I draghetti minori: “Mario è intensamente eclatante”

Draghismo a catinelle alla Camera. Il deputato Stefano Ceccanti e la sua associazione “Libertà Eguale” presentano il documento definitivo: “Il fattore Draghi e la politica italiana”. Un sondaggio (mille intervistati) con l’obiettivo di “scandagliare il sentimento dell’opinione pubblica nei confronti del premier”. I risultati sono immaginabili: è un gran sentimento. Gli italiani – dice il report – amano Draghi ancora più di quanto non lo amino i potenti. I numeri, elaborati dalla società Sociometrica di Antonio Preiti, parlano chiarissimo: il giudizio nei confronti del governo è positivo, ma quello nei confronti del presidente è addirittura entusiastico. “Abbiamo sottoposto una serie di aggettivi agli intervistati per descrivere Draghi – spiega Preiti – e viene fuori un giudizio eclatante. Insomma, di un’intensità positiva eclatante”. Non trattiene l’entusiasmo: “Il 32% dice che è ‘autorevole’ e ‘competente’. Un 26% lo giudica ‘freddo’, ma ognuno può interpretarlo come vuole questo aggettivo. Poi c’è ‘intelligente’ al 26%. Infine, molti ne apprezzano la ‘capacità di decisione’”. Nel complesso l’adorazione si misura attorno all’80%. “Come vedete nel report – gongola Preiti – non ci sono grandi differenze tra gli elettori dei partiti. Rispetto a Draghi c’è quasi unanimità, è un consenso omogeneo”. Poi la domanda delle domande: dove lo volete questo popò di Super Mario? Siccome purtroppo ce n’è uno solo, quasi tutti gli intervistati lo vedono ancora a Chigi: il 70% preferisce che resti premier, il 12% tifa per il trasloco al Quirinale. I restanti sono i pochi pazzi che non lo desiderano in nessuna carica pubblica.

Fin qui i numeri, poi inizia il dibattito: alla corte draghista si raccoglie la crème dell’autocelebrato “riformismo” nostrano, quel piccolo magma centrista che si spinge dalla destra del Pd fino alle colonne d’Ercole di Italia Viva (ieri, per inciso, si è aggiunto il nuovo partito dell’ex ministra grillina Elisabetta Trenta, si chiama NoI e ha un Qr code come simbolo).

Volano parole meravigliose: Draghi è “un metaleader”, ha una “leadership adattiva”, un “adaptive mindset”, “è la guida adatta per una strategia globale nella nuova competizione tra le nazioni” (ancora Preiti). Ma in fondo si guarda pure al futuro, quando Mario non ci sarà più: c’è una corposa eredità politica su cui mettere le mani. Per il dem Enrico Morando, “ci sono indicazioni chiare per il Pd e le forze riformiste: bisogna presentarsi agli elettori come i continutori del suo cammino”. Secondo Debora Serracchiani c’è un’oggettiva “assonanza tra quello che sta facendo il governo e le decisioni del Pd che l’hanno accompagnato”. Il renziano Luigi Marattin va sul metafisico: “Nei prossimi 12 mesi la politica italiana dovrà recuperare l’intento originario del governo Draghi”. Carlo Calenda invece è in versione Sibilla Cumana: non si capisce quasi nulla di cosa voglia dire. “Non bisogna pensare che da Draghi possa arrivare una cosa salvifica per i prossimi 30 anni dell’Italia – sostiene – ma un passaggio di fase sì, quello è già dentro il Paese”.

Marco Bentivogli, infine, ha gli occhi a cuoricino: “I numeri dicono chiaro che questo non è il governo dei migliori, ma il governo del Migliore”. Un bacio a Palmiro Togliatti.

Silvio scappa via da Vespa, la Lega sconfessa Salvini

Il Quirinale è talmente in cima ai suoi pensieri da far saltare l’appuntamento fisso da un ventennio con la presentazione del libro di Bruno Vespa. Oggi pomeriggio, al Tempio di Adriano a Roma, era previsto l’incontro per il tomo 2021 di Vespa con Silvio Berlusconi, evento dove solitamente l’ex premier dà il meglio di sé. Battute, stilettate, risate: un grande show prima del Natale. Questa volta, però, l’ex Cavaliere è in corsa per il Quirinale, quindi meglio sottrarsi. Così ieri, insieme al suo entourage, ha preferito soprassedere. “Piuttosto che andare col freno a mano tirato, dovendo stare attento a ogni avverbio, e magari esser costretto ad ammettere la candidatura, meglio non andare per niente…”, è stato il ragionamento. Anche perché si era chiesto a Vespa di evitare l’argomento, ma tra le domande, naturalmente, il Colle la faceva da padrone. “Dovete chiedere ad Arcore i motivi del forfait…”, dice il giornalista.

