Md all’opposizione dei giallo-verdi: “Salvini è eversivo”

È un siluro dietro l’altro al governo, e in particolare al ministro dell’Interno Matteo Salvini, accusato di comportamenti “eversivi”, la relazione della segretaria di Magistratura Democratica, Maria Rosaria Guglielmi, che ieri ha aperto il congresso della storica corrente di sinistra dei magistrati (insieme a Movimenti per la Giustizia fa parte di Area). Dopo anni, secondo diversi magistrati, “filo governativi”, quando a Palazzo Chigi si sono succeduti Letta-Renzi-Gentiloni, Md, con la sonora bocciatura della politica giallo-verde è tornata a essere il cane da guardia dell’esecutivo, come nel ventennio berlusconiano. Da cancellare il decreto Sicurezza e il ddl sulla legittima difesa, i migranti bloccati sulla Diciotti fanno parte di “una deriva xenofoba”, la politica sulle carceri è una “controriforma”.

A ribattere a queste critiche feroci, però, non ci sarà il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che era stato invitato al congresso ma pochi giorni fa, a relazione già scritta dalla Guglielmi, ha fatto sapere di avere “impegni istituzionali”.

Veniamo al merito: secondo la Guglielmi, il decreto Sicurezza che ha visto “l’intervento congiunto in materia di protezione internazionale, immigrazione e sicurezza pubblica, si è rivelato anzitutto un’operazione di marketing ben riuscita. Il cambiamento che si vuole ottenere è emotivo perché da qui può nascere il consenso a una riforma che mistifica la realtà: non siamo più in presenza di un arrivo massiccio di migranti, diminuito radicalmente fin dal 2017”. La segretaria di Md si spinge a un affondo politico contro M5s e Lega: “Populismo e neonazionalismi alimentando strumentalmente la percezione dell’invasione da parte degli stranieri” anche in Italia “hanno innescato una deriva xenofoba e razzista”. Le vicende Diciotti e Aquarius fanno parte di questa deriva: “Con la chiusura dei porti e la messa al bando delle Ong si è consumata una violazione senza precedenti degli obblighi giuridici e morali di soccorso e di accoglienza, che derivano dal diritto interno e internazionale”.

Quanto al disegno di legge sulla legittima difesa, rappresenta “un’idea arcaica di giustizia come vendetta”. E la Guglielmi spiega perché: “Anteporre l’inviolabilità del domicilio alla tutela incondizionata della vita umana significa consumare un ulteriore strappo con la nostra Costituzione”.

Salvini che si ribella sui social al processo chiesto dal tribunale dei ministri di Catania, Salvini che non riconosce la condanna definitiva per l’imprenditore piacentino che ha sparato a sangue freddo a un ladro, ferendolo, dopo averlo fatto picchiare da un suo operaio, Matteo Renzi (e i renziani) che accusano di fini politici i magistrati di Firenze per gli arresti domiciliari dei genitori dell’ex premier, sono i comportamenti a cui si riferisce implicitamente la Guglielmi quando dice che “oggi la portata eversiva di alcuni interventi di esponenti delle istituzioni sul merito di decisioni giudiziarie, l’attacco mirato a singoli magistrati per screditarne l’operato ed offrirli alla gogna pubblica dei social, i continui tentativi di delegittimare l’intervento giudiziario non lasciano dubbi su quel che ci attende. Il nostro impegno come magistratura associata deve essere all’altezza della complessità del momento: occorre dimostrare unità e fermezza sui principi e, al tempo stesso, capacità di costruire alleanze culturali estese”. E qui si legge la critica a Magistratura Indipendente, la corrente più conservatrice, che sia al Csm sia nell’Anm si è voluta smarcare da comunicati contro Salvini. La segretaria di Md boccia pure il ddl, per la verità accantonato di fatto in Senato, a firma del leghista Simone Pillon che prevede come automatico l’affido condiviso dei figli minorenni di divorziati: “È una controriforma in contrasto con il bene supremo da salvaguardare, l’interesse del minore”. Pillon ribatte a distanza: “È un’invasione di campo”.

Oggi al congresso parlerà il vicepresidente del Csm David Ermini, reduce dalle polemiche che lo hanno coinvolto per aver pranzato alla Camera con i parlamentari renziani all’indomani degli attacchi ai magistrati fiorentini.

