Altro che destra, i taxi svoltano a sinistra

Pubblicità negativa sugli sportelli delle auto e all’interno dei veicoli, messaggi di proselitismo per i partiti rivali sui gruppi Whatsapp interni e quelli con i clienti: la campagna elettorale spagnola inizierà soltanto ad aprile, eppure i tassisti, soprattutto nella capitale, si stanno già organizzando.

Obiettivo: portare via più voti possibile alla compagine di destra, Partito popolare, Vox e Ciudadanos data per vincente nei sondaggi delle prossime elezioni politiche del 28 aprile con una somma del 55% dei voti, ma ritenuta dai conducenti “traditrice”, e spostarli a sinistra. Il motivo? Non sono valsi a niente 40 anni di professione di fede destrorsa né 16 giorni di proteste, scioperi e blocchi stradali messi in atto il mese scorso per ottenere ciò che per i tassisti (non solo madrileni) è diventata una questione di vita o di morte: regolamentare le corse delle auto a noleggio con conducenti e Uber perché non “rubino il pane ai tassisti”. Si tratta di una battaglia presenti ormai in ogni paese europeo.

Ma la regione di Madrid a guida Popolare si è mostrata inflessibile alle richieste dei tassisti e con il presidente regionale Ángel Garrido ha accusato i conducenti di aver “messo sotto sequestro un’intera città”.

“Ci hanno voltato le spalle”, ha risposto immediatamente la Federazione professionista del Taxi di Madrid, i cui membri hanno votato all’unanimità la decisione di tappezzare le proprie vetture di propaganda anti-destra non appena prenderà il via la campagna. Quanto questa sposterà realmente voti al tripartito che ha appena vinto in Andalusia, non è chiaro.

Certo è che i sondaggi indicano i tassisti tradizionalmente tra lo zoccolo duro dei votanti del Partito popolare, insieme ai camionisti, ma soprattutto tra coloro che votano secondo indicazione di corporazione. Forse proprio per questo i più di 20 mila conducenti di taxi di Madrid puntano sui gruppi Whatsapp, dove sono presenti almeno 6 mila di loro, e ai 7 mila follower che raccolgono su Twitter per far girare la voce.

Nel primo caso il messaggio che diffondono non è certo sibillino: “D’ora in poi bisogna votare con la testa… e non più con il cuore”. Oltreché contenere la vera notizia: “Voteremo per Podemos, io e tutta la mia famiglia, anche se mia madre non è del tutto convinta di voler votare il tizio con la coda”.

Ebbene sì, a sorpresa, i tassisti spagnoli sperano di portare qualche voto alla formazione di Pablo Iglesias (nonostante la coda), visto che in Spagna l’unico partito che ha preso a cuore i problemi di categoria sollevati dai conducenti di taxi contro la “uberizzazione” dell’economia è proprio la sinistra di Podemos, contraria “al nuovo modello basato sui paradisi fiscali e sulla precarizzazione del lavoro”, per dirlo con le parole del deputato di Podemos Rafael Mayoral.

Il risultato di questo anomalo proselitismo dei tassisti che – ahiloro – virano a sinistra lo si vedrà soprattutto alle Amministrative, che però, si terranno in concomitanza con le Europee del 26 maggio. E non è escluso che influiranno dunque a su quel risultato. A oggi la notizia è che la nuova misura catalana che limita la chiamata di Uber entro i 15 minuti dall’arrivo è stata giudicata incostituzionale dal Tribunale. La strada per recuperare voti per il per la destra è tutta in salita.

Elezioni senza vincitori nella sfida fra pro-Ue e filo-Russia

Nessun vincitore alle elezioni parlamentari in Moldavia e il risultato lascia l’ex repubblica sovietica nel limbo tra le forze filo-occidentali e quelle pro-Russia. Con il 98% dei voti scrutinati i socialisti dell’opposizione pro-Russia – la loro candidata era Zinaida Greceanii – avevano il 31,35%, mentre il gruppo pro-europeo Acum il 26,17%. Il Partito Democratico, attualmente al potere, è al terzo posto con il 24%.