Così, se da una parte Berlusconi si sottrae, imitando quello che stanno facendo gli altri pretendenti (chiedere a Pier Ferdinando Casini), Matteo Salvini continua invece nel suo giro di consultazioni telefoniche. Dopo aver sondato i leader di partito, ieri ha iniziato coi governatori, a partire da quelli di centrodestra. Il fatto, però, è che la sua iniziativa non ha convinto nemmeno i suoi. Viene definita “inutile” e “totalmente mediatica” anche da un crocicchio di deputati leghisti che ieri mattina stazionava nel cortile di Montecitorio, in attesa del voto di fiducia sul dl fiscale previsto nel pomeriggio. “Matteo ha sofferto molto Atreju e il tentativo di Giorgia Meloni di accreditarsi come principale interlocutrice per il Colle, così ha voluto marcare il territorio e riprendersi la scena…”, osserva un deputato. “Sì, ma queste telefonate sono perfettamente inutili se non controproducenti. Così rischiamo di farci ridere dietro…”, risponde un altro. Qualche risata ieri l’ha però suscitata il manifesto sulla Messa di Natale con Salvini, martedì 21 alla Domus Mariae a Roma. “Quell’immagine non è roba nostra”, precisano dal suo staff, senza però smentire la presenza alla cerimonia.

Lo scetticismo, dunque, regna sovrano anche tra i leghisti. Anche perché alcuni contatti del Capitano si sono limitati a generici wattsapp, per esempio con Nicola Fratoianni. “Ci siamo fermati alle considerazioni generali”, ammette Giovanni Toti. Ma a lasciare perplessi i leghisti è anche il fatto che Giancarlo Giorgetti continui a giocare una partita diversa. Affermare, come ha fatto, che “Berlusconi può andare al Colle coi voti di Pd e 5 Stelle” è come gettare la palla in tribuna. Il ministro leghista, secondo fonti autorevoli, continua a lavorare sottotraccia al suo canovaccio: Draghi al Colle e Daniele Franco a Chigi (e magari Giorgetti all’Economia). Lo stesso desiderio di Draghi? Chissà.

Ieri l’ennesima frenata alle velleità di Berlusconi è giunta da Meloni. “Per eleggerlo il centrodestra non ha i numeri, bisogna cercare delle convergenze…”, ha detto la leader di FdI. “Il problema di Berlusconi è che non ha nemmeno tutti i voti forzisti: i ministri, per esempio, giocano su tutt’altro tavolo”, osserva Osvaldo Napoli. “Giorgia non vuole infilarsi in un vicolo cieco. Per lei Berlusconi sarà l’extrema ratio. Prima, anche per lei, c’è Draghi…”, confida un esponente della destra. A meno che, come sostiene Brugnaro, “qualcuno non voglia inchiodare Draghi a Palazzo Chigi…”.

Immunità: dono di Natale a Renzi e Cesaro. Pd e M5S si astengono

Eadesso il clima sembra proprio quello giusto: il clima cioè delle larghe intese che servono a scegliere il nuovo capo dello Stato – tutti insieme core a core – e che fanno sperare Silvio Berlusconi. Matteo Renzi, per dire uno che non se ne starà con le mani in mano nella partita per il Quirinale, ora è uno zuccherino: ha ottenuto per Natale il regale più gradito, quello che aveva detto di non volere affatto, ossia lo scudo di Palazzo Madama che per accontentarlo ha messo il turbo. Alla Giunta per le immunità dove le pratiche solitamente prendono polvere, sono infatti bastate appena tre sedute per decidere a stragrande maggioranza che l’operato dei pm di Firenze dell’inchiesta Open, che lo vede indagato con l’accusa di finanziamento illecito, deve finire all’attenzione della Corte Costituzionale. Ché gli inquirenti, sequestrando presso terzi email, chat, sms che lo inguaiano, avrebbero leso non solo le sue prerogative di parlamentare, ma quelle del Senato tutto. Che ha dunque deciso di sollevare un conflitto di attribuzione tra poteri a stragrande maggioranza: Forza Italia, meloniani, Lega e renziani tutti uniti hanno raggranellato 14 voti. Alla fine i no sono stati due, Gregorio De Falco del Misto e Pietro Grasso di LeU. Ma la notizia è che il Pd si è astenuto e i 5Stelle altrettanto, anche se Giuseppe Conte ha fatto sapere che in aula voteranno contro e che l’astensione è stata “tecnica” a causa del “fascicolo incompleto”.

“Oggi al Senato la Giunta riconosce a larghissima maggioranza che esiste una violazione della Costituzione da parte dei pm fiorentini Turco e Nastasi. Si tratta di una decisione fondamentale per la battaglia di civiltà che sto combattendo” sussurra leggero Renzi che pur sapendo di aver ricevuto un regalone, infierisce per effetto pavloviano sul Pd che s’è astenuto: “Sono curioso di vedere come voteranno in aula a scrutinio palese”.

