“Nel Pd stop agli insulti ai 5S, loro sono diversi dalla Lega”

È il vero demiurgo di Nicola Zingaretti, l’europarlamentare Goffredo Bettini. E risponde a 360 gradi, a partire dall’intervento di Massimo Cacciari per arrivare al Pd che verrà.

Onorevole Bettini. Ha letto il pezzo di Cacciari sul Fatto? È d’accordo con l’idea che il Pd deve parlare al M5S per isolare la Lega?

Cacciari parte da un’idea che ripeto anche io da mesi: la Lega e i 5Stelle sono due forze molto diverse. La Lega è una destra risorgente inquietante e illiberale. Il M5S è l’antipolitica, con dentro tutto e il contrario di tutto. Lo sfarinamento del movimento di Grillo ci impone, ancora di più, di capire le ragioni di chi l’ha votato e di andarci a riprendere il nostro popolo che ci ha abbandonato.

Quali sono i temi del Movimento che il Pd può intercettare? Il reddito di cittadinanza per esempio?

Il reddito di cittadinanza è stato concepito male e si sta realizzando ancora peggio. Fotografa la povertà. Non la combatte. Ma l’idea che un aiuto materiale, diretto, d’emergenza, transitorio, alle persone in difficoltà sia un incentivo a starsene in vacanza è una idiozia elitaria e offensiva. Le famiglie soffrono, soprattutto nel Mezzogiorno, e mettono in comune i guadagni che entrano a casa. Bene: 700 euro possono fare la differenza tra la miseria e la dignità. Occorrono riforme strutturali, ma nel frattempo bisogna sostenere chi non ce la fa.

Quale dev’essere il rapporto del Pd con il Movimento?

Il Movimento 5 Stelle non ha retto la prova del governo e per questo sta perdendo voti e si sta frantumando all’interno tra le varie anime. Con esso non possiamo fare alcuna alleanza politica, anche se ci fosse la crisi di governo. Ma possiamo promuovere un campo ampio che tolga spazio alla Lega e accolga tanti elettori delusi da Di Maio o che si sono astenuti. Questo non si fa rispondendo agli insulti con altri insulti, con l’arroganza, la boria di chi ha sempre ragione, l’umiliazione di chi oggi avverte di aver sbagliato. Questo è l’abc della politica.

Domenica ci sono le primarie e Zingaretti è favorito. Come se lo immagina il suo Pd?

Forte nella tensione della ricerca “alta” di una nuova collocazione culturale e ideale. Allo stesso tempo, misurato, accorto, pragmatico, dinamico nell’iniziativa concreta. Per voltare pagina c’è bisogno di pensieri spericolati e di politica; che necessita di una certa professionalità.

C’è un rischio scissione?

Penso di no. Abbiamo deciso, tardissimo, di svolgere il congresso per confrontare piattaforme diverse. Chi vince ha l’obbligo di dirigere e di scegliere, attraverso un confronto inclusivo e costante con le minoranze. Zingaretti ha auspicato un partito delle persone e non delle correnti nel quale, a seconda dei temi in discussione, si possono costruire aggregazioni variabili. Quello che finora è stato del tutto assente.

Non crede che il nodo Renzi (sempre più un partito nel partito) vada affrontato?

In un Pd plurale Renzi può svolgere un ruolo importante. Ma le scelte di Renzi stanno esclusivamente nelle mani di Renzi. Qualsiasi esse siano le rispetterò. Anche perché, in ogni caso, Renzi starà in un campo destinato a combattere insieme la destra estrema che si sta affermando.

Qual è la sua idea di listone alle europee? Una sorta di coalizione sul modello di quella ulivista? O una lista unica alla Calenda? Il simbolo del Pd può sparire?

Il Pd è stato il solo partito che si è reso disponibile a costruire una lista unitaria. E anche, se fosse necessario, a rinunciare al suo simbolo. Per ora altri hanno preferito, legittimamente, la strada di presentarsi sotto i propri simboli. Penso, per questo, che ancor più spetti a noi rilanciare una proposta di lista ampia, in grado di raccogliere associazioni, esperienze territoriali, movimenti e soggetti politici attorno a una idea di rifondazione dell’Europa.

Chi ne dovrebbe fare parte? Anche la sinistra di Liberi e uguali?

