Come guadagnare soldi con i discorsi politici: le idee di Renzi e Fermat

L’idea di Renzi per guadagnare con gli Nft. Scade oggi il termine per registrarsi a “Tanti soldi”, l’ultimo progetto del politico, uomo d’affari e paroliere italiano Matteo Renzi. Si tratta di 10 mila discorsi, simili ma non uguali a quelli che pronuncia in Arabia Saudita e negli Emirati, spesso a braccio e in perfetto inglese, che tra un anno esisteranno solo come token non fungibili (Nft), i certificati di autenticità digitale usati per garantire la proprietà di qualcosa.

Il progetto prevede infatti che 10 mila Nft relativi ad altrettanti discorsi di Renzi vengano venduti per duemila euro l’uno a chi completerà l’acquisto. I 10 mila discorsi, di una pagina ciascuno, sono stati realizzati a macchina da scrivere da Renzi su fogli A4 e hanno un unico tema comune: il futuro. L’autenticità di ogni foglio è certificata da un adesivo dei Pokemon. Sotto l’adesivo c’è anche un titolo, che secondo il sito del progetto “è stato generato applicando il machine learning ad alcune delle strofe di canzoni preferite dal senatore”. Per esempio, il titolo del primo discorso tra i 10 mila è “Scusa se non parlo abbastanza”, tratto da La musica non c’è di Coez, un rapper. Tutti i 10 mila discorsi si possono vedere sul sito, e ci sono alcuni elementi che ne rendono alcuni più rari di altri. Solo 122 su 10 mila, per esempio, contengono una parola volgare nel titolo: il discorso 651, per esempio, è intitolato “Un cazzo in culo e accuse da arrivismo”. A essere venduti, all’inizio, saranno gli Nft di ogni discorso, di fatto dei contratti digitali di proprietà, la cui autenticità è certificata tramite blockchain. Dopo due mesi dal ricevimento dell’Nft, ogni proprietario avrà tempo fino al 1° maggio 2022 per scegliere se tenere l’Nft o i fogli fisici dattiloscritti a cui quell’Nft fa riferimento. Se sarà scelto l’Nft, il relativo foglio fisico dattiloscritto sarà distrutto, e viceversa.

Renzi iniziò a realizzare questi discorsi a gennaio, quando, come conseguenza del suo primo speech da Bin Salman, la Farnesina annunciò di aver revocato l’esportazione di missili e bombe d’aereo verso l’Arabia Saudita e gli Emirati. Dopo aver approfondito un po’ il concetto di Nft e le loro possibili applicazioni, Renzi – che è noto come politico, ma anche come esecutore di sotterfugi del tipo #enricostaisereno – decise di usare i suoi discorsi convertendoli in Nft. Sebbene per molti il concetto sia astruso, ci sono persone interessate a investire in Nft, poiché ritengono che un Nft possa arrivare a valere anche più della Gioconda: l’Nft del video in cui Letta passa la campanella a Renzi, per dire, è stato venduto qualche anno fa per 32 milioni di euro a un imprenditore eccentrico che singhiozzò eccitato e corse via in una nuvola di Marlboro.

Lucio Presta, il manager tv di Renzi, ha spiegato ai cronisti: “Il ragionamento alla base di ‘Tanti soldi’ è trasformare i discorsi direttamente in denaro, suscitando una riflessione sul fatto che, sebbene sembrino tutte uguali, anche le banconote sono una diversa dall’altra. Si dice spesso che il denaro corrompe la politica. Stavolta sarà la politica a corrompere il denaro”. Scettico Il Sole 24 Ore: “Tra poco più di un anno, quando scadrà il termine per scegliere tra dattiloscritto o Nft, sarà interessante vedere cosa avranno deciso gli acquirenti. Tenersi il dattiloscritto? Tenersi l’Nft? Entrambi potranno essere liberamente scambiati, comprati e rivenduti. Resta il fatto che i discorsi di Renzi sono qualcosa che più lo si analizza con attenzione e più diventa difficile da inquadrare”. La replica di Renzi non s’è fatta attendere: “C’è chi fa il sudoku, e c’è chi risolve il teorema di Fermat”.

 

SuperMario, pragmatico antidoto all’emergenza

 

“Con la stessa determinazione con cui aveva dato mandato agli uffici di Palazzo Chigi di stilare un possibile piano per spostare la struttura commissariale sotto la Protezione civile, Mario Draghi impone infine la proroga dello Stato d’emergenza per altri tre mesi, fino al 31 marzo 2022. Il premier voleva voltare pagina, decide invece pragmaticamente – e in sostanziale solitaria – che non esistono le condizioni per tornare alla normalità”.

