Un serial killer che legge Blake nella Swinging London dei ’60

Colin Wilson è morto un lustro fa. Divenne famoso più di sessant’anni fa, nel 1956, con The Ousider, saggio con cui entrò nella testa di irregolari di genio, da Nietzsche a Van Gogh, da Eliot a Camus e a tanti altri. Un’opera anti-borghese, contro il Sistema, e che rispunta prepotente in La gabbia di vetro, scritto dieci anni dopo The Outsider. Stavolta Wilson studia la mente di un serial killer e parte da un’immagine cupamente bucolica. Quella di Damon Reade, giovane ma già considerato il più grande esperto inglese di William Blake, poeta con l’ossessione della Bibbia e una decisa inclinazione per il misticismo.

Reade vive da solo in campagna, nel nord dell’Inghilterra. I suoi vicini di casa, si fa per dire, sono gli “zingari” del villaggio, evitati da tutti, e che prendono pure il sussidio. Razzismo e reddito di cittadinanza, mezzo secolo fa. L’analisi di Reade sulla famiglia dei vicini ha il sapore oggettivo, più che del pregiudizio. Anche perché non c’è persona più tollerante (e solitaria allo stesso tempo) del giovane studioso di Blake: “Queste persone non hanno valori. La vita non ha significato per loro. Ritirano il loro sussidio ogni settimana – credo che adesso sia lo Stato stesso a provvedervi – e poi non fanno nulla per gli altri sei giorni che passano prima del nuovo assegno”. Tra letto e divano. Non ditelo a Di Maio. Un giorno, da Reade, si presenta un poliziotto. A Londra, c’è un serial killer che semina cadaveri scrivendo citazioni di Blake. E così lo studioso si trasferisce nella Capitale per indagare sul valore “mentale” di questi omicidi. E capire, soprattutto, perché uno che legge Blake si mette ad ammazzare ferocemente, nella Swinging London degli anni Sessanta.

 

Avati, “signor diavolo” anche della scrittura

“Stavamo entrando in un’Italia dove tutto ricominciava da capo. Tutto era nuovo e possibile”. Un foglio bianco sul quale scrivere, finalmente, una pagina nuova. Liberi? Dipende. Se tutto è possibile, tutto può succedere. Anche ciò che non deve.

Ed è qui che la libertà comincia a temere per la propria incolumità.

1952. Roma. Alle Politiche del ’48, la Democrazia Cristiana ha fatto il pieno: 48%. De Gasperi guida il settimo dei suoi otto governi. Il Veneto, poi, è “bianchissimo”: 70% Dc. Voti preziosissimi, da difendere a qualunque costo. Verità inclusa. A Venezia, però, succede qualcosa che toglie il sonno a Roma. Basta un niente a compromettere il tutto. E, così, il sottosegretario alla Giustizia convoca un giovane ispettore. Caso delicatissimo. “Pare si tratti di un minore che ha soppresso un suo coetaneo, convinto di uccidere il diavolo”. La vittima – ecco il problema – è il figlio di una famiglia potente, ieri convinta sostenitrice, oggi acerrima nemica. La missione? Evitare che “si addossi alla Chiesa la responsabilità di aver plagiato l’assassino”. La Dc rischia il suo feudo più importante. Lui, la testa.

La sera della partenza, un’enorme pozzanghera d’acqua marcia gli taglia la strada. “Dall’altra parte c’è la mia morte”, presagisce l’uomo. Ma il dado è tratto: deve attraversare. Lo farà come si attraversa l’Acheronte, però, non il Rubicone, scosso dal presentimento che quell’indagine avrà a che fare con la sua fine.

