Shell va a processo in Olanda per il caso tangenti in Nigeria

La procura olandese sta per avviare un procedimento penale sulla società petrolifera Royal Dutch Shell per quanto riguarda l’acquisizione delle licenze di esplorazione del campo petrolifero Opl-245 in Nigeria nel 2011.

In un comunicato pubblicato sul proprio sito web, ieri la compagnia petrolifera ha spiegato di essere stata informata dall’ufficio della procura olandese che l’indagine è quasi chiusa e che sta preparando l’apertura del procedimento penale per i fatti direttamente e indirettamente connessi alla risoluzione della controversia su OPL 245 del 2011.

La compagnia anglo-olandese è già imputata, con anche quattro suoi ex manager, in un processo in Italia con la società petrolifera Eni per presunte tangenti in Nigeria sulla stessa vicenda. La prima assegnazione risale al 1998. Poi la Shell firmò due accordi nel 2003 e nel 2006. Infine nel 2011 la stessa Shell firmò con l’Eni un accordo che oggi è sotto processo a Milano. A dicembre c’è stata una prima sentenza che ha riguardato due imputati che avevano chiesto il rito abbreviato nel procedimento per una tangente di 1 miliardo e 92 milioni.

Foietta è stato nominato consulente da Chiamparino

Il commissario di governo per il Tav Torino-Lione, Paolo Foietta, a cui non è stato rinnovato l’incarico, continuerà comunque a occuparsi di Tav. Su proposta del presidente Sergio Chiamparino, la giunta della Regione Piemonte ha infatti assegnato all’architetto una collaborazione per svolgere “attività di presidio strategico e aggiornamento sugli sviluppi dell’adeguamento dell’asse ferroviario”. E così da lunedì, l’architetto Foietta sarà in aspettativa dal Csi, ente di cui è dirigente, per svolgere il nuovo incarico, che avrà durata trimestrale. Tra le attività affidategli, quella di mantenere in vita l’Osservatorio per la Torino-Lione e portarne avanti l’attività in qualità di portavoce. Prima di lasciare il suo incarico, anche se già scaduto, Foietta ha firmato e pubblicato il Quaderno numero 13 dell’Osservatorio sul Tav Torino-Lione di Palazzo Chigi, in sostanza una sorta di contro dossier all’analisi costi – benefici di Ponti&C. Nonostante la sua posizione ufficiale, Foietta non ha mai fatto mistero di essere a favore del progetto Tav, come certificano le sue analisi costi-benefici del 2011.

Che tempo di pace per Macron e l’Italia

La notizia l’ha data su Twitter direttamente Fabio Fazio annunciando che domenica sera nel suo Che tempo che fa intervisterà il presidente francese, Emmanuel Macron.

Colpo giornalistico di sicuro effetto – anche se l’intervista è stata resa a Parigi e non nello studio milanese di Rai1 – che rende il conduttore televisivo per tutto il pomeriggio bersaglio preferito dei “sovranisti da social”, indignati per lo spazio che la tv pubblica offrirà al “nemico e affamatore di popoli”. La leader di Fratelli d’Italia, copiando le posizioni di Alessandro Di Battista, recupera la polemica sul franco Cfa e sulla colonizzazione dell’Africa chiedendo, poi, quanto sia costato il viaggio di Fazio a Parigi.

L’indignazione più vibrante la esprime il filosofo Diego Fusaro che, anch’egli su Twitter, parla di intervista al “prodotto in vitro dall’élite turbofinanziaria Rothschild”.

Fino a sera, però, non si sente alcuna protesta né dalla Lega né dai 5Stelle. In Rai hanno appreso dell’intervista a cose fatte, frutto di una iniziativa diretta dello stesso Fazio. La direttrice di Rai1 Teresa De Sanctis non ha gradito di non essere stata informata preventivamente. Ma nessun intervento anche perché sembra che le spese di produzione siano a carico del contratto in essere.