Repubblica

 

Per due settimane Mario Draghi ha studiato i dati, valutato la situazione epidemiologica e soppesato i pro e i contro (…). Leggere sul Giornale della famiglia Berlusconi che Draghi non vuole una proroga perché lo inchioderebbe alla poltrona di Palazzo Chigi e non a quella del Quirinale, lo ha convinto che fosse ora di spazzar via dietrologie e informazioni fuorvianti.

Corriere della Sera

I No Tav accusano: “Telt pagò Lo Russo 130mila euro per una ricerca sul tunnel”

Hanno aspettato la vigilia del 15 dicembre, oggi, giorno in cui la Città di Torino torna in modo ufficiale tra le istituzioni che sostengono il Tav Torino-Lione. Così ieri il movimento No Tav ha diffuso la notizia: l’attuale sindaco del capoluogo piemontese, il dem Stefano Lo Russo, nelle sue vesti di professore di Geologia del Politecnico di Torino ha coordinato un progetto di ricerca finanziato con 130 mila euro dalla Tunnel euralpin Lyon-Turin (Telt), cioè la società pubblica italo-francese che deve progettare e far realizzare la tratta internazionale della linea ad alta velocità.

La ricerca sulla “valorizzazione delle risorse geotermiche del tunnel di base del nuovo collegamento ferroviario Torino-Lione” è stata condotta tra il 2015 e il 2017, periodo in cui Lo Russo è passato dall’essere l’assessore all’Urbanistica della giunta di Piero Fassino al capo dell’opposizione contro Chiara Appendino.

La notizia del contratto non è nuova, bastava sfogliare la pagina docente di Stefano Lo Russo sul sito del Politecnico per vedere, alla voce “Ricerca”, che è stato coordinatore scientifico di una ricerca commerciale (cioè finanziata da un’azienda) condotta dal dipartimento Ingegneria dell’ambiente, del territorio e delle infrastrutture e dal dipartimento Energia. Ciò che ora si scopre è l’importo stanziato da Telt, 130 mila euro, e l’esito della ricerca, un volume dal titolo “Acqua: energia dal tunnel di base. La risorsa geotermica come opportunità di sviluppo green”. Green, parola che sta bene su tutto.

I soldi non sono finiti interamente nei conti di Lo Russo, ma al Politecnico, che avrebbe così potuto pagare cinque dottorati di ricerca. Al netto di ciò, per il movimento No Tav si tratta di “una commistione poco trasparente di interessi pubblici e privati che getta una pesante ombra sulle convinzioni Sì Tav del neo-sindaco di Torino, evidentemente viziate da rapporti professionali pre-esistenti”. Lo Russo non ha mai negato il suo sostegno all’opera, tant’è che tra le prime decisioni prese come sindaco c’è il ritorno della Città di Torino nell’osservatorio del governo per l’Asse ferroviario Torino-Lione, dopo l’uscita voluta da Chiara Appendino nell’estate 2016. E così oggi il nuovo primo cittadino potrà accogliere, con la fascia tricolore, i partecipanti arrivati in città per la Conferenza intergovernativa italo-francese.

Aspi ci riprova: non vuole più pagare i danni

Oggi il tribunale di Genova deciderà su un aspetto fondamentale della strage del Ponte Morandi: chi pagherà in caso di condanna. I soggetti chiamati in causa come responsabili civili sono quattro: Autostrade per l’Italia, Spea Engineering, Anas e Ministero delle Infrastrutture. È evidente che l’enormità di quanto accaduto a Genova, 43 morti e centinaia di milioni di euro di danni, rende qualsiasi imputato insolvibile. Dunque è determinante quali società, enti o datori di lavoro, in caso di condanna, potrebbero essere chiamate a risarcire. Niente può essere dato per scontato. Secondo alcuni legali la chiamata in causa potrebbe infatti essere contestata perché avvenuta senza poter partecipare alla fase più delicata della formazione della prova, e cioè l’incidente probatorio sulle cause del crollo.

Autostrade per l’Italia e Spea hanno partecipato a ben vedere a quella fase del processo, ma solo per la responsabilità amministrativa. La partita dei risarcimenti è un altro paio di maniche. Le schermaglie procedurali, in realtà, potrebbero celare un obiettivo più grande: minare le conclusioni dei periti del giudice, coordinati dall’ingegnere Giampaolo Rosati. Nella relazione conclusiva gli esperti arrivano in tre passaggi alla responsabilità diretta, almeno in prima battuta, di Autostrade per l’Italia e Spea (e a potenziali omissioni dei controllori, cioè il Ministero): il ponte è crollato perché ha ceduto la parte alta uno strallo, uno dei tiranti diagonali che si ancoravano alla struttura; la rottura è stata provocata dalla corrosione dell’anima in metallo; la corrosione è stata resa possibile dalla carenza sistemica e cronica di manutenzione e di controlli. Una consulenza di parte di Autostrade per l’Italia la contesta da capo a piedi: è la tesi dall’ormai noto “vizio occulto”, un difetto originario che, nell’opinione delle difese, dovrebbe scollegare il tema delle carenze della manutenzione e dei controlli dalla strage.