Ma in Giunta era come giocare sul velluto: anche i berluscones dovevano portare a casa il loro bottino. All’ordine del giorno, prima della pratica Renzi, c’era quella riguardante la richiesta di domiciliari per Giggino ’a Purpetta, al secolo Luigi Cesaro, che fino a qui era stata rinviata di settimana in settimana senza apparente ragione: la Giunta del Senato proprio ieri ha deciso che era ora di occuparsi della misura cautelare richiesta da tempo dai magistrati partenopei che contestano al senatore azzurro l’associazione mafiosa per il “concreto, specifico, consapevole e volontario contributo” al clan camorristico Puca. Come è finita? Con lo scudo per Cesaro come chiesto dal relatore della pratica, il renziano Giuseppe Cucca.

Una volta assicurato anche il Natale a piede libero al forzista si è poi passati all’esame della pratica riguardante Renzi, ma si è trattato di un gioco da ragazzi. Pietro Grasso, che si era permesso di far notare che in questo caso il Senato, a voler seguire la legge, non aveva alcuna competenza a questionare dell’operato degli inquirenti, è stato liquidato malamente: bocciata la sua questione pregiudiziale e bocciate anche le richieste di integrazione presentate da Anna Rossomando del Pd ed Elvira Evangelista del M5S che chiedevano almeno una minima istruttoria prima di decidere di sollevare il conflitto di attribuzione di fronte alla Consulta. Dove per minima, si intende almeno acquisire gli atti di perquisizione ordinati dai magistrati di cui si sa solo che Renzi li contesta: sarebbero bastati pochissimi giorni, data anche la disponibilità della Procura di Firenze a collaborare con il Senato, ma niente.

“Ci stiamo assumendo la responsabilità di dire che c’è stato uno sviamento di indagine da parte dei pm tale da richiedere l’intervento della Corte Costituzionale, ma lo abbiamo deciso senza neppure vedere gli atti” ha detto la pentastellata Evangelista, seguita dalla dem Anna Rossomando: “Volevamo trattare questa pratica seriamente, ma non è stato possibile farlo”. Grasso ha votato invece no e pure De Falco: “Stiamo votando un conflitto di attribuzione senza sapere qual è”. A chi serve invece lo sanno tutti.

E alla linea del rigore pensano le Regioni: niente eventi in piazza

Sarà di nuovo un Capodanno con le piazze vuote. A due settimane dal 31 dicembre, infatti, sembra consolidarsi l’orientamento di sindaci e governatori di annullare eventi e feste nel tentativo di scongiurare pericolosi assembramenti la notte di San Silvestro. I numeri dei contagi in rapida risalita, l’incognita della variante Omicron, rendono concreto lo spettro del cambio di colore per alcune regioni.

 

Chirurgia sospesa e zone gialle

Il Trentino va verso la zona gialla mentre in Veneto nelle ultime 24 ore si sono registrati oltre quattromila positivi contro i 2.096 di lunedì. Numeri che hanno portato alla sospensione, dove necessario, di tutte le attività chirurgiche che prevedono un successivo ricovero in terapia intensiva. La decisione, che riguarda tutti gli ospedali regionali, è stata presa per recuperare temporaneamente personale da destinare a vaccinazioni, tamponi e tracciamenti.

 

De Luca ordina: nessuno per strada a brindare

Le città si stanno, comunque, già organizzando per fronteggiare in sicurezza i rischi anche all’aperto in vista delle festività. Il primo a cancellare il Capodanno è il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, che ha annunciato la totale sospensione di eventi di piazza su tutto il territorio regionale. “In queste ore – ha avvertito – la Regione emetterà delle ordinanze che firmerò per evitare assembramenti alla vigilia di Natale, come abbiamo già fatto lo scorso anno. Ordinanze che vietano la vendita di alcolici nella serata e vietano gli assembramenti e anche un’ordinanza che vieta le feste in piazza di Capodanno”.

 

Oggi a Roma la decisione sul Circo Massimo

Domani a Roma il Campidoglio deciderà se tenere o meno il concerto al Circo Massimo la notte dell’ultimo dell’anno. L’ipotesi a cui ha lavorato Palazzo Senatorio è un evento per soli 15mila posti a sedere, obbligo di mascherine e Super green pass, ma ad avere l’ultima parola saranno i contagi. Che al momento in città non sembrano rallentare.

Dal canto suo l’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato, afferma di non potere escludere un cambio di colore negli ultimi giorni di dicembre. “Per il passaggio in giallo le probabilità sono basse, ma non possiamo escludere un cambio di colore nell’ultima settimana di dicembre o nella prima di gennaio: la strada maestra sono le vaccinazioni”. Ed è proprio sull’accelerazione della campagna di immunizzazione che puntano i presidenti di Regione.