A dare conto sia pure nei termini più generali, del senso dell’intervista è il quotidiano francese Le Figaro secondo cui Macron “evocherà i legami di amicizia tra la Francia e l’Italia – in particolare la sua relazione personale con l’Italia e la sua cultura – così come la responsabilità comune dei nostri due paesi all’interno dell’Europa per affrontare le sfide migratorie, ambientali, economiche e sociali”.

Un linguaggio che gli stessi francesi definirebbero da langue de coton per dire che può voler dire tutto e il suo contrario. Ma che, comunque, esprime la volontà di Macron di inviare un segnale di pace all’Italia probabilmente frutto dei suoi colloqui con il presidente Sergio Mattarella, colui che ha reimpostato il dialogo dopo gli scontri avuti con Luigi Di Maio in seguito all’incontro di quest’ultimo con uno dei leader dei Gilet gialli. Dietro l’iniziativa, infatti, potrebbe esserci proprio l’Ambasciata di Francia a Roma con alcuni dei suoi diplomatici in prima fila a tessere l’incontro. Come dice il senatore Alberto Bagnai, della Lega, in genere molto duro su questi temi, “fuori dai riflettori, il dialogo con la Francia va avanti”.

Che l’intervista si inscriva in un processo di pacificazione è dimostrato anche dall’incontro avvenuto nei giorni scorsi a Versailles tra delegazioni di imprenditori italiani e francesi concluso dai due ministri dell’Economia Giovanni Tria e Bruno Le Maire. Tutti uniti nel benedire la ripresa degli affari anche se però non si è mai parlato di Tav.

“È una linea di cemento e calcestruzzo, i camion già vanno in giro mezzi vuoti”

Le contestazioni fuori il teatro Colosseo, dove Beppe Grillo si è esibito nel suo spettacolo “Insomnia” avevano la firma dei no vax. Niente Tav, all’esterno. Dentro, poco dopo il via dello show, è invece lo stesso Grillo a parlarne.

“In Svizzera hanno tolto i camion, li hanno tassati e hanno fatto il San Gottardo – dice dal palco -. Un tunnel di 45 chilometri. Poi si sono accorti che era vecchio e hanno ordinato i camion a idrogeno dalla Cina”. Fa riferimento a ciò che dal treno dovrebbe essere trasportato “Il container è l’unità di misura, non la merce. Portiamo cose vuote in giro. Non riusciamo a fare girare i camion pieni”. Poi la metafora: “La Tav è una stella che ha ancora luce, ma è morta perché la mobilità sta cambiando velocemente: è il momento di darvi una sveglia, vi perdete con cazzate come la Tav, Si vax, no vax”. Non rinnega l’avanguardia tecnologica né il ruolo di Torino e del Piemonte nel suo sviluppo. “L’alta velocità – dice – è nata a Torino: ricordate il Pendolino e il Tgv. Viaggiava a 300km ad assetto variabile. Avevamo treni straordinari”. Ma fa una distinzione con il nuovo, con l’oggi: “L’alta velocità è una linea di cemento e calcestruzzo. Parlano di fare un buco e di metterci dentro le merci, non si sa dove e quando. Si parla di fare un referendum, poi si parla di sì, poi si parla di no, poi vengono fuori i movimenti, poi Confindustria, cazzo: gli industriali dovrebbero dirci come ci muoveremo tra venti anni”. In sala ci sono molti consiglieri comunali, c’è il consigliere regionale del M5s, Davide Bono, il candidato alla Regione Giorgio Bertola, la valsusina Francesca Frediani che, prima dell’apertura del sipario, ha esclamato: “Qui crolla tutto. Devono essere consapevoli”. La sindaca Chiara Appendino è passata prima dello spettacolo a salutare, ma non è rimasta. Gli eletti M5s di Torino sperano che Grillo ridefinisca la linea pentastellata.