Pupi Avati – maestro di immagini e, evidentemente, di parole – ci precipita così in un noir-gotico che avvolge e trascina come un maelstrom. E non lascia scampo. Ogni sguardo, ogni gesto, ogni parola, ogni silenzio e persino ogni luogo inquieta e genera malessere. Interiore. Profondo. Inquieta l’orrore della catena di delitti. Del primo, soprattutto. Un bambino ha sbranato la sorellina appena nata. Emilio – il bambino – è un essere deforme e mentalmente compromesso. “Unghie lunghe piegate in dentro come uncini e in bocca due file di denti come le bestiacce feroci”. A Lio Piccolo – l’angolo di laguna dove la famiglia l’ha esiliato – dicono sia figlio del diavolo. Del “signor diavolo”, come insegna l’indecifrabile sagrestano: “Le persone cattive bisogna trattarle bene”. Inquieta la vendetta. Un altro bambino – Carlo – ucciderà “il diavolo”, ormai adolescente, con un colpo di fionda. Inquieta la rappresaglia: il padre di Carlo verrà trovato cadavere, sfigurato. “La faccia del babbo non c’era più”, dirà il bambino al Giudice. Più di tutto, però, inquieta l’ambiente: una campagna arcaica, infida e spettrale, nella quale la modernità non è mai entrata né entrerà mai. Quel posto le fa paura. Un mondo così intriso di superstizione, follia, promiscuità e omertà, che il bene – ammesso che esista – si mischia al male, come fiume e mare a una foce. Impossibile dire quale sia l’uno e quale l’altro.

Inquietano una fede mai stata tale, il cinismo di politica e Chiesa, meschinità e inanità del giovane ispettore. La bellezza? Appare solo una volta, all’inizio. Un lampo che squarcia le tenebre. Ma non è che uno “spiraglio, un pertugio, attraverso il quale spiare cosa il mondo avrebbe potuto essere e non è”.

 

Che “Mistero buffo” tutto al femminile: Lucia Vasini recita Franca Rame

Quando Mistero Buffo andò in scena per la prima volta, nel 1969, venne definito uno spettacolo rivoluzionario. L’opera di Dario Fo, infatti, attingeva dalla tradizione giullaresca medievale, rimodernandola. Il successo fu dovuto anche all’interpretazione di Franca Rame e alla chiave divertente con la quale Fo lanciava il suo messaggio di giustizia. In questo spettacolo, infatti, il riso diventa lo strumento attraverso cui raccontare e impreziosire la cultura degli oppressi e dei più deboli: perché la comicità è una cosa seria.

Oggi lo spettacolo torna dal pubblico: sarà in scena con la regia di Emilio Russo fino al 17 Marzo al Teatro Tieffe di Milano. Con una novità: un taglio femminile al testo, grazie alla selezione di monologhi come La Nascita di Eva o Maria alla Croce, ma anche per merito dell’interpretazione della grande Lucia Vasini.

Ma Mistero buffo mantiene tutt’oggi la sua portata rivoluzionaria? “Sì – risponde l’attrice –, perché va contro la concezione elitaria della cultura, spesso vista come esclusivo appannaggio della classe dominante. Inoltre, ci ricorda quanto sia importante conservare le nostre bellissime tradizioni”. Vasini si è definita “sempre alla ricerca dei suoi confini”: anche questo spettacolo deve averla messa alla prova… “Ho dovuto lavorare molto, perché ero alle prese con testi veramente di livello. Aver conosciuto personalmente Dario Fo e Franca Rame, però, mi ha aiutato: mi hanno influenzato tantissimo”.

Lo spettacolo potrebbe esser definito “femminista”, anche se il femminismo di oggi è poliedrico, non sempre focalizzato sulle questioni più urgenti per le nuove generazioni. “Bisogna affrontare la questione della disparità salariale e occuparsi di più della violenza sulle donne, fenomeno molto grave e preoccupante”, conclude Vasini. “Tuttavia, bisognerebbe avere un atteggiamento più morbido verso gli uomini. I due sessi non devono combattersi, ma capirsi, valorizzando le proprie inevitabili e preziose differenze”.

 

L’orgoglio di Napoli è Shakespeare

Per essere classico è classico: non solo della drammaturgia (contemporanea) napoletana, ma anche dell’orgoglio (contemporaneo?) napoletano, derogando al monito del maestro La Capria, per cui “sarebbe meglio parlare di letteratura e basta”, non di “letteratura napoletana”.

Ma la geografia, o meglio la radice, conta assai in questo Shakespea Re di Napoli, scritto e diretto da Ruggero Cappuccio nel 1994, edito giustappunto da Einaudi nella collana Classici e da allora – 25 lunghi anni – in replica in tutta Italia (in questi giorni è a Roma, ma il tour, ancora in via di definizione, proseguirà indefessamente).

