Restituzioni, Sarti nei guai: anche lo staff nel mirino

Per un anno il guaio era rimasto nel cassetto, perfino superato dalla presidenza della commissione Giustizia della Camera che, nonostante tutto, Giulia Sarti era riuscita a strappare al Movimento. Ma prima o poi doveva tornare: ed è tornato più disgraziato che mai. Tanto da costringere la Sarti a dimettersi dalla carica parlamentare, ad autosospendersi dai 5 Stelle e pure a difendere i vertici della comunicazione, finiti nella bufera insieme a lei.

Tutto nasce da una notizia pubblicata ieri dal Resto del Carlino: l’ex fidanzato della deputata, Bogdan Andrea Tibusche, va verso l’archiviazione. La Procura di Rimini, insomma, non ritiene che la denuncia presentata dalla Sarti debba essere approfondita. L’affare riguarda le restituizioni che, da statuto, i Cinque Stelle devono versare ogni mese ad un fondo: nella scorsa legislatura, era quello per le piccole e medie imprese. Alla vigilia delle elezioni del 4 marzo 2018, la Sarti finisce nella lista nera de Le Iene. Come altri parlamentari – poi espulsi da M5S – anche per lei c’è l’accusa più infamante per un grillino: essersi tenuta i soldi. Mancano 23 mila euro: versamenti finti, prima bonificati e poi annullati, che il 14 febbraio dell’anno scorso Sarti restituisce al ministero dell’Economia.

L’amaro San Valentino, però, non aiuta a girare pagina. Il mattino dopo la Sarti, allora candidata alla Camera, si autosospende dal Movimento e si presenta in Questura a Rimini con quelle che secondo lei sono le prove del “raggiro”. Ci sono i bonifici che Tibusche, con cui ha convissuto per 4 anni, ha effettuato per conto suo. Sette nel 2014, 13 nel 2017, 5 nel 2018, per un totale – appunto – di circa 23 mila euro. “Ogni tanto controllavo, non trovavo irregolarità – disse allora la Sarti – Bogdan mi aveva avvisato che non avrebbe fatto i versamenti puntuali perchè il denaro gli serviva per curarsi ma ero convinta che li avrebbe fatti in un secondo momento”.

Ventiquattro ore più tardi, l’ex fidanzato – che è di origine rumena, ma in Italia si presenta come Andrea De Girolamo – è indagato per appropriazione indebita : lo torchiano fino alle 4 e mezzo del mattino. Il verbale è secretato: lui avrebbe portato chat, sms e altri frammenti di conversazioni che dimostrerebbero che la deputata era a conoscenza delle sue operazioni “allegre” sul conto. Sui social, precisa: “Ho un brutto vizio: registro tutto, pure le telefonate”.

Sono giorni pesanti, la Sarti finisce nel mirino dei vertici M5S. Che però le confermano fiducia, al punto da affidarle la guida di una delle commissioni parlamentari più prestigiose. Ruolo che, va detto, la Sarti esercita senza risparmiare qualche stilettata ai “capi”, come nel recente affare del voto sulla Diciotti (lei era per il Sì al processo a Salvini).

Tutto bene, insomma, fino a ieri. Quando a Rimini si diffonde la notizia della richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura un mese fa. E quando le Iene tornano a bussare, stavolta da Rocco Casalino. Gli chiedono se davvero, come Tibusche sostiene di aver saputo dalla Sarti, sono stati lui e Ilaria Loquenzi a spingere la deputata a denunciarlo, per salvarsi la faccia. Casalino, fanno sapere da Italia1, mostra una vecchia chat ormai cancellata e chiama in diretta la deputata. Che scoppia in lacrime e dirama un comunicato in cui smentisce la teoria dei “mandanti” e annuncia dimissioni e autosospensione.

La storia va avanti in Tribunale. Il legale della Sarti, Fabio Repici non si è opposto alla richiesta di archiviazione. “La documentazione era già allegata alla denuncia. Non aveva senso ripresentarla: ora attendiamo il Gip”. Quello che, secondo la Sarti, non è stato tenuto sufficientemente in conto è la relazione amorosa che la legava a Tibusche. Lui, insiste, non era un semplice collaboratore: è stata la fiducia nel fidanzato a far soprassedere la Sarti dal controllare quel che faceva. Già, perché la tesi su cui si fonda l’ipotesi di archiviazione è questa: se Bogdan poteva operare liberamente sul conto, l’omesso controllo è responsabilità solo della deputata; se non si è accorta dei bonifici annullati, è un problema suo.

Dal Movimento fanno sapere che le pratiche per la sua sostituzione alla guida della commissione sono già avviate. E che adesso, se il processo non cambia rotta, rischia l’espulsione. Tibusche, intanto, non ha cambiato stile: “Preparate i pop corn”.

