Favoreggiamento, omissione d’atti d’ufficio e falso. Sono questi i reati che potrebbero essere ipotizzati dalla Procura di Genova quando riceverà gli atti dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte del capo comunicazione di Mps, David Rossi, avvenuta nel marzo 2013 a Siena. Pierantonio Zanettin, presidente della commissione, aveva annunciato l’invio degli atti ai magistrati genovesi, competenti a indagare sui magistrati del distretto toscano, dopo l’audizione del colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco, comandante provinciale di Siena, quando Rossi “cadde” dalla finestra del suo ufficio in circostanze mai del tutto chiarite. Aglieco ha riferito del sopralluogo fatto nell’ufficio di Rossi poco dopo la morte del manager, insieme agli inquirenti. Dal resoconto, per i commissari, sarebbe emerso un grave inquinamento probatorio: dal rovesciamento del cestino sulla scrivania alla chiusura della finestra da cui precipitò Rossi, fino agli effetti personali toccati o la risposta del pm Antonino Nastasi al telefono del manager.
Rimborsopoli, 1 anno e 7 mesi a Cota e Montaruli
Un anno e sette mesi di reclusione per l’ex governatore leghista del Piemonte Roberto Cota, stessa pena decisa per la parlamentare di FdI Augusta Montaruli. È questa la sentenza della Corte d’Appello di Torino riguardo allo scandalo “rimborsopoli” degli ex consiglieri regionali del Piemonte.
L’accusa riguarda alcune spese improprie di fondi destinati al funzionamento dei gruppi del Consiglio regionale. La Corte ha anche condannato a un 1 anno e 5 mesi il parlamentare della Lega e sindaco di Borgosesia, Paolo Tiramani. La pena più alta è stata invece inflitta all’ex consigliere piemontese Angelo Burzi, condannato a 3 anni. “Siamo convinti che le questioni siano fondamentalmente di carattere giuridico sulle quali riteniamo di aver ragione – hanno commentato i legali di Cota e Montaruli, ovvero gli avvocati Guido Alleva e Domenico Aiello –. Leggeremo con attenzione le motivazioni della sentenza e riproporremo le nostre ragioni alla suprema Corte di Cassazione convinti che ci darà ragione”.
La Cassazione si allinea al Consiglio di Stato: annullata la nomina di Prestipino a Roma
La Cassazione mette la parola fine ai ricorsi di Michele Prestipino contro l’annullamento della sua nomina a procuratore di Roma da parte del Consiglio di Stato. Al suo posto arriverà Franco Lo Voi, procuratore di Palermo. Il ricorso di Prestipino è stato respinto poiché il Consiglio di Stato “non ha travalicato il confine della propria giurisdizione”.
Le Sezioni unite civili della Suprema Corte sono state investite del caso proprio perché secondo Prestipino il Cds, accogliendo il ricorso del Pg di Firenze Marcello Viola contro la sua nomina, aveva sconfinato nel campo della discrezionalità, che appartiene al Csm. Invece, secondo la Cassazione, “va escluso – si legge nelle motivazioni – che il Consiglio di Stato abbia esorbitato dai limiti posti al proprio giudizio”. Al contrario, ha rilevato “la manifesta irrazionalità” della nomina a procuratore di Roma di Prestipino (unico aggiunto e non procuratore a concorrere) e, quindi, “la palese illegittimità dei criteri di scelta adottati dal Csm”, in base al Testo Unico sulla dirigenza giudiziaria. La nomina di Prestipino risale al plenum del Csm del marzo 2020, dopo un secondo voto della proponente Quinta commissione che aveva azzerato quello favorevole a Viola del 23 maggio 2019, in seguito allo scandalo nomine (il caso Palamara). La Commissione escluse Viola dalla corsa, pur essendo estraneo alle “trame” di Luca Palamara, perché il preferito dei convitati all’hotel Champagne di Roma, che volevano pilotare la nomina.