La strategia di Aspi, fin da subito, è stata quella di pagare ciò che si poteva fuori dal processo. Le famiglie delle vittime sono state risarcite quasi tutte, a eccezione delle poche che hanno rifiutato proprio per conservare il proprio diritto ad avere voce nel dibattimento. Gli sfollati sono stati destinati a nuove abitazioni. E i commercianti e negozianti che hanno accettato le prime offerte hanno firmato un accordo con cui si impegnavano a non chiedere altro. Ci sono, infine, le partite che riguardano i risarcimenti per il territorio. Dopo lunghi tentennamenti, hanno presentato la costituzione di parte civile anche la Regione Liguria, guidata da Giovanni Toti, e il Comune di Genova, con il sindaco Marco Bucci. In sottofondo aleggia la firma di un accordo per cui Autostrade potrebbe sbarazzarsi delle istituzioni locali attraverso un piano di investimenti strutturali: un accordo contestatissimo dalla minoranza di centrosinistra, che ritiene molti di quegli investimenti già previsti prima del crollo (e mai attuati). Nel frattempo, però, tra i banchi dell’opposizione in consiglio comunale, e tra i banchi in cui siedono gli avvocati difensori del processo, non è passato inosservato che per il Comune di Genova l’avvocatura comunale, stipendiata per fornire assistenza legale all’amministrazione, ha delegato un legale: Lorenza Rosso, di professione avvocato, assessore “all’avvocatura e affari legali, famiglia e relativi diritti”; e un sostituto più giovane, che lavora nel suo studio, l’avvocato Federico Bottaro. Non è ancora chiaro per quanto resteranno nel processo Regione e Comune. Ma se le udienze andranno avanti, e c’è da pensare che saranno tante, par di capire il Comune sarà seguito da uno studio di fiducia, quello dell’assessore-avvocato.

Morandi, l’ex ad smonta la difesa dei Benetton

È la principale tesi difensiva su cui puntano Autostrade per l’Italia e gli imputati per i 43 morti di Genova, a cominciare dall’ex amministratore delegato, Giovanni Castellucci: il Ponte Morandi è crollato per un “vizio occulto”. Un difetto di costruzione celato dal proprietario dell’infrastruttura e impossibile da scoprire per chi ne ereditò la gestione. Una grana insomma addebitabile ai costruttori (passati a miglior vita) e allo Stato, che non ne avrebbe informato la concessionaria quando privatizzò la rete.

A smontarequesta ricostruzione, adesso, non è più soltanto la pubblica accusa, ma anche il più potente manager della famiglia Benetton, Gianni Mion: “Ci fu un incontro sul Ponte Morandi che io ricordo come memorabile. Una riunione di alto livello in cui si parlò di quel difetto originario di progettazione. I tecnici ci dissero che quel problema creava perplessità sul fatto che il ponte potesse ‘stare su’. Chiesi se qualche ente esterno ne avesse attestato la sicurezza, e il direttore generale Riccardo Mollo mi rispose che la sicurezza del ponte ‘ce la autocertificavamo’. Questa risposta sembrava assurda solo a me, perché constatavo invece che, a tutti gli altri partecipanti, compreso Castellucci, pareva tutto normale, sembrava che nessuno si preoccupasse o avesse dubbi di alcun genere. La cosa mi lasciò allibito e sconvolto, anzi più esattamente terrorizzato. Mi sentivo tutt’altro che tranquillo, non mi fidavo, non condividevo il metodo, pensavo bisognasse coinvolgere il ministero, e anche per questo nel 2013 decisi di lasciare l’incarico nel Cda di Atlantia”.

È il 13 luglio scorso quando Gianni Mion compare in modo riservato di fronte al pm Massimo Terrile. Insieme ad Alessandro Benetton è stato il più alto dirigente del gruppo intercettato nell’inchiesta del Ponte Morandi. Nelle telefonate non risparmia giudizi sferzanti nei confronti di Castellucci e della stessa famiglia Benetton, per cui ha lavorato per oltre trent’anni (“degli inetti, la prima come la seconda generazione”).