Composta in endecasillabi e settenari, in napoletano barocco – basiliano, verrebbe da dire – e inglese shakespeariano, la pièce è un felicissimo impasto musicale prima ancora che narrativo: non tutto, infatti, suona comprensibile all’orecchio del forestiero, ma, come sostiene lo stesso autore, “il conflitto e confronto del teatro elisabettiano con le forme espressive della Napoli barocca sono i presupposti per l’invenzione di una sinfonia del dire”. Il capire viene dopo.

Quanto alla trama, siamo a inizio Seicento e Desiderio, sciagurato guitto, torna in città dopo vent’anni e un picaresco tour in Inghilterra. All’amico ed ex sodale di palco Zoroastro racconta di aver vissuto a Londra e di aver conquistato la fama recitando all’ombra del Bardo, come interprete – nientemeno – dei personaggi femminili delle sue opere.

A dar corpo alla lingua, e all’immaginario, di Cappuccio sono gli intensi Claudio Di Palma e Ciro Damiano, nei panni rispettivamente del teatrante e dell’alchimista: entrambi, insomma, maestri nell’arte di confezionare “belle bugie” o, come direbbe un altro, “il contenuto di verità della menzogna”. Tutto si tiene, sapientemente concertato: è la notte di Carnevale; un quadro misterioso sta per entrare a palazzo reale; i Sonetti di Shakespeare riappaiono in un baule su fogli maceri e inzuppati d’acqua; l’amore è nell’aria; la peste incombe, l’apocalisse pure; le maschere ridono, la morte pure.

In scena va la tempesta perfetta, ma la Tempesta, naufragio compreso, non è certo l’unica suggestione/citazione shakespeariana; anzi, ci scappa anche qualche sospetto sulla sua misteriosa identità, orientamento sessuale incluso. Questa storia vuole infatti che il drammaturgo scenda a Napoli, travestendosi da viceré, per attività di scouting: è alla ricerca, cioè, di un grazioso e talentuoso giovinetto in grado di interpretare le sue tante eroine. Altro che Verona, Venezia o Milano: Shakespeare sa bene che solo “la gente di ‘sto mundo mescola teatro nel sangue”. Il rischio, però, è che “‘sto mundo” – Napoli –, giustamente orgoglioso, faccia del suo pride un prejudice.

 

“Sos fantasmi” dai De Sica, Christian e Brando

Chissà SE Danny Boyle ha mai visto Non ci resta che piangere, in cui Massimo Troisi si ritrovava catapultato con Roberto Benigni nel Medioevo e per conquistare l’angelicata e ignara Amanda Sandrelli iniziava a cantarle alcune strofe di Yesterday dei Beatles fingendo di esserne l’autore… Il regista inglese di The Millionaire e Trainspotting sta appunto ultimando il montaggio del suo Yesterday, un film musicale sceneggiato dal re della commedia inglese Richard Curtis, in cui il giovane e sfortunato cantautore Jack (Himesh Patel), dopo un misterioso blackout planetario, si ritrova in una dimensione parallela in cui scopre di essere l’unica persona a ricordare tutte le canzoni della band di Liverpool, rimossa dai ricordi dell’intera umanità: diventerà celebre spacciandole per sue.

Dopo gli ottimi incassi di Amici come prima Christian De Sica a maggio tornerà a dirigere con suo figlio Brando un film brillante per la Indiana Production di cui sarà anche protagonista. S.O.S Fantasmi a Napoli vedrà sul set l’attore/regista romano, Carlo Buccirosso e Gianmarco Tognazzi nei panni di tre investigatori del paranormale, in una sorta di horror comedy tratta da un soggetto di Nicola Guaglianone e Menotti e sceneggiata da De Sica con Luigi Di Capua e Andrea Bassi.

Fausto Brizzi girerà a Torino dal 7 marzo la sua seconda commedia per Casanova Produzioni dopo Modalità aereo: si chiamerà Se mi vuoi bene e sarà interpretata da Claudio Bisio, Sergio Rubini, Lucia Ocone, Dino Abbrescia, Gianmarco Tognazzi, Nancy Brilli, Memo Remigi e Flavio Insinna. Brizzi dirigerà anche a fine anno la storia della reunion di un gruppo musicale vintage che si ritroverà a progettare un furto in Russia: probabili interpreti, De Sica, Vincenzo Salemme e Claudia Gerini.