Il magistrato che ha vinto il ricorso, il procuratore palermitano Lo Voi, invece, ha perso al ballottaggio, in plenum, contro Prestipino. Ora avrà la rivincita perché sarà lui, come anticipato dal Fatto, il nuovo procuratore di Roma. Lo Voi ha lavorato a Palermo sia con l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, con il quale è sempre stato in perfetta sintonia, sia con Prestipino. Il Csm, che pure aveva resistito, perdendo, ai ricorsi di Viola e Lo Voi, alla fine ha ottemperato alla decisione di palazzo Spada e la Quinta commissione presieduta da Antonio D’Amato, togato di MI, la stessa corrente di Lo Voi e Viola, ha proposto nelle settimane scorse per Roma il procuratore di Palermo, con 4 voti su 6. Solo il togato Sebastiano Ardita ha votato per Viola, il laico M5S Fulvio Gigliotti si è astenuto. Il plenum dovrebbe essere il 22 dicembre.
Mail Box
Silvio al Quirinale sarebbe irrealistico
Vi chiedo di cancellare la mia firma contro l’elezione di Berlusconi a presidente della Repubblica. Aderire a una petizione del genere significa ritenere realistica una tale eventualità, quando si tratta di una evidente assurdità, e quindi tale da non doversi neanche prendere in considerazione.
Pasquale D’Avolio
Caro Pasquale, non si sa mai…
M. Trav.
Mattarella, come Re Giorgio, può fare il bis
Sono preoccupato dalla “sindrome di Napolitano” di Mattarella. Quella che lo ha portato, durante la crisi del Conte-2, alla nomina di Mario Draghi anziché compiere le due scelte logiche che, da garante della Costituzione, avrebbe dovuto fare: rispedire il governo alle Camere per verificare, effettivamente, se avesse ancora i numeri; e, in caso contrario, indire nuove elezioni. Ecco perché, visto il divisionismo dei partiti e visto il mancato scioglimento della riserva di Draghi per ascendere al Colle (unico candidato ad avere l’unanimità), Mattarella potrebbe rimangiare le promesse di “no al bis” e accettare nuovamente l’incarico: esattamente come il suo predecessore.
Antonello Garofano
Caro Antonello, sicuro che Draghi abbia l’unanimità di tutti i partiti?
M. Trav.
Caos rifiuti a Roma, Gualtieri impreparato
La mancanza di discariche cui inviare i rifiuti romani per il trattamento, dichiarata come problema principale di Roma, è un falso, una bufala creata apposta per giustificare l’inefficienza dell’attuale sindaco, del carrozzone che ha portato con sé e di quello che gli sta dietro. Il tentativo che sta riuscendo pienamente è di scaricare le colpe ai cittadini romani, che giustamente non vogliono una discarica entro la città, e ai cittadini della provincia, che non vogliono una discarica con rifiuti romani nel loro territorio. Il problema vero è che la raccolta “differenziata” non è mai decollata e non la si vuole far decollare. I motivi? 1) I cassonetti (incustoditi) per le strade non sono il mezzo adatto né per la raccolta né per il conferimento, la modalità è ben sostenuta da Ama perché con qualche piccolo contratto di subfornitura si può permettere una facile raccolta con mezzi in cui vi è solo l’autista e in tal modo dichiarare anche un utile, dimostrando una “buona gestione”; 2) L’Ama non rispetta il regolamento del Comune di Roma, che tra le altre cose prevede che adegui la cadenza di raccolta alla bisogna; 3) La cadenza di raccolta, volutamente inadeguata, provoca come conseguenza che la maggior parte della differenziata riciclabile (carta, cartone e plastica), che dovrebbe essere materia prima preziosa, venga trattata come indifferenziata; 4) nessuno controlla il conferimento dei rifiuti che vengono abbandonati di notte attorno ai cassonetti, invece che portarli ai centri di raccolta (anche quelli ingombranti); 5) gli obiettivi aziendali di Ama, e i bonus di fine anno al suo personale, non sono basati sull’efficienza della gestione dei rifiuti ma su parametri, simili a quelli di un’azienda privata; 6) la valutazione della prestazione di Ama, prevista dal contratto di servizio, viene eseguita da quattro persone: due funzionari dell’Ama e due del Comune di Roma. Come conseguenza, il volume dell’indifferenziata aumenta a dismisura, facendo crescere l’esigenza di discariche con sommo piacere di coloro che hanno legato i propri interessi economici alle discariche e al trattamento di questo tipo di rifiuti. Questo andazzo è stato reso evidente anche al nuovo sindaco di Roma, che non si è degnato neanche di rispondere alle segnalazioni, forse perché seriamente obbligato nei confronti di qualche “grande elettore”.