“Scoprii la sua falsa malattia, allora denunciai Bogdan”

O siamo in presenza di una consumata coppia di attori, oppure, negli atti depositati alla procura di Rimini dalla parlamentare del M5S Giulia Sarti, c’è qualcosa che merita di essere approfondito. Tutto ruota intorno alla malattia dell’ex compagno della parlamentare, Bogdan Tibusche, che gestiva il conto di Sarti e che – con la sua consapevolezza – non aveva versato tempestivamente i contributi previsti dalle regole del M5S. Partiamo da una dichiarazione di Sarti al Fatto: “Scelgo di denunciare Bogdan il 14 febbraio 2018, quando mi rendo conto, andando in banca a prendere gli estratti conto, che dal 2014 prelevava ciclicamente dei soldi dal mio conto corrente e, negli ultimi 5 mesi erano stati prelevati 17mila euro. Inizio a dubitare della sua malattia e penso che l’intensità degli ultimi prelievi sia dovuta al fatto che stavo terminando la legislatura e gli avevo già chiesto di andar via di casa. Non potevo sapere se sarei rimasta a Roma e se sarei stata rieletta”.

Quale malattia? Un presunto tumore al cervello che, chiedendo l’archiviazione di Tibusche per il reato di truffa, il pm definisce un “artifizio” ininfluente ai fini della presunta truffa. Il motivo: “risulta successivo ai bonifici in favore dell’indagato e… non risulterebbe neppure necessario all’appropriazione, poiché Bogdan aveva la materiale disponibilità di tale denaro e non sussisteva la necessità di ricorrere ad altri artifizi o raggiri per appropriarsene”. In sostanza: Bogdan non aveva necessità d’inventarsi la malattia per utilizzare conto corrente e denaro di Sarti. Del quale peraltro aveva già disposto. Ma allora: che senso ha dirle che è in fin di vita?

I due ne parlano la sera del 13 febbraio, quando la notizia dei mancati bonifici è pubblica e Sarti deve giustificare la sua posizione. Nella telefonata è lui a dirle: “Denunciami”. Lei rifiuta. “Abbiamo speso dei soldi ma non sono serviti a niente”, dice Bogdan. “ho cercato di curarmi ma non è servito a niente”. “Perché non mi hai voluto dire niente fino a oggi? – continua piangendo Sarti – Puoi gestire i miei soldi. Hai la password del mio conto corrente. Ho messo tutto nelle tue mani. Avevo e ho il diritto di sapere che malattia hai e cosa è successo in questi mesi. Vedevo che i soldi venivano usati. Non ti ho mai voluto dire niente. Ma mi devi dire cosa sta succedendo. Ho bisogno di saperlo. Parliamone adesso al telefono”. “Ho un tumore al cervello – risponde Bogdan – ma non lo sa nessuno… Ho sei, otto mesi…”. “Ma che tumore è? – continua Sarti – a che stadio è? Posso parlare con un medico?”. “Ho già fatto tutti gli accertamenti del mondo – risponde lui – li ho fatti a Roma, a Vienna, in Francia…”. La conversazione appare inverosimile: Sarti scopre quel giorno la grave malattia del suo ex compagno.

Più tardi Bogdan torna sull’argomento in chat. “Attraverso un medico sono riuscito a contattare un gruppo di ricercatori israeliani… non avevo nulla da perdere… la memoria pian piano mi abbandonava e insorgevano complicazioni come la temporanea paralisi degli arti… i disturbi alla vista… allucinazioni. Ho scelto di fare i test… ma lì non ci potevo andare e in Italia è illegale … è stato possibile in Russia e Romania. Il medicinale è gratuito, il trasporto e la somministrazione no. Mi costava 2500 euro a seduta sottobanco… mi hai allungato la vita perché mi hanno dato max 6 mesi e sono passati quasi 2 anni… So di averti fatto un grosso torto ma so quanto bene mi hai voluto e non sono mai riuscito a dirtelo per non darti questo brutto pensiero…”.

E allora, tutto chiaro: Bogdan ha usato quei soldi per curarsi, Sarti non lo sapeva, il conto si svuotava, e così i bonifici verso il M5S a volte tornavano indietro per assenza di copertura. La Sarti potrebbe denunciare, esibire le prove – conversazioni registrate e chat – e poi evitare punizioni dal Movimento.

Sulla chat del secondo telefono di Sarti, poco dopo, però Bogdan scrive: “Quello che ti ho scritto era per darti l’alibi della denuncia, non lo hai capito?…”. E qui la questione si complica.