Grillo inizia a razzo, parlando di cosa era Torino. “Adesso siamo al governo cosa faccio? Divento un comico governativo? Di regime? Non so con chi prendermela. Con noi stessi?” Parla di Fiat, dall’industria tecnologica, del “manager ‘santificato’, che è morto” e non vuole santificarlo. “Qui c’era Ghidella che viveva con gli operai, progettava le Uno. Era industria. Andavo a Orbassano, dove c’erano i geni”. Poi redarguisce i torinesi. “Sono arrabbiato con voi. Non credete in voi stessi. Avete avuto Fassino, una città piena di debiti. La zona Thyssen può diventare una zona di studio sulle batterie elettriche e ce le stanno rubando”.

Conte con Di Maio per il No. Ma Tria: “Serve una legge…”

È e sarà no al Tav. Nonostante il Matteo Salvini che alzerà il prezzo, chissà di quanto. E anche se il ministro dell’Economia Giovanni Tria continua a spingere per l’opera, auspicando “un’evoluzione positiva”, ed è un altro dito nell’occhio a Luigi Di Maio, che lo aveva rimproverato a tu per tu martedì scorso (“basta dichiarazioni, sulla Torino-Lione vale il contratto di governo”). Ma la linea del M5S resta quella, difendere l’ultima bandiera, sopravvissuta a mille cambiamenti e giravolte: altrimenti il gruppo parlamentare esploderebbe e la base al Nord diventerebbe un formicaio impazzito.

Così Di Maio, il capo politico, fa trapelare per la milionesima volta che non si cederà mai alla Lega. E Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio che spesso va in un’altra direzione, cioè quella del Quirinale, in mattinata si allinea e smentisce aperture al mini Tav. Ed è una mossa invocata anche da alcuni parlamentari, insospettiti dai giornali che parlavano di un premier aperto a mediazioni, in nome della ragione di governo.

Ma Palazzo Chigi nega tutto, precisando anche che il supplemento di analisi costi-benefici “l’aveva chiesto il Mit”. E la sostanza finale è che il premier e il suo vice a 5Stelle fanno asse, più o meno differito, più o meno spontaneo. Ben sapendo però che per fermare davvero il Tav serve una legge, così da disapplicare l’accordo tra Italia e Francia sull’opera. Ma ad oggi i numeri per approvarla in Parlamento non esistono. E allora l’obiettivo è guadagnare tempo, spostando la rogna dopo le Europee di maggio. Ma non potrà essere indolore. Perché la prossima settimana va trovato un punto di caduta con il Carroccio. Prima del Cda dell’11 marzo di Telt, la società che deve costruire il Tav, e che si riunirà per indire i bandi per i lavori.

O almeno vorrebbe farlo, perché c’è un ostacolo, ossia l’articolo 16 dell’accordo italo-francese sull’opera, in base al quale mancherebbero le condizioni per l’avvio dei bandi (come spiegato nell’articolo qui accanto). E quella norma potrebbe essere l’appiglio che il Movimento cercava. Ma la politica spesso prova a ignorare anche quanto scritte nero su bianco. Ergo, l’ennesimo tavolo con Salvini sarà complicato, dopo che il vertice di mercoledì con Conte e Di Maio “è andato male” come ammettono dal governo. E gli stessi 5Stelle non sanno ancora con quale linea presentarsi. Mentre la strategia di comunicazione è chiara, ricordare sempre e ovunque che il M5S vuole aprire tutti i cantieri possibili, a patto di fermare quello della Torino-Lione. “Anche perché in Italia crollano i ponti, mentre questa fantomatica mini Tav sembra solo un modo per fare confusione” morde il sottosegretario Mattia Fantinati. Per questo si ripete che c’è l’urgenza di cambiare il codice degli appalti. E il premier scrive a Repubblica per rivendicare un piano di 11 miliardi in tre anni per la messa in sicurezza del territorio. Mentre il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli sbarra ancora la porta al Tav: “Ribadisco profondamente, come M5S, il nostro no senza pregiudizio”. E lo scandisce dal cantiere per la ricostruzione di un ponte, in Brianza, nelle stesse ore in cui il Pd annuncia per lui una mozione di sfiducia per. Ma nel Movimento pensano ad altro.