Ecco perché le sue dichiarazioni sono destinate a pesare come macigni. Tanto più che Mion non perde la sua nota schiettezza nemmeno di fronte ai magistrati: “L’atteggiamento assunto subito dopo il crollo dalla famiglia (Benetton) e dalla società, per bocca di Castellucci, è stato completamente sbagliato e rovinoso”. E ancora: “Avverto una mia responsabilità morale per la tragedia, perché sono stato io a scegliere Castellucci e non ho fatto abbastanza per limitarne il potere”.

Va dato atto: fino a oggi nessuno – né gli indagati per i falsi controlli, né i vertici societari (vecchi e nuovi) o gli azionisti di Aspi e Atlantia – erano mai arrivati a tanto. Davanti a un inviato inglese, pochi giorni dopo il 14 agosto del 2018, Castellucci rifiutò di chiedere scusa alle vittime: “Chiede scusa chi si sente responsabile”. “Ricordo che telefonai a Castellucci, tre giorni dopo il crollo – ricorda Mion – chiedendogli esplicitamente di chiedere scusa, di stanziare una grossa cifra per i primi risarcimenti e dimettersi. Lui non fece niente del genere e, su questo, trovò l’appoggio iniziale della proprietà che, per me, non si era resa conto dell’entità della tragedia e degli effetti devastanti che produceva sull’immagine loro e delle loro imprese: la reputazione dei Benetton, mi confermò la sondaggista Ghisleri, era morta e sepolta”.

Un anno più tardi, sorpreso da una giornalista a margine di una sfilata di moda, nemmeno Luciano Benetton si sentì di fare quel passo: “Sente la responsabilità morale di quello che è successo?”. Risposta: “Siamo sottochoc da una settimana”. Era il 17 settembre 2019. Sui giornali erano apparse le prime intercettazioni sui controlli sulla sicurezza taroccati: “La pubblicazione delle intercettazioni costituì una fortuna e un vero toccasana per fare acquisire, anche nella famiglia, la necessaria consapevolezza sulla gravità della situazione – continua Mion – Ciò comportò, pur con colpevole ritardo, l’estromissione di Castellucci e di Spea. Nel giugno 2019 io ero rientrato in Edizione (la cassaforte dei Benetton, ndr) per cercare di salvare la concessione e ricostruire la credibilità perduta”. Quello con Castellucci era un antagonismo noto, ma è la prima volta che Mion si esprime in modo così esplicito nei confronti dell’ex ad: “Castellucci, sia come ad di Aspi che di Atlantia, godeva di fatto di un potere assoluto, perché privo di forti interlocutori imprenditoriali che potessero limitarne l’onnipotenza. Si circondava di figure di modesta caratura tali da non potergli fare ombra”.

In un passaggio Mion confida al pm di essere in disaccordo con la sentenza di assoluzione dell’ad per la strage di Avellino del 2013: “Era stato ritenuto non coinvolto per via della sua posizione apicale, per quello che dissero i testimoni, a cui mi riferisco quando dico ‘hanno fatto i furbi’ – spiega Mion – . La mia diretta e personale conoscenza della personalità e del modo di lavorare di Castellucci era in radicale e totale contrasto con la conclusione posta a fondamento della sua assoluzione. Castellucci era uno che si occupava di tutto, dai problemi più grandi al minimo dettaglio. Un accentratore forsennato, sebbene molto capace”.

Quello di Mion è un j’accuse durissimo nei confronti del vecchio management e anche di Spea, definita nelle intercettazioni “una banda di incapaci, cialtroni e lazzaroni, una associazione a delinquere”: “È stato un errore privatizzarla e portarla sotto Aspi. Doveva restare sotto controllo pubblico. Oppure il Ministero doveva dotarsi di strutture di controllo della sicurezza che ancora oggi non ha”.

Ma nella sua presa di posizione si potrebbe anche leggere un tentativo di difesa estremo di fronte alla possibilità che la Procura chiami in causa anche gli azionisti, e in particolare i Benetton: “Certamente a nessuno della famiglia e a nessuno dei soci poteva dispiacere che venissero distribuiti dividendi così elevati. Certamente il legame che si era creato tra Gilberto Benetton e Castellucci dipendeva anche dal fatto che la gestione di Castellucci garantiva quegli utili e quei dividendi. Ma posso escludere con assoluta certezza che qualcuno della proprietà abbia mai preso iniziative o dato direttive allo scopo di ridurre quanto più possibile le spese per la manutenzione e di aumentare conseguentemente gli utili e i dividendi”.

A scanso di equivoci Mion precisa che la Edizioni holding, da lui diretta, era un “un investitore finanziario” e non “un socio gestore”. E quando il pm gli domanda come, da uomo che ” leggeva i bilanci”, non si fosse mai accorto dei costi di manutenzione che diminuivano “contro ogni logica” (1 miliardo in meno in vent’anni), Mion risponde così: “Avevo rilevato una diminuzione prima del crollo, ma pensavo fosse legato a una razionalizzazione”.

