Pd e FI, la favola dei morti resuscitati

Si parla, del Pd e di Forza Italia, come di due partiti ancora in vita. L’alleluia per il ritorno del bipolarismo – un centrodestra di qua, un centrosinistra di là – è però solo una consolazione consociativa. È una proiezione mentale fallace quanto il famoso testa a testa celebrato dal cucuzzaro perbenista fino a lunedì scorso se poi il senatore leghista Christian Solinas prende il 48,57 per cento mentre Massimo Zedda – dato per vincente, col Pd – arriva quasi primo col 33,42 di percentuale. Roba da reclamar un riconteggio. E magari col supporto di osservatori internazionali, una Hillary Clinton come minimo…

Silvio Berlusconi e il partito di Zingaretti-Martina-Giachetti & Anna Ascani non esistono più politicamente. Forza Italia ha ricavato pochissimo in Sardegna – oltretutto in quello che fu il suo parco giochi dell’immaginario berlusconiano – mentre il Pd, pur sempre il partito degli ottimati, vince solo sui giornali aggiudicandosi un ottimo risultato: dal 22,6 balza al 12 per cento. Sta sempre sotto schiaffo di Matteo Salvini, il Cavaliere, come già è accaduto in Abruzzo, e il Pd diventa “tonico” – per dirla con Paolo Mieli – in virtù di una trama di tante liste d’appoggio, come nelle Regionali, ma per arrivare immancabilmente al solito risultato: patate. Il partito di Zingaretti-Martina-Giachetti & Anna Ascani vince solo quando fabbrica una cabala, come ben sa l’attuale presidente della Regione Lazio quando si assicura un Sergio Pirozzi che sfasci la parte avversa (l’ex sindaco di Amatrice, esponente della destra sociale, che si candida per ripicca; nel solco del forzista Gianfranco Micciché quando in Sicilia fa una lista contro la sua stessa coalizione per far vincere il Pd del mitico Rosario Crocetta). Tanto di cappello di fronte all’onestà intellettuale di Giovanni Bruno, dirigente del Pd, quando scrive che il suo partito, in Sardegna, “conferma più o meno il dato (non buono) delle nazionali, con un candidato che ha accettato di mettersi in gioco a condizione che nessun esponente si facesse vedere”, per poi perdere la guida della regione che governava da anni. “E c’è pure chi festeggia”, dice ancora Bruno lanciando l’hashtag #icespuglinonfunzionano.

Berlusconi che s’è guadagnato il suo spazio nei libri di storia non merita di sfinirsi nella questua di spiccioli elettorali. Lo fa solo per garantire ancora un’anticchia di legislatura ai mangiapane a tradimento intorno a lui e che in lui vedono solo una cassaforte da cui attingere, finché dura, ma da quando ha detto di essere tornato in campo è fallito anche in Abruzzo – che pure è la pupilla del suo più specchiato alfiere, Gianni Letta – e non può certo vantare successo del risultato delle primarie di Bari e Foggia! Antonio Polito – sul fondo del Corriere della Sera, ieri – segnala queste primarie. Le descrive “affollate come non mai”, e riferisce del fatto tutto particolare – i candidati leghisti arretrano rispetto ai trionfanti forzisti – e le interpreta come un avviso a Salvini. Un fuggi da Foggia, insomma, per il leader della Lega che patisce “la battuta di arresto in Sardegna”, a dimostrazione della rimonta “centrista” e dell’ineluttabilità bipolare e resiliente. Tutto vero, nessuno può dubitarne, ma a questo punto Berlusconi che le ha sempre schifate, se le deve far piacere le primarie, non fosse altro aborrite sempre perché ai gazebo del Pd vi vedeva sempre i cinesi in fila. Se è tutto qua il successo di Berlusconi – al netto del “fuggi da Forza Italia” che c’è ovunque – il bipolarismo, specchiandosi nella “tonicità” del Pd, ha proprio preso un brodino.

L’unico vero bipolarismo è quello tra il rinnovamento e chi vi si oppone. E i cittadini – al netto delle comparazioni maliziose sui risultati deludenti del M5S – non hanno abbandonato il rinnovamento. Altrimenti il governo, alle porte del 4 marzo prossimo – tagliando il traguardo di un anno dal risultato elettorale politico – non godrebbe del consenso di cui può ben farsi forte. Alle Regionali – ripeterlo è opportuno – vince solo il moltiplicatore delle liste. Una lista unica poco può fare con solo sessanta candidati quando gli altri ne hanno 660 o 480. Non è mai, nel rinnovo dei governi regionali, una battaglia di uno contro uno e il vero parametro – se ancora serve lo spettrale bipolarismo – sarà alle europee. È già un inciampo non da poco votare sempre quando si dovrebbe fare politica e il M5S, a questo punto, dovrebbe davvero smettere di smarrirsi nel dibattito e fare per davvero.