Se Sarti è al corrente che si tratta di menzogne, di un “alibi” per denunciarlo, per Bogdan che senso ha spiegarglielo con un messaggio? Se i due sono d’accordo, Sarti dovrebbe già essere edotta. Chi sta mentendo? Ecco perché non sembra possibile archiviare Bogdan senza approfondire la questione. Sarti – che per di più è una parlamentare – ha forse presentato in procure prove false costruite ad arte? Se così fosse, però, perché includere il messaggio in cui Bogdan “confessa” l’artifizio? E se i due erano d’accordo nel presentare questa versione, perché Bogdan distrugge tutto con quel messaggio? Se il tutto fosse vero, Sarti dinanzi al M5S, sarebbe salva. Se fosse una messinscena, idem: Bogdan s’è curato all’estero, con protocolli sperimentali, nessuno può smentirlo. A parte la sua miracolosa guarigione. Bogdan infila nella chat la versione dell’“alibi” che Sarti però – incomprensibilmente – consegna agli inquirenti. Delle due l’una: o sono entrambi un’ottima (ex) coppia di attori. Oppure Bogdan le ha davvero mentito sulla malattia e le spese sostenute. E l’unica colpa di Sarti sarebbe quella di essersi affidata all’uomo sbagliato e, come sostiene nella sua denuncia, di essere stata truffata.

Cdp sale al 7,1% di Tim: finora una perdita teorica di 250 milioni

Con un comunicato alla Sec, l’autorità che vigilia sul mercato borsistico degli Usa, la Cassa depositi e prestiti ha fatto sapere di essere salita, nelle ultime settimane, oltre il 7% del capitale Tim. È il secondo aumento in poco tempo: già il 14 febbraio la Cassa aveva deciso di salire oltre il 5% dal 4,9 accumulato prima dell’assemblea di inizio maggio scorso, quando si schierò col fondo Eliot contro i francesi di Vivendi. Cdp si muove in vista dell’assemblea dei soci del prossimo 29 marzo, quella in cui i transalpini puntano a tornare al comando dell’ex monopolista telefonico. Il conto di questo investimento, ha scritto l’Ansa, finora è comunque salato: la spesa totale ammonta a poco meno di 824 milioni di euro e, al prezzo attuale di Borsa di circa 0,53 euro, “la minusvalenza latente sulla quota del 7,1% sfiora i 250 milioni di euro”. C’è da dire che per Cassa depositi e prestiti la presenza in Tim ha una sua sensata prospettiva industriale: l’obiettivo della controllata del Tesoro è il progetto di integrazione della rete, che vede in campo Open Fiber della quale detiene il 50%, cui ha aperto recentemente il numero uno di Tim Luigi Gubitosi (nella foto).

Chaouqui si ricicla leghista e lancia Maglie

“Era da tanto tempo che mi riproponevo di fare dei video. Su Facebook, su YouTube, su Instagram… è faticoso, io sono un po’ pigra, rinviavo. Poi gli amici di Viewpointstrategy mi hanno convinto”. A parlare è la giornalista Maria Giovanna Maglie, in un video registrato il 27 febbraio e diffuso nel web.

La Maglie è stata sul punto di ritornare in Rai: dopo essere stata indicata come papabile conduttrice della striscia quotidiana post-Tg1, alla fine c’è stato un brusco dietrofront. Ma la giornalista non ha nessuna voglia di esser messa da parte, e così ricicla la sua voglia di “duettare con politici e non” rivolgendosi ai social, attraverso la rubrica online Maglie strette. Una scelta che potrebbe sembrare bizzarra, considerando che non è uno dei personaggi più attivi di Internet, e conta un numero di seguaci molto minore di tanti altri giornalisti.

Come le è venuta questa idea? Per sua stessa ammissione, è stato merito dell’incoraggiamento di un personaggio che invece ai social deve la sua fortuna: Luca Morisi, il volto che si cela dietro la comunicazione web di Matteo Salvini. La Maglie e Salvini hanno dunque qualcosa in comune in più della vocazione sovranista, anche se il loro successo sui social è di gran lunga differente. Il debutto di Maglie strette ha infatti lasciato tiepido Internet: meno di 500 visualizzazioni per il primo video che la giornalista ha postato su YouTube, nonostante la situazione sia migliore su Facebook (dove ha racimolato più di 30 mila spettatori e centinaia di condivisioni). Ma chi sono “gli amici di Viewpointstrategy” che l’hanno convinta ad avviare questo progetto? La Viewpointstrategy è un’azienda articolata in tre rami: comunicazione, produzione e pubbliche relazioni, attiva anche negli Stati Uniti, nel Principato di Monaco e in Israele.

E fa capo a Francesca Immacolata Chaouqui, protagonista di Vatileaks 2, l’inchiesta vaticana che ha segnato l’inizio del papato di Bergoglio. Soprannominata la “Papessa”, in quell’epoca Francesca Immacolata era una renziana entusiasta e convinta, vantando rapporti con Marco Carrai, imprenditore vicinissimo a Matteo Renzi, e Andrea Conticini, cognato dell’ex premier. Nel giro di frequentazioni anche il faccendiere Luigi Bisignani, legato a Gianni Letta e a Silvio Berlusconi.