Sebastiano Oriti
Nemmeno il sindacato critica il Santo Draghi
C’è un equivoco che riguarda la polemica sullo sciopero generale convocato dai sindacati e immediatamente definito “irresponsabile” e “ingiustificato” dalla stragrande maggioranza degli opinionisti e dei giornaloni. L’appiattimento nei confronti di Draghi non si limita a quella cerchia, ma ha investito in pieno anche il sindacato. Landini si guarda bene dall’attaccare il metodo Draghi, come sottolineato da Revelli nella sua intervista sul Fatto di domenica. Al contrario non perde occasione, anche lui, per ricordare come il buon Draghi abbia dovuto cedere ai malefici partiti che si sono opposti alle sue generose offerte concordate con il sindacato. Non esiste una critica al Governo dei Migliori: c’è troppa paura di restare fuori dalla narrazione neo-rinascimentale che circonda il governo. Speriamo che da quella piazza emergano nuove piattaforme per la costruzione di un’alternativa valida a questa deriva veramente anti-politica.
Gabriele Gennuso
Colle Rosa. Carlassare e Bindi? Non hanno chance, come Rodotà
Cara Silvia Truzzi, ci risiamo: per la difficile partita del Quirinale mi pare si vogliano ancora una volta utilizzare le donne come le zampe del gatto per togliere le castagne dal fuoco. Forse non dovremmo essere tanto ingenue da gioire a prescindere nel sentire tutto questo “chiacchiericcio” intorno alla possibilità di una donna come Presidente della Repubblica. L’affermazione “basta che sia donna” non mi ha mai convinta del tutto, men che meno ora, dopo aver visto quanta ipocrisia si nasconde dietro questa affermazione. Imperdonabile, ad esempio, l’atteggiamento di molte signore (in politica, nell’informazione, nella cultura) nei confronti di Raggi, Appendino e Azzolina. Avere una donna al Quirinale sarebbe importantissimo, questo è innegabile, ma a quale prezzo? Per avere una “controfigura” come la Casellati, fan sfegatata di Berlusconi, o la Cartabia autrice di una “controriforma” della giustizia, criticata dalla maggior parte dei magistrati? Sarei felice di poter vedere una Carlassare presidente della Repubblica o magari una Bindi (cattolica moderata che alla destra magari appare come una pericolosa comunista), o qualsiasi altra donna veramente meritevole che riesca a rappresentare tutti i cittadini, non solo una parte. Purtroppo vedo ancora troppa ipocrisia in molti di quelli che ora dicono di volere una donna al Colle: un’ipocrisia che riguarda anche noi stesse quando siamo disposte, solo per solidarietà di genere, a passare sopra a certi “peccati politici” che mai perdoneremmo a un uomo.
Enza Ferro
Carissima Enza, sono d’accordo: la questione femminile è usata in modo strumentale anche per la partita del Colle. Non è auspicabile una presidente purchessia, come giustamente lei rileva a proposito di Marta Cartabia o Maria Elisabetta Casellati. Che però non sembrano davvero in partita. Il gioco sarà ancora una volta tra maschi e non certo perché non ci siano ipoteticamente donne meritevoli. Lorenza Carlassare e Rosy Bindi sono, in modi diversi, ottime candidate perché sarebbero davvero garanti della Costituzione (in un momento in cui troppi strappi stanno diventando prassi). È la stessa situazione che si presentò nel 2013 con Stefano Rodotà. Piuttosto che avere un servitore fedele delle istituzioni i partiti rielessero Re Giorgio, sottoponendosi perfino all’umiliazione pubblica delle “sculacciate” in Parlamento.
Silvia Truzzi
“Ferragnez”, nuovi Petrolini seriali
Gli americani hanno Hollywood, gli inglesi hanno Buckingham Palace. Noi abbiamo i Ferragnez. Dimmi che aristocrazia hai, e ti dirò che popolo sei. Quella approdata su Amazon Prime è la prima serie generata materialmente dai social network dell’influencer Chiara Ferragni e dal rapper Fedez: un autentico salto di specie dell’intrattenimento di massa. Non dico un regista-autore, che ormai non se lo fila più nessuno, ma anche gli sceneggiatori cominciano a essere di troppo: basta accendere le telecamere in casa Ferragni e filmare qualunque cosa capiti a tiro, assistenti, domestici, cognati… tutto fa follower, come un lungo post appena sbollentato al montaggio. Il gradimento sarà comunque automatico come insegna il Nerone di Petrolini, a cui basta affacciarsi al balcone (“Bravo!” “Grazie”).