Una decina fuori dall’aula: il “segnale” dei dissidenti

E alla fine rinvio fu. La riforma della Legittima difesa voluta dalla Lega dovrà attendere. Nonostante le rassicurazioni di Luigi Di Maio che poco prima che l’aula della Camera decidesse lo slittamento del testo inviso a parte del Movimento 5 Stelle aveva rassicurato che non ci sarebbe stato nessuna variazione al cronoprogramma. “È una fake news che avrei chiesto di rimandare la legittima difesa” ha detto il capo politico pentastellato nella prima conferenza stampa dopo il voto in Sardegna. Che sembra essere uno spartiacque che ha imposto la riorganizzazione a livello locale, ma non solo, al Movimento. Che ha bisogno di rilanciarsi recuperando un po’ di agibilità politica nei confronti dell’alleato di governo leghista premiato ancora una volta dalle urne. Ma soprattutto limitando l’area del dissenso interno che vede come fumo negli occhi provvedimenti come la legittima difesa molto cari al Carroccio.

Un dissenso che si è manifestato in aula a Montecitorio sul voto delle pregiudiziali di costituzionalità presentate da Pd e LeU che hanno chiesto di non passare all’esame del testo: sono state bocciate con una maggioranza granitica che va dalla Lega a Forza Italia e a Fratelli d’Italia che la riforma la vogliono. La maggioranza dei 5 Stelle pure, anche se sono in molti a non ritenerla una priorità. Ma diversi deputati pentastellati proprio non ce l’hanno fatta e, al momento del voto, sono usciti dall’aula.

È il caso di Gloria Vizzini da sempre ostile alla riforma sulla legittima difesa almeno così come è stato scodellata in Parlamento. “Non mi trovo d’accordo su alcuni punti del provvedimento. E con me una decina di colleghi. Questo testo in alcuni passaggi è generico e fa passare il messaggio, assai pericoloso e ambiguo, che il cittadino può difendersi a casa sua: e invece è necessario che sappia fino a che punto il suo comportamento può essere ritenuto lecito e quando invece può travalicare nell’illecito perché la norma deve essere sempre chiara e tassativa. Mi rendo conto che sia un provvedimento sentito: certamente i furti in abitazione sono reati odiosi. Ma credo che questo testo non renda un buon servizio a nessuno se non a chi voglia fare propaganda. E poi ci sono anche alcune questioni tecniche che espongono a una bocciatura della Corte costituzionale. Mi riferisco ad esempio alla possibilità di accordare la sospensione cautelare a chi abbia i mezzi per risarcire il danno derivante dal furto in abitazione. E chi quei mezzi non li ha? Insomma vi sono una serie di perplessità che meriterebbero una riflessione che invece non si è voluta fare. La speranza è l’ultima a morire ma il provvedimento pare blindato: prendere o lasciare”.

Dati i numeri del fronte malpancista si potrebbe liquidare la faccenda in un battito di ciglia. Ma fanno riflettere le parole del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Stefano Buffagni che per conto del Movimento tratta con la Lega i dossier che contano. Come quello sulle nomine proprio ieri in agenda a Palazzo Chigi mentre a Montecitorio veniva deciso di soprassedere sulla legittima difesa. E che ha detto Buffagni su questa riforma? Che “va migliorata”. Aggiungendo poi che la legittima difesa non c’entra niente con il caso di Angelo Peveri, l’imprenditore di Piacenza in carcere per aver sparato a un ladro che sabato ha ricevuto la visita del ministro dell’Interno Matteo Salvini. “Peveri ha fatto una caccia illegale a dei ladri: si può legittimamente difendere se stessi, ma non andare ad ammazzare uno. Lo hanno detto i giudici: non dobbiamo abbinare un problema che esiste con soluzioni che sono strumentali comunicativamente”. A meno che queste parole gli siano sfuggite di bocca, e pare obiettivamente difficile, il messaggio è chiaro: nessun argomento, neppure questo tanto caro alla Lega, deve essere tabù. Si deve insomma trattare tra pari su tutto e su tutti i tavoli. Senza quella subalternità politica che si paga anche alla prova delle urne.

Ora Di Maio frena: “Prima il dibattito, poi regole e nomi”

Il capo che non vince più andrà avanti, ma più piano. Comunque verso il nuovo Movimento che vuole lui, ossia verso la struttura che renderà il Movimento un partito, con referenti regionali, una segreteria politica, l’apertura alle liste civiche e la cancellazione del limite del doppio mandato per i consiglieri comunali e (forse) per i sindaci. Perché è con un’impostazione simile che ha preso il 32,7 alle Politiche, con il nuovo M5S ordinato per filiere e spalancato agli esterni con giacca, cravatta e laurea.

Ed è il primo messaggio che Luigi Di Maio scandisce a una folla di giornalisti dentro la Camera. Assieme a una certezza, sventolata in faccia ai dissidenti: “Il capo politico sono io e lo resterò per altri quattro anni, come da Statuto”. Però dopo la disfatta in Abruzzo e la catastrofe in Sardegna i segnali di fronda aumentano e il malumore è un fiume nero. E racconta che tanti parlamentari e altrettanti attivisti non potrebbero tollerare una rivoluzione calata dall’alto, e in fretta. Così di buon mattino, letti i giornali, Di Maio capisce che è il caso di frenare. E convoca una conferenza stampa, in cui rassicura su tempi e modi della trasformazione. Precisando che si partirà a breve (lunedì, probabilmente) raccogliendo sul web, cioè sulla piattaforma Rousseau, le proposte degli iscritti, e che con gli eletti si faranno assemblee a tema. E solo dopo arriveranno le votazioni sulla rete. Cautele necessarie, perché nel corpaccione parlamentare già si parla di una controproposta, da presentare per evitare che il capo cali in solitudine i nomi dei venti referenti regionali e dei dieci membri della segreteria, insomma che si circondi (ancora) di fedelissimi. “Serve un metodo per arrivare a una rosa” spiegano alcuni veterani. Per poi far notare che c’è uno statuto di cui tenere conto.