 

L’ottimismo dei presidenti delle regioni del nord

In Piemonte il presidente Alberto Cirio non “vede” un Capodanno in zona gialla: “Lo spero e lavoro perché questo non accada. Siamo al primo posto in Italia per terze dosi di vaccino anti-Covid fatte ai cittadini: perché il vaccino ci salva”. La situazione non dovrebbe mutare, almeno nella settimana di Natale, anche in Lombardia. “I dati che sono pervenuti – annuncia il governatore Attilio Fontana – e che verranno valutati venerdì in cabina di regia, confermano anche per la prossima settimana che la Lombardia rimarrà in zona bianca perché, nonostante la crescita dei numeri, l’occupazione dell’area medica e delle terapie intensive rimangono al di sotto della soglia prevista”.

Obbligati in 3 milioni. Ma i controlli sono sempre un optional

Idirigenti scolastici hanno cominciato a ricevere ieri dal ministero le istruzioni per utilizzare la piattaforma di verifica dello stato vaccinale del personale della scuola, insegnanti e Ata a tempo indeterminato e determinato. È la nuova funzionalità introdotta nel Sistema informativo dell’istruzione (Sidi). Incrocia i dati sugli operatori scolastici con quelli della piattaforma nazionale sui Green pass. E consente di avere due esiti al momento della verifica: “In regola” oppure “Non in regola” con l’obbligo vaccinale. Obbligo che scatta da oggi, come previsto dal decreto legge 172 del 26 novembre. Non solo nella scuola, che conta 1,2 milioni di operatori, tra docenti (più di 836 mila) e dipendenti Ata. Scatta anche per le forze dell’ordine e del soccorso e per l’esercito – 490 mila unità – e, infine, per il personale sanitario e socio sanitario per quanto riguarda il booster, vale a dire la terza dose. In quest’ultimo caso la platea si compone di 468 mila medici e di 436 mila infermieri. Poi ci sono gli altri operatori della sanità, tra i quali gli Oss, circa 350 mila. Tra i camici bianchi l’incidenza di quelli che rifiutano il vaccino è irrisoria, sono appena 1.767 quelli che hanno tenuto duro sul no e alla fine sono stati sospesi; tra gli infermieri siamo invece a 3.800. Ben diversi i numeri delle altre categorie interessate dall’obbligo. Insegnanti e altri dipendenti della scuola che finora hanno rifiutato la somministrazione sono il 5%, 60 mila addetti. Tra poliziotti, carabinieri, finanzieri, militari dell’esercito, vigili del fuoco, siamo invece a quota 50 mila.

Ma cosa succederà ora? Nessuno si aspetta ondate di ricorsi al Tar, anche se c’è chi sta già procedendo in questo senso. Anief, sindacato di insegnanti e formatori, ha già annunciato che prorogherà sino alla fine dell’anno la scadenza per aderire ai ricorsi. “In realtà fino ad ora – osserva Alessandro Rapezzi, della segreteria Flc-Cgil –, le azioni legali che sono state avviate non hanno trovato sponde nei giudici dei tribunali amministrativi”.

Di sicuro ci saranno interpretazioni delle circolari ministeriali con le quali sia il ministero dell’interno sia quello dell’Istruzione il 7 dicembre hanno dato indicazioni sulle procedure da seguire per le verifiche. Si, perché ai dirigenti non viene data una scadenza per invitare l’interessato che non si è vaccinato a produrre la documentazione che attesta la volontà di farlo o le condizioni che gli consentono l’esenzione. Entrambe le circolari dicono che il dirigente, una volta accertata la situazione, dovrà farlo “senza indugio”. Cosa che può significare tutto e nulla. E in questa maglia larga si può infilare qualsiasi cosa. Anche se poi il capo della Polizia, Lamberti Giannini, ha precisato che le verifiche devono essere immediate.

Oltre a questo si apre tutto il tema delle sostituzioni degli irriducibili da sospendere: stop al servizio e alla retribuzione. La Cgil, per quanto riguarda la scuola, si chiede con quali strumenti normativi e contrattuali verranno reclutati i supplenti, inevitabilmente appesi alla volontà dell’insegnante di ruolo sospeso. “Tutto a discapito della continuità didattica”, prosegue Rapezzi. Ma il problema riguarda anche le forze dell’ordine. Come funzionerà il controllo? Dopo aver ricevuto l’invito a presentare la documentazione, l’interessato avrà cinque giorni per rispondere. E c’è chi ha già individuato l’escamotage per rallentare la procedura, e cioè pretendere, per la richiesta di regolarizzazione, la raccomandata con ricevuta di ritorno, da ritirare dopo alcune settimane. Poi c’è chi protesta platealmente. È il caso del Sindacato dei militari, che rilancia le parole di Luca Marco Comellini, segretario del piccolo Pdm (partito per la tutela dei diritti dei militari e forze di polizia). “L’obbligo vaccinale imposto dal governo dei migliori solo per alcune categorie di lavoratori, tra cui quelli del comparto Difesa, Sicurezza e Soccorso pubblico, è inutile e rappresenta solo il peggiore dei ricatti dopo quello attuato con il Green pass. Ricattare i migliori servitori dello Stato, ‘o ti vaccini o ti tolgo lo stipendio’, dimostra oltre ogni dubbio la vera natura del governo dei peggiori”.

