti non proporrà il listone. Sa che i D’Alema e i Bersani non gli portano niente. Ma è pronto a riprendere nel Pd alcuni esponenti di Sel a Roma, come Smeriglio e Marco Furfaro.

I conti sono un tasto dolente: il neosegretario chiederà una due diligence per capire quanti sono i soldi in cassa. Al netto delle dichiarazioni di Francesco Bonifazi, tesoriere uscente, che sostiene che sono in ordine, ci sono 170 cassintegrati. Per decidere il loro destino, la prima istruttoria sarà politica. Il Pd diventerà un partito più strutturato, più solido, con una serie di Dipartimenti tematici, affiancati da Forum aperti alla società civile. In programma, una serie di consultazioni, dai sindacati (a partire da Maurizio Landini), alle associazioni. L’idea è quella poi di costituire una Fondazione. E il giornale online Democratica? Raggiunge ogni giorno 150 mila persone, quindi l’idea è di tenerla. Certo non con la direzione di Andrea Romano, vicinissimo a Renzi.

Complimenti e dieci domande al neo segretario

Complimenti (e dieci semplici domande) al segretario del Partito democratico, Nicola Zingaretti, eletto da un milione e 600 mila partecipanti alle primarie di domenica. Che, 2 euro versati a testa, fanno come minimo 3 milioni e 200mila euro finiti nelle casse del partito. Soldi che, naturalmente, avranno un regolare rendiconto delle entrate e delle uscite. Verificato da chi? E reso pubblico quando?

Nella sua prima uscita da segretario, lei si è recato di corsa nel cantiere della Torino-Lione per sostenere la campagna del Sì Tav, Sergio Chiamparino. È davvero questa l’urgenza più urgente che ha il Pd? Quando, proprio oggi, un’inchiesta della Stampa, giornale di Torino, calcola “in un milione e 800 mila i bambini che vivono in povertà assoluta”. Saprà certamente che, secondo l’Istat, povertà assoluta significa “non potersi permettere le spese minime per condurre una vita accettabile”? O è più importante la sinistra ferroviaria?

Dopo gli auguri di rito, Matteo Renzi è passato subito all’incasso chiedendo un “segnale” ai nuovi inquilini del Nazareno. In ballo, la poltrona di presidente del partito su cui lei Zingaretti vedrebbe volentieri Paolo Gentiloni. Renzi non sembra d’accordo e vuole per quel ruolo di garanzia un nome espresso dalla minoranza. Cioè scelto da lui. Cederà per quieto vivere? O terrà il punto?

Sui giornali si parla anche di un nuovo tesoriere di sua fiducia al posto del renzianissino e criticatissimo Francesco Bonifazi. Terrà il punto? O quieto vivere?

Tra non molto toccherà a lei gestire la patata bollente delle liste per le Europee. Renzi e renziani pretendono una consistente quota di comodi posti al sole. Offrirà a essi la stessa ospitalità che il reuccio di Rignano diede alla minoranza interna? Ovvero: strapuntini e letti da campo? E se poi Renzi decidesse di salutare e andarsene, ponti d’oro?

Al voto del 26 maggio vi presenterete con un campo allargato alle forze pro Europa, come proposto dal manifesto Calenda? E in questo caso rinuncerete al simbolo del Pd? E dunque alla vostra identità?

Già si dice che la maggior parte di coloro che sono andati ai seggi lo abbiano fatto contro l’attuale governo. Quindi, la sua segreteria non defletterà dall’attuale opposizione pregiudiziale in Parlamento, fatta di insulti e di scontri in aula? O, invece, può nascere, su determinati provvedimenti di carattere sociale o sulla difesa dei diritti, una stagione meno conflittuale?

A questo proposito, Luigi Di Maio le ha proposto una “convergenza sul salario minimo”. Si può trovare con il Movimento 5 Stelle un terreno comune di dialogo su una legge di grande civiltà? O il suo Pd si farà trascinare dai niet dagli ultras renziani sobillati dal capogruppo al Senato, Andrea Marcucci?

Come giudica il messaggio augurale che le ha inviato il presidente della Camera, Roberto Fico? Pura cortesia? Oppure il ramoscello d’ulivo, da non rifiutare, di quella parte del M5S da sempre favorevole al dialogo con il Pd?

La piazza di Milano a favore dell’integrazione è stata un successo. Ma la politica dei porti chiusi di Matteo Salvini continua ad avere grande seguito nel Paese, probabilmente anche tra gli elettori Pd.

Quale sarà allora la vostra proposta alternativa sull’immigrazione? La conferma della linea dura varata a suo tempo da Marco Minniti. O l’avvio di una nuova stagione dell’accoglienza, propugnata dalle associazioni chiamate a raccolta dal sindaco Giuseppe Sala?

Infine, ancora su Matteo Renzi, che le ha detto “basta col fuoco amico”.

Acquisterà un giubbotto antiproiettile?

Il Pd resta malato: affluenza in calo, bene solo in città

Quando pensi di essere quasi morto, fa certo piacere scoprirsi una non piccola residua forza vitale. Questo è il messaggio positivo che il Pd può trarre dalle sue primarie, insieme al fatto che per una volta la comunicazione dell’evento è stata gestita bene: le aspettative tenute artificialmente basse (“se vota un milione siamo felici”) hanno consentito di raccontare la giornata come un successo. Oltre questo, se si guardano i numeri della consultazione, c’è poco altro di cui gioire per il nuovo segretario Nicola Zingaretti, eletto con oltre il 66% dei voti avendo vinto in tutte le regioni. Ecco una breve analisi dei dati.