E potrebbero avere ragione leggendo l’articolo 9 comma b, in base al quale le novità nel regolamento vanno discusse e approvate dal Comitato di garanzia, composto dalla capogruppo in Regione Lazio Roberta Lombardi, dal sottosegretario Vito Crimi e dal capogruppo in Sicilia Giancarlo Cancelleri. E la norma è dritta: “Il comitato su proposta del capo politico esamina ed eventualmente approva i regolamenti esecutivi necessari per l’attività dell’associazione”. E nel caso che il trio mostri pollice verso e il capo non accetti eventuali modifiche, si rimette tutto al voto degli iscritti, sul web. Nell’attesa c’è Di Maio, che all’ora di pranzo si presenta davanti alla stampa. E la sua prima verità è che politiche e amministrative non vanno mischiate, e a riprova cita una serie di disastri elettorali, dalla Calabria al Friuli Venezia Giulia, spesso piovuti a ridosso di successi a livello nazionale o in grandi Comuni. “Dal risultato non ci sarà nessun impatto sul M5S o sul governo”, giura. E pazienza “per quelle due o tre persone che parlano ogni giorno”, cioè per le senatrici Elena Fattori e Paola Nugnes. D’altronde “quando abbiamo preso il 42 alle politiche in Sardegna il candidato presidente ero io”. Cioè il capo, che nega frizioni con l’ex capo, Beppe Grillo: “Ci siamo sentiti anche dieci minuti fa”. Ma il piatto forte ovviamente è la struttura: “Tanta gente ci chiede aiuto, serve una organizzazione non calata dall’alto, che ci consenta di filtrare queste richieste”.

Quindi il modello è quello della campagna per le politiche: “Avevamo un referente per ogni regione, e candidati scelti per la loro competenza”. Ed è proprio i competenti e gli esperti che va cercando il capo, “per creare una generazione di classe dirigente”. Quindi “possiamo discutere di nuove regole per i consiglieri comunali, e del fatto che il loro secondo mandato non valga e possano candidarsi anche in Consiglio regionale o in Parlamento. Però per maturare quell’esperienza devi fare il primo mandato da consigliere”. Ma la deroga arriverà anche per i sindaci? “Ne discuterò con i parlamentari e con gli stessi sindaci”.

Tradotto, si apre una via alla ricandidatura di Virginia Raggi e Chiara Appendino. Poi c’è il nodo liste civiche, e Di Maio assicura: “Inizieremo con una sperimentazione, bisogna evitare trappole e le civiche fabbricate in provetta”. Soprattutto, fa capire che non vuole liste satellite del M5S. E insiste sull’importanza di parlare con imprese e categorie, il compito principale per i referenti regionali prossimi venturi. Poi, tra un passaggio e l’altro, ripete che gli attivisti dovranno votare sempre di più su Rousseau. Ed è anche un messaggio di pace a Davide Casaleggio, che non palpita per i cambiamenti in arrivo. Ma andrà come vuole Di Maio, che nel pomeriggio si riunisce a Palazzo Chigi con il ministro dell’Economia Giovanni Tria assieme al premier Conte e a Matteo Salvini. Lunedì Tria era andato in picchiata sul M5S ferito: “Nessuno verrà mai a investire in Italia se il Paese mostra un governo che non sta ai patti e cambia i contratti”. E il primo riferimento era al Tav.

Così ieri Di Maio glielo dice a quattr’occhi: “Sei il ministro di questo governo, e questo governo agisce in base a un contratto. Quindi lo devi rispettare anche tu, basta con queste dichiarazioni”. Sullo sfondo, il sottosegretario Stefano Buffagni, dimaiano, che a Circo Massimo è molto sincero: “Stiamo facendo una serie di errori, prima bisogna fare e poi comunicare. Al governo non si può continuare ad avere un approccio barricadero come prima”. E questo non lo cambi con nuove regole.