Draghi: emergenza fino a marzo, no a mascherine all’aperto. Giorgetti si sfila

È durato solo mezzora il Consiglio dei ministri che proroga lo stato di emergenza fino al 31 marzo. Durante la riunione, il leghista Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico, ha parlato di “incongruenze” e segnalato che alcune norme eccezionali, come gli “obblighi vaccinali”, andranno anche oltre il 31 marzo, ma poi ha “preso atto”. “I numeri parlano chiaro” per dirla con Maristella Gelmini (Affari regionali) e il governo ha ritenuto che non ci fossero alternative. Sono così prorogati i poteri di ordinanza del capo della Protezione civile, Fabrizio Curcio, il ruolo consultivo del Comitato tecnico-scientifico e soprattutto le prerogative del Commissario straordinario, Francesco Paolo Figliuolo, che continuerà se necessario ad agire in deroga alle normative generali.

Prorogato anche il Green pass. E un’ordinanza del ministro della Salute, Roberto Speranza, impone l’obbligo di tampone molecolare (non più vecchio di 48 ore) o antigenico (24 ore) negativo anche per chi arriva in Italia dai Paesi dell’Unione europea, vaccinati compresi, come era già previsto per chi proviene dalla Gran Bretagna. Per i non vaccinati, oltre al test negativo c’è la quarantena di 5 giorni. Se non è il Super green pass alla frontiera (o “2g” alla tedesca) che chiedeva Speranza, ci va vicino. Fin qui bastava il Green pass Ue e la misura, adottata con l’ok del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ha suscitato irritazione a Bruxelles: evidentemente non era stata concordata. “Immagino verrà discussa al Consiglio europeo, perché queste decisioni individuali degli Stati membri riducono la fiducia delle persone sul fatto che ci siano condizioni uguali ovunque in Europa”, ha dichiarato la vicepresidente della Commissione Ue, Vera Jourova. Il provvedimento – valido fino al 31 gennaio – proroga inoltre le misure già previste per gli arrivi dai Paesi extraeuropei e il divieto di ingresso da otto Stati africani tra cui il Sudafrica. Lì è stato individuato il primo caso della variante Omicron, oggi al centro delle preoccupazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità per la maggiore trasmissibilità che dovrebbe consentirle di soppiantare la Delta e la maggiore resistenza almeno alle prime due dosi di vaccino. Nessuna decisione, invece, sull’obbligo di mascherine all’aperto, reintrodotto però da numerosi enti locali.

Mario Draghi avrebbe voluto evitare la proroga e non ha detto mezza parola per spiegarla. L’ultima spinta è arrivata da Speranza lunedì sera dopo l’ennesimo aumento dei contagi. L’ipotesi alternativa di normalizzare le strutture della Protezione civile e quella commissariale avrebbe richiesto più tempo. Così lo stato d’emergenza supererà i 24 mesi dalla prima deliberazione (31 gennaio 2020), cioè il limite previsto dal Codice della Protezione civile, che però l’esecutivo ritiene superabile con decreto legge essendo contenuto in una legge ordinaria. Ora il governo dovrà non solo fronteggiare la pandemia, ma anche rivaccinare a tempo record gli italiani: la terza dose va fatta a tutti nei prossimi 1/2 mesi, non si spalmerà su 5. Sforzo organizzativo imponente, con hub da riaprire.

Questi mesi, nelle intenzioni di Palazzo Chigi, serviranno pure a preparare l’uscita dall’emergenza. Per ora però ci siamo dentro: ieri oltre 20 mila contagi rilevati e 120 morti, il dato più alto della quarta ondata che ci riporta al 28 maggio scorso. Gli esperti cominciano a vedere una stabilizzazione in Friuli-Venezia Giulia, in zona gialla per la seconda settimana, ma non ancora a Bolzano (gialla da lunedì scorso). Il problema sono gli ospedali, i pronto soccorso in affanno e le corsie piene: diverse Regioni potrebbero passare in giallo lunedì prossimo per aver superato le soglie del 10 e del 15 per cento di malati Covid nelle terapie intensive e nei reparti di area medica. La prima è il Veneto, dove ieri sono state sospese le visite specialistiche ambulatoriali. Il rapporto annuale di CittadinanzAttiva diffuso sempre ieri dice che un paziente su due ha visto aumentare i costi per le cure e uno su cinque vi ha rinunciato per questo.