Ovvero al Tria che insiste ancora sulla Torino-Lione da Versailles, a margine del Forum economico italo-francese. “Ci sono posizioni differenti nel governo ma credo che ci sarà un’evoluzione positiva”, sostiene il ministro. Quasi sulfureo, nel ricordare che “c’è una legge su questo e per cambiare ci sarebbe bisogno di un’altra legge, ma non credo sarà così”. Sillabe che fanno indiretta sponda con quelle del ministro dei Trasporti di Parigi, Elisabeth Borne: “Per l’Italia è venuto il momento di confermare che vogliono la Torino-Lione, senza una decisione rapida si perderanno i fondi”. I 5Stelle non gradiscono, affatto. Ma scelgono di non rispondere, per non alimentare l’immagine di un governo lacerato. “Tanto alla fine Tria dovrà riallinearsi” è l’opinione diffusa. O la speranza.

Impossibile fare le gare, lo dice il patto con Parigi

Continua dentro il governo la fibrillazione sul Tav Torino-Lione. E fuori dal governo continua l’assedio delle opposizioni (Pd e Forza Italia) che si schierano con la Lega per il sì all’opera. L’analisi della commissione tecnica, che ha calcolato in -7 miliardi le differenze tra costi e benefici, è addirittura “una pagliacciata” per Alessia Rotta, vicepresidente vicaria dei deputati del Pd. Nessuno però presenta numeri alternativi capaci di dimostrare che il Tav serva davvero. E una richiesta di “supplemento d’indagine” da parte del presidente del Consiglio Giuseppe Conte diventa incredibilmente sui giornali “la svolta di Conte sulla Tav”.

Mini-Tav. Quello che appare comunque certo è che “il mini-Tav” non esiste: è presentato come il compromesso che sarebbe capace di mettere d’accordo tutti, ma il Tav è il tunnel di base (costo: 9,63 miliardi). O si fa, o non si fa. O serve, o non serve. Risparmiare qualcosa (in ipotesi: 1,7 miliardi) sulle linee d’accesso al tunnel, per realizzare il cosiddetto “mini Tav”, non solo cambia poco le cifre finali, ma è addirittura controproducente: una volta scavato il tunnel, è necessario avere una linea d’accesso adeguata, altrimenti si otterrà l’effetto Brebemi (la Milano-Brescia che è stata per anni un’autostrada velocissima ma deserta e difficile da raggiungere perché non raccordata né a Milano, né a Brescia). Qualcuno propone il trucco contabile di considerare, per ricalcolare i costi e i benefici, solo i costi italiani. Il risultato finale non cambia: restano superiori ai benefici di 3,5 miliardi.

Gare senza seguito? Intanto l’11 marzo il consiglio d’amministrazione di Telt (la società italo-francese che deve realizzare il Tav) ha intenzione di far partire le prime gare d’appalto per il tunnel. Per il ministro italiano delle Infrastrutture Danilo Toninelli si può fare, “tanto in base alla legge francese si può sempre revocare la gara”.

Ma sarebbe un suicidio, argomenta il professor Sergio Foà dell’Università di Torino: “Anche se sul lato francese il Code de la commande publique consente le ‘procedure senza seguito’ per ragioni di interesse pubblico, l’applicazione di quella norma è difficile, perché impone di dimostrare che è sopravvenuta una situazione per la quale si interrompe la procedura. Ciò rischia di alimentare contenziosi da parte delle imprese interessate”.