 

Il “Nome” è uguale. Manca la magia della vera “Rosa”

Federico Pontiggia

“La scienza e la sua negazione, la struttura di potere, a quei tempi la chiesa, e la politica, il celibato dei preti e la repressione delle donne, tutti i temi del romanzo sono attuali. Ma di Guglielmo da Baskerville a me interessava sopra tutto il processo mentale, ovvero la conoscenza come protezione dal potere: è qualcosa che condivido con lui”. Così John Turturro, cui tocca l’ingombrante eredità di Sean Connery (1986, regia di Jean-Jacques Annaud) nella seconda trasposizione del celeberrimo libro (Bompiani, 1980) di Umberto Eco, stavolta seriale: quattro capitoli per altrettante serate in prima visione su Rai Uno, a partire da lunedì 4 marzo alle ore 21.25, per la regia di Giacomo Battiato, anche sceneggiatore con il prioritario Andrea Porporati, Nigel Williams e lo stesso Turturro.

Che nel saio del monaco francescano si dice “non interessato al potere, al contrario, a usare il sapere per migliorare la razza umana agendo contro la violenza”: “Allora Salvini è spacciato…”, bisbiglia un cronista, e l’attore newyorchese che proprio ieri ha compiuto 62 anni raccoglie: “Sì, ma è uno dei tanti”. Prodotta da 11 Marzo e Palomar in collaborazione con Rai Fiction, Il nome della rosa vanta Rupert Everett per il domenicano Bernardo Gui, il giovanissimo tedesco Damian Hardung per Adso, e ancora Michael Emerson (l’abate), Fabrizio Bentivoglio (Remigio da Varagine), Stefano Fresi (Salvatore), mentre ad Alessio Boni e Greta Scarano tocca incarnare l’eretico Dolcino e congiunti. Non sono quest’ultimi personaggi del romanzo – Dolcino è solo evocato – e l’inserimento più che in quella eretica va ascritto in quota rosa e/o #metoo: nella prima puntata, almeno, non sembra una grande trovata. Perplessità anche per la liaison tra Adso e l’occitana, la sensazione è che la serie funzioni laddove cerchi il più possibile di rimanere fedele – premura esplicita di Turturro – alla lettera di Eco: il resto lo fanno gli attori, nel bene e nel male, sicché se il faccia a faccia “apocalittico” tra Guglielmo e l’Alinardo di Roberto Herlitzka è il vertice alto lodevoli sono anche Emerson e l’irriconoscibile, e animalesco, Fresi.

Girata principalmente a Cinecittà, la serie si fa di gran lunga preferire laddove è stata filmata in location, da Bevagna a Perugia: le esigenze della macchina produttiva (200-300 persone) addotte da Battiato spiegano, ma non giustificano. L’abbazia ricostruita nel backlot di Cinecittà e magicamente sospesa tra le montagne innevate è forse più consona a mitologie tolkeniane o lewisiane, la fotografia di John Conroy ipersatura bisticcia con le sfumature dell’abduzione di Baskerville, e l’accesa paletta dei colori, che pure Battiato ricollega a Giotto e Lorenzetti, sembra più rispondere a esigenze giovanilistiche, stile filtri Instagram. Per carità, Il nome della rosa è un prodotto solido, concorrenziale, ossia internazionale (BBC l’ha acquistato per il prime time), ma lungi dall’esser perfetto.

 

De Gregori, venti serate dal vivo “scritte sull’acqua: qui non si registra”