Intanto, sul versante politico, la mini proroga mantiene aperta per Draghi la strada del Quirinale. Anche se forse allontana un po’ la meta: certifica, infatti, che le sue regole di ingaggio alla guida del governo sono ancora valide. Ma trattandosi di una proroga breve, il presidente del Consiglio offre al suo eventuale successore il tempo di organizzarsi, di decidere come andare avanti.

Smemoranda

Non si sa se sia peggio chi si ricorda chi è o chi se lo scorda. Tra gli smemorati di se stessi ci sono le senatrici 5Stelle della Giunta per le immunità, D’Angelo, Evangelista e Gallicchio, ieri astenute (a braccetto col Pd) sugli arresti domiciliari per Giggino ’a Purpetta (indagato per camorra) e sulla relazione di una forzista che vuol trascinare alla Consulta i pm fiorentini dell’inchiesta Open per aver violato la Costituzione e l’immunità parlamentare acquisendo corrispondenza telematica di non parlamentari in contatto con Zerovirgola. Dal 2013, quando entrarono in Parlamento, i pentastellati avevano sempre votato contro qualunque pretesa impunitaria, anche in casa propria. Cosa abbia indotto le tre Grazie a dismettere quell’ottima abitudine non è dato sapere. Per fortuna Conte ha rimediato in serata, annunciando il no in aula alla doppia porcata. Invece il centrodestra (e quindi Iv) si ricorda benissimo chi è e vota pro Giggino e pro Matteo.

Anche Minzolingua conserva ottima memoria e aggiunge altre minacce a quelle che quotidianamente riserva a chi, nel centrodestra, fosse tentato di non votare B. al Quirinale: o lo eleggono presidente della Repubblica, o “le conseguenze non saranno indolori”. Non potendo mandargli a casa Vittorio Mangano (purtroppo scomparso) con una testa di cavallo mozzata, si troverà qualche rappresaglia adeguata. Ma come si farà a sapere, col voto segreto, se i traditori saranno leghisti o meloniani o, peggio, forzisti? Semplice, flauta Minzo: “Basterà, per scoprirlo, che i ‘Silvio Berlusconi’ nelle urne non corrispondano al numero dei grandi elettori azzurri, i ‘Berlusconi Silvio’ a quelli dei leghisti e i ‘S. Berlusconi’ a quelli della Meloni”. Cioè: il Parlamento si trasformerà in una cosca, dove il voto è segreto per finta e ciascuno firma la sua scheda con un nome in codice (per partiti minori e peones, suggeriamo “Il piduista”, “L’amico degli amici”, “Il pregiudicato”, “Il puttaniere” e così via). Era già accaduto nel 2006 per l’elezione del presidente del Senato, quando ogni sigla dell’Unione, per distinguersi e stornare i sospetti, indicò Franco Marini in tutte le combinazioni possibili: “Franco Marini”, “Marini Franco”, “F. Marini”, “Francesco Marini”, “Marini” e basta, con alcune schede annullate perché di senatori Marini ce n’erano due e lui si chiamava proprio Franco (Andreotti, candidato di centrodestra, ironizzò sui “franceschi tiratori”). Uno spettacolo mafioso, che merita il bis. In alternativa, i parlamentari di destra potrebbero fotografare con lo smartphone le proprie schede, come nei seggi controllati dai clan: per dare il buon esempio e confermare che questa è proprio l’Italia dei Migliori.

“L’ultimo girone”: i Litfiba festeggiano 40 anni più Iva (il Covid) con un tour di addio

“Dovevamo festeggiare quarant’anni di storia ma ne abbiamo dovuti aggiungere due di Covid, diciamo che sono 40 più Iva”.

Piero Pelù e Ghigo Renzulli annunciano il tour di addio dei Litfiba, in partenza dal 26 aprile 2022 a Padova con date a Milano, Roma, Firenze e Napoli.

“L’ultimo girone” – così si chiama il tour – avrà una scaletta diversa ogni sera con almeno due brani da ognuno dei tredici album di studio e ospiterà i membri storici della band. “Ci siamo incontrati nel 1980, ognuno con esperienze diverse: suonavamo nella cantina di via dei Bardi a Firenze. Al suo interno abbiamo cercato un suono che fosse solo nostro, tra rock, punk e un’incoscienza totale. Non avevamo i soldi per l’aereo e con un furgone scassato abbiamo deciso di andare a suonare in Francia, tanto in Italia non ci cagava nessuno. Non ci siamo mai svenduti per il successo e ne siamo orgogliosi anzi noi ruttavamo come è accaduto in El diablo o prendevamo di mira i politici di turno che nel frattempo sono tutti spariti mentre noi ci siamo ancora. Durante i tour le denunce fioccavano, dal vilipendio alla bandiera alle accuse di istigazione alla diserzione, ai preservativi inseriti sui microfoni affrontando temi scomodi quali pacifismo, ecologia, diritti umani, stop al nucleare. Della scomodità abbiamo fatto la nostra cifra stilistica”.