L’affluenza. I dati (ancora ufficiosi nella serata di ieri) dicono un milione e seicentomila votanti, il dato più basso della storia delle primarie democratiche in Italia, passate – a non contare quelle per incoronare Walter Veltroni nell’autunno 2007 – dai 3,1 milioni di Pier Luigi Bersani nel 2009 ai 2,8 milioni di Renzi nel 2013 al tracollo degli 1,8 milioni di votanti del Renzi bis nel 2017. Ora almeno altri 200 mila elettori si perdono per strada in meno di due anni, un calo del 15% abbondante (comunque, percentualmente, una discesa dimezzata rispetto al -30% del congresso dei circoli, dove Zingaretti e soci hanno preferito bloccare il tesseramento per gestire il voto con l’apparato).

Le città. Anche la composizione di questa affluenza spinge a non considerare il risultato di ieri come un rilancio: il paziente è ancora vivo, ma la malattia non è stata sconfitta, anzi è forse peggiorata. I dati, infatti, raccontano che – all’interno dei numeri generali – è cresciuto il voto nelle grandi città (Roma, Milano, Torino, Napoli, Genova) ed è quindi calato più della media quello nei piccoli centri e in provincia. La partecipazione nelle città, come ad esempio il ritorno ai gazebo di alcuni volti dello spettacolo, rischia di essere fuorviante: si tratta spesso di un voto d’opinione già ben radicato nel centrosinistra alle urne e orientato in gran parte a mandare un duplice segnale “politico”, contro il governo e contro Matteo Renzi, il convitato di pietra delle primarie. Insomma, potrebbe essersi accentuarsi la natura di “partito dei centri storici” o dei ceti affluenti già visto all’opera, disastrosamente, nelle urne.

Nelle Regioni. Se si analizza l’affluenza per regione una descrizione univoca è più difficile, perché incrocia ovviamente la vitalità del partito, la sua presenza nei governi locali e pure quella di capi-bastone in grado di portare gente ai gazebo. Di fatto, com’era facile prevedere vista la forza di Nicola Zingaretti, l’unica regione in cui i votanti salgono nettamente è il Lazio (da 173 mila nel 2017 a oltre 190 mila). Confermano, all’ingrosso, i numeri del 2017 la Lombardia (oltre 220 mila), il Veneto (87 mila), la Liguria (45 mila), la Sardegna (47 mila): zone – Liguria e Milano città a parte – in cui le performance alle urne del Pd non sono mai state granché. Cala invece l’affluenza – dove più, dove meno – nelle regioni di storico insediamento elettorale: dalla Toscana (da 210 mila a 160 mila) all’Emilia Romagna (da 215 mila a 185 mila), dall’Umbria alle Marche fino al Piemonte (-8/9 mila).

Il sud. La partecipazione del Mezzogiorno, che fu “protagonista” nel 2017, cala più o meno ovunque: tracollo in Basilicata (da 41.700 a 15.600), quasi dimezzata in Puglia (da 156 mila a 80 mila, ma due anni fa correva il governatore Michele Emiliano), in drastica discesa anche in Sicilia (si partiva da 112 mila votanti e si è arrivati, ma il dato al momento non è verificabile, a 70 mila); Affluenza in calo pure in Campania, Calabria e Abruzzo.

I capibastone. La vittoria di Nicola Zingaretti è netta in tutto il Paese, ma in particolare nel centro-nord (in Lazio con percentuali bulgare, in particolare a Frosinone dove passa il 90% grazie al ras locale Francesco De Angelis) e nella Puglia di Emiliano.

Il peso di quelli che Veltroni chiamò “cacicchi” è ancora assai rilevante nel partito. L’apparato renziano, ad esempio, spinge a percentuali tra il 15 e il 20% Roberto Giachetti in Toscana, nelle Marche e nell’Umbria della sua co-candidata Anna Ascani.

L’appoggio di Vincenzo De Luca, dei fratelli Pittella e di un pezzo del partito calabrese porta Maurizio Martina a risultati doppi rispetto alle altre regioni in Campania, Basilicata e Calabria (in cui, peraltro, Zingaretti è arrivato comunque primo dando un segnale di forza sua e debolezza loro). Nel regno di don Vicienzo, peraltro, si registra l’unica parzialissima sorpresa di giornata: se la corsa a segretario nazionale la vince il governatore del Lazio, infatti, quella per la guida del Pd in Regione resta appannaggio di De Luca & C. col fedelissimo Leo Annunziata, che raccatta dieci punti più del suo teorico leader nazionale Martina.

I risultati. Zingaretti non sarà un leader a metà: ha vinto bene. Per l’ex ministro e segretario pro-tempore, che contava sull’appoggio di oltre metà dei parlamentari dem, il 22% è una sconfitta pesante. Roberto Giachetti, invece, mette assieme un onorevole 12,5%, probabilmente in attesa di lasciare il partito (dopo le Europee) insieme agli altri pasdaran renziani e, ovviamente, al dante causa. Un’altra grana per il nuovo segretario di un partito che sembra in salute solo a chi è molto distratto.