L’alleanza governativa ha perso il sostegno a causa della corruzione dilagante e del calo degli standard di vita. Il presidente Igor Dodon ha messo in guardia che un’altra tornata elettorale potrebbe rendersi necessaria. L’affluenza alle urne alle elezioni parlamentari è stata del 49,22% secondo i dati della presidente della Commissione Elettorale Centrale, Alina Russu. Il clima non è stato dei più sereni: due leader dell’opposizione hanno denunciato di essere stati avvelenati, il governo ha smentito un suo coinvolgimento.

Maia Sandu e Andrei Nastase del partito Acum, che hanno unito le forze per fare campagna contro il Partito Democratico, accusando la sua leadership di corruzione dilagante, sostengono che i medici hanno trovato nel loro sangue tracce di metalli pesanti. Un portavoce del Partito Democratico ha bollato come “fantasiose” queste accuse.

Kim, Trump e cinquanta sfumature di Bombe H

La Corea del Nord, 250 giorni dopo, resta una minaccia nucleare: lo ammette il segretario di Stato americano Mike Pompeo, in una intervista alla Cnn a ridosso del vertice di Hanoi, il secondo tra Donald Trump e Kim Jong-un. Dopo l’incontro a Singapore, l’11 giugno 2018, tra il presidente Usa e il dittatore nord-coreano, il regime di Pyongyang non ha rinunciato al proprio arsenale atomico e missilistico, non ha allentato la morsa sul proprio popolo, non ha preso a rispettarne i diritti umani e non ne ha neppure migliorato le condizioni di vita. Né gli Stati Uniti o la comunità internazionale hanno allentato le sanzioni contro la Corea del Nord. Secondo il Programma alimentare mondiale dell’Onu, nel 2017 c’erano 10,3 milioni di nord-coreani, quasi la metà della popolazione, denutriti; e oggi la situazione resta analogamente difficile.

Pochi i passi in avanti concreti. Trump ha rinunciato a esercitazioni militari congiunte con la Corea del Sud; Kim ha parzialmente distrutto un sito nucleare, già danneggiato da un’esplosione.

Eppure, il vertice si ripete, domani e giovedì, nella capitale vietnamita, che Kim sta raggiungendo – pare – in treno: un viaggio di giorni, 4.023 chilometri, come lo fece suo nonno Kim Il-sung, capostipite della dinastia comunista che governa il Paese da oltre settant’anni, il primo e unico leader nordcoreano a recarsi in Vietnam, per celebrare allora l’alleanza contro l’imperialismo: quello francese, appena sconfitto, e quello americano, che lo sarebbe stato. Di passaggio a Pechino, non è escluso che il presidente nord-coreano abbia visto il presidente cinese Xi Jinping, anche se un incontro – il quarto, in poco tempo – fra i due c’era già stato a inizio anno. Secondo Trump, che ad Hanoi ci arriverà in aereo, impiegandoci un quarto del tempo di Kim, nonostante debba fare il quadruplo della strada, gli impegni presi a Singapore e gli sforzi da allora fatti “hanno diminuito i rischi per il popolo americano” e aumentato la sicurezza del Mondo. Ma non è chiaro che cosa possa scaturire in concreto da questo secondo incontro: rispetto a Singapore, ci vorranno conclusioni precise e non generiche, per evitare lo stallo negoziale

Ad Hanoi, si susseguono i negoziati sull’agenda del Vertice: prima che i leader si vedano, si cerca un equilibrio tra gli atti concreti chiesti dagli Usa per la denuclearizzazione della penisola coreana e le “azioni compensative” sollecitate dalla Corea del Nord, a partire dall’allentamento delle sanzioni, imposte dopo i ripetuti esperimenti atomici e missilistici che avevano caratterizzato tutto il 2017, l’anno degli scontri verbali a distanza tra Trump e Kim. Le due delegazioni, guidate rispettivamente da Kim Hyok-chol, rappresentante speciale del Nord per i rapporti cogli Usa, e da Stephen Biegun, inviato degli Usa per la Corea del Nord, hanno avuto due faccia a faccia, mentre riunioni collaterali si svolgevano su questioni più tecniche, protocollo e sicurezza.