Il filo conduttore de I Ferragnez – La serie è un terapeuta chiamato a indagare sulla coppia più bella del mondo, ma a parte che forse sarebbe più utile indagare sui follower, c’è poco da indagare. Chiara è immune a ogni forma di dubbio, prende tutto alla lettera (se volete sapere cos’è la resilienza, guardate lei); il più malmostoso Fedez prende atto, e trova nel mondo borghese di lei l’approdo naturale. C’era una volta un rap.
Il più sveglio di tutti parrebbe il piccolo Leone; Fedez spende ore e centinaia di euro per truccarsi da Babbo Natale, compreso un sofisticato calco tipo maschera funebre, poi bussa a casa sua con tanto di sacco dei regali sulle spalle. “Ciao sono Babbo Natale” “Ma tu sei il mio papà!”, lo fredda Leone (chapeau. Non era facile riconoscere al volo quel Babbo Natale cavernoso, noi lo avevamo preso per Alessandro Meluzzi).
Per chi ha avuto eroi di gioventù come Holden Caufield o Martin Eden, fa specie che questi due bravi ragazzi abbiano preso il loro posto. Il successo, la fama e il lusso in streaming come promessa di felicità? Sarà. Noi continuiamo a pensarla come il giovane Holden: “Non raccontate mai niente a nessuno, finisce che sentite la mancanza di tutti”.
Disastri sempre annunciati, i colpevoli mai
Adesso non m’interessa sapere che la strage di Ravanusa è la conseguenza del dissesto idrogeologico, delle infrastrutture marce, della manutenzione dei rattoppi. Perché è una solfa che conosciamo a menadito ogni volta che un bubbone di questo nostro butterato Paese esplode. Adesso m’interessa sapere perché tutti i giornali hanno lo stesso titolo: il “disastro annunciato di Ravanusa”. Ma se il disastro era così annunciato, e se i “tecnici”, nel 2014, avevano chiesto “interventi urgenti”, chi sono i responsabili di questo delitto dell’indifferenza, della noncuranza, del menefreghismo, o forse anche peggio?
Delle analisi sul dissesto del suolo, male atavico di un territorio che smotta, frana, cede in perenne, inarrestabile sfasciume, ne abbiamo le tasche piene, tanto non cambia mai nulla. Vorremmo invece sapere se ha ragione il colonnello dei carabinieri, quando dice che cinque giorni prima dello scoppio “erano state fatte delle verifiche sulla condotta della rete di gas metano a Ravanusa senza riscontrare alcuna irregolarità nelle tubazioni”.
O se ha ragione Italgas, quando sostiene che “non vi è evidenza di lavori eseguiti sulla rete stradale, ma unicamente interventi routinari sui contatori domestici o su alcune valvole stradali”. Evidenza, routinari: andrebbero indagati solo per questo burocratese delle pezze d’appoggio, del salvarsi le chiappe, che puzza lontano un miglio di alibi impapocchiato. Proprio, come puzzava l’“odore acre di gas” che fuoriusciva “persino dai water”, e già nove mesi fa. So, sappiamo tutti che tra un paio di giorni, di Giuseppe e di Selene incinta di Samuele resterà soltanto il pianto delle famiglie e il ricordo di chi osserva attonito questo scempio di esseri umani e di umanità. Qualcuno forse ritaglierà il discorso agli studenti del professore di Storia e filosofia, Pietro Carmina, un’altra vittima, l’ultimo giorno prima della pensione: “Vi prego non siate mai indifferenti”.
Bisognerebbe dirlo alla Commissione antimafia che sette anni fa ascoltò i commissari Italgas ammettere che c’erano “grosse criticità nel 76% della rete”. Insomma, un colabrodo ma nessuno fiatò. Ah, la Procura di Agrigento ha aperto un fascicolo, al momento, contro ignoti. Ignoti?