Adesso il passato renziano è alle spalle e la Chaouqui ha iniziato una seconda vita con la sua nuova società, puntando sulla creazione di eventi e di una rete sociale solida. Una rete dalle Maglie strette. Non solo. Sul suo profilo Facebook, la “Papessa” non ha perso il vizio di rivendicare le sue amicizie “potenti”. A spiccare è soprattutto quella con Teresa De Santis, direttrice di Raiuno in quota Salvini. Tutto torna: Chaouqui è leghista, quantomeno sovranista.

Caccia grossa all’ad Salini: il Carroccio vuole tutta la Rai

“Il clima è tostissimo. Stanno tutti con il coltello tra i denti. La tensione è alle stelle”. Un uomo Rai di lungo corso descrive così la situazione tra Viale Mazzini e Saxa Rubra davanti alle notizie sul piano industriale che l’ad Fabrizio Salini sta mettendo a punto e che verrà presentato (e votato) nel cda il 6 marzo. Un piano che giovedì pomeriggio l’ad ha illustrato ai consiglieri in un pre-consiglio durato ben 10 ore e che prevede pure il ritorno della figura del direttore generale. Col fucile puntato è soprattutto la Lega, che sembra aver iniziato la caccia grossa a Salini. Anche perché, come spiega una fonte leghista in Parlamento, ora i rapporti di forza si sono rovesciati: la Lega sopra e i 5Stelle sotto, staccati di molti punti. Elemento che indebolisce Salini e fa alzare le quotazioni del presidente Marcello Foa.

Anche per questo, di fronte al fuoco di fila in commissione di Vigilanza contro il piano news, che ha visto l’insolito asse tra Lega e Pd, nelle scorse ore i 5Stelle si sono mossi per blindare Salini. “In attesa di conoscere i dettagli del piano industriale e certi che sarà improntato al cambiamento, non possiamo che rinnovare la nostra fiducia all’amministratore delegato”, hanno detto Gianluigi Paragone e Primo Di Nicola del M5S. Una blindatura la cui necessità dimostra però la debolezza dell’ad dentro e fuori l’azienda. La Lega è partita a razzo contro il piano news specialmente nella parte in cui crea 9 direzioni di contenuto (si è aggiunta anche una direzione di “approfondimento news”) e smantella le direzioni di rete. Ma soprattutto non piace la newsroom unica giornalistica che, secondo i salviniani, “rischia di far perdere le identità di reti e tg, mettendo a rischio il pluralismo”. E su cui nel pre-consiglio si è registrata la forte opposizione di Foa. “Se resta così, io questa roba non la voto”, ha detto il presidente.

Su Foa però le versioni divergono. Alcuni confermano la narrazione leghista secondo cui il presidente sarebbe stato tenuto fuori dalla messa a punto del piano (la cui realizzazione spetta all’ad) venendo a sapere dei contenuti a cose fatte. Altri, invece, raccontano di un presidente sempre più centrale, che col passare del tempo ha aumentato la sua sfera d’influenza proprio sul punto nodale: la riforma delle news. E che nella sua stanza al settimo piano a tutte le ore vede sfilare giornalisti, graduati e non, in cerca di un’interlocuzione. La verità, forse, sta nel mezzo: Salini e Foa vivono in una sorta di “armonia armata” dove, specularmente al rapporto tra Salvini e Di Maio, ognuno ha bisogno dell’altro.

Come tra Lega e 5Stelle, l’eccessiva debolezza dell’ad finisce per danneggiare anche il presidente e viceversa. E quando appaiono in pubblico insieme, com’è accaduto in più occasioni anche di recente, tra i due si percepisce un certo feeling. Simul stabunt, simul cadent. È poco credibile, del resto, che l’ad presenti il piano industriale senza averne reso partecipe il presidente. Sta di fatto, però, che Salini si sta facendo moltissimi nemici. Buona parte del partito azienda, innanzitutto, che rifiuta di default qualsiasi novità. Così come le strutture delle reti: cancellare le direzioni significa andare a intaccare feudi di potere cementati nei decenni. Andare poi a tagliare risorse, per esempio, a un colosso della fiction Rai come la Lux Vide (che ha un contratto di 25 milioni l’anno con la tv pubblica) significa intaccare interessi fortissimi, con grandi capacità di pressione politica e lobbying. Per questo motivo a Viale Mazzini sono pochi a scommettere su un lungo futuro dell’ad. Tanto che gira anche il nome di un possibile sostituto: l’attuale direttore dei palinsesti Marcello Ciannamea, già in lizza per fare il direttore di Raiuno in quota 5Stelle.