Il governo non mette altri soldi sulle bollette

L’annuncite è tornata a colpire. Dopo le rassicurazioni del premier, Mario Draghi, e del ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, arrivate a poche ore dall’inizio del Consiglio dei ministri, alla fine il governo non ha stanziato un centesimo in più. Ieri durante il Cdm è stato confermato lo stanziamento di 3,8 miliardi che riuscirà a contenere di appena un terzo i devastanti aumenti che dal primo gennaio si abbatteranno su famiglie e imprese, quando il gas rincarerà fino al 50% e l’elettricità del 30%. Percentuali che continuano a salire complice le pressioni della Russia ai confini dell’Ucraina e lo stop della Germania alle autorizzazioni per il gasdotto North Stream 2.

Di questi 3,8 miliardi, 1,8 miliardi andranno ad annullare gli oneri generali di sistema per le utenze fino a 16kwh (quelle di famiglie e pmi), 600 milioni ad abbassare l’aliquota Iva per il gas al 5%, che otterrà anche l’azzeramento degli oneri di sistema, mentre con 900 milioni azzereranno gli aumenti per le famiglie numerose, fragili o con Isee fino a 8.264 euro. La strada scelta da Draghi ricalca quella adottata tre mesi fa, quando con uno stanziamento analogo di 3,5 miliardi l’elettricità è aumentata del 29,8% e il gas del 14,4%. Anche questa volta l’intervento non sarà ancora sufficiente per evitare la stangata, anche perché i nuovi rincari si sommano ai quelli di ottobre. Per azzerare tutti i rincari servirebbero fino a 9 miliardi, cifra a cui si arriva solo se si sommano i tre interventi che il governo ha adottato dalla scorsa estate per contenere i rincari energetici. “I mancati stanziamenti per fronteggiare questa emergenza il governo li pagherà comunque cari: arriveranno negli interessi del debito pubblico perché l’inflazione salirà”, spiega Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia. L’unica novità decisa riguarda la modalità di presentazione della norme contro i rincari: i 3,2 miliardi saranno contenuti in un emendamento del governo alla manovra.

Inoltre l’esecutivo starebbe pensando alla possibilità di rateizzare una parte dei rincari per le imprese. In pratica gli aumenti non verrebbero conteggiati da gennaio a marzo, ma recuperati nei trimestri successivi, quando le tariffe dovrebbero tornare a calare.

Licenziamenti, precari e Pa: sul lavoro ha vinto la destra

La domanda è ricorrente da una settimana: perché Cgil e Uil hanno scelto di scioperare? La risposta però non è solo nel giudizio negativo sulla legge di Bilancio, per le zero concessioni sulle pensioni e sul taglio delle tasse (finito per oltre metà verso redditi medio-alti). In realtà, è da quando il governo Draghi si è insediato, a febbraio, che fioccano decisioni sgradite ai sindacati (perlomeno i due scioperanti) e al mondo del lavoro in generale. Non sempre le sigle hanno protestato, anzi su alcuni fronti hanno pure apprezzato, ma in questi dieci mesi hanno ricevuto più “no” che sì alle loro richieste, oltre che su fisco e previdenza, anche su precariato, licenziamenti, smart working, ammortizzatori sociali e delocalizzazioni. Oltre alla gestione delle crisi industriali, iniziata con l’affossamento da parte del ministro Giancarlo Giorgetti del progetto ItalComp, che avrebbe assorbito gli ex Embraco ed ex Wanbao. Ecco una sintesi di quello che l’allargamento a destra, con l’arrivo di Draghi a Palazzo Chigi, ha comportato per i temi del lavoro.

Ammortizzatori sociali. A gennaio l’allora ministra Nunzia Catalfo era pronta a presentare la riforma elaborata da una commissione di esperti: avrebbe reso universali la cassa integrazione e i sussidi di disoccupazione, con tutele anche per gli autonomi. Il cambio di governo ha imposto una frenata, seguita da una serie di incontri con il nuovo ministro Andrea Orlando. Alla fine la riforma è arrivata in manovra, andrà in vigore a gennaio – mesi dopo lo sblocco dei licenziamenti – ed è più debole. Per le piccole imprese gli ammortizzatori saranno più brevi delle grandi.