Dignità 2.0. Persino il licenziamento è diventato “smart”: un sms e sei fuori
Nuove tendenze. Va molto di moda il licenziamento smart. Ti chiamano via Zoom, o in teleconferenza, oppure al telefono, oppure whatsapp, sms, tamburi, segnali di fumo e insomma, il cellulare fa plin e sei licenziato al volo. È una cosa moderna e pulita, rapida, ancora abbastanza nuova da conquistare qualche titolo sui giornali. Campione del mondo, il Ceo di Better.com, mister Vishal Garg, che ha licenziato 900 dipendenti in un collegamento via Zoom: “Se siete in questa chiamata, fate parte dello sfortunato gruppo…”. Scena lugubremente fantozziana.
È un caso estremo, ma solo per entità della strage, basta cercare online licenziamenti sms, o licenziamenti whatsapp per farsi una piccola cultura in materia. I titoli, va detto, si fanno via via ogni volta un po’ meno indignati, all’inizio era tutto un “Oh, che scandalo, licenziati via mail!”, e ora la faccenda sembra accettata con più filosofia, ci si abitua, insomma. Ci si chiede perché non affinare nuove tecniche, sperimentare, portarsi avanti col lavoro, forse qualche ufficio studi potrebbe occuparsene. Uno sforzo, su, almeno per vedere il titolo “Sorteggio per i licenziamenti alla Pinco Pallino Laminati Industriali”. E poi si potrà migliorare ancora, fino a “Licenziati a colpi di fionda”, perché no? Un piccolo Squid Game con i suoi eliminati dal mercato del lavoro, venti qui, trentadue là, poi ogni tanto delocalizzazioni importanti (la Gkn di Campi Bisenzio) a colpi di centinaia. Lo studio di avvocati che ha assistito l’azienda per la chiusura e l’esubero di 430 dipendenti si vanta dell’impresa e viene premiato ai Top Legal Awards. È una guerra piuttosto asimmetrica, diciamo. Tra l’altro, mi si consenta l’inciso, non si legge mai “Assunti via sms!”, e in generale la parola “assunzioni” risuona assai meno della parola “licenziamenti”, cosa che andrebbe considerata di una certa stranezza, in un Paese che vanta uno strepitoso aumento del Pil. Chiusa parentesi.
Insomma, si discute un po’ sulle varie scelte etiche nelle modalità di licenziamento dei lavoratori, un dibattito tutto teorico, asettico, tecnico. È meglio la raccomandata? Un sms che dice: “Da domani può stare a casa”? un algoritmo che non ti caga più, con rispetto parlando?
C’è il rischio, almeno sul piano mediatico, che il dibattito finisca per concentrarsi sui modi e non sulla sostanza. Insomma, che la modalità smart del licenziamento (quando ti dicono smart c’è la fregatura, è praticamente sicuro) attiri più attenzione del licenziamento stesso. Eppure c’è anche lì – nei modi, nei tempi, nelle frettolose arroganze aziendali, nelle righe sbrigative di liquidazione ed espulsione – una questione densa e importante, che è alla fine una questione di dignità del lavoro. Non è solo forma, insomma, o meglio si tratta di una forma che è anche sostanza: trattare in generale il lavoro come una variabile dipendente, uno strumento che oggi serve, domani no, e si dosa di conseguenza, con le modalità più funzionali alle aziende: non facciamola tanto lunga, un sms basta e avanza. Tra l’altro, ricacciando molti dei licenziati d’Italia nella morta gora dei lavoretti, del cottimo e delle coop farlocche, dove le modalità di licenziamento smart sono la prassi, dove si lavora a chiamata, a convocazione e tutti i trucchi che si sanno. Non si vede all’orizzonte un’inversione di tendenza e anzi si paventano mattanze in vari settori industriali, quindi sms, whatsapp, riunioni online, comunicazioni estemporanee tipo “Buongiorno, da domani lei non ci serve più”, arrivederci.