Fare conto su un personale valido, cooptare nei gangli del sistema Italia storie individuali di qualità collaudate nella vita vera perché se campano di curriculum si fottono una volta per sempre. Per far tornare quegli altri, i bipolari.

Ps. mi spiego meglio, chissà che curriculum quello che fece fare la figuraccia a Lugi Di Maio scrivendogli nella lettera a Le Monde “democrazia millenaria”… altro che tracollo in Sardegna.

Mail Box

 

“Green Book” ci mostra come combattere i pregiudizi

Green Book ha vinto il premio Oscar. Riconoscimento meritatissimo per un film che propone in modo semplice e disordinato un concetto essenziale: la conoscenza scioglie il pregiudizio.

In questo caso, quello del razzismo tra il rozzo buttafuori italo-americano Tony Vallelonga e il raffinato pianista di colore Don Shirley, per il quale accetta di fare l’autista in una tournée negli Stati del Sud, dove la segregazione – nei primi anni Sessanta – è ancora pesante. La trama si rifà ad una storia vera e non s’impiglia mai nella retorica della denuncia esplicita, grazie a dialoghi diretti e una realtà abrasiva che sono entrambi efficaci, perché scritti dal figlio di Vallelonga. C’è un altro protagonista nel film, il viaggio: una situazione anomala, che sospende la quotidianità e dilata il tempo. Quello che i due uomini hanno on the road per parlarsi, studiarsi e confidarsi, anche per quello che accade nelle soste. Dove scoprono che per andare avanti insieme, devono darsi clemenza e aiuto. Green Book ha meritato l’Oscar perché parla di antirazzismo non con eroi, ma con il cambiamento di un rozzo italo-americano che si abitua al suo passeggero. Non perché riveda i suoi valori, ma perché succede così. Un messaggio che – con la forza del suo minimalismo – smonta più di un proclama le teorie xenofobe dilaganti.

Massimo Marnetto

 

Per rilanciare i consumi abbassiamo i prezzi delle auto

Mi rivolgo al ministro Luigi Di Maio. le sottopongo un’idea che può sembrare fantasiosa, ma si soffermi un attimo a rifletterci insieme a Salvini e al presidente Conte. Contatti i vertici di Fca chiedendo l’opportunità di abbassare di mille euro la Panda o altre vetture per i giovani under 20, nel frattempo vari un decreto per portare a 17 anni l’età per prendere la patente. Questo darebbe una potentissima scossa al mercato dell’auto per i prossimi due anni, anche al suo indotto.

Dario Ottonello

 

Pensioni, la riforma penalizza chi ha sempre versato

Il governo aumenta le pensioni assistenziali e quelle con carenza contributiva per adeguarle al costo della vita. Ancora una volta vengono penalizzati i lavoratori che hanno versato regolarmente i contributi durante la loro lunga vita lavorativa. Anche l’adeguamento delle pensioni è stato concesso a tutti, tranne che a quei pensionati che, avendo lavorato a lungo, superano gli attuali 1.520 euro lordi. Sono stati discriminati proprio quei lavoratori in regola, come ora sta avvenendo col reddito di cittadinanza che premierà quelli che dicono di essere disoccupati. Così, si incentiveranno lavoro nero, evasione fiscale e quei disoccupati, che continueranno a lavorare al nero pur percependo gli assegni di disoccupazione. Mi auguro che il provvedimento, attualmente all’esame del Parlamento, venga modificato nell’interesse di tutti.

Mario De Florio

 

Pastori sardi come Gilet gialli: proteste incivili e violente

Tutto il mondo ha visto le proteste dei pastori sardi che da tempo continuano a prendersela con lo Stato perché la loro produzione di latte è sotto pagata. Come se lo Stato debba stabilire un prezzo equo al litro. Questa esplosione di protesta ha ben poco di civile perché versare ettolitri di latte per le strade quando c’e gente che muore è disgustoso.