Imparate da Bossi

Luigi Di Maio è assediato da gente che si sente Gesù nel tempio, non può dare cattivi esempi e dà pure pessimi consigli. L’idea di alcuni professionisti del dissenso di farlo fuori da capo politico o da vicepremier è demenziale: chi ha portato i 5Stelle al 33% alle elezioni e poi al governo come primo partito ha tutto il diritto, e anche il dovere, di reggere la baracca per tutta la legislatura. Anche perché al momento non si vede chi potrebbe sostituirlo. L’idea che i 5Stelle debbano rovesciare, dall’oggi al domani, un governo così popolare per sostituirlo non si sa con cosa, o per rimandarci alle elezioni che porterebbero Salvini&B. a Palazzo Chigi, è ridicola. Altri geni li rimproverano sia per l’eccessiva incoerenza sia per la troppa coerenza: sbagliano se dicono sì al Tap e all’Ilva, sbagliano se dicono no al Tav, agli inceneritori, ad Autostrade e all’acqua privata, cioè sbagliano sempre. I talk sono un continuo défilé di gente che si scaglia contro il reddito di cittadinanza perché dà soldi a chi non lavora, non fa crescere il Pil e non crea occupazione: peccato che sia studiato proprio per dare soldi a chi non lavora, e non per far crescere il Pil o per creare occupazione. Altri lo criticano perché lo prenderanno in troppi, ma anche perché lo prenderanno in pochi, perché 7 miliardi sono troppi, ma sono anche troppo pochi. Un po’ come la Spazzacorrotti, criticata perché non cambia nulla, ma se poi riesce a trattenere per qualche giorno in galera Formigoni condannato a starci per 5 anni e 10 mesi viene criticata lo stesso perché cambia troppo. Manca solo che qualcuno proponga di cancellare il Reddito e la Spazzacorrotti perché, quando tira vento, gli alberi cadono.

Di questi cattivi consigli Di Maio può allegramente infischiarsi. E tener conto che, se prende pesci in faccia dai media, cala nei sondaggi e perde voti, non è solo per i suoi errori, ma anche per i suoi meriti. L’importante è distinguere gli uni dagli altri. Meglio fare cose giuste perdendo voti che non far nulla per guadagnarne (come fa Salvini): i voti portati dalla propaganda vanno e vengono, quelli conquistati con i fatti restano. Poi ci sono gli errori e le ambiguità del M5S, che Massimo Cacciari ha illuminato ieri sul Fatto: quelli vanno corretti. Certo, anche con la riorganizzazione annunciata ieri: riattivare i meet-up e ricominciare a discutere di politica e ad attirare gente valida sui territori eviterà di correre alle prossime Amministrative con candidati improvvisati o improbabili. E consentirà ai sindaci di città semi-fallite, che hanno speso i primi tre anni a imparare sbagliando, di giocarsi il secondo mandato.

Ma soprattutto occorre tenersi pronti a quel che può accadere dopo il congresso Pd e le Europee. La scelta non è fra il buttar giù il governo e il rassegnarsi all’avanzata leghista. C’è pure una via di mezzo, che peraltro dovrebbe essere congeniale a un movimento nato nelle piazze: quella del partito di lotta e di governo. Di Battista, al suo ritorno, aveva provato e, giocando di sponda con Di Maio, era riuscito a costringere Salvini a inseguire i 5Stelle su alcuni temi forti, anche se aveva scelto quelli meno appetitosi per gli elettori, come la campagna di Francia. Di Maio&C. sono troppo giovani e non hanno vissuto il primo governo B., ma dovrebbero studiarne la storia. Anche allora c’era un governo senza alternative, quello uscito dalle urne del 27 marzo ’94, che aveva costretto Bossi a un sacrificio simile a quello di Di Maio: governare con alleati – Berlusconi e Fini – politicamente e antropologicamente diversi da lui, ma inevitabili. Il rapporto di Bossi con B. e Fini era identico, anche se numericamente più sbilanciato (la Lega Nord all’8,3% contro il 21 di FI e il 13,5 di An), rispetto a quello fra Di Maio e Salvini. Eppure Bossi usò quei nove mesi per logorare i due alleati più forti, per affermare l’identità leghista anche a suon di insulti e agguati, bloccare le peggiori porcate berlusconiane (decreto Biondi e controriforma delle pensioni) e intrecciare alleanze alternative per il dopo. Tant’è che B. cadde a dicembre per le mozioni di sfiducia di Lega, Pds e Ppi, che poi sostennero il nuovo governo Dini per un anno: il tempo di consentire alla Lega di rimontare sulla campagna (acquisti) di B. sul “tradimento” e il “ribaltone”. Poi, alle elezioni del ’96, la Lega Nord tornò sola contro “Roma Polo e Roma Ulivo”, toccò il massimo storico del 10,7%, sventò la manovra annessionista di B. e lo cacciò all’opposizione.
In questi nove mesi, il M5S ha piantato un bel po’ delle sue bandierine: vitalizi, dl Dignità, ddl Spazzacorrotti (con blocca-prescrizione), via gli spot dei biscazzieri, via il bavaglio sulle intercettazioni, via la svuotacarceri, analisi e mozione anti-Tav, avvio del referendum propositivo, del taglio dei parlamentari e del Reddito. Ma non hanno saputo raccontarlo, mentre Salvini è abilissimo a raccontare quel che fa (l’imbarazzante dl Sicurezza e null’altro), ma soprattutto quel che non fa. Raccontare e raccontarsi significa avere bravi comunicatori, ma soprattutto buone idee da comunicare, discutendo di politica oltre l’ordinaria amministrazione. Così si evitano scelte suicide come il salva-Salvini via Rousseau. Si riprende in mano la bandiera ambientalista, con i no alle opere inutili e i sì agli investimenti in manutenzione, riassetto del territorio, energie alternative, ciclo dei rifiuti. E si spiega agl’italiani perché la sciagurata legge sulle autonomie, che moltiplica la catastrofe degli statuti speciali, va rifatta da zero su misura delle città, non delle regioni. Se poi, da sinistra, arriverà qualche segnale di vita, tanto meglio: il Salvimaio avrà un’alternativa che non sia il Salvisconi. Se non arriverà, il M5S potrà imitare la Lega del ’96: tornerà da solo, ma attirerà voti anziché respingerli.