Cari 5Stelle, tornate a bordo, cazzo! Sennò scomparirete
Dato che secondo gli antichi “Dio rende ciechi quelli che vuole perdere”, ieri abbiamo assistito a un ulteriore passo, probabilmente definitivo, del Movimento 5 Stelle verso il suicidio. Il merito o la responsabilità, a seconda dei punti di vista, è delle tre componenti pentastellate della Giunta per l’autorizzazione a procedere del Senato. Le tre, quando si è trattato di decidere se dare parere favorevole alla proposta di sollevare un conflitto di attribuzioni davanti alla Consulta contro i sequestri di chat e di email nell’inchiesta sui presunti finanziamenti illeciti a Matteo Renzi (il caso Open), invece che votare no come si sarebbero aspettati tutti i loro residui elettori, hanno deciso di astenersi. E lo stesso hanno fatto sulla richiesta di arresto avanzata dai giudici di Napoli nei confronti del senatore di Forza Italia, Luigi Cesaro, accusato di concorso esterno in associazione camorristica.
Per quanto ci riguarda troviamo inutile entrare nel merito delle argomentazioni avanzate per giustificare le scelte: sostenere come fanno i 5Stelle e il Pd (anch’esso astenuto) che la Giunta, a maggioranza centrodestra e Italia Viva, si è rifiutata di acquisire ulteriori atti indispensabili per la decisione su Renzi, potrebbe persino essere tecnicamente corretto. Oppure potrebbe avere ragione l’ex presidente del Senato Piero Grasso che, prima di votare no al conflitto, ha spiegato che secondo le norme, la Giunta non poteva nemmeno esaminare il caso, visto che è il Giudice per le indagini preliminari, e non il Pubblico ministero, a stabilire con un’ordinanza quali elementi di prova utilizzare in un procedimento penale.
Ma il punto non è questo. Perché la questione, almeno per quanto riguarda i 5Stelle, non è giuridica. È, purtroppo per loro, solo politica.
Se ti fai eleggere ripetendo per anni di essere contrario all’immunità parlamentare in tutti i casi non riguardanti le opinioni espresse; se raccogli consensi sostenendo di essere schierato, senza se e senza ma, contro il malaffare e contro i privilegi che rendono i parlamentari diversi dagli altri cittadini, è ovvio che tu in Giunta e in aula debba sempre dare il via libera agli arresti e all’utilizzo di prove e intercettazioni. Perché solo così dimostrerai a chi ti ha votato di stare facendo quanto promesso: considerare, davanti alla legge, gli eletti uguali agli elettori.
Ieri, oltre a quello di Grasso, c’è stato un altro voto contrario al conflitto di attribuzione sul caso Renzi. Quello di Gregorio De Falco, l’ex comandante della Capitaneria di porto di Livorno, espulso dai 5Stelle e ora nel Gruppo misto. De Falco è celebre, tra l’altro, per una frase rivolta a Francesco Schettino, il capitano che portò al naufragio la nave da crociere Costa Concordia: “Torni a bordo, cazzo!”. Ignoriamo se durante le discussioni in Giunta, De Falco abbia utilizzato un’espressione simile nei confronti degli ex colleghi pentastellati. Siamo però certi che se lo avesse fatto, avrebbe ricevuto il plauso di tutti i loro futuri ex elettori.
Il Movimento 5 Stelle, come dimostrano i sondaggi da settimane in continua picchiata, sta perdendo anche l’ultima caratteristica che lo rendeva differente dalle altre forze politiche: l’intransigenza sulla questione morale. La slavina, accelerata dall’intervento di Giuseppe Conte su “Berlusconi che ha anche fatto molte cose buone”, pare inarrestabile. Tempo fa proprio Renzi, da vero esperto in materia qual è, per i pentastellati vaticinava l’autodistruzione. Noi da ieri cominciamo a pensare che possa aver ragione.
Meloni, né conservatrice né patriota: è incendiaria
La Patria è la terra dove riposano le ossa dei padri. C’è un articolo della Costituzione che ne dispone solennemente la difesa, il 52 (“La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”). Il concetto e la sua portata antropologica non sono neutri. Sull’impostura della “Patria” si edificò il mito sanguinolento del fascismo, che seminò morte dentro e fuori i nostri confini e consegnò ai nazisti i nostri compatrioti ebrei, collaborando col nemico per distruggere paesi e città costruiti dai nostri padri. Quell’impostura divenne una religione (“il culto del littorio”, secondo un titolo di Emilio Gentile) in cui il nazionalismo colonialista si mischiò col vitalismo e col mito tossico della razza. Un mix micidiale che venne abbattuto dai partigiani, combattenti della Resistenza e patrioti, dal cui valore scaturì la nostra Costituzione.