Il fenomeno sta prendendo la piega dei gilet gialli, già con i primi episodi di violenza sotto minaccia armata contro un’autocisterna diretta a un caseificio. Esprimere malessere è sì doveroso ma non deve essere insensato con sprechi, come si stanno ancora verificando. Quel latte si poteva usare per quelle persone, tante, che hanno un reale bisogno!

Adalberto de’ Bartolomeis

 

Aperture festive: le aziende adeguino il costo del lavoro

C’è un dibattito molto acceso sulle aperture festive dei negozi. Le società della grande distribuzione assumono il 90% del personale con contratti atipici, come quelli a chiamata. Se servono per sopperire a situazioni di emergenza o di picco, allora questo dato non ha ragione di esistere.

Infatti la risposta è che in questo modo la grande distribuzione, pur facendo lavorare il personale a tempo pieno, paga un costo del lavoro al 50% mettendo però in atto una truffa nei confronti di Inps e lavoratori che vedono i contributi ridotti della stessa percentuale ma, utilizzando questa circostanza anche come metodo per ricattare, con riduzioni di orario improvvise, i lavoratori poco “addomesticabili”.

E qua mi chiedo, ma ministero e sindacati non se ne sono mai accorti? A questo punto si dovrebbe mettere un limite (5%, 10%?) ai contratti atipici, dopodiché stabilire che le società (sia di capitali che di persone, ma non le ditte individuali del commercio) in caso di lavoro festivo retribuiscano i lavoratori con una maggiorazione festiva del 100%, tanto non avendo alcun tipo di concorrenza possono vantare incassi considerevoli ed anche i lavoratori ne avrebbero un beneficio tangente per l’impegno festivo.

Troppo facile? Già vedo il presidente Sangalli che sobbalza sulla sedia e una miriade di lobbisti pronti a dare battaglia a una eventuale proposta di legge in tal senso.

Gianluigi Fornoni

Giustizia Zingaretti, la famiglia Renzi, la sinistra e la bufala del garantismo

Nicola Zingaretti, candidato alla segreteria Pd, dice: “Non ho mai creduto nella mia vita alla teoria del complotto della magistratura e non cambio opinione. Così, però, come sono sempre stato garantista”. Io mi domando, ma Zingaretti il voto degli onesti che sono scappati nel M5S lo vuole oppure no? Perché mi pare che ammettere la propria disonestà (per me, ovvero uomo di sinistra che ha votato M5S, garantista è uguale a disonesto) non sia un bel modo per convincerli.

Chi non fa parte del potere giudiziario ha un potere, e un diritto, di condannare infinitamente più grande perché non infligge pene, ma è un uomo libero.

Gentile lettore, nelle sue ultime tre righe lei coglie la sostanza della questione. E cioè che il garantismo è la più grande bufala germinata dalla Seconda Repubblica berlusconiana e che ha segnato, in peggio, la mutazione genetica della sinistra, iniziata ben prima dell’avvento di Matteo Renzi. Sia chiaro: non mi riferisco al sistema di garanzie a difesa dell’inquisito. Ma al fatto che il dogma garantista nei Palazzi del potere azzera l’autonomia della politica (e anche di certi quotidiani e giornalisti, diciamolo pure) a giudicare un fatto. Lei ha ragione: perché Zingaretti non dovrebbe commentare il viluppo di vicende che hanno riguardato la famiglia Renzi mentre il figliolo Matteo era in politica, dapprima a Firenze indi a Roma? Un conto sono i reati, un altro gli episodi svelati da un’inchiesta e spesso le due cose non coincidono. Da ministri, Lupi e Guidi non si sono forse dimessi per l’imbarazzo creato da regali ed epiteti venuti fuori dalle indagini, senza essere indagati? Questo è il nodo. Per rimanere in vita e dare un tono ai corifei trasversali anti-pm, il garantismo si è inventato un gemello nemico: il giustizialismo. E così tutti quelli che raccontano e commentano inchieste, sia politici sia giornalisti, diventano tout court giustizialisti o manettari. Il fatidico corto circuito tra politica e giustizia sta tutto in questa ipocrita, se non farisea, divisione tra garantisti e giustizialisti che serve a giustificare la solfa dell’uso strumentale o politico della giustizia. Non solo. Lei cita il caso di Zingaretti e della famiglia Renzi ma in questi giorni c’è stata la condanna definitiva di Roberto Formigoni per corruzione. Si badi bene: definitiva. E anche questa volta è partito il piagnisteo garantista, pur di fronte a una sentenza della Corte di Cassazione. Ma questo svela il vero volto dei garantisti: il loro innocentismo a prescindere.