Pedrini in “Viaggio” sogna il musical

Dopo il sold-out registrato dal tour organizzato in solitaria per festeggiare i 25 anni del disco Viaggio Senza Vento, il sogno di Omar Pedrini è ora quello di farne un musical: “Sarebbe bello se uno dei registi italiani che più ammiro, Guadagnino, Costanzo o Calopresti, accettasse questo invito. Del resto la tournée partita da Bologna il 22.2 è stata pensata proprio come fosse un film, con le immagini, le stesse proiettate nel ’93, che fanno da sfondo alle canzoni”, dice un entusiasta Omar Pedrini. Un disco, quello dei Timoria, tornato in dicembre nella top ten degli album più venduti, che all’epoca divenne un vero e proprio inno generazionale: “In esso sono riuscito a far sfogare quell’urlo imploso che identifico nell’Urlo di Munch, un grido espressionista, muto. Un rocker come me che dice ‘cerco Dio’, che va in Oriente per trovare una propria spiritualità, è riuscito ad attirare i tanti che erano nella mia stessa condizione”. Ed è forse questo il motivo che ha spinto molti ad amare questo disco, divenuto col tempo una pietra miliare.

Murubutu, il rapper filosofo che cita Haruf e Rigoni Stern

Murubutu si potrebbe definire il Paolo Conte del rap: Alessio Mariani (vero nome) è docente e professore di Filosofia – in primis – e appassionato di hip hop con cinque dischi all’attivo e un pubblico colto e fidelizzato, vicino alla canzone d’autore.

Siamo lontani anni luce dagli stereotipi “bitch”, “erba”, “orologi”, “gioielli” e contorni: Tenebra è la notte e altri racconti di buio e crepuscoli è la testimonianza che è possibile volare alto trascendendo rime e beat. Un cantautore moderno a trazione flow; anche i featuring sono scelti per affinità: da Rancore a Mezzosangue, da Caparezza a Willie Peyote ovvero il gotha italiano delle teste pensanti. I suoi testi sono sguardi obliqui alla realtà, filtrati dalla poesia; la sua voce ricorda Frankie hi-nrg. “La mia professione è quella di insegnante, la musica è una passione”, sottolinea Alessio, “Penso di avere argomentazioni e lessico derivati dal mio lavoro vero, non dall’attività di rapper. Cerco di proseguire la tradizione di storyteller fondata da Guccini. Mi ritengo un artista hip hop e ho voluto con me le penne più belle, dato che il mio è un progetto fondato sulla scrittura. Volevo far capire alle nuove generazioni, che ascoltano linguaggi superficiali, che il rap può essere colto. Per emergere bisogna essere originali, non proporre un prodotto derivativo come accade spesso nell’hip hop. Poi sviluppare vissuti empatici, la capacità di capire cosa provano gli altri, quella che ci rende umani. E infine comprendere che la cultura può passare attraverso medium accattivanti come il rap”.

Se Alessio potesse strizzare il nuovo album come una spugna, quali pillole di ispirazione verrebbero fuori? “Sicuramente Kent Haruf con Le nostre anime di notte, Il sergente nella neve di Rigoni Stern e Di notte di Mercedes Lauenstein”.

Cristiano canta la storia di Faber “l’impiegato”

Fabrizio De André è materia incandescente. Ne parlano in tanti, non di rado a sproposito. Lo cantano in troppi, spesso con risultati strazianti. Non rientra certo in queste due categorie Cristiano De André.

Polistrumentista sopraffino, dal grande talento e dai non pochi demoni, del padre conosce tutto: gioie e dolori. Da qualche mese, mosso da passione e idea meritoria, ne ha ripreso uno dei concept più discussi: Storia di un impiegato, anno 1973. Per parlare del 1968, attese cinque anni. Nel mezzo, c’era stata La buona novella. Un concept che parlava pure quello di Sessantotto, ma che lo faceva in maniera obliqua: partendo addirittura dai Vangeli Apocrifi. “Nessuna stranezza”, spiegava Fabrizio. “Racconto la storia del più grande rivoluzionario di sempre: Gesù. E dunque racconto proprio il ’68, cioè il nostro presente”. Non tutti capirono. E ancor meno compresero Storia di un impiegato. Testi di De André e Giuseppe Bentivoglio, musiche di Nicola Piovani. La critica parlò di disco verboso e sfuocato. Perfino Giorgio Gaber lo crivellò, definendolo il “temino di un liceale” con le idee poco chiare.

Cristiano, col suo talento inquieto e con una band di bravura rara, propone quarantasei anni dopo quel disco dall’inizio alla fine, con arrangiamenti fedeli ma poi non troppo: “spiovanizzandolo”, e rendendolo con ciò ancor più contemporaneo. Il risultato sono quaranta minuti che incantano, dalla Canzone del maggio alla prodigiosa Canzone del padre. Fino alla struggente Verranno a chiederti del nostro amore, che Fabrizio scrisse come addio in musica per Puny Rignon: la sua prima moglie, la madre di Cristiano. Chissà che effetto deve fargli, ora, cantare un brano così.