Se ripartiamo dalle possibili alleanze dei vecchi involucri politici, andiamo di nuovo incontro alla sconfitta. Il Pd deve rimescolare le carte e mettere in campo nuovi protagonisti.

Reddito, più privacy. Lo Stato non vedrà le spese della card

Lo Stato non controllerà le singole spese fatte con la card del reddito di cittadinanza, ma solo gli importi complessivi. Con questa importante novità, richiesta dal Garante della Privacy, il decretone che contiene la misura anti-povertà e Quota 100 sulle pensioni si avvicina all’ok definitivo del Senato. Dopo la maratona di questa settimana, il provvedimento passerà a Montecitorio. I sussidi per i meno abbienti e la possibilità di ritirarsi dal mondo del lavoro, invece, partiranno ad aprile. Rispetto al testo uscito da Palazzo Chigi, oltre alle regole sulla privacy, c’è la doppia stretta sui furbetti del divorzio e sugli stranieri. Ora chi si separa dovrà presentare un apposito verbale della polizia municipale che certifichi separazioni o divorzi avvenuti dopo l’1 settembre 2018. Un limite reso necessario dal pericolo dei finti cambi di residenza che hanno spinto il generale Carmine Lopez, comandante interregionale Italia sud-occidentale della Guardia di finanza ad annunciare un censimento. “Solo a Palermo, a gennaio ci sono stati oltre 1.000 cambi di residenza e nella prima settimana di febbraio sono state fatte 200 richieste di cambi di residenza”, ha commentato il generale.

I conti di Conte: più dubbi che risposte

Da quando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha tolto al ministero del Tesoro il negoziato con l’Ue, Palazzo Chigi è diventata la sede della politica economica. Per questo l’intervista di Conte al giornale della Confindustria, Il Sole 24 Ore, va letta con più attenzione delle dichiarazioni del ministro del Tesoro Giovanni Tria.

La Conte-nomics è un po’ difficile da conciliare coi numeri reali di crescita del 2019 (forse +0,2 invece che l’1 per cento previsto dal governo). Ma comunque il premier manda alcuni messaggi chiari. Primo: la manovra correttiva di primavera non è esclusa come dicono Luigi Di Maio e Matteo Salvini, ma è “prematuro parlarne”. Di sicuro non contemplerà una patrimoniale, dice il premier, che considera sufficienti i tagli automatici da 2 miliardi alla spesa inseriti nella legge di Bilancio che scattano in caso di sforamento dei parametri (peccato che tagliare la spesa in recessione significa ridurre il Pil e quindi rendere debito e deficit più pesanti).

Tutti gli investitori che hanno letto l’intervista di Conte cercavano risposte a una domanda semplice: come diavolo farà il governo a rispettare gli impegni presi per il 2019 e a sopravvivere a una legge di Bilancio 2020 che pare insuperabile? Le risposte arrivano a metà.

Conte evoca ancora una volta l’intervento della Cassa depositi e prestiti per un “piano di privatizzazioni nel settore immobiliare”. Ma nessuno ha mai creduto che la Cdp possa vendere 18 miliardi di euro di immobili pubblici, a tanto ammontano le privatizzazioni che il governo ha messo a bilancio per il 2019. Ed è assai difficile che l’obiettivo si raggiunga se nel frattempo si statalizzano altri pezzi di economia, come Alitalia o, chissà, la rete telefonica aumentando la partecipazione della Cdp in Telecom.

Ma è sul capitolo fisco che ci sono le sorprese maggiori: Conte spiega che gli aumenti automatici dell’Iva da 23 miliardi già previsti per il 2020 non scatteranno perché il governo troverà risorse da fonti alternative. Ne indica una sola: “La revisione complessiva del sistema delle tax expenditures”. Negli ultimi 25 anni tutti i governi hanno promesso di rivedere detrazioni e deduzioni, ma di solito per finanziare tagli di altre tasse. Conte invece dice che lì si troveranno 23 miliardi per evitare l’Iva. Tradotto: i contribuenti italiani non pagheranno 23 miliardi di imposte sui consumi ma pagheranno comunque 23 miliardi di tasse in più, perché a questo equivale tagliare le agevolazioni.