Venezuela in crisi, cosa nasconde il grande imbroglio

Se c’è una lezione che si impara dirigendo una grande organizzazione internazionale come l’Onu è che, nelle cose del mondo, la verità dei fatti raramente coincide con la sua versione ufficiale. Le idee dominanti – come diceva il vecchio Marx – restano quelle della classe dominante. E il caso del Venezuela di questi giorni si configura appunto nei termini di una gigantesca truffa informativa volta a coprire la sopraffazione di un popolo e la spoliazione di una nazione.

Il principale mito da sfatare riguarda le cause di fondo del dramma venezuelano. I media occidentali non hanno avuto dubbi nell’additare gli esecutivi succedutisi al potere dopo l’elezione del “dittatore” Chávez alla presidenza nel 1998 come unici responsabili della crisi, nascondendone la matrice di gran lunga più importante: le barbare sanzioni americane contro il Venezuela decise da Obama nel 2015 e inasprite da Trump nel 2017 e nel 2018.

Spese sociali mai così alte. La “dittatura” di Chávez, confermata da 4 elezioni presidenziali e 14 referendum e consultazioni nazionali successive, è stata condotta sotto il segno di uno strappo radicale con la storia passata del Venezuela: i proventi del petrolio sono stati in massima parte redistribuiti alla popolazione invece che intascati dall’oligarchia locale e imboscati nelle banche degli Stati Uniti.

Nonostante Chávez abbia commesso vari errori di malgoverno e corruzione tipici del populismo di sinistra – errori confermati in seguito dal più debole Maduro – sotto la sua presidenza le spese sociali hanno raggiunto il 70% del bilancio dello Stato, il Pil pro capite è più che triplicato in poco più di 10 anni, la povertà è passata dal 40 al 7%, la mortalità infantile si è dimezzata, la malnutrizione è diminuita dal 21 al 5%, l’analfabetismo è stato azzerato e il coefficiente Gini di disuguaglianza è sceso al livello più basso dell’America Latina (dati Fmi, Undp e Banca Mondiale).

Ma la sfida più temeraria lanciata dal Venezuela “socialista” è stata quella contro l’egemonia del dollaro. L’economia ha iniziato a essere de-dollarizzata favorendo investimenti non statunitensi, tentando di non farsi pagare in dollari le esportazioni, e creando il Sucre, un sistema di scambi finanziari regionali basato su una cripto-moneta, il Petro, detenuta dalle banche centrali delle nazioni in affari col Venezuela come unità di conto e mezzo di pagamento.

Il tempo della resa dei conti con il Grande Fratello è arrivato perciò molto presto. Molti hanno evocato lo spettro del Cile di Allende di 30 anni prima.

Ma il Venezuela di oggi è preda ancora più consistente del Cile. Dopo la Russia, è il Paese più ricco di risorse naturali del pianeta: primo produttore mondiale di petrolio e gas, secondo produttore di oro, e tra i maggiori di ferro, bauxite, cobalto e altri. Collocato a tre ore di volo da Miami, e con 32 milioni di abitanti. Poco indebitato, e capace di fondare una banca dello sviluppo, il Banco do Sur, in grado di sostituire Banca Mondiale e Fondo monetario come sorgente più equa di credito per il continente latinoamericano.

È per queste ragioni che la “cura cilena” è inizialmente fallita. Il tentato golpe anti-chavista del 2002 e le manifestazioni violente di un’opposizione divenuta eversiva e anti-nazionale, si sono scontrati con un esecutivo che vinceva comunque un’elezione dopo l’altra. Perché anche i poveri, dopotutto, votano. L’occasione per chiudere la partita si è presentata con la morte di Chávez nel 2013 e il crollo del prezzo del petrolio iniziato nel 2015.

La strategia delle sanzioni. La raffica di sanzioni emesse l’anno dopo con il pretesto che il Venezuela fosse una minaccia alla sicurezza nazionale degli Usa mettono in ginocchio il Paese. Il Venezuela viene espulso dai mercati finanziari internazionali e messo nelle condizioni di non poter più usare i proventi del petrolio per pagare le importazioni. Quasi tutto ciò che entra in un’economia che produce poco al di fuori degli idrocarburi deve essere pagato in dollari contanti. E le sanzioni impediscono, appunto, l’uso del dollaro. I fondi del governo depositati negli Usa vengono congelati o sequestrati. I canali di rifinanziamento e di rinegoziazione del modesto debito estero del Venezuela vengono chiusi. Gli interessi sul debito schizzano in alto perché le agenzie di rating al servizio di Washington portano il rischio paese a cifre inverosimili, più alte di quelle della Siria. Nel 2015 lo spread del Venezuela è di 2 mila punti, per raggiungere e superare i 6 mila nel 2017.