Piero e Ghigo ci tengono a sottolineare la loro integrità artistica: “Non abbiamo mai fatto un album uguale al precedente. E dato che non vogliamo ritrovarci un giorno come Paul McCartney, diciamo da subito che noi ci vogliamo bene, siamo appagati dalla nostra storia e vogliamo chiudere in bellezza come una grande festa, non musi lunghi ma sorrisi. Quando abbiamo iniziato le rockstar morivano a 27 anni, noi siamo sopravvissuti! Certo, abbiamo affrontato anche grandi litigi: a noi gli Oasis ci fanno una sega! Dolori e gioie e tanti ricordi: quella volta che in autogrill in Germania Est ci hanno arrestati, oppure a Mosca inseguiti da una finta traduttrice che in realtà era una spia del Kgb. A Leningrado suonammo anche con i Cccp e a Ferretti vennero le crisi di nervi quando vide il cosiddetto socialismo reale: gente povera in coda per una mela e un pugno di riso e i funzionari del governo che se la spassavano con una corruzione fuori dal comune”.

C’è tempo per un brindisi in camerino e una promessa dalla loro etichetta discografica: “Un disco dal vivo dell’evento? Perché no?”. Inediti? “Boh, abbiamo molte cose mai pubblicate ma lontanissime dal definirsi pronte. Vedremo…”.

Il Diabolik dei Manetti Bros seduce meno della Jaguar

“Diabolik ci piace, da sempre: incarna il fascino del male, l’amore e la morte, l’heist movie. E condivide con Eva Kant la capacità di rendere facili le cose difficili”. Da giovedì su oltre cinquecento schermi con 01 Distribution, i Manetti bros. portano Diabolik, adattamento cinematografico dell’iconico personaggio creato dalle sorelle Angela e Luciana Giussani, e segnatamente del terzo albo a fumetti L’arresto di Diabolik del 1° marzo 1963.

A dargli volto e maschera Luca Marinelli, mentre Miriam Leone è Eva Kant e Valerio Mastandrea l’ispettore Ginko, il Re del Terrore “non agisce per arricchirsi, ma perché – dicono Marco e Antonio Manetti – non sa resistere alle sfide: non è un cattivo, bensì un anarchico, con l’ideale della libertà. Del resto, a Clerville imperano tristezza e corruzione, gli unici puri e felici sono lui e Eva”.

Nel cast Alessandro Roia e Serena Rossi, colonna sonora di Pivio & Aldo De Scalzi con due brani inediti di Manuel Agnelli, il soggetto è firmato dai registi con Mario Gomboli della casa editrice Astorina, che ha concesso i diritti dopo tanti – l’ultima trasposizione è del 1968 per la regia pop di Mario Bava – dinieghi: “Non volevano fare un film su Diabolik, ma un film di Diabolik, e questo mi ha convinto. Altre proposte puntavano a trasformarlo in Zorro, il giustiziere della notte o un serial killer, senza rispettare il suo essere fuori dagli schemi”.

Non è da meno, anzi, Eva Kant, che vanta ampi spazi di manovra e incarna istanze femministe: “Formano la prima coppia paritetica nella storia del noir. Diabolik stava con la mogliettina soggiogata, una vittima, nel terzo albo arriva Eva e, oltre a salvargli la vita, lo rivolta come un calzino: nessuna volontà di modernizzazione, l’autodeterminazione femminile è nello spirito originale”.

Non Fantomas ma Diabolik, non la mogliettina ma Eva, “una donna – evidenzia Miriam Leone – che non è al servizio di nessun uomo, che è pianeta e non satellite”, eppure il film non convince: filologicamente e però sterilmente rispettoso, non ha i guizzi artigianali e l’emotività de core che sono il marchio dei Manetti, né un’idea di regia al di fuori del calco classicista. Di paura e terrore manco l’ombra, e gli attori non aiutano: intenzionale o meno, la recitazione è sciatta e insieme posticcia, sicché le magnifiche auto, la Jaguar E-Type e la Citroën DS, rubano agevolmente la scena. Bene le location, le scenografie e i costumi, ma non bastano ad affrancare un Diabolik che è, di nome e di fatto, in arresto.