Aggiunge l’Avvocato dello Stato a cui era stata chiesta dal ministero una Relazione tecnico-giuridica: “Uno stop unilaterale potrebbe non integrare il contenuto di un nuovo motivo di interesse generale”. Chiosano gli esperti della Commissione tecnica Torino-Lione: “Gli appalti Telt attualmente in questione sono di circa 2,3 miliardi di euro. Tenuto conto della concreta possibilità di ingenerare contenziosi e potenziali risarcimenti a diretto carico dello Stato, appare del tutto evidente che un lancio delle procedure d’appalto in queste condizioni avvierebbe un processo che porterebbe, di fatto, irreversibilmente all’aggiudicazione e all’avvio dei lavori di scavo del tunnel di base, senza alcuna reale possibilità da parte dell’Italia di retrocedere da tale decisione”.

Gare impossibili. Ma c’è un documento di nove pagine che sta intanto girando sulle scrivanie del ministero delle Infrastrutture. Intitolato “Condizioni vincolanti per l’avvio dei lavori del tunnel di base” e redatto dai professori del Politecnico di Torino che fanno parte della Commissione Torino-Lione, arriva a una conclusione clamorosa: l’11 marzo il cda della Telt non potrà lanciare le gare, in forza di un articolo della convenzione tra Italia e Francia sulla Torino-Lione che riguarda i finanziamenti dell’opera.

La realizzazione della sezione transfrontaliera, cioè il tunnel di base, è regolata dagli accordi internazionali stipulati tra Italia e Francia a partire dal 2001. Le regole da applicare a ciascuna delle fasi di attuazione sono stabilite nell’Accordo italo-francese del 30 gennaio 2012, ratificato dal Parlamento italiano e da quello francese. Ebbene, l’articolo 16 dell’Accordo recita: “La disponibilità del finanziamento sarà una condizione preliminare per l’avvio dei lavori delle varie fasi della parte comune italo-francese della sezione internazionale”.

Questa condizione preliminare non si realizza, perché i finanziamenti non sono a tutt’oggi disponibili. L’Italia è in questa partita il giocatore più virtuoso, perché per il tunnel di base ha già stanziato 2,63 miliardi, assegnati dalla legge di stabilità 2013 (governo Monti) e approvvigionati in quote annuali nel bilancio dello Stato tra il 2015 e il 2027. L’Unione europea, dopo i finanziamenti per gli studi e i lavori preliminari, ha messo a disposizione per il tunnel 0,57 miliardi.

Lo Stato francese, zero: nessuna programmazione futura su base pluriennale da parte dell’agenzia pubblica Afitf, che ha pagato i lavori avviati finora. Dunque dei 9,63 miliardi di costi quantificati dal Cipe nel 2016, l’Italia ha messo a disposizione il 27 per cento, l’Unione europea il 6 per cento, la Francia nulla. “Nell’attesa della positiva verifica della condizione preliminare della disponibilità del finanziamento”, conclude la Commissione tecnica, “in ottemperanza a quanto prescritto dall’Accordo 2012 all’art. 16, non è possibile avviare i lavori definitivi di realizzazione della sezione transfrontaliera”.

Quindi Telt si deve fermare e il problema dovrà essere prima affrontato dalla Cig, la Commissione intergovernativa Italia-Francia.

Mini-Tav e maxi-balle

Malgrado gli sforzi quotidiani dei giornaloni per complicarla (altro che riapertura dei casini), la questione del Tav è di una evidenza solare. Siccome i 5Stelle non lo vogliono e la Lega lo vuole, ma il Contratto di governo prevede di “ridiscuterlo integralmente”, i casi sono soltanto due: o non si fa, come sarebbe ragionevole, e si risparmiano un sacco di miliardi; oppure si fa, buttando una caterva di soldi pubblici, e allora il M5S, per non perdere un’altra volta la faccia, deve far cadere il governo. Tertium non datur. Purtroppo per Salvini, i suoi Sì al Tav sono solo chiacchiere (la sua costante), mentre i No sono scritti in tutti e tre i documenti ufficiali prodotti sul tema dal governo di cui lui stesso fa parte: il Contratto, l’identica mozione parlamentare approvata da tutta la maggioranza, l’analisi costi-benefici di Ponti&C. Mediazioni o compromessi con analisi costi-benefici “alternative” o progetti alternativi di “mini-Tav” non esistono in natura, ma solo nella fertile fantasia di Salvini e dei giornaloni.