Gli economisti del centro studi Celag hanno quantificato in 68,6 miliardi di dollari, il 34% del Pil. l’extra costo del debito venezuelano tra il 2014 e il 2017. Ma il più micidiale degli effetti del blocco finanziario del Venezuela è il rifiuto delle principali banche internazionali, sotto scacco americano, di trattare le transazioni connesse alle importazioni di beni vitali come il cibo, le medicine, i prodotti igienici e gli strumenti indispensabili per il funzionamento dell’apparato produttivo e dei trasporti. Gli ospedali venezuelani restano senza insulina e trattamenti antimalarici. I porti del paese vengono dichiarati porti di guerra, portando alle stelle le tariffe dell’import-export. Il valore delle importazioni crolla da 60 miliardi di dollari nel 2011-2013 a 12 miliardi nel 2017, portandosi dietro il tonfo del 50% del Pil.

Le banche di Wall Street I beni che riescono comunque a essere importati vengono accaparrati e rivenduti di contrabbando dagli oligopoli dell’industria alimentare che dominano il settore privato dell’economia venezuelana. La stessa delinquenza di alto livello che tira le fila del sabotaggio del Clap, il piano di emergenza alimentare del governo che soccorre 6 milioni di famiglie. È stato calcolato che tra il 2013 e il 2017 l’aggressione finanziaria al Venezuela è costata tra il 110 e il 160% del suo Pil, cioè tra i 245 e i 350 miliardi di dollari. Senza le sanzioni, l’economia del Venezuela, invece di dimezzarsi, si sarebbe sviluppata agli stessi tassi dell’Argentina.

Durante il 2018 si sviluppa in Venezuela una crisi umanitaria interamente indotta. Che si accompagna a un’iperinflazione altrettanto fasulla, senza basi nei fondamentali dell’economia, determinata da un attacco del mercato nero del dollaro alla moneta nazionale riconducibile alle 6 maggiori banche d’affari di Wall Street.

È per questo che il rapporto dell’esperto Onu che ha visitato il Venezuela nel 2017, Alfred De Zayas (di cui non avete mai sentito parlare ma che contiene buona parte dei dati fin qui citati), propone il deferimento degli Stati Uniti alla Corte Penale Internazionale per i crimini contro l’umanità perpetrati in Venezuela dopo il 2015.

* Vicesegretario Generale dell’Onu dal 1997 al 2002

La strategia della lumaca Theresa May diluisce il voto su Brexit purché si faccia

A 19 giornate parlamentari dal 29 marzo, data fatidica in cui, se il cielo o il buonsenso non intercedono, il Regno Unito uscirà dall’Unione europea senza un accordo, Theresa May persevera nella strategia della lumaca: rimandare. Ieri ha confermato che il meaningful vote, l’ennesimo voto parlamentare decisivo sul suo accordo con Bruxelles, già bocciato dalla Camera dei Comuni, si terrà entro il 12 marzo. Se verrà bocciato di nuovo, ai parlamentari verranno offerte due possibilità: il 13 marzo potranno votare sul no deal, in modo che il Regno Unito “esca senza accordo solo con il consenso esplicito dei Comuni”.

Il giorno dopo, 14 marzo, saranno consultati su una eventuale richiesta di estensione del processo di uscita, che ha bisogno dell’ok unanime degli (esasperati) stati membri della Ue. Opzione che il primo ministro non auspica, visto che il suo focus, lo ha ribadito, è far approvare il suo deal, e comunque il tempo guadagnato non dovrebbe andare oltre la fine di giugno. Un percorso comunque non risolutivo: le uniche strade rimaste per evitare definitivamente il no deal sono due: revocare l’art 50, cioè rimangiarsi tutto il processo di Brexit “cosa che io non farò” o trovare un compromesso accettabile sia dal parlamento che da Bruxelles. Quella della May è una concessione significativa ma imposta dalla disperazione: ancora una volta deve neutralizzare una serie di emendamenti con cui, stasera, il Parlamento cercherà di sottrarre al governo il controllo del processo di Brexit. L’alternativa era la rivolta di 15-20 ministri e sottosegretari del suo stesso governo, pronti a dimissioni pur di escludere lo scenario del mancato accordo. “Ritardi grottescamente irresponsabili” ha chiosato il segretario laburista Jeremy Corbyn. Ma stasera la posta in gioco è alta anche per lui: il Labour ha presentato un emendamento con cui mette al voto la propria Brexit, con unione doganale permanente. Difficile che venga approvata, e il passo successivo, lo ha promesso, è sostenere un secondo referendum con l’opzione Remain. Ci è stato costretto dalle pressioni interne, ma qualcuno già dice che, con questo impegno, si è giocato i voti di milioni di laburisti pro-Brexit. E il sogno di governare.