Col suo tour, che sta registrando ovunque sold out, Cristiano sarà sabato 2 marzo a Cesena (Carisport), lunedì 4 a Milano (Acatraz) e lunedì 11 a Torino (Colosseo). È un concerto che non si può proprio perdere. Dopo la prima parte, De André allarga il raggio d’azione e attinge da tutto il repertorio del padre, con giusta predisposizione per gli ultimi dischi. Quelli più musicalmente maturi e compiuti. Creuza de mà, Le nuvole, Anime salve.

Vola – e si vola – altissimi, tra Megu Megun, A Cimma e La domenica delle salme. Il concerto, che tocca le due ore e mezzo che volano via come una madeleine che lascia affiorare ricordi su ricordi, guarda poi ancora più indietro. Spunta così tra i bis Giugno ’73, con quel testo di una bellezza quasi eccessiva e quei picchi che solo il De André più intimamente ferito sapeva toccare. Fiume Sand Creek è una delle perle più vicine al mood di Cristiano, come pure Quello che non ho.

Qua e là, con misura e follia, De André figlio insuffla la materia viva del padre con echi di Radiohead, Peter Gabriel e perfino Björk. L’azzardo funziona. Ne nasce una performance ora intima e ora incendiaria, all’interno della quale Cristiano cambia strumenti su strumenti, dal violino al bouzouki. Sempre a suo agio. Per cantare Fabrizio De André – intendo cantarlo bene – occorrono amore, talento e follia. Tutti requisiti che Cristiano, in questo tour riuscitissimo, mostra quasi con imbarazzo. Come se si vergognasse d’esser così bravo.

Tra Trieste e il Po la vita è sogno: il nuovo doc pittorico della Sgarbi

Chi conosce il cinema di Elisabetta Sgarbi noterà con interesse la notizia. C’è un suo nuovo film e, come gli altri che ha portato sullo schermo fino a ora, è certamente “diverso”. Ma diverso come? Diverso da che cosa? Come dovranno classificarlo i cataloghi? Mistero, dramma, commedia, scontro, incontro di personaggi? Amore?

Come sempre non è una questione di trama. La trama, nei film della Sgarbi, è sempre una ricerca, ragionevole, dimostrabile, ma non facile, nel senso che vengono dati agli spettatori tutti i pezzi del gioco, e non ci sono inganni. Ma il gioco il più delle volte resta in sospeso, o va via con le immagini della splendida e misteriosa irruzione del Po nel punto in cui, al culmine della sua forza, il grandioso fiume finisce.

In questo caso, accanto a personaggi straordinariamente veri e credibili, che a momenti sembrano riportarti al documentario (alcuni, come Claudio Magris e Giorgio Pressburger, sarebbero documento, se non fossero sogno), Sgarbi muove una piccola folla di figure lievi e poco conosciute. Perché questo è uno degli intenti del film. Metterti in guardia sulla possibilità di trovare e toccare davvero ciò che è vero. Non è vera una parte delle cose dette. Non è certa una parte delle cose viste. Ci sono casi in cui alla domanda in sospeso risponde la bellezza immensa ed enigmatica della natura. E ci sono casi in cui è meglio lasciarsi ingannare per arrivare vicino a qualcosa di vero.

Elisabetta Sgarbi, per narrare la sua storia, che è allo stesso tempo vera e dura, ma anche uno scorrere cauto, quasi una danza di fantasmi, ha scelto due crocevia. Uno nel tempo (tra la luce bassa sulla storia di adesso e la luce di abbagli e tenebre dei tempi di guerra); l’altra nello spazio, nell’arco di mare splendido e tragico in cui l’Italia fronteggia l’Istria, Trieste è il passaggio misterioso e la verità si forma e si dissolve in un continuo cambiamento di figure, di paesaggi, di storie. Elisabetta Sgarbi, lei stessa, parla di sogno nel suo film, di una realtà dominata dal sogno. Io credo che la natura onirica di questo narrare rivendichi la pienezza di realtà dei sogni, il confine rimosso fra sognare e narrare, che ha aperto la cultura contemporanea e ha dato legittimità alla fiction sia come rapporto sull’accaduto che come visione dell’accadimento possibile, che nasce dalla catasta di storie vere che tutti abbiamo dentro. Ecco in che senso questo film prosegue il cammino cinematografico di una forte autrice nel suo cercare attraverso una narrazione documentaria dove tutto è vero in quanto raccontato, ma il racconto conserva intatte le sue prerogative di invenzione anche se tratto da reperti visibili e veri.

In apparenza un dibattito sembra in corso su che cosa sia la verità dei fatti, e se si possa raggiungere e dimostrare. Un passaggio tradizionale della cultura libera è di reclamare coincidenze e riscontri. O la parola del narratore. Qui una diffusa e quieta saggezza induce l’autrice ad accettare che qualcosa sia possibile e dia senso al racconto. Ma il film resta un’opera aperta (la geniale intuizione di Eco) come Il terzo Uomo.