L’altra mattina, per la prima volta, il Vietnam ha ufficialmente annunciato l’imminente “visita ufficiale di amicizia” di Kim, su invito del presidente Nguyen Phu Trong. Il quotidiano Nhan Dan, organo del Partito comunista del Vietnam, ha notificato il divieto parziale del traffico sull’autostrada N.1, lungo i 170 km tra Hanoi a Dong Dang, la stazione al confine con la Cina dove dovrebbe arrivare il treno di Kim (che di lì proseguirebbe in auto).

Il vertice può anche avere risvolti economici, nota su AffarInternazionali.it Nello Del Gatto. Trump insiste sulle potenzialità di una Corea del Nord pacificata e aperta. E la scelta del luogo del vertice non è casuale: la sviluppo del Vietnam, che pur resta comunista, può offrire a Kim un modello.

Il patto con il “diavolo”. Da fuorilegge ad alleata: destra radicale con Bibi

Trent’anni dopo essere stati messi fuorilegge dalla Corte Suprema israeliana per terrorismo, i seguaci del rabbino Meir Kahane torneranno a sedersi sui banchi della 21ª Knesset.

Estromessi dalla politica e banditi dalla legge, i sostenitori del partito razzista ebraico “Kach” tenuti finora ai margini estremi dell’arena politica, riuniti ora sotto il nome “Otzma Yehudit”, si vedono spalancare le porte del Parlamento israeliano. Un apparentamento elettorale con Habayit Hayehudi – erede del Fronte nazionale ebraico – li ha portati nel fronte della Grande Destra con il Likud che Benjamin Netanyahu ha allestito per cercare di mantenere il suo posto da primo ministro anche nella prossima legislatura battendo ogni record politico in Israele, compreso quello di Daviv Ben Gurion.

I sondaggi dopo la chiusura delle liste elettorali indicano che la principale lista di sfida alla Destra, “Resilienza per Israele” dell’ex generale Benny Gantz unita con il partito Yesh Atid, porterebbe a casa il prossimo 9 aprile 36 seggi, la maggioranza relativa nella nuova Knesset, mentre il Likud del premier Benjamin Netanyahu è inchiodato a 30. L’accordo fra Gantz e Yair Lapid è stato la somma delle paure del premier. Netanyahu sa perfettamente che per la prima volta negli ultimi 13 anni c’è una coazione in Israele in grado di batterlo. Ma non si tratta poi solo di politica,

Netanyahu è un animale politico di grande esperienza ma adesso combatte con le spalle al muro non solo per la sua carriera, ma anche per l’imminente decisione del procuratore generale Avichai Mandleblit sulle accuse di corruzione che potrebbero costargli la libertà. “Netanyahu – ha scritto l’altro giorno il quotidiano Haaretz – è ora impegnato in una lotta per la vita o la morte e questo lo rende più pericoloso che mai”. In altre parole per salvare il suo futuro si è alleato con il “diavolo”.

Otzma Yehudit nei sondaggi non avrebbe superato i 100.000 voti, insufficienti per avere almeno un seggio in Parlamento. Ma nella lista per Netanyahu uniti a quelli di Habayit Hayehudi, potrebbero invece diventare l’ago che fa pendere la bilancia dal suo lato. In cambio Netanyahu si è spinto a promettere agli eredi del rabbino Kahane e i suoi nuovi alleati ben due ministeri, quello dell’Istruzione e quello degli Alloggi, più due seggi nel Gabinetto si sicurezza.

Rabbi Meier Kahane, nacque a Brooklyn e ben presto le sue idee estremiste gli attirarono l’attenzione dell’FBI: emigrato in Israele provò ad essere eletto alla Knesset nel 1973, 1977, 1981 con risultati scarsi. Ma nel 1984 il suo partito, il Kach, ottenne abbastanza voti per un seggio alla Knesset. Nei successivi quattro anni Kahane spese ogni sua parola nell’aula chiedendo che Israele diventasse una teocrazia, dove i non ebrei dovevano essere espulsi anche con la forza, definendo l’uccisione dei “cani arabi un atto di giustizia”. La sua scure