Questi magliari, appena fu resa pubblica l’analisi governativa affidata ai professori Ponti&C., cominciarono a sparare cifre a cazzo citando una fantomatica “contro-analisi” di tal Coppola, il sesto professore che non aveva redatto né firmato quella di Ponti &C., poi però si scoprì che erano sei paginette senza lo straccio di un dato. Allora i pro Tav si inventarono il “mini-Tav”, detto anche “Tav light” o “Tav low cost”: un fantomatico “nuovo progetto” che farebbe risparmiare 1,7 miliardi. In realtà quello è né più né meno che l’attuale progetto, che risale a otto anni fa e che già si erano venduti una volta per convincere i veri esperti che l’opera inutile e dannosa conviene un sacco. La chiamarono “fasizzazione” e spiegarono che facendo solo il mega-buco di 57,5 km nelle Alpi e i nuovi tratti di ferrovia per collegarlo ai vecchi binari di Susa e Bussoleno, il costo dell’opera che prima era di 15-20 miliardi sarebbe sceso a “soli” 8,6 (quelli del tunnel): praticamente regalata. Restava da capire come i previsti 140 treni merci al giorno sarebbero arrivati al buco. E soprattutto perché mai buttare 8,6 miliardi anziché 15 o 20 per un’opera inutile. Ma, siccome le analisi costi-benefici all’epoca non andavano di moda (governavano i “competenti”, no?), nessuno pose gli imbarazzanti quesiti. Una cosa comunque da allora fu certa: il Tav diventava “mini”, “light”, “low cost” e, senza il nuovo tratto ferroviario, costava la metà. E tutti se la bevvero. Ora gli stessi si ribevono un taglio che c’è già stato e viene rivenduto per la seconda volta agli stessi boccaloni. Che ci ricascano.

Una scena da Totòtruffa , quando Totò vende la fontana di Trevi a Decio Cavallo e poi finge di rivenderla a Girolamo Scamorza. Il nuovo taglio – udite udite – che ci farà risparmiare “altri” 1,7 miliardi eliminerebbe la nuova tratta di collegamento fra Avigliana e Orbassano. Già, ma – come ha spiegato più volte sul Fatto Giorgio Meletti – l’Avigliana-Orbassano era già stata “fasizzata” nel 2011, cioè rinviata al 2030 e condizionata al boom del traffico merci (che non è mai esistito né mai esisterà). Quindi gli immaginari 1,7 miliardi di risparmio erano già stati risparmiati – sempre sulla carta, cioè per finta – 8 anni fa. E ora raddoppiano: 3,4 miliardi, signore, mi voglio rovinare! Ieri poi, non bastando più la consueta balla quotidiana, i giornaloni ne hanno sparate due: Conte avrebbe pronti il nuovo “mini-Tav” e la “nuova analisi costi-benefici” che, diversamente da quella di un mese fa sulla perdita di 7-8 miliardi, annuncerebbe guadagni favolosi.