Addio salario minimo. Ad aprile il Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) ha stralciato il riferimento al salario minimo. Cgil, Cisl e Uil hanno apprezzato, perché sono contrari e vogliono che le retribuzioni restino materia della contrattazione collettiva, ma chiedono una legge sulla rappresentanza sindacale, per combattere i contratti pirata – tra le cause delle basse retribuzioni in Italia – e rendere efficaci per tutti gli accordi nazionali certificati. Ci sono diverse iniziative parlamentari, ma il governo su questo non ha mosso un dito.

Licenziamenti liberi. A inizio dell’estate i sindacati avevano chiesto una proroga del blocco dei licenziamenti. Il governo ha risposto picche e dal 30 giugno ha tolto il divieto per industria (moda esclusa) ed edilizia. Cgil, Cisl e Uil si sono dovute accontentare di un accordo non vincolante che raccomandava alle imprese di non tagliare organici, ignorato sin da subito da diverse multinazionali. A fine ottobre i licenziamenti sono stati sbloccati anche per gli altri settori. La legge contro le delocalizzazioni, promessa ai sindacati, poi, è stata prima annacquata, poi rimandata.

Precari in crescita. Da febbraio a oggi i precari sono passati da 2,5 a oltre 3 milioni. L’incertezza della ripresa sta portando occupazione a termine. In estate, il decreto Sostegni ha cancellato le causali previste dal decreto Dignità, cioè l’obbligo di motivare le assunzioni a tempo determinato, consentendo deroghe attraverso accordi sindacali. Riconoscendo un simile ruolo alle sigle, la modifica non è del tutto sgradita a Cgil, Cisl e Uil. Sul precariato, però, i sindacati hanno proposto emendamenti su tirocini e collaborazioni autonome, non considerati. La manovra, tra l’altro, ha esteso alle assunzioni a termine gli sgravi del Reddito di cittadinanza.

Statali in ufficio. Dopo l’impegno assunto a marzo dal ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, con impegno a contrattare lo smart working, a fine estate è arrivato l’ordine per gli impiegati statali di rientrare in ufficio. Solo nei mesi successivi sono state concordate con i sindacati le linee guida e con la ripresa dei contagi la scelta rischia di creare non pochi problemi.

Pensioni rimandate. Da tempo i sindacati chiedono norme per il pensionamento a partire da 62 anni di età. Pur sapendo che Quota 100 sarebbe scaduta a fine anno, il tavolo non è mai partito e l’introduzione di Quota 102, sgradita alle sigle, è stata comunicata a decisione già presa. Il confronto per il superamento della Fornero è solo ai primi passi.

La riforma regressiva. La riduzione delle aliquote Irpef, con benefici che in valore assoluto si concentrano sui redditi oltre i 35 mila è stato l’ultimo intervento inviso ai sindacati, che volevano una manovra più equa. L’assegno unico per i figli, inoltre, rischia di penalizzare i redditi bassi e medi.

Iv, riecco l’aiutino ai dentisti (tra cui “Mister” Boschi)

Italia Viva ci riprova. Dopo il tentativo a vuoto a fine 2020, i renziani hanno presentato un emendamento alla manovra per consentire anche ai dentisti di eseguire piccoli interventi estetici sul viso. Un tema che sembra stare molto a cuore a Iv – vista l’insistenza – e che già una volta aveva provocato polemiche per un possibile conflitto di interessi: il compagno di Maria Elena Boschi, l’attore Giulio Berruti, è infatti anche odontoiatra. Per “evitare strumentalizzazioni”, disse un anno fa il partito, la proposta era stata messa da parte, ma adesso i tempi potrebbero essere maturi per l’approvazione.

L’emendamento è a firma dell’ex Pd Daniela Sbrollini e di Daniela Conzatti, arrivata in Iv da Forza Italia. Nel testo presentato dalle due senatrici si legge: “Gli odontoiatri possono prescrivere e utilizzare tutti i farmaci, i trattamenti, i presidi e i dispositivi medici necessari all’esercizio della loro professione, eseguire tecniche anestesiologiche a livello topico, locale, loco-regionale e di analgesia, terapie e trattamenti con finalità estetiche del viso”.

Lo scorso anno Berruti ammise che la carriera da attore non gli impediva di continuare a esercitare la professione per cui si era laureato: “Ho studiato come dentista per 11 anni e ho preso una specializzazione in estetica del sorriso e ortodonzia”. L’emendamento permetterebbe a lui e ai colleghi di entrare in un mercato da cui finora erano esclusi.

12 condoni, flop alla Consulta e porcata Maccanico-Schifani

2002, 19 dicembre. Il centrodestra approva la legge 279 che trasforma il 41-bis da provvedimento straordinario, rinnovato di semestre in semestre in via amministrativa dal ministro della Giustizia, in una misura stabile dell’ordinamento penitenziario.