Già realizzare questo sarebbe doloroso e complicato. Ma Conte deve anche dare qualche segnale alla Lega: magari non la flat tax, ma una revisione delle aliquote Irpef da cinque a tre (vecchio progetto berlusconiano mai realizzato). Dove si trovano le risorse? Mistero, perché Conte è molto netto nel bocciare le tradizionali fonti di copertura auspicate dalla sinistra ma perfino dai Cinque Stelle. Come gli 80 euro di Renzi che il programma elettorale del M5S contava addirittura due volte tra le coperture. Ora invece la risposta secca alla domanda se il governo li abolirà è “No”. Al massimo verrà introdotto il “coefficiente familiare”, che potrebbe sovrapporsi e in parte assorbire la misura renziana.

E il Tav? “Ora comincerà il confronto interno” al governo. Quello che tutti avevano capito dovesse invece chiudersi con l’analisi costi-benefici. Di decisioni, per ora, non si parla.

Consob: dal Senato sì a Savona, l’ostacolo vero sarà la Camera

Ipartiti che s’erano, giustamente, schierati per le dimissioni di Mario Nava da presidente Consob a causa della forzatura normativa che ne aveva segnato la nomina (riassumendo, il distacco triennale “nell’interesse” dalla Commissione Ue per un incarico di 7 anni che prevede l’aspettativa e la piena indipendenza) si stanno apparecchiando da soli una situazione del tutto simile. Com’è noto a quel ruolo, vacante da settembre, è stato destinato l’82enne Paolo Savona, la cui figura presenta però molteplici profili di incompatibilità che rischiano di bloccarne l’insediamento o regalare alla Commissione di controllo sulla Borsa una nuova tornata di ricorsi e veleni interni.

Ieri mattina il ministro sardo, indicato dal governo a inizio febbraio, ha incassato il parere positivo (non vincolante) della commissione Finanze del Senato: 12 voti a favore, 9 contro e un astenuto. La maggioranza ha tenuto; l’opposizione – con Fratelli d’Italia – non ha potuto far altro che sottolineare la forzatura regolamentare di convocare la votazione senza passare dall’ufficio di presidenza e negando, implicitamente, la richiesta di audizioni sulle possibili incompatibilità del ministro: la richiesta di annullare il voto alla presidente del Senato Alberti Casellati non ha possibilità di essere accolta.

Diverso il caso della Camera, dove la nomina di Savona potrebbe essere bollata come incompatibile in audizioni pubbliche dall’Anac, dalla Corte dei Conti e da alcuni giuristi: un colpo dopo il quale difficilmente il percorso di insediamento in Consob potrebbe proseguire come se nulla fosse, tanto più che l’interessato in Senato aveva dichiarato che “se mai la nomina non fosse legittima, come invece mi è stato assicurato, non brigherò per mantenere l’incarico”.

La decisione sulle audizioni a Montecitorio non è stata però ancora presa. Com’è noto, la settimana scorsa il presidente Roberto Fico aveva risposto no alla richiesta spiegando che sentire il parere degli esperti era possibile solo sugli atti normativi e non sulle proposte di nomina.

Fico, però, aveva lasciato uno spiraglio: “Non appare possibile, allo stato, autorizzare lo svolgimento delle predette audizioni, rispetto alle quali peraltro nella sua lettera non sono specificate le motivazioni che hanno indotto la commissione Finanze a considerarle necessarie ai fini dell’espressione del parere (…)”.

Quasi un invito alla commissione a ripresentare la richiesta motivandola, magari alla luce della decisione della Giunta del Regolamento che, nel giugno 2013, stabilì che il parere delle commissioni in questa fase ha per oggetto la “verifica dei requisiti” soggettivi del nominato. La lettera che spiega i motivi per cui audire Anac, Corte dei Conti e giuristi per verificarli è arrivata e ora Fico dovrà decidere.

Di motivi ce ne sono parecchi e risiedono nel combinato disposto tra Savona, la legge Severino e la legge Madia. Come abbiamo già scritto, infatti, queste norme impediscono di assumere la presidenza Consob ai membri del governo se non 12 mesi dopo le dimissioni; ai pensionati (e, se pure, per non più di 1 anno); a chi nei due anni precedenti abbia ricoperto cariche in società regolate dalla Commissione. Savona ricade in tutti e tre questi profili.