Sul palco troneggia un vecchio Revox. Ogni tanto si ferma, ma è solo un’allusione. “Nessuno di questi concerti qui al Teatro Garbatella verrà registrato, saranno scritti sull’acqua”, spiega De Gregori. “Il disco lo faremo in studio con l’orchestra, dopo il tour estivo insieme agli Gnu Quartet”. Questa residency marzolina di 20 serate (ieri la prima) nei luoghi di culto dei Cesaroni e di Moretti è invece un “hellzapoppin dove capiterà di vedere qualcuno che attraversa la scena per spostare una pianta così come qualche amico che verrà a trovarmi, primo fra tutti mio fratello Luigi Grechi”. La certezza è la band country-blues che da tempo accompagna Francesco, alle prese con un repertorio di 64 pezzi da cui attingere per costruire volta per volta una scaletta dove accanto ai classiconi (“Non è detto che farò d’obbligo La donna cannone, anzi”), ci sarà posto per canzoni meno note. Alla prova generale ha trovato posto Ma che razza de città scritta nel ’73 da Gianni Nebbiosi. Una Roma dolente e feroce, che De Gregori richiama anche in A Pa’ o San Lorenzo, Pasolini e le bombe del ’43. Sembra tutto casuale, nella costruzione del set del “Principe”, ma da Titanic in giù, ti accorgi che in questa tana da 230 spettatori sta sperimentando una forma di “concerto civile” zeppo di domande e contrasti, dove la musica ritrova il ruolo di volano di suggestioni, ben più potente delle “canzoni-noccioline” (così le chiama lui). “Oggi le major vogliono solo greatest hits, se io avessi dieci canzoni nuove non le metterei in un album, le suonerei qui, e chiederei di non filmarle. Spegnete tutto. Alla Garbatella siamo Off the record”.

Re Giorgio (de Chirico). 90 anni d’arte, tra metafisica e i suoi benedetti mal di testa

Se esiste uno stereotipo sull’essenza di un artista (e c’è), Giorgio de Chirico non ne è né fautore né interprete, ma perfetta incarnazione. Volubile, narciso, autoreferenziale, quindi accentratore, imprevedibile, per alcuni folle, per altri semplicemente geniale, per altri ancora viziato dall’aura emicranica; De Chirico è e resta uno dei pochi artisti italiani in grado di imporsi a livello internazionale, di influenzare un’importante corrente (il Surrealismo), di dare del tu ai grandi pittori del primo Novecento, quando l’arte era realmente diffusa e popolare, e di sopravvivere post mortem al becero mercato (quanti falsi a sua firma) e alla bagarre museale. Lui è nel pantheon, quando la maggior parte degli artisti nostrani sono rimasti splendide promesse.

Così non c’è troppo da stupirsi, solo da lodare, se la sua ricerca pittorica, estesa per quasi tutta la sua lunga vita (1888-1978), è stata raccolta dentro quattro sterminati volumi (Giorgio de Chirico. Catalogo generale dell’opera, edito da Maretti Editore) in cui è possibile tracciare un percorso artistico e sociale, fissare punti, riflettere su chi è stato e in quale contesto, e anche difendere un patrimonio un po’ troppo attaccato, fino a renderlo inflazionato.

Giorgio de Chirico non è solo il pittore della Piazza d’Italia (quante ne ha dipinte…), non è solo l’uomo ad aver cambiato la percezione visiva del Rinascimento; non è solo il comunicatore in grado di intuire prima degli altri la potenzialità del linguaggio oltre la tela. Scrive così nel marzo del 1918: “La nostra penisola offre, più di ogni altro paese, risorse per le scoperte metafisiche dei nuovi artefici. Una di tali risorse, e non la minore, è la fatalità della costruzione e della disposizione architettonica delle sue città. I primi a notarlo e a parlarne con chiaroveggenza furono due filosofi-poeti: Arturo Schopenhauer e Federico Nietzsche. In pittura tale mistero fu palesato solo da me”. E ancora: “Ho la gioia serena e la fierezza di pensare che infatti fui io il primo a sfruttare l’occultismo solido della nostra architettura (…). In Italia ancora pochi lo sanno, ma verrà un giorno in cui i bipedi che calcano lo stivale saranno grati a me per avere io per primo, in terra straniera, raffigurato sulla tela il mistero solenne delle nostre città”. Qui De Chirico doveva ancora compiere trent’anni. Eppure l’idea era tracciata, era già il “grande metafisico” in grado di dipingere ciò che “non si vede”, capace di far sua la grande intuizione di Charles Baudelaire: “Tutti i veri disegnatori dipingono dall’immagine scritta nel loro cervello e non dalla natura”, con un surreale però: in qualche modo è stato “aiutato” dalla natura. Lui credeva di vedere il futuro, di poter ricevere rivelazioni, aveva derubricato certi sintomi a chiare manifestazioni di una mente superiore (cosa crea l’ego). Si riteneva chiaroveggente. Invece era affetto da aura emicranica. E a causa della malattia subiva allucinazioni, poi proiettate sulle superfici attraverso gli oggetti reali. Che allungava. Distorceva. Inseriva in contesti diventati metafisici. Tanto da influenzare artisti come Magritte prima (“Si è servito di evidenti suggestioni dechirichiane come le sfere, i cavalletti, la presenza di certe ombre”, scrive Lorenzo Canova), quanto anni dopo la Pop Art e la capacità di collegare l’opera al cinema e alla pubblicità.