Trump e Kim, si parlerà di missili ma non di torture

Al tema ‘diritti umani’, Donald Trump s’è già mostrato allergico altre volte: il magnate presidente non l’ha sollevato nei suoi incontri con i presidenti cinese Xi e russo Putin, che non ne sono certo campioni, e neppure in quello con il principe ereditario saudita Mohamad bin Salman. Certo, evoca le violazioni quando c’è da dare addosso al regime venezuelano di Nicolas Maduro; ma, con quelli con cui ha a priori deciso di andare d’accordo, evita l’argomento. Con rare eccezioni: la Turchia – però, c’era di mezzo un pastore evangelico americano detenuto, e poi liberato, Andrew Brunson -; e l’Egitto, che si vide privare d’una fetta di aiuti (ma l’ordine venne dal Congresso). Come volevasi dimostrare, non ce n’è traccia della questione nelle minute degli incontri preparatori (e nei briefing della vigilia) del secondo Vertice ad Hanoi tra Trump e Kim Jong-un, il leader nord-coreano. Un gruppo sud-coreano che si batte per il rispetto dei diritti umani denuncia, nell’imminenza dell’incontro, abusi e violazioni da parte del regime nord-coreano.

Un sondaggio, condotto dal gruppo che ha sede a Seul, e di cui dà notizia la Reuters, raccoglie racconti e testimonianze di 451 transfughi nord-coreani: tre su quattro hanno riferito di violenze e maltrattamenti, fino alla morte, nei confronti di familiari e parenti e uno su due le ha personalmente subìte. Il silenzio di Trump contrasta con l’impegno, tradizionale per la diplomazia americana e confermato dal segretario di Stato Usa Mike Pompeo, a denunciare le violazioni dei diritti umani “ovunque esse si verifichino”,

A Washington, i senatori democratici hanno scritto al presidente Trump, individuando Kim come “il leader del regime forse più repressivo al Mondo”. Ma il magnate non glielo rinfaccerà ad Hanoi, come non lo fece in giugno a Singapore. Sull’agenda del Vertice, ci sono la denuclearizzazione della penisola coreana e le concessioni che gli Usa potrebbero fare in cambio alla Corea del Nord, in termini d’abolizione delle sanzioni, concessione di aiuti, apertura agli scambi. E la diplomazia sud-coreana, la più interessata con quella nord-coreana al successo del Vertice, nota che “i diritti umani non possono affermarsi, se non c’è la pace”. Trump e Kim sono già da ieri ad Hanoi, ma si vedranno solo oggi in serata. I due si rivedranno poi domani. Il Vietnam, scelto come sede di questo secondo Vertice, può essere di stimolo alla Corea del Nord: è l’ex acerrimo nemico degli Stati Uniti divenuto partner e ha un’economia in espansione, che adotta il modello cinese e profitta dell’export verso gli Usa. “Il boom vietnamita comincia nel 1995 con la normalizzazione delle relazioni con l’America”, dicono a Washington, suggerendo che qualcosa di simile potrebbe accadere all’economia nordcoreana.

Trump, tuttavia, in queste ore non avrà orecchi solo per Kim. Alla tv, c’è l’audizione al Congresso del suo ex avvocato Michael Cohen, l’uomo che comprava in nero il silenzio delle sue amichette perché non gli creassero imbarazzi (con Melania, la moglie, e gli elettori).