C’è sempre, in qualche punto, una verità logica e ragionevole. Se la rivelazione è umana, a volte è infida. Se la rivelazione è onirica, è sempre la parte che manca o sfugge o si cancella al risveglio. E qui la Sgarbi usa il sigillo grandioso del Po nel suo tratto estremo e nel momento estremo del tramonto, come una conferma a cui non puoi sottrarti. È importante prestare attenzione al livello del suono del film. Conta molto in questo senso la partecipazione di Franco Battiato alla colonna sonora. Ma anche la voce dei personaggi, che è rada, lieve, con poca fiducia nella conversazione e un’evidente predisposizione alla testimonianza. Ci sono punti di forza. Sono volti di uomini che vedono e forse sanno, ma tacciono: una rappresentazione pittorica in cui non è la bellezza di qualcuno a dominare (com’è tradizione), ma l’insieme armonioso della scena e delle sequenze. Il risultato è un film che tendi a non dimenticare, come certa musica che ti resta addosso.

Mariàca Tidòngia, maledetta dal padre e svanita nel nulla

Pubblichiamo alcuni estratti del nuovo romanzo di Gesuino Némus, in libreria dal 28 febbraio.

“Nun c’est nudda ’e fai. Su frastìmu ’e su babbu piccìgada [Non c’è niente da fare. La maledizione di suo padre colpisce]”.

Da quando Mariàca Tidòngia era stata frastimàta dal padre, la sua vita era stata un susseguirsi di sventure ed eventi nefasti. Non certo cose eclatanti, quello no, ma tanta piccola minutaglia che, sommata, ne aveva fatto una figura isolata e persa nel tempo. Isolata, perché quando si viene maledetti in pubblico dal proprio padre, la gente comincia a evitarti. Persa nel tempo perché era come se tutto si fosse fermato a quel giorno, a quell’ora, a quell’istante in cui suo padre le aveva lanciato la maledizione più terribile che si potesse proferire a tutte le latitudini colonizzate da Santa Romana Chiesa: “Chi Deus ti ’óccia’ Mari’ [Che Dio ti uccida, Maria]”.

Era rimasta incinta. Aveva appena compiuto quattordici anni ed era “leggermente” al di sotto della media dell’età in cui ci si sposava e si metteva al mondo il primo figlio, a meno che non si avesse in programma di scalare il nuraghe sociale, facendo la maturità e poi l’università. Ma l’istruzione era tabù per lei. Non tanto per via della sua precaria situazione economica, quanto perché la scuola le era sembrata da subito una prigione.

Sua madre morì nel darla alla luce. Erano altri tempi, certo, e nascere in casa aveva i suoi rischi, ma l’ignoranza del padre li acuì a tal punto che si rifiutò di chiamare la levatrice nonostante la forte emorragia della moglie. Fu lui a tagliare il cordone ombelicale. Vivevano in montagna, isolati dal resto del mondo, in un casolare a metà tra lo stazzo e il nuraghe diroccato, e lì Maria crebbe fino a che non fu obbligata ad andare a scuola, il primo ottobre del 1964. Abituata alla libertà, che solo chi nasce e abita i grandi spazi ha nei mitocondri, ne scappò il primo giorno. Mentre il maestro spiegava l’importanza del precetto scolastico, salì su una sedia e saltò giù dalla finestra della classe senza dire una parola. Fortuna volle che fosse al piano rialzato e il volo fu solo di due metri. Maria si volatilizzò, seguita dalle urla di scherno dei suoi compagni.

Beee beee beee

L’onomatopea della crudeltà comincia dal verso della pecora, l’animale più nobile e buono del creato. Il maestro fece molta fatica a riportare la calma, tanto che dovette intervenire il direttore, allarmato dall’improvviso schiamazzo. Metteva paura la voce del direttore scolastico. Essere apostrofati da lui, magari mentre andavi al bagno, era considerata una delle più gravi sciagure che potessero capitarti. E davanti alla porta sempre aperta del suo ufficio eri costretto a passarci per forza. “Ancora in bagno, Porcu? Ma quante volte ci vai?”.

“Due volte, signor direttore”.

“E quanto pisciate a casa vostra? Ricchi siete diventati?”. Per questo motivo tutti preferivano tenersela per quattro ore, minimo.

“Ci penso io, voi continuate. Seduti e zitti, chiaro?”. Era terribile, la sua voce. Prese sottobraccio il maestro e lo fece uscire, lasciando la porta socchiusa, in modo che nessuno potesse neanche bisbigliare. “Lei continui la lezione. Non diciamo niente al maresciallo. Bisognerà che vada io a ricordare a suo padre che, se non vorrà finire di nuovo in galera, dovrà costringere la figlia a venire a scuola. Meglio essere diplomatici. Già ha un sacco di problemi con la giustizia. In passato l’hanno condannato ben due volte per abigeato e una per rissa. Non è il caso d’infierire”. “Va bene, direttore. Ha lasciato qui il suo grembiule e il fiocco rosa. Che faccio?”. “Glieli riporto io. Speriamo che sia tornata direttamente a casa. Ci manca anche di doverla cercare per i boschi”.

“Vive sola con suo padre, direttore. Non oso immaginare…”. “Ecco, non osi, non osi. Speriamo solo che non si debbano chiamare i carabinieri per cercarla… o per difenderla. Speriamo che non la picchi. Vado”. E uscì.