Pastori, in Sardegna finiscono le elezioni ma non le proteste

Ancora assalti armati contro le cisterne del latte in Sardegna. L’ultimo è avvenuto nella mattinata di ieri. I responsabili sono due uomini armati che hanno fermato il conducente a Nule, in provincia di Sassari, obbligandolo a scendere dal mezzo e allontanarsi. A quel punto hanno appiccato le fiamme al mezzo, che ne è uscito parzialmente distrutto. Il blitz è avvenuto nel giorno in cui si apre in prefettura a Sassari il tavolo tecnico sul prezzo del latte, che non ha raggiunto un accordo. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha commentato così la vicenda: “Questi delinquenti non hanno niente a che fare coi pastori, con la loro fatica, la loro protesta e le loro ragioni. Questi sono solo dei criminali. E come tali saranno trattati”. Anche il neo-presidente della Sardegna, Christian Solinas, ha parlato ai microfoni di SkyTg24: “I nostri pastori rivendicano legittimamente una giusta remunerazione del loro lavoro e su questo fronte noi siamo immediatamente operativi per costruire un risposta di sistema. Ma questi fatti sono da condannare senza se e senza ma. Si tratta di delinquenti e basta”.

Calenda ha di nuovo mangiato pesante

Il noto leader europeista Carlo Calenda, balzato ultimamente agli onori delle cronache perché non riusciva a organizzare una cena e perché non riesce a organizzare una lista, è comprensibilmente nervoso. E non per le sue allarmanti condizioni psicofisiche, di cui ieri ha offerto un saggio imperituro postando sui social una raccapricciante foto in déshabillé al bordo di un lago dei cigni con un solo cigno perché gli altri se li era appena mangiati lui. Ma perché il Fatto osa nominare il suo nome invano, cioè senza il suo permesso. Ieri, per l’ennesima volta, essendo stato citato di sfuggita (il massimo che merita) da Daniela Ranieri in un pezzo dedicato a Pisapia, se n’è avuto a male. E, anziché rassegnarsi all’idea di avere almeno un giornale che non gli lecca i piedi e il triplo mento, ha scatenato contro la reproba la consueta mutina di dobermann, rottweiler e barboncini da tastiera. Con questi alati concetti, tipici dei grandi leader europeisti che mangiano pesante: “La cosa interessante del Fatto e di Daniela Ranieri (la talebana dei talebani) è che decidono pure chi rappresenta qualcosa e chi no. L’apoteosi della protervia. Domanda: ma chi rappresenta e/o legge oggi il Fatto oltre Di Maio, Toninelli e Salvini?” (l’italiano approssimativo è tutto suo); “Finché sono io passi. Ma che la Ranieri accusi la Bonino di no (sic, ndr) rappresentare nessuno… Emma rappresenta più cose con il suo dito mignolo del piede sinistro che Ranieri, Travaglio e co (ri-sic, ndr) moltiplicati per 1.000”. Infatti il Fatto, essendo un quotidiano, non si presenta alle elezioni, diversamente da Calenda (trombato nel 2013 e mai più ricandidato) e Bonino (in Parlamento dal 1976, ultimo risultato: 2,5% e zero seggi). Quindi Calenda & his troll si rassegnino: il sottoscritto, Daniela e chi lo vorrà continueranno a occuparsi di lui sul Fatto ogni volta che lo riterranno opportuno. Prima e dopo i pasti.

“Ora Di Maio deve autografarmi il gilet”

“Io non volevo assolutamente denigrare la precedente occupazione di Luigi Di Maio. Col mio gesto volevo dirgli: sei inadeguato come ministro, se torni a fare lo steward fai contenti gli italiani”. Antonio Saccone, senatore di Forza Italia (in quota Udc) alla prima legislatura, durante il dibattito sul decretone ha mostrato in aula un gilet da steward con la foto di Di Maio che, com’è noto, prima della politica, tra le altre cose, è stato assistente allo stadio San Paolo di Napoli. Il vicepremier gli ha risposto sottolineando di essere orgoglioso di tutte le sue precedenti occupazioni.

Senatore, il suo gesto è stato denigratorio…

Io da ragazzo ho fatto il bagnino in uno stabilimento di Ostia. Poi sono stato in un fast food. Ogni lavoro è dignitoso e va rispettato, non mi permetterei mai di sfottere una persona per le sue esperienze professionali. Il messaggio era un altro: sei un pessimo governante, vattene e torna a fare quello che facevi prima. I risultati della politica economica del governo, del resto, sono sotto gli occhi di tutti, con l’Italia in recessione e tutti i numeri negativi.