Giorgio de Chirico è stato uno dei primi a utilizzare la personalità al servigio dell’arte, i suoi (numerosi) autoritratti sono una delle tante espressioni; è stato uno dei primi a comprendere le potenzialità della comunicazione moderna, a giocarci, anche a rischio di inflazionare una ricerca artistica superiore all’apparenza.

 

Serraj e Haftar, intesa su nuove elezioni

Un altro piccolo passo di dialogo in Libia. Ieri il leader del governo di unità nazionale libica, Fayez Al-Serraj, e il generale libico, Khalifa Haftar, si sono incontrati ad Abu Dhabi negli Emirati Arabi Uniti alla presenza del rappresentante speciale dell’Onu sulla Libia, Ghassan Salamè che ha ospitato l’incontro. I due si sono detti d’accordo “sulla necessità di concludere questa fase di transizione attraverso elezioni generali e sui modi per preservare la stabilità della Libia”.

Qualcosa in più dei vari convenevoli siglati finora e qualche elemento più concreto sulla strada indicata alla Conferenza che si è tenuta lo scorso dicembre a Palermo su iniziativa del governo italiano. Sulla base di fonti riferite dall’Adn Kronos e poi confermate dal premier italiano Giuseppe Conte, l’incontro tra i leader dei due governi che si contendono la leadership della Libia prevede un percorso verso un Consiglio presidenziale composto tra tre membri – attualmente sono cinque – ciascuno dei quali rappresenterebbe una regione della Libia (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan) e un comando delle Forze armate collegiale, di 6/8 componenti, sottoposto al potere civile, del quale farebbe parte lo stesso generale Haftar. Non è chiaro se questa soluzione sia finalizzata alla fase transitoria in attesa della formazione di un nuovo potere civile, in seguito a nuove elezioni, oppure l’assetto conclusivo da dare alla stabilizzazione della Libia. Certamente l’avanzata di Haftar nel sud della Libia, nel Fezzan, e il controllo del giacimento di petrolio di Sharara, il più grande del paese che proprio ad Abu Dhabi è stato oggetto di un’intesa tra il presidente della National Oil Company, Mustafa Sanalla, lo stesso Serraj e Haftar, dovrebbero aver creato le condizioni favorevoli all’incontro e all’eventuale intesa. Spazzando via le voci che nei giorni scorsi prefiguravano una regia francese dietro i tentativi di pace con un vertice che si sarebbe svolto direttamente a Parigi. E invece si è svolto in territorio pienamente neutrale come gli Emirati Arabi.

Si dice soddisfatto il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte: “Abbiamo lavorato tanto per questo accordo. A Palermo siamo riusciti a metterli nella stessa stanza e abbiamo parlato a lungo”. Conte allo stesso tempo invita alla prudenza: “Tecnicamente l’accordo funziona, però la situazione è tale che bisognerà che venga accettato da tutti gli attori”.

Per l’Italia questo resta un punto centrale. Nel risiko libico la presenza e il modo in cui si comporteranno gli altri soggetti non è indifferente. Ci sono le truppe di Misurata che fanno capo al nuovo ministro dell’Interno del governo riconosciuto dall’Onu, ossia Fathi Bashaga, ma anche al vice di Serraj, Ahmed Maetig. E sempre a Tripoli c’è il presidente del Consiglio di Stato, Khaled al-Meshri, presidente del Consiglio di Stato, mentre a Tobruk l’altro attore fondamentale è Aguila Saleh, presidente del Parlamento. Quando Conte parla di tutti gli altri attori pensa a tutte queste forze il cui equilibrio è decisivo per giungere a una pace duratura. Non a caso ieri Ali Bashagha era a Roma dove ha incontrato il ministro dell’Interno Matteo Salvini: “Non possono esserci forzature o ingerenze straniere sulla data delle prossime elezioni in Libia”, ha ribadito questi.