21 dicembre. Berlusconi si scusa: il 41-bis, pur “necessario”, risponde a “una filosofia illiberale”.

22 dicembre. Allo stadio di Palermo, durante la partita fra la squadra di casa e l’Ascoli (il club della città dov’è detenuto Totò Riina), compare uno striscione a caratteri cubitali: “Uniti contro il 41-bis. Berlusconi dimentica la Sicilia”. Si scoprirà poi che, a scrivere lo striscione, è stato il figlio di un capomafia condannato all’ergastolo. È l’ennesimo promemoria sulla trattativa Stato-mafia, dopo il clamoroso proclama di Leoluca Bagarella che il 12 luglio, collegato in videoconferenza dal carcere in un processo, s’è scagliato contro i politici che non mantengono “le promesse” e usano i mafiosi “come merce di scambio”, annunciando uno sciopero della fame contro il 41-bis. Il Sisde guidato dal generale Mario Mori chiede e ottiene la scorta armata per Previti, Dell’Utri e alcuni avvocati di mafia eletti in Parlamento con la Cdl perché Cosa Nostra potrebbe colpire “una personalità della politica che, indipendentemente dal suo effettivo coinvolgimento in affari di mafia, venga comunque percepito come mascariato, come compromesso con la mafia e quindi non difendibile a livello di opinione pubblica”. La riforma del 41-bis, strombazzata dal governo come giro di vite antimafia, sortirà l’effetto opposto. Un anno dopo si scoprirà che, su 637 detenuti al 41-bis, ben 72 ne hanno già ottenuto la revoca dai Tribunali di sorveglianza. Motivo: la nuova legge rende più difficile per i giudici dimostrare l’“attualità” dei legami tra il detenuto e la sua cosca; e, se prima era difficilissimo ottenere la revoca del 41-bis, visto che i tempi dei ricorsi erano più lunghi di quelli delle proroghe semestrali e ogni volta bisognava ricominciare daccapo, ora che il carcere duro è “stabilizzato” una volta per tutte, c’è tutto il tempo per chiedere e ottenerne l’annullamento.

Un’altra legge-vergogna, stavolta bipartisan, moltiplica vieppiù i finanziamenti pubblici ai partiti camuffati da “rimborsi elettorali”, alzandoli a 5 euro per ogni avente diritto al voto. Così, di aumento in aumento, nel 2006 il totale dei rimborsi elettorali raggiungerà la cifra record di 200.819.044 euro (un miliardo a legislatura): il quadruplo delle spese effettivamente sostenute per le campagne elettorali; più del doppio dei 93 milioni incamerati dai partiti nel 2001; il decuplo di quelli incassati nel 1993.

30 dicembre. L’ultima porcata dell’anno è la legge finanziaria con una raffica di 12 condoni fiscali (il “tombale” per gli evasori dell’Irpef, poi quelli dell’Ici, dell’Iva, del canone Rai ecc.). Imputato in vari processi per evasione fiscale, Berlusconi tenta di minimizzare il mega-conflitto d’interessi: “Non ritengo che le aziende della mia famiglia ricorreranno ad alcun condono”. Bugia: subito dopo, per mettersi in regola col fisco che reclama 197 miliardi di lire di tasse non pagate, Mediaset approfitta del condono e ne paga solo 35, risparmiandone 162. E del condono approfitteranno altre società personali del premier, come l’Immobiliare Idra, che controlla le sue ville. Non contento, il Cavaliere utilizza il condono anche per cancellare le sue ulteriori pendenze personali col fisco, che la Procura di Milano quantifica nel processo Mediaset in 301 miliardi di lire (155 milioni di euro) di imposte evase tra il 1997 e il 2002, versando appena 1.800 euro in due comode rate. Al gip Fabio Paparella, nel 2006, non resterà che prenderne atto e dichiarare il non luogo a procedere per quei reati.

2003, 28 gennaio. Le sezioni unite della Cassazione respingono all’unanimità (nove giudici su nove) la richiesta di rimessione dei processi da Milano a Brescia e condannano i ricorrenti Berlusconi e Previti a pagare 1.500 euro di spese processuali: il Tribunale di Milano è sereno e imparziale, alieno da “legittimi sospetti”.

29 gennaio. In un video a reti unificate, il premier attacca la Corte e la magistratura tutta, chiedendo di essere “giudicato soltanto dai suoi pari, cioè dagli eletti del popolo”. Pecorella minaccia una legge per accorciare la prescrizione. E il centrodestra ripesca un progetto per il ritorno all’autorizzazione a procedere firmato da Francesco Nitto Palma. Ma intanto i processi ricominciano e quello sul caso Imi-Sir/Mondadori è ormai agli sgoccioli: manca soltanto la sentenza.