Di Maio ha risposto che lei invece ha campato sempre di politica, passando da una casacca all’altra: i centristi, Veltroni, Forza Italia.

Io non ho mai campato di politica. Ho lavorato in alcuni programmi Rai, da cui mi sono dimesso rinunciando anche a una carriera, e poi mi sono sempre occupato di relazioni esterne e istituzionali.

Sì, ma i cambi di casacca…

Sono sempre stato un centrista cattolico, tant’è che ho iniziato a fare politica nel 1997 nel Ppi. Nel 2001 sono diventato presidente del secondo municipio a Roma con FI, carica da cui mi sono dimesso nel 2005 per contrasti con la mia stessa maggioranza.

Come finisce da FI in Campidoglio con Veltroni?

Walter si era ricandidato a sindaco, stava costruendo una lista civica centrista e mi chiese di candidarmi nel 2006. Come sindaco lo stimavo, ho accettato e sono stato eletto. Ma non sono mai entrato nel Pd.

Con Rutelli però le va male. Poi arriva pure Marchini.

Nel 2008 non vengo eletto e torno a fare comunicazione. Entro nell’Udc di Cesa che a Roma, nel 2013, fa l’accordo con Marchini. Mi candido ma anche stavolta non va.

Poi torna in Forza Italia e il cerchio si chiude.

Alle Politiche l’Udc stringe l’accordo con Berlusconi ed entra nella coalizione di centrodestra. Vengo eletto in Senato, dove siedo tra i banchi di Forza Italia. Ma sono e resto dell’Udc.

Ha proposto a Di Maio di autografare il gilet della discordia per poi venderlo in beneficenza.

Se lo facesse sarebbe un gesto di grande intelligenza e ironia. Significherebbe aver capito che la mia era un critica e non un insulto.

Cari esperti, rassegnatevi: la gente vota come le pare

Questo diario pensa di conoscere la vera origine del flop degli exit poll in Sardegna: effetto dell’elettorato ormai fuori controllo, volubile, mobile, imponderabile perfino per la scienza dei sondaggi. Con le interviste all’uscita dei seggi più adatte a Scherzi a parte. E con il “testa a testa” tra Solinas e Zedda che per un po’ riscaldava le maratone domenicali, salvo rivelarsi ancora più fasullo del rigore fischiato contro l’Inter.

Una variabile così variabile, quella del voto italiano, che contribuisce a rendere per lo meno imprudente la previsione (l’aspettativa) Fitch, che considera alta “la probabilità di elezioni anticipate nella seconda metà di quest’anno”. Vaticinio piuttosto improprio, visto e considerato che un’agenzia di rating dovrebbe limitarsi a dare i voti all’economia italiana, mentre da questi pulpiti sempre di più si dispensano consigli, non richiesti, alla politica. Perlopiù ignorati dagli elettori che quando si trattò di votare la riforma costituzionale di Matteo Renzi disattesero, senza saperlo, la lezioncina della banca JP Morgan sull’impronta “troppo socialista” della nostra Carta.

Adesso, anche sui ruvidi cittadini sardi non si può tanto contare avendo essi provveduto a scombinare alcune certezze che la politologia prêt-à-porter aveva messo in campo. Salvini doveva sfondare e non ha sfondato, mentre ad essere stati sfondati sono i Cinque Stelle. Pure questa una sorpresa per gli eminenti studiosi dei flussi convinti che il reddito di cittadinanza, di imminente somministrazione, avrebbe indotto le derelitte masse meridionali a confermare festose il voto pentastellato dello scorso 4 marzo. S’è visto come.

Una doppia chiave interpretativa. O le suddette masse al suddetto reddito non credono più. O ci credono ancora ma ritengono di avere già dato (come i napoletani, nel ’52, che eletto sindaco il comandante Lauro dopo l’incentivo della prima scarpa, come da accordi, incamerarono la seconda e tanti saluti).