“Niente di fatto” tra Kim e Donald che ha i suoi guai

Ventiquattro ore nel segno della legge di Murphy, per Donald Trump, di qua e di là dal Pacifico: quel che può andare male va peggio. Non ci fosse l’economia a tenergli su il morale, il magnate presidente tornerebbe a casa da Hanoi con le pive, e le tv, nel sacco: Kim non gli bada (e lui lo pianta in asso, nel bel mezzo d’un vertice già “storico” per le retoriche di regime); e Cohen lo concia per le feste. Ma poi s’apprende che gli Stati Uniti nel IV trimestre 2018 sono cresciuti del 2,6%, oltre l’attesa del 2,2%, dopo il 3,4% del III trimestre. A questo punto, la crescita annua 2018 dovrebbe attestarsi tra il 2,9 e il 3,1%, un record dal 2015, un ritmo da rielezione per qualsiasi presidente.

Che giri male, economia a parte, Trump lo ammette: “Avere un’audizione così falsa nel bel mezzo d’un vertice così importante è stata una cosa davvero terribile”. Tanto più che l’audizione del suo ex avvocato Michael Cohen è un successo mediatico; mentre il Vertice con il leader nord-coreano Kim Jong-un è un fiasco.

Largamente prevedibile, si scopre a cose fatte. Perché a questi incontri o ci si arriva che tutto è già scritto, magari meno l’ultima parola; oppure, è inutile andarci, perché mica ci si mette a negoziare sul serio tra una photo opportunity e una cena sociale all’Hotel Metropole – un retaggio coloniale –. Così, Trump rientra a Washington che la Corea del Nord è ben decisa a restare una potenza nucleare – altro che denuclearizzazione della penisola –, con tanto di missili in grado di recapitare le ogive a destinazione su Corea del Sud, Giappone, buona parte degli Stati Uniti. Il presidente trova una capitale ancora sotto l’effetto della fluviale audizione di Cohen al Congresso: tre giorni e tre diverse Commissioni, un’attenzione mediatica quasi ossessiva, poco contraddittorio, nonostante i repubblicani cerchino di screditare il teste per tutto il tempo (impresa non difficile). Trump sciorina il suo vittimismo: “Con un altro presidente non sarebbe successo. Avrebbero fissato le audizioni in un diverso momento”. L’ex legale personale dell’uomo più potente al Mondo appare livido di rancore e non suscita fiducia e tanto meno simpatia. Ma il magnate non ne esce certo bene: più lui e la Casa Bianca screditano Cohen, più ci si chiede come Trump abbia potuto tenersi accanto per 12 anni come suo avvocato, e pure confidente, uno che mente “al 100%, anzi al 95%”. Perché, ovviamente, l’unica cosa che dice a suo favore è vera: l’assenza di collusioni tra il magnate e la mafia russa. Cohen sostiene di essere stato l’oggetto di un incantesimo di Trump, che lo induceva a fare cose “che sapevo essere totalmente sbagliate”: gli avrebbe chiesto “almeno 500 volte” di minacciare delle persone e lui lo fece; e quando lui mentì al Congresso, in una sua precedente audizione, disse quello che volevano gli avvocati del magnate. Quanto ai rapporti tra Trump e il presidente russo Vladimir Putin, “non voglio parlare di collusione, ma c’è qualcosa di strano nelle loro interazioni”.

Ad Hanoi, la rottura con Kim si consuma al mattino, quando diventa chiaro che l’accordo non c’è: né sulla denuclearizzazione, né su una dichiarazione di pace che – oltre 65 anni dopo la fine delle ostilità – chiuda finalmente la Guerra di Corea, né sullo smantellamento delle sanzioni contro il Nord. In conferenza stampa, Trump sostiene che Kim era pronto a rinunciare parzialmente al suo programma nucleare, ma voleva in cambio che le sanzioni fossero revocate; e assicura che Pyongyang non farà più test nucleari. Delusi, ma non troppo, gli alleati, in primis Seul: meglio lo status quo che un’intesa precipitata. L’impressione è che Trump sia rimasto scottato e abbia capito che riporre nel leader nord-coreano le sue speranze di Nobel per la Pace è stato un errore: di un terzo vertice con Kim, dopo Singapore e Hanoi, non si parlerà tanto presto.