Se a questo si aggiungono le denunce delle forze di opposizione all’Agcom per l’eccessiva presenza della maggioranza nei Tg – motivo per cui Salini è stato convocato dalla Vigilanza –, gli ascolti non entusiasmanti dei nuovi programmi d’informazione su Raidue e i pasticci dei casi Maglie e Santoro (prima cercati e poi scaricati), ecco che il quadro si fa completo. Da ambienti leghisti, intanto, trapela che per dare il via libera al piano industriale Matteo Salvini avrebbe chiesto di sapere in anticipo i nomi dei futuri direttori di contenuto.

Salini è disposto al dialogo con presidente e consiglieri (la newsroom è già stata ridimensionata e non riguarderà i tre Tg principali), ma va avanti per la sua strada convinto di aver fatto le scelte giuste per portare la Rai nel futuro, sicuro di essere sostenuto, in azienda, da una sorta di “maggioranza silenziosa”. “La sfida è tra chi vuole cambiare e chi vuole restate all’antico, proteggendo il suo orticello di potere”, si fa sapere. Gli orticelli però in Rai assomigliano più a una foresta pluviale e da qui al 6 marzo sarà battaglia.

Il buco di Forza Italia. Il tesoriere: “Gli eletti non pagano le quote”

Il patron Silvio Berlusconi ha chiuso i cordoni da tempo: d’altra parte ha firmato fidejussioni al suo partito per 100 milioni e dispari di euro. Da qualche anno, dunque, Forza Italia è una sorta di bad company, un partito sempre alle prese coi debiti. A fare il tesoriere è arrivato Alfredo Messina, senatore ed ex manager Fininvest, che spergiura: “Abbiamo ridotto al massimo le spese e pagheremo tutti i debiti: certo, abbiamo classificato i creditori in privilegiati e chirografari, offrendo percentuali diverse”. Praticamente un informale concordato a cui, però, si rammarica Messina, non arriva tutto il sostegno che dovrebbe dai parlamentari, anche se “l’evasione di massa” dei tempi belle è solo un ricordo: “Bisogna stare dietro a tutti”, ha raccontato ieri all’Adnkronos. È vero, “solo il 10-15% dei parlamentari di Forza italia deve ancora mettersi in regola e pagare i contributi dovuti mensilmente al partito. Questa quota, che vale tra i 200mila e i 300mila euro, comprende quei deputati e senatori che non hanno mai versato nulla, che, grazie a Dio sono una residua minoranza, e quelli che hanno arretrati di almeno tre mesi…”. Con questi chiari di luna, però, persino in Forza Italia l’evasione non è più tollerata.

L’Italia richiama l’ambasciatore in Australia

Non è una crisi diplomatica vera e propria, ma certo qualcosa che ci si avvicina: cresciuta dalla primavera a oggi, la tensione tra Italia e Australia ha portato al richiamo a Roma – ufficiale da giovedì – dell’ambasciatore italiano a Canberra, Stefano Gatti, uno dei volti dell’Expo di Milano, dove curò i padiglioni internazionali, arrivato sulla “riva fatale” neanche un anno fa con enormi aspettative e oggi disarcionato senza nemmeno una nota della Farnesina.

Ufficiosamente, la fine dell’incarico è dovuta a “motivi personali e familiari”, ma le ragioni del richiamo di Gatti stanno da un lato nel livello davvero basso dei rapporti italo-australiani, dall’altro nel modo non proprio diplomatico con cui l’ambasciatore ha interpretato il suo ruolo, modo che ha finito per irritare il governo di Canberra.

I fatti. A fine marzo 2018, quando Gatti arriva in Australia inviato da Gentiloni, le aspettative italiane nei confronti di quel Paese sono altissime: il governo e Fincantieri – che allo scopo ha anche ingaggiato il politico e lobbista Michael Photios – ritengono di avere buone possibilità di aggiudicarsi una commessa da 30 miliardi di dollari per 9 fregate militari per la Royal Australian Navy.

Quel contratto, dopo un incontro a Londra tra l’allora primo ministro conservatore Malcolm Turnbull e la sua omologa Theresa May in aprile, se lo è però aggiudicato nel giugno scorso la britannica BAE Systems. Questioni di Commonwealth, di regina, di geopolotica perché dal punto di vista tecnico non c’era gara: le navi inglesi esistono solo sulla carta (pare che non siano ancora disponibili neanche i progetti definitivi) e potranno essere consegnate solo dal 2027, mentre quelle di Fincantieri – già “testate in servizio” e preferite dal ministero della Difesa australiano – sarebbero state pronte nel 2020.