È stata la mano di Sorrentino

L’anteprima di È stata la mano di Dio a Napoli è stata un’esperienza di coinvolgimento collettivo difficilmente dimenticabile. Le parole di un Sorrentino commosso e profondamente emozionato, la presentazione di un gruppo di attori consapevoli della propria classe e di un lavoro partecipe e complesso, il regalo di un’esibizione dal vivo di Pietra Montecorvino, una delle voci più personali e riconoscibili della città, che ha ricamato una Napul’è di Pino Daniele molto significativa; e poi la proiezione, la sensazione nitida di trovarsi al cospetto di un’opera che, per un autore, ha un senso profondo e complesso, superiore e più alto di ogni altra. Insomma, una serata che ha lasciato in chi c’era un segno, una cicatrice dolce molto bella, da tornare ad accarezzare anche nei giorni successivi.

E tuttavia, già nella fila che si avviava all’uscita, tra occhi lucidi e collettiva emozione c’era una domanda che aleggiava chiara: ma che capiranno, quelli che vedranno questo film senza essere di qui? Non si perderanno troppe emozioni? Come funzionerà questo film, senza avere la cognizione perfetta della Napoli di quel tempo e di quello spazio?

Oggi, a distanza di qualche settimana, possiamo dire di essere rassicurati. Il senso del capolavoro, il pressoché univoco consenso di pubblico e critica, i ringraziamenti a Paolo di quelli, per fortuna tantissimi, che hanno assistito a una delle centinaia di proiezioni in tutta Italia lascia comprendere senza equivoci che il valore del film è stato pienamente compreso e adeguatamente apprezzato.

Ma in noi napoletani il pensiero che in quel racconto ci sia qualcosa che possiamo cogliere solo noi, francamente, resta.

Qualcosa che non altera il contenuto, certamente; qualcosa che lasci intatto il significato, il senso della narrazione, che unita alla gigantesca interpretazione degli attori (ma quando recitano bene tutti, proprio tutti, il regista ha un ruolo fondamentale) compone un film di questo livello; e tuttavia l’evocazione di quella città in quegli anni, che francamente risulta complicato immaginare più precisa e in sintonia, è così perfetta da far pensare che sia come percepire onde sonore non udibili dalle orecchie dei comuni spettatori.

La luce, per esempio. Quella di un sole basso, di alba e di tramonto, un sole indiretto calato o sorgente dietro montagna e colline. Una luce che genera colori caldi e ormai fuori moda, marroni e beige, verdoni e cammello, che ti riporta in un lampo ad adolescenze e gioventù e a musiche e sapori riposti nelle soffitte della memoria ma vivi e vegeti a riprenderli in mano.

E i suoni, i percorsi urbani ormai preclusi, la grande piazza che era un parcheggio, il lungomare col traffico; come si fa a capire davvero il senso del racconto, senza ricordare di esserci stati e di averci vissuto mordendo ore e giornate con la fame di chi non pensa a nessun domani?

I balconi pieni di caldo e di sole, coi pesanti televisori dallo schermo convesso e dal misterioso macchinario all’interno delle profonde gobbe, senza telecomando e privi di connessioni, dai quali si condividevano immagini a bassissima definizione e ad alto tasso emotivo, urla a finestre spalancate che coinvolgevano felicemente condomini interi e quartieri in totale sintonia.

Il mare, certo. Un mare narrativo, di contrabbando e di improvvise nudità, di scogli scivolosi e di isole a portata di mano. Un mare che incombe senza esserci, un non luogo tuttavia presente, una costante alternativa alla fatica della terra.

Soprattutto, il senso della sospensione. La consapevolezza confusa che qualcosa stesse per accadere, quel tempo che passa tra il lampo e il tuono, una promessa senza volto che sarebbe stata mantenuta. Quello lo ricordavamo benissimo, in sala a Napoli: e lui, Paolo, ce lo ha raccontato con perfetta sapienza, ha riesumato quel sentimento e ce lo ha riproposto con franchezza spietata. Perché in quei pochi anni fummo tutti sicuri che il tempo stava per cambiare, come poi effettivamente cambiò.

Non è questione del numero Dieci, che pure ebbe un ruolo fondamentale, epifanico, plastico: ma fu un pastore su un presepio, che si compose da lui e attorno a lui e produsse un fuoco d’artificio di nuovo e di fervido, certo come sempre disordinato e distonico, ma fortissimo.

Forse semplicemente, come ogni capolavoro, È stata la mano di Dio può essere letto in molteplici maniere, tutte belle e tutte legittime.

Ma posso assicurare che, per noi che c’eravamo, è stato come pescare vecchie e care foto da una scatola di biscotti dimenticata colpevolmente in fondo a una cantina.

E a chi ci mostra come eravamo felici, senza rendercene conto, bisogna solo dire grazie.