Dopo Molise e Abruzzo anche nell’isola dei Quattro Mori, dunque, vince ancora il centrodestra ma non ditelo all’uomo della Nutella che (altra apparente stranezza) piuttosto che puntare a fare il premier con Berlusconi e la Meloni (“non ci tornerò mai”) preferisce di gran lunga i due cuori e la capanna con l’“amico” Di Maio (con annesso Viminale e tutti i benefits che desidera). Di Maio che a questo punto proprio perché investito dalla tramontana della sconfitta si aggrappa al 32 per cento delle Politiche e si tiene stretto, strettissimo il governo e possibilmente altri quattro anni di legislatura. Sempre se l’amico Matteo è d’accordo. Con il che smentendo tutti i profeti della crisi gialloverde, sempre imminente (come le dimissioni del ministro Tria) poiché non c’è niente di più saldo della reciproca convenienza che lega il creditore al debitore, il più forte al più debole, chi sale a chi scende. Magari con un rimpasto post Europee se quel voto fotografasse il prevedibile, mutato rapporto di forze tra i contraenti (a Toninelli già fischiano le orecchie).

Quando, infine, nel Pd quasi si brinda al risultato di Sardegna e Abruzzo, come segno di esistenza in vita malgrado la perdita secca delle due presidenze, siamo in pieno intrattenimento elettorale. Con un partito che sprofondato nel segno meno registra qualche segno più, benché privo di guida o proprio perché privo di guida. Dove il probabile vincitore delle imminenti primarie, Nicola Zingaretti, sembra tuttavia disturbato dal mancato fallimento del centrosinistra allargato di Legnini e Zedda. Mentre scruta preoccupato il ringalluzzito (malgrado i problemi familiari o forse a causa di essi) Matteo Renzi in vetta alle classifiche dei libri con il suo ultimo parto, strombazzato in tutti i talk. Insomma il solito odio vigilante a sinistra.

Si replica tra breve in Basilicata e poi in Piemonte. Dove i Cinque Stelle potrebbero risorgere e il Pd di nuovo affondare mentre Salvini chissà. È l’happening elettorale bellezza, l’ottovolante dei partiti, e tu non puoi farci niente.

Sala e De Magistris, dialogo anti Lega e il Pd si irrita

Smentendo chilo accusa di essere isolato, ieri il sindaco Luigi de Magistris è riuscito nel colpaccio di portare a Napoli uno dei sindaci più influenti dell’odiato Pd, il milanese Beppe Sala, per parlare insieme lo stesso linguaggio di tolleranza e integrazione in chiave anti Salvini. Il dialogo tra i due è nato dopo gli ululati razzisti di San Siro contro Koulibaly in Inter-Napoli. Sala condannò immediatamente l’episodio, avvenuto peraltro una decina di giorni dopo la discutibile stretta di mano di Salvini con un capo ultras del Milan pregiudicato per droga e coinvolto una rissa allo stadio con un tifoso che perse un occhio e poi si suicidò. De Magistris apprezzò. E’ scattato l’invito, che sarà ricambiato a marzo. Ieri i due primi cittadini hanno criticato con toni diversi l’autonomia differenziata chiedendo più attenzione per i comuni. La prova che l’iniziativa abbia urtato le sensibilità dem è nel documento dato a Sala da due consiglieri iscritti al Pd, Lebro e Venanzoni: “Ci stupisce che lei si presti a legittimare De Magistris e la sua cattiva amministrazione”. Lebro però fu eletto in una lista del sindaco.

Eletti tre della lista degli impresentabili dell’Antimafia

Rieccoli, stavolta in Sardegna: tre impresentabili neoletti in Consiglio regionale, due della coalizione di centrodestra e uno di centrosinistra, imputati per vari reati che vanno dalla concussione al traffico internazionale di stupefacenti. In caso di condanna scatterebbe la “tagliola” della legge Severino: sospensione dalla carica. Si tratta di tre nomi presenti nella lista di otto “impresentabili” diffusa dal presidente della commissione Antimafia Nicola Morra. Sono Giovanni Satta, Antonello Peru e Gianfranco Ganau. Il primo, della lista “Solinas presidente”, è l’uomo apparso in una foto del vicepremier durante un incontro elettorale a Cagliari dove il segretario della Lega annunciava di volere “liste pulite”. Satta è imputato in tre processi, di cui uno per traffico internazionale di stupefacenti. L’altro è Antonello Peru di Forza Italia, già sospeso da vicepresidente del Consiglio regionale in quota Fi dopo l’arresto nel secondo troncone dell’inchiesta Sindacopoli nel 2016, è imputato per concussione aggravata. Ganau, Pd, presidente del Consiglio regionale uscente, è imputato per tentata concussione in concorso. Per lui novembre la procura di Sassari ha chiesto l’assoluzione.