Quando Giorgia Meloni dice (urla) che il presidente della Repubblica dovrà essere un patriota non starebbe dicendo altro, in teoria, che egli o ella sarà un garante della Costituzione nata dalla Resistenza. O no? No. Mentre onora la Patria invocando il presidenzialismo alla francese, per cui occorrerebbe modificare 13 articoli della Costituzione, si rivolge a un mondo, a un milieu, per cui quella parola è uno dei vuoti sinonimi del suo trittico dell’orgoglio italico: “Sono una madre, sono italiana, sono cristiana”. Come questi, esiste perché la narrazione che Meloni sta cercando di propinare è che c’è qualcosa o qualcuno che ci impedisce di essere patrioti, madri e padri, cristiani e italiani. I lemmi, interscambiabili, non rimandano alla parte sana del concetto di Patria (antenati, lotte risorgimentali, Resistenza), ma a una rimasticatura amnesica di ciò che che ha portato la nazione alla guerra civile: camerata, eroe, martire, con echi da crociata pre-battaglia di Lepanto.
Patriota, dice Meloni dalla festa di Atreju (buffo: una festa patriottica basata su un romanzo fantasy tedesco), è Berlusconi. Cioè colui che la Costituzione ha provato a cambiarla; che ha sempre fatto solo l’interesse suo e delle sue aziende; che ha finto di esser patriottico chiamando il suo partito (fondato con un concorrente esterno alla mafia) “Forza Italia”. L’altra parola che Meloni pronuncia spesso è “conservatori”. Ha anche lanciato un “Manifesto dei conservatori”, dopo quello per Roma firmato col suo candidato Michetti, lo speaker tributarista che avrebbe dovuto rendere Roma più grande, con citazioni di Eschilo, Margareth Thatcher, Ernst Jünger etc. Boris Johnson, ospite di Atreju, ha detto: “Essere conservatori è differente per ogni nazione ma c’è un filo che ci lega… la difesa dei valori fondamentali per la società, come la famiglia”. In effetti, chi meglio di Berlusconi difenderebbe il valore della famiglia tradizionale (non ne facciamo un discorso moralistico sulle abitudini sessuali altrui: ma loro sì). Sarebbe coerente che una leader di destra si annoverasse tra i conservatori, “che procedono guidati dalla inestinguibile luce che vien dal passato” (Bobbio). Ma eravamo rimasti che Meloni voleva scardinare le élite, rinnegare la globalizzazione, scavare come la talpa di Marx sotto l’orto dei padroni del neoliberismo imperante. E ora elogia la Thatcher e si propone di “unire tutte le forze conservatrici e liberali” a difesa dello status quo?
L’impressione è che si sia resa conto che gli italiani le stavano per chiedere conto di qualcosa di molto più nocivo per lei del mancato disconoscimento del fascismo: l’imperdonabile assenza del suo partito dalla politica vera durante due anni di pandemia. Coloro che si riempivano la bocca col sovranismo, la difesa dei sacri confini, la protezione degli italiani, cioè lei e Salvini, si sono comportati infantilmente, da bambini capricciosi, non da padri e madri responsabili, quando è scoppiata la vera emergenza, che ha piegato il Paese nella salute, nel morale e nell’economia. Invece di difendere le famiglie e la Sanità pubblica, la sicurezza nelle scuole e nelle fabbriche (sul solco di quella destra sociale di cui Meloni si era nominata titolare), hanno agitato finte paure (gli sbarchi di infetti dall’Africa, i medici che nascondevano le cure) e flirtato col complottismo. Mentre la gente moriva, hanno chiamato il popolo alle adunate di droplet senza mascherine, proprio il 2 giugno 2020, festa della Repubblica. Hanno provato a intestarsi le riaperture, ma le masse che volevano conquistare avevano più paura del virus che di non poter fare l’aperitivo. Questi patrioti deficitari, che non c’erano quando gli italiani hanno avuto bisogno di loro, sono andati per un anno in cerca di un riposizionamento. Salvini è ancora lì che vaga, stordito dai suoi fallimenti e dalla scissione psichiatrica della “Lega per Salvini” diventata ormai “Lega per Draghi”; Meloni si butta sul conservatorismo, lei che voleva lottare a fianco del popolo contro l’establishment.