Zarif, un sorriso da cancellare

“Mi scuso per tutte le carenze… negli anni passati durante il mio periodo come ministro degli Esteri… Ringrazio la nazione e i funzionari iraniani”. L’uscita di scena via social network del ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif è una pessima notizia per gli iraniani che aspirano alla fine del regime, non potendone più del giogo messo loro al collo dagli ayatollah e impoveriti a causa della corruzione del sistema al cui vertice siede la Guida Suprema, Ali Khamenei, il successore di Khomeini. Secondo un rapporto dei media statali iraniani e un post dall’account Instagram che porta il suo nome, Javad Zarif ha rassegnato le dimissioni due giorni fa. Ieri però c’è stato un colpo di scena: “Per il presidente esistono una sola politica estera e un solo ministro degli Esteri” ha scritto sempre su Instagram Mahmoud Vaezi il capo dell’ufficio del presidente Hassan Rohani.

Vaezi ha pubblicato una foto dell’agenzia Isna che ritrae il leader iraniano e il suo ministro seduti in aereo uno accanto all’altro. Rohani, dunque, non ha accettato le dimissioni di Zarif. Per Vaezi “le parole di apprezzamento espresse dal presidente nei confronti del suo ministro degli Esteri sono un chiaro segno della soddisfazione del rappresentante del popolo iraniano riguardo le posizioni sagge ed efficaci e il lavoro di Zarif e sono una risposta ad alcune analisi distorte ed errate”. Fatto sta che nell’anno che segna il quarantesimo anniversario della rivoluzione islamica, è incerto il futuro di uno dei politici più moderati del governo persiano e stretto alleato del presidente riformista Rohani.

Cosa possa aver spinto il ministro chiave dell’accordo sul Nucleare all’annuncio delle dimissioni non è ancora chiaro. Di certo senza la caparbietà e la capacità diplomatica di questo uomo dall’aspetto mite e allo stesso tempo autorevole, questo accordo non avrebbe visto la luce. Ma con l’Amministrazione Trump che ha rotto il patto in modo sprezzante e ha intensificato la pressione diplomatica e dell’intelligence sull’Iran, anche per quanto concerne altre tematiche in ambito geopolitico, la posizione di Zarif ha perso inevitabilmente forza. Né al capo della diplomazia di Teheran ha giovato la recente opposizione esercitata dall’Unione europea contro le attività iraniane sullo sviluppo di missili balistici e sul complotto terroristico. La decisione dell’Ue avrebbe fornito un ulteriore pretesto al “grande” ayatollah Khamenei – arcinemico del presidente Rohani – per costringere Zarif alle dimissioni. Secondo la maggior parte degli osservatori, la Guida Suprema ha accusato Zarif di aver fatto apparire debole il regime senza apportare alcun vantaggio economico. La dimostrazione dell’ostracismo nei suo confronti è stata l’esclusione dallo storico incontro tra il dittatore siriano Bashar Assad con Khamenei e il potentissimo capo delle guardie rivoluzionarie iraniane Qassem Soleimani, braccio armato dello stesso Khamenei sullo scacchiere internazionale, specialmente in Siria, Iraq e Yemen.

La simbologia del potere è di fondamentale importanza nella politica rivoluzionaria iraniana e l’assenza di Zarif ha significato la sua alienazione dal capo supremo.

È anche possibile che Zarif abbia offerto le proprie dimissioni per placare la rabbia e l’odio della fazione politica più radicale che sta ricrescendo a ritmo sostenuto anche in seguito alla politica dell’amministrazione Trump e di quella israeliana del premier uscente Netanyahu. Zarif avrebbe scelto di immolarsi e darsi in pasto ai radicali islamici che sostengono la Guida Suprema per tentare di salvare la missione riformatrice del presidente Rohani. Addossandosi quelli che i nemici interni ritengono dei fallimenti umilianti (anche se il primo a non volere l’accordo sul Nucleare era proprio Khamenei) per gli eredi dell’impero persiano, Zarif forse sperava che le proprie dimissioni bastassero a fermare il boicottaggio di Rohani da parte dei suoi tanti detrattori. La reazione di Rohani rimette tutto in gioco, ma i tormenti nella politica iraniana stanno crescendo.

Domenica i gazebo per eleggere il nuovo segretario

Dopo un percorso durato un anno dalla sconfitta elettorale, il Pd potrebbe eleggere domenica 3 marzo il proprio segretario alle primarie aperte su tutto il territorio nazionale. Tre i candidati rimasti in lizza dopo il congresso del partito, la prima fase della corsa: Maurizio Martina, Nicola Zingaretti e Roberto Giachetti, da sinistra a destra in quest’ordine sulla scheda elettorale. Saranno 7mila i seggi e gazebo allestiti nei circoli dem da migliaia di volontari, nei quali si potrà votare dalle ore 8 alle 20. Se nessun candidato supererà il 50% dei voti sarà l’Assemblea dei delegati a decidere con un ballottaggio.