Uno smacco economico e diplomatico per Fincantieri e il governo, a cui Gatti sembra aver reagito in modo eccessivo causando le lamentele, non ufficiali, di Canberra.

A inizio ottobre, l’episodio che ha chiuso la partita. L’ambasciatore rilascia un’intervista al giornale italo-australiano Il Globo e parla del “disappunto” di Roma per la commessa militare assegnata ai britannici con scelta “politica”, critica il governo di Canberra per non aver ancora firmato, dopo tre anni, l’accordo bilaterale con l’Italia in materia di industria della difesa e rivela che è proprio questo il motivo per cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha cancellato il suo viaggio in Australia previsto in quelle settimane (“quando ci hanno detto che non era possibile procedere con la firma… abbiamo risposto che per la visita del presidente era meglio aspettare il 2019”).

Non c’è motivo di dubitare della ricostruzione di Gatti, ma si tratta di un’uscita pubblica decisamente irrituale per un ambasciatore (e andrebbe chiarito se concordata con Roma). Come che sia, il “mistero” sul suo “richiamo” a Roma campeggiava ieri in prima pagina su The Australian – il maggior quotidiano del Paese – che riportava anche la posizione del governo australiano: alla Farnesina sono arrivate molte lamentele perché Gatti insisteva nel “criticare duramente l’Australia per collusione coi britannici” e sembrava “troppo vicino alla sinistra”, “quasi un attivista”. E così l’ex signor Expo è stato costretto a tornare a Roma, dove ritroverà Mattarella: intanto, scrive The Australian, questa vicenda di ricchi contratti e relazioni politiche “rischia di diventare un tema in vista delle elezioni di maggio”. Quelle australiane.

Maroni lancia il partito del Pil solo per vedere l’effetto che fa

Roberto Maroni ormai fa l’avvocato. Ma continua a pensare alla politica: “Serve un nuovo partito del Nord, che affianchi la Lega nazionalista”, ha detto a Repubblica. “I ceti produttivi, presenti soprattutto al Nord, hanno bisogno di una rappresentanza particolare, fatta di concretezza e coraggio”. “Si può essere sovranisti e insieme autonomisti; e oggi quest’area non ha un reale interlocutore”.

È il Partito del pil che chiama. “Sì, è l’Italia degli 8 mila comuni e delle diversità che ne ha bisogno”. È l’annuncio della nascita di una nuova forza politica? Chi lo conosce bene risponde di no: Maroni getta pietre nello stagno, scrive libri (Il rito ambrosiano, Rizzoli), si diverte a prefigurare scenari. Per vedere l’effetto che fa. Ma da osservatore distaccato e sornione. Non ha un esercito pronto a muoversi e neanche degli sherpa a caccia di alleanze e contatti. Osserva però il disagio di una parte del mondo leghista lombardo-veneto che mal digerisce l’alleanza con i Cinquestelle, non sopporta il reddito di cittadinanza, vorrebbe Tav e grandi opere a dosi massicce, punta sull’Autonomia per trattenere più tasse al Nord. Lo slogan con cui fu eletto presidente della Lombardia, nel lontano 2013, era proprio: “Prima il Nord”.

Poco prima aveva messo a riposo Umberto Bossi, travolto dagli scandali, per poi lasciare la carica di segretario federale a Matteo Salvini (“Vidi in lui il successore ideale”, dice oggi). Ma Salvini ha capovolto il partito, lo ha reso nazionale e sovranista e ha ribaltato il suo slogan in “Prima gli italiani”. Ora, i nordisti che sognavano la secessione della Padania saranno anche un po’ scossi dalle novità, ma non si sognano certo di lasciare un partito che non è mai stato così forte e così in crescita. Semmai è Silvio Berlusconi che è in declino ed eternamente senza delfino. Maroni, dal suo osservatorio distaccato, può però permettersi di ritagliarsi un ruolo critico e di dare voce a chi vorrebbe mollare i Cinquestelle e tornare con Silvio. Già nel 2018, quando non si era ricandidato alla guida della Lombardia pur avendo la vittoria assicurata, aveva ipotizzato uno scenario in cui a Milano aveva tutto da perdere, a Roma tutto da vincere.

A Milano aveva in corso un processo che, in caso di condanna anche solo in primo grado, lo avrebbe costretto a lasciare la poltrona di governatore a causa della legge Severino. A Roma, invece, aveva la speranza che alle elezioni del 2018 il centrodestra vincesse abbastanza e avesse bisogno di un uomo di collegamento capace di tenere insieme Salvini e Berlusconi. O magari, chissà, che facesse da ponte tra Silvio e l’altro Matteo, Renzi. Bobo poteva essere nel peggiore dei casi un ministro importante, nel migliore il presidente del Consiglio.