1° febbraio. Il centrosinistra corre subito in soccorso del premier imputato con la proposta di legge di Antonio Maccanico (Margherita) per sospendere i processi alle cinque più alte cariche dello Stato: cioè ai presidenti della Repubblica, del Consiglio, della Camera, del Senato e della Consulta. Dei cinque, l’unico imputato è Berlusconi. Il centrodestra sposa l’idea e ci aggiunge la firma del capogruppo al Senato Renato Schifani. Intanto Previti chiede il trasloco dei processi non più a Brescia, ma a Perugia, stavolta per competenza territoriale. Poi presenta una raffica di ricusazioni (alla fine saranno sette) e altri cavilli per impedire ai giudici di Imi-Sir/Mondadori di entrare in camera di consiglio. A rallentare il processo Sme-Ariosto provvede invece Berlusconi che, mentre invia le truppe a fare la guerra all’Iraq, annuncia a sorpresa di voler rendere “dichiarazioni spontanee” in aula.

29 aprile. Il collegio di Imi-Sir/Mondadori riesce finalmente a emettere la sentenza: Metta condannato a 13 anni, Previti e Pacifico a 11, Squillante a 8 e mezzo, Acampora a 5 e mezzo, Felice Rovelli a 6, la moglie Primarosa Battistella a 4 e mezzo, assolto Filippo Verde. Berlusconi, già prescritto per la corruzione Mondadori, parla di giudici “golpisti”.

5 maggio. Il premier compare in Tribunale per le dichiarazioni spontanee al processo Sme-Ariosto, ma parla solo un’ora, mentendo spudoratamente sull’affare Sme e senza accettare domande dai giudici e dal pm Boccassini. Poi s’inventa un impegno a Roma e rimanda il seguito a una puntata successiva. “Fatti processare, buffone!”, gli urla Piero Ricca all’uscita. Berlusconi lo fa identificare dai carabinieri e lo denuncia per diffamazione (Ricca sarà assolto). Da allora il Cavaliere escogita gli impedimenti governativi più astrusi per allungare i tempi del processo e dare modo al Parlamento di varare il cosiddetto “lodo” Maccanico-Schifani, possibilmente prima del 1° luglio, quando diventerà per sei mesi presidente di turno dell’Unione europea. Il Tribunale è costretto a stralciare la sua posizione, per arrivare a sentenza almeno sugli altri imputati.

 

Ora l’avvocato spera nel bis di Mattarella e apre al Pd

Per l’avvocato che vuole uscire indenne dal voto segreto del Quirinale, la soluzione migliore sarebbe lasciare tutti dove stanno: Mario Draghi a Palazzo Chigi e Sergio Mattarella al Colle. È questa, almeno per ora, la linea di Giuseppe Conte a un mese o poco più dall’apertura delle urne. Così ripete nei colloqui di queste ore, e così ha fatto capire nella prima riunione della cabina di regia del M5S sul Quirinale, lunedì sera: “dove però non si sono fatti nomi di candidati”, assicurano. Con Conte c’erano i ministri, i vicepresidenti e i capigruppo del Movimento. E il più atteso era ovviamente Luigi Di Maio, che – raccontano – è intervenuto poco.

A parlare è stato soprattutto Conte, che si sarebbe soffermato sull’esigenza che Draghi resti premier, visto il perdurare della pandemia e l’esigenza di attuare il Pnrr. “Ma i giochi veri si faranno dopo la manovra di Bilancio, con il confronto tra i leader” assicurano fonti vicine all’ex premier. Tradotto: preclusioni personali su Draghi non ce ne sono. Però è un fatto che la gran parte del Movimento ritenga un eventuale trasloco del premier al Quirinale la miccia per un voto anticipato che tra i 5Stelle tutti temono. Per questo Conte, seppure non contrario pregiudizialmente a Draghi, per adesso si attesta su un’altra rotta. Intanto ieri sera il presidente del Movimento ha partecipato alla presentazione del libro La legge della fiducia, alle radici del diritto alla Camera, assieme al segretario dem Enrico Letta. “Ritengo che sul Quirinale debba esserci sia il più ampio coinvolgimento di tutti partiti” ha sostenuto il leader del M5S, che ha poi aperto a un’intesa col Pd: “Non escludo affatto una iniziativa comune su una figura di alto profilo morale”. Di sicuro Conte un nome nascosto non ce l’ha, e ieri lo ha ammesso: “Ho in mente un profilo, non un nominativo, e può essere un uomo o una donna”. Ma a guidare il gioco sarà il centrodestra? “Nessuno ha numeri sufficienti per farlo” ha ribattuto l’ex premier.