Cominciò così l’epopea di Mariàca Tidòngia.

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Oscar 2019: hanno vinto tutti, ha perso il coraggio

Novantunesimi Academy Awards, o della mancanza: latita un vincitore univoco, dello spettacolo non v’è traccia, il buonismo, e le logiche d’appartenenza, spingono nel fuoricampo il cinema-cinema. Dei quattro premi più importanti, miglior film (Green Book), regia (Roma) e attori protagonisti (Rami Malek di Bohemian Rhapsody, Olivia Colman de La favorita), saltano all’occhio due cose. Primo, sono quattro titoli diversi per altrettanti riconoscimenti, la parcellizzazione è evidente, lontani i tempi di pigliatutto quali Titanic (11 statuette nel 1997), The Millionaire (8 nel 2008) o Gravity, sempre di Alfonso Cuarón (7 nel 2013). Secondo, tutti e quattro riducono l’inventiva ai minimi termini, ovvero inquadrano più o meno fedelmente persone realmente esistite: Freddie Mercury e i Queen; la regina inglese Anna e le nobildonne Sarah Churchill e Abigail Hill a contendersi il ruolo della favorita; il pianista afroamericano Don Shirley e il buttafuori italoamericano Vallelonga on the road negli States segregazionisti del 1962 per Green Book; la storia della propria famiglia per Cuarón.

Biografia portami via. Rintracciare una novità in palmares è davvero impossibile: A Star Is Born, che con il duetto canoro Lady Gaga, premiata per Shallow, e Bradley Cooper ha regalato le uniche emozioni della serata, è un remake; BlackKklansman, valso a Spike Lee (sceneggiatura non originale) il primo Oscar competitivo, e First Man sono biografici; Black Panther, quattro statuette, e l’animazione Spider-Man: Un altro universo, disegnata tra gli altri dall’italiana Sara Pichelli, vengono dai fumetti. Insomma, gli Oscar del copia & incolla.

Que viva Mexico! Il triplete di Roma dispensa record: è il primo miglior film in lingua straniera battente bandiera messicana; l’Oscar per la fotografia va al regista del film stesso, mai accaduto; negli ultimi sei anni, la statuetta per la regia è andata cinque volte a un messicano, due vittorie Cuarón, due Iñárritu, una Del Toro. La consuetudine è valsa loro l’appellativo di Three Amigos, e ora osiamo: quello del Best Director è un premio assegnato annualmente dall’Academy statunitense a un cineasta messicano.

Che Netflix che fa? Non ha centrato la statuetta più ambita, e chissà che il servizio streaming non abbia patito un po’ di ostracismo, ma Roma garantisce a Netflix un lusinghiero bottino: ci mancherebbe, avendo investito per la campagna Oscar 25-30 milioni di dollari, a fronte di un budget di produzione di 15. Par di capire, il colosso di Los Gatos, California, non lascia ma raddoppia: ha scelto la Notte degli Oscar per diffondere il trailer di The Irishman di Scorsese, che arriverà il prossimo autunno. L’anteprima alla Mostra di Venezia – quest’anno ha messo il cappello sul 36,8% delle nomination – è oltremodo probabile.

Manuale Cencelli. Un colpo al cerchio bianco, uno alla botte nera, e il resto a Trump. Par condicio epidermica tra i premiatori, donne, neri e asiatici sugli scudi tra i premiati, la correttezza politica seda una cerimonia già moscia: assente il conduttore, s’è optato per un pilota automatico democristiano. Evocato dalla scenografia del Dolby Theater, che sembra riprodurne l’icastica chioma, Donald Trump viene tirato in ballo a più riprese, sebbene non esplicitamente appellato: “La verità è così preziosa oggi” (Barbra Streisand); “Non ci sono confini o muri che possano trattenere l’ingegnosità e il talento” (Javier Bardem); “Siamo parte dello stesso oceano” (Cuarón); “Sono figlio di immigrati dall’Egitto, sono un americano di prima generazione” (Malek). Più chiaro Spike Lee: “Le elezioni presidenziali del 2020 sono dietro l’angolo. Mobilitiamoci tutti, stiamo dalla parte giusta della storia. Facciamo la scelta morale tra amore versus odio. Facciamo la cosa giusta!”, cui Trump risponde via Twitter, lamentandone gli strali razzisti e l’ingratitudine, giacché “ho fatto per gli afroamericani (riforma della giustizia, disoccupazione ai minimi, tagli fiscali) più di qualunque altro presidente”.

Spike rosica. Da parte sua, Spike non ha digerito la vittoria di Green Book, cui rimprovera – non è l’unico – l’edulcorazione e la sottomissione alla prospettiva dei bianchi: alla proclamazione ha cercato di abbandonare la sala, poi ha dato le spalle al regista Peter Farrelly e ai produttori sul palco, quindi ha sbottato: “Ogni volta che qualcuno scorrazza qualcun altro, perdo”, facendo riferimento al “gemello” di Green Book A spasso con Daisy, Oscar al miglior film nel 1990, quando il suo Fa’ la cosa giusta non trovò nemmeno la nomination.