In prima linea c’è La Stampa, già house organ della Fiat e ora pure della Lega. Negli ultimi giorni si era specializzata nel virgolettare frasi mai dette dai 5Stelle: “Di Maio: ‘Io leader per altri nove anni’” (sulla conferenza stampa in cui Di Maio diceva che sarà capo politico per altri 4 anni); “Il veto di Grillo e Di Battista: ‘Se dice sì (al Tav, ndr), sfiduciamo Di Maio’” (mai detto da nessuno dei due). Ora virgoletta frasi mai pronunciate da Conte, di cui nella pagina accanto pubblica un’intervista che dice tutt’altro: “Se (la nuova analisi) ci spingerà a una rivalutazione del progetto, siamo pronti a rivedere le nostre posizioni” (il premier non l’ha mai detto e ieri l’ha ribadito in una smentita). Corriere: “Mossa di Conte sulla Tav. Lavora al compromesso: sì all’opera, ma ridotta. Pressing su Di Maio”. Repubblica: “Il governo prepara la mini-Tav. Nuova analisi per ridurre i costi” (come se i costi si riducessero cambiando il pallottoliere e non rinunciando alle opere inutili), “La nuova relazione dimezza gli svantaggi”. Messaggero: “Conte riduce l’opera”. Ora, la “nuova” analisi costi-benefici altro non è che quella vecchia al netto dei costi per Francia e Ue, cioè solo su quelli per l’Italia. Ed è, se possibile, ancor più negativa: se l’analisi complessiva, su 9,6 miliardi di spesa, calcola 7-8 miliardi di perdita economica, quella “italiana” comporta perdite per 3,5 miliardi su 2,9 miliardi di spesa (perderemmo addirittura più di quanto spenderemmo). Ma nulla è impossibile ai giornaloni. La Stampa: “Ecco la nuova costi-benefici sulla Tav. Considerando le maxi-penali, il saldo dell’opera diventa positivo”. Peccato che le penali (“1,7 miliardi” più “4,7” di altre spese immaginarie) non esistano, né maxi né mini: i contratti d’appalto e i trattati con Ue e Francia non solo non prevedono, ma escludono sia penali sia fondi da restituire (l’Ue finanzia le opere finite: se non si fanno, non arrivano i fondi, punto). La verità vera è che il grosso della spesa non è per i binari di collegamento, ma per il buco (8,6 miliardi a preventivo). Però si potrebbe “fasizzare” anche quello, scavandone solo metà e mandando i treni a sbattere contro la roccia.

La rivoluzione può ancora partire dalla lettura

“Una rivoluzione di carta”. Le parole scelte da Gigliola Alvisi per il titolo del suo nuovo libro non sono casuali: i libri, infatti, possono essere un’arma potentissima per resistere all’ignoranza, alla retorica dell’odio, alla schiavitù imposta alle menti meno istruite. La cultura, a volte, può arrivare persino a contrastare la guerra. Il messaggio emerge chiaramente dal racconto della storia di Fredolin, un bambino che si troverà al centro di una ribellione destinata a cambiare non solo il suo destino ma anche quello dell’intera Nazione. Sarà aiutato da Jella Lepman, la Consigliera per gli Affari delle donne e dei giovani che (nonostante il nome poco propizio) riuscirà a salvare le menti dei ragazzi di un territorio devastato dalla guerra, grazie ai libri. La narrazione avviene su due piani: non solo perché al racconto di Fredolin si alternano le lettere della Consigliera, ma anche perché la fantasia si mescola alla realtà. Jella Lepman è infatti realmente esistita: personaggio di spicco che grazie alla cultura è riuscita a risollevare la vita dei bambini nella Germania post-bellica. Era convinta, infatti, che bisognasse ricominciare dai più piccoli per “rimettere il mondo sottosopra”. Questo libro testimonia il suo coraggio e si unisce alla sua missione.

 

Gli esseri umani vivono assediati da giganti selvaggi: vi ricorda qualcosa?