Zingaretti ha vinto tra gli iscritti con il 47,38% (88.918 voti), secondo Martina al 36,10% (67.749), terzo Giachetti all’11,13% (20.887), ma domenica si ripartirà da zero. Domani il duello tv su Sky Tg24. Potranno partecipare al voto tutti i cittadini che “dichiarino di riconoscersi nella proposta politica del Pd – si legge nello statuto Dem – di sostenerlo alle elezioni e accettino di essere registrati nell’Albo pubblico degli elettori”. Per votare è richiesta una donazione di 2 euro, tranne per gli iscritti al partito in regola con il tesseramento.

Di Maio ha fallito e i grillini non aspettino le Europee

Sembra chiaro che il patto gialloverde si stia rivelando a vantaggio della Lega, che ha ribaltato – cautela però quando si parla di Amministrative e 5 Stelle – i rapporti di forza del 4 marzo. Era prevedibile che i 5 Stelle avrebbero pagato un prezzo quando si sono trovati costretti a scegliere, loro che si sono posti al di sopra di destra e sinistra, ma non immaginavo con tale rapidità e in queste proporzioni. C’è un problema di fragilità della leadership, visto il modo subalterno con cui Di Maio ha portato avanti l’alleanza, ma questo dipende anche dal fatto che Di Maio è indebolito dalla consapevolezza che questo governo è la sua unica chance: ha una sola mano da giocare e coincide con il suo destino personale. Certo, il potere è di per sé un collante, dunque è difficile che possa troncare l’alleanza, malgrado il M5S rischi di pagare un prezzo altissimo. Fossi nei 5 Stelle, questo problema me lo porrei, senza aspettare le Europee e consapevoli che non potrà esser Di Maio a condurre la fase successiva. Quanto al Pd, se un partito che ambisce a essere popolare non si pone il problema di dialogare, aprire contraddizioni, confrontarsi con un elettorato di oltre 10 milioni di italiani che gli è entrato in casa, allora è moribondo. È sbagliato pensare di andare avanti con la strategia dei “pop corn”, limitandosi a dire “avevamo ragione noi”, in piena sindrome solipsistica. Ma l’errore è stato a monte: la prima cosa da fare era dividere gli avversari, non auspicare la loro unione come ha fatto Renzi, per non fare i conti con la propria sconfitta e continuare a tenere imprigionato il Pd.

I dem facciano il primo passo poi il M5S molli il Capitano

C’è un dato chiaro: da quando c’è il governo gialloverde, la Lega ha guadagnato un punto al mese nei sondaggi, mentre il M5S ha perso altrettanto. Salvini è come un leone che lentamente si sta divorando la gazzella, l’ha catturata e adesso non la mollerà finché non l’avrà del tutto spolpata. Non è soltanto una questione di elettori in fuga, perché c’è uno svuotamento di anima e corpo: al calo corrisponde un’emorragia dei principi cardine del Movimento. Penso alla vocazione ecologista, penso all’anima proletaria, penso ad alcune schifezze come il decreto sicurezza o la legittima difesa che i 5 Stelle stanno approvando. Salvini raccoglie ora i frutti della sfida che ha accettato lo scorso anno, ovvero quella di formare un governo con il M5S da una posizione di partenza sfavorevole, con circa la metà dei voti. La stessa sfida che il Pd ha rifiutato nonostante nel 2013, a ruoli ribaltati, fosse stato Bersani a rivolgersi a Grillo per cercare un accordo di governo. Come ha scritto ieri Massimo Cacciari, è assurdo che i dem non affermino le differenze tra Lega e 5 Stelle, identificando l’uno con l’altro come fossero la stessa cosa. Certo, più passa il tempo e più il Movimento, svuotato dall’alleato, rischia di appiattirsi sul Carroccio, ma ci sarebbe bisogno di un primo passo di disponibilità del Pd nei confronti dei grillini, che a quel punto farebbero bene a mollare Salvini. Invece, tra i candidati alla segreteria, nessuno ha dichiarato di voler fare questa mossa: così il Pd e i 5S si ritroveranno entrambi al di sotto del 20 per cento, senza più neanche possibilità di avere la maggioranza insieme.