Invece le cose gli sono andate tutte storte: la Lega di Salvini ha vinto troppo, Forza Italia ha perso troppo, per Renzi un disastro, per i Cinquestelle un trionfo. Bobo si è rifugiato nello studio del suo avvocato, Domenico Aiello. Quello che lo ha difeso così bene, nel processo in cui rischiava di decadere da governatur, che lo ha fatto assolvere dall’imputazione più grave (“induzione indebita”).

Condannato, sì, per l’altra imputazione (“turbata libertà del procedimento di scelta del contraente”), per aver fatto avere un incarico regionale a una sua collaboratrice di quand’era ministro dell’Interno. Ma con una piccola pena (1 anno, sospesa) che non gli avrebbe fatto perdere la presidenza della Lombardia.

Roba da mangiarsi le mani: abbandonata Milano, non ha avuto niente a Roma. Ormai a Palazzo Lombardia c’è Attilio Fontana, che si gode al suo posto, insieme al presidente del Veneto Luca Zaia, il successo per la sua ultima vittoria, quella sull’Autonomia. È andata così. Bobo non si cruccia, va in vacanza, fa cose, vede gente, osserva i partiti e si tiene pronto. La politica ormai cambia in fretta. Non si sa mai.

Istat: a gennaio più contratti stabili, calano i precari

Secondo gli ultimi dati Istat, a gennaio 2019 la stima degli occupati è in lieve crescita rispetto a dicembre (+0,1%, pari a +21 mila unità); il tasso di occupazione rimane stabile al 58,7%. L’andamento degli occupati è determinato da un aumento consistente dei dipendenti permanenti (+56 mila), mentre si osserva un calo dei dipendenti a termine (-16 mila) e degli indipendenti (-19 mila). La crescita coinvolge esclusivamente gli uomini (+27 mila) mentre risultano in lieve calo le donne (-6 mila). Nel periodo da novembre 2018 a gennaio 2019 l’occupazione registra però un lieve calo rispetto ai tre mesi precedenti (-0,1%, pari a -19 mila unità). Su base annua l’occupazione cresce dello 0,7%, pari a +160 mila unità. L’espansione interessa entrambe le componenti di genere concentrandosi esclusivamente tra gli ultracinquantenni (+250 mila). Al netto della componente demografica la variazione è positiva per tutte le classi di età tranne i 15-34enni. Crescono soprattutto i dipendenti a termine (+126 mila) ma si registrano segnali positivi anche per i dipendenti permanenti (+29 mila) e gli indipendenti (+6 mila).

Il tradimento della Lega: molla Putin e i russi per gli americani

Il settimanale L’Espresso racconta una trattativa per finanziare con 3 milioni di euro la Lega dalla Russia e Matteo Salvini che fa? Niente. Nessuna replica, nessuna querela. Perché quell’inchiesta arriva in un momento particolare per la Lega: lo spostamento da posizioni filo-russe a una linea tutta atlantica, che guarda agli Stati Uniti invece che a Mosca, come dimostra anche il risalto che il sottosegretario Giancarlo Giorgetti si è premurato di dare al suo viaggio a Washington. L’ultima cosa che Salvini vuole è addentrarsi nelle polemiche sull’inchiesta dell’Espresso (che anticipa Il Libro nero della Lega, Laterza): Giovanni Tizian e Stefano Vergine hanno raccontato incontri riservati di Salvini in visita a Mosca il 18 ottobre con il vicepremier russo Dimitry Kozak, che segue i dossier energetici, e una trattativa tra il leghista Gianluca Savoini, uomo di collegamento con Mosca, e un manager russo. Oggetto della discussione: una triangolazione di gasolio tra la compagnia di Stato russa Rosneft e quella italiana Eni, venduto con uno sconto tale da garantire, dopo vari passaggi, alla Lega una provvigione da 250.000 euro al mese. L’Espresso non sa se la trattativa è andata a buon fine.

La Lega non ha commentato, il portavoce del Cremlino, il potente Dimitry Peskov, si è limitato a dire alla testata filo-governativa Sputnik “di chiedere in primo luogo ai media italiani dove hanno ottenuto le informazioni e quali fonti hanno usato”. Di sicuro in questo momento a Mosca guardano con fastidio il riposizionamento della Lega che ormai sfiora la provocazione. Specie alla luce di rapporti che in passato sono stati sicuramente molto forti.

Salvini ha incontrato più volte l’ambasciatore Usa a Roma Lewis Eisenberg, e non ha detto una parola quando il premier Giuseppe Conte, dopo aver incontrato il presidente Usa Donald Trump, ha confermato i lavori del Tap. Il gasdotto che arriva in Puglia serve a rendere l’Europa e l’Italia meno dipendenti dalle forniture russe. A Mosca potevano ancora considerare queste scelte come inevitabili, visti i patti di coalizione che vincolano la Lega al M5S. Ma Salvini ha fatto molto di più.

L’11 novembre è andato a Gerusalemme e ha visitato i tunnel scavati da Hezbollah per attaccare Israele. Via Twitter Salvini ha definito “terroristi” il gruppo sostenuto dall’Iran che però in Libano è anche un partito politico al governo. Le parole di Salvini hanno esposto a ritorsioni i militari italiani in Libano, ma erano un messaggio di affidabilità agli Usa, dove ferve il dibattito interno all’amministrazione Trump. I più moderati vogliono rimettere in discussione l’accordo sul nucleare negoziato da Barack Obama, i falchi guidati dal consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton spingono per il regime change, cioè per rovesciare il regime degli ayatollah.

All’indomani delle elezioni del 2018, gli Stati Uniti chiedevano al nuovo governo rassicurazioni su due punti: Iran e sanzioni alla Russia. Da mesi le dichiarazioni leghiste si sono ammorbidite, l’ultima di Salvini è del 3 dicembre, un blando “le sanzioni non sono il modo per risolvere le controversie internazionali”. Il 15 marzo scadono sanzioni Ue contro 155 persone e 44 entità giuridiche russe per l’aggressione all’Ucraina nel 2014. Saranno sicuramente rinnovate, anzi, l’Alto rappresentante per la politica estera Ue, Federica Mogherini, ne ha annunciate di ulteriori a breve. A fine giugno e metà luglio scadono altre misure punitive, incluse quelle che penalizzano l’export italiano. Ma dal lato leghista non c’è traccia di bellicosità.

Il 9 gennaio, poi, Salvini ha passato il punto di non ritorno: è andato in Polonia a trattare un’alleanza europea con il partito di governo Pis di Jaroslaw Kaczynski, il leader polacco che ha costruito la sua carriera sulla russofobia, che accusa Vladimir Putin di essere il mandate dell’incidente aereo in cui è morto suo fratello Lech nel 2010. La Polonia è il pilastro della strategia Usa nell’Europa dell’Est per arginare Mosca. E Salvini ora dice che l’Ue deve reggersi su un “asse italo-polacco” al posto di quello franco-tedesco. A Mosca non devono averla presa bene, perché è l’ennesimo segnale del fatto che se ci sarà una maggioranza sbilanciata a destra nel prossimo parlamento Europeo, a giugno, sarà una destra atlantica, non filo-russa.

Perfino sulla crisi del Venezuela, Salvini ha rotto gli antichi schemi e si è schierato con Juan Guaidò, il presidente del Parlamento appoggiato dagli Usa, contro il presidente Nicolás Maduro, sostenuto dai russi. La linea del governo Conte, però, è rimasta intermedia (equidistanza e richiesta di nuove elezioni presidenziali).

Per Salvini è diventato americano? Di certo punta a esercitare un peso importante nel prossimo euro-parlamento dove, stando ai sondaggi, non ci sarà mai una maggioranza euro-scettica e filo-russa, Marine Le Pen e soci resteranno all’opposizione. Poi c’è il fronte interno: i Cinque Stelle si sono inimicati le compagnie americane dell’energia (con la guerra alle trivelle), quelle del gioco d’azzardo, Fiat-Fca, ormai americana, per non parlare del settore della difesa per la difesa, con l’eterno dilemma sull’acquisto dei caccia F35. E poi il ministero dello Sviluppo di Luigi Di Maio ha contribuito ad aprire la strada alla Cina che dominerà l’infrastruttura del 5G in Italia, uno dei pochi Paesi in cui non c’è dibattito sui rischi per la sicurezza che alimentano la guerra commerciale tra Usa e Pechino.

Salvini ha visto un vuoto politico. E ha capito che forse il supporto di Mosca gli è servito per arrivare al governo, ma quello di Washington può permettergli di restarci a lungo. “La Lega non è ne filorussa ne filo americana ma è filo italiana. Noi vogliamo portare avanti gli interessi del nostro Paese, etichettarci una subalternità a qualcuno è un errore!”, spiega Claudio D’Amico, uno dei leghisti che si è sempre occupato dei rapporti con Mosca. Rapporti che ora neppure lui rivendica più.