Quando un prodotto di intrattenimento conquista un pubblico trasversale in tutto il mondo, ci sono solo due possibilità: o è un capolavoro, o ha intercettato lo spirito del tempo. L’attacco dei giganti è un classico seinen, cioè un manga di azione per un pubblico adolescente, di quelli dove i protagonisti fanno acrobazie, usano armi ingegnose e sventrano i nemici. Il tratto di Hajime Isayama, che ha iniziato la serie nel 2009 a 23 anni, è rapido e nervoso, si concede solo i dettagli necessari. Eppure L’attacco dei giganti è diventato un fenomeno culturale dal Giappone agli Usa all’Europa, c’è una serie animata su Netflix e, ora, Planet Manga ristampa tutto il fumetto in un’edizione che, coerentemente col tema, è “colossal”: grande formato e 576 pagine. La spiegazione di questo successo sta nel concept che, nel 2009, non sembrava così attuale ma lo è diventato: tutta l’umanità vive rinchiusa in cittadelle fortificate dopo l’apparizione di giganti voraci di carne umana. Nessuno osa più avventurarsi all’esterno, soltanto pattuglie che vengono regolarmente sterminate. La maggior parte della popolazione vive serena comunque, felice di rinunciare alla propria libertà in cambio della sopravvivenza. Soltanto i più giovani sono inquieti, disposti perfino a rischiare pur di scoprire cosa c’è fuori da quelle mura che limitano il loro orizzonte. Se gli zombie hanno rappresentato il consumismo degli anni Sessanta (nei film di George Romero) e poi il suo opposto, il mito del buon selvaggio nei fumetti di Robert Kirkman (The Walking Dead), i giganti sono i barbari, gli stranieri alle porte delle nostre società arroccate. L’unica possibilità di vittoria, si scopre nel fumetto, è quello che i nazionalisti di ogni risma chiamano con disprezzo “meticciato”.

 

 

Così Szeemann creò le mostre tematiche

Il Castello di Rivoli dedica una mostra, Museum of obsessions (in collaborazione con il Getty Institute), a Harald Szeemann, grande figura di critico, curatore, intellettuale contemporaneo, direttore della Biennale di Venezia nelle edizioni del 1999 e del 2001.

È nato nel 1933 a Berna dove, dal ’61 al ’69, è direttore della Kunsthalle: il più giovane al mondo. Poi a Documenta di Kassel, di cui cura nel ’72 la mitica V edizione; tra i primi a trasformarsi in curatore indipendente, figura di cui ha costituito il modello. Si definiva inventore di fenomeni culturali al di fuori di schemi precostituiti. Progettava mostre incisive e suggestive: Happening & Fluxus, 1970; Le Macchine Celibi, 1975; Monte Verità, 1978. Si potrebbe indicare in lui l’inventore della mostra a tema, sempre con un acuminato taglio interdisciplinare. Esemplare Le Macchine Celibi, a partire dal Grande Vetro di Marcel Duchamp e da questo mito meccanico rintracciato anche in scrittori come Kafka, Jarry, Roussel.

L’impostazione culturale di Szeemann, straordinariamente vasta ed “europea” rispetto all’ottica della specializzazione americana, coglie il fenomeno in profondità e affronta i più vari aspetti, filosofico, teologico, psicologico… L’aspetto antropologico era fondamentale per Szeemann come dimostra il suo interesse per il fenomeno della comunità spirituale di Monte Verità ad Ascona. Nel ’99 apre il confronto tra generazioni e tra Oriente e Occidente (“Penso sia ora di finirla con il predominio americano”) e Aperto (titolo da lui stesso coniato in passato) si trasforma in dAPERTutto (che ricorda “il nostro Oriente è da per tutto” di Hesse).

“La globalizzazione è esattamente il grande nemico dell’arte” diceva, definendosi un “storico dell’intensità”. Compagno di strada degli artisti degli anni 60 e 70 ha saputo, come pochi, rinnovarsi e comprendere gli artisti dei successivi decenni. “Voi donne siete il futuro” diceva alle cinque italiane, Pivi, Toderi, Esposito, Bonvicini, Lambri, cui la giuria attribuì il Leone d’Oro nel ’99. Alcuni artisti, tra cui Mario Merz, parlarono di When attitudes become form come della mostra più bella della loro vita. Di questa mostra ritroviamo a Rivoli opere dello stesso Merz, Boetti, Bollinger. Documenti, fotografie, scontrini di bagagli, fino alla ricostruzione dell’atelier del nonno parrucchiere… Carolyn Christov-Bakargiev accosta Szeemann a un altro visionario archivista, Armand Schultess, l’eremita che aveva trasformato il bosco in cui viveva in enciclopedia, “creazione di un mondo temporaneo”, proprio come le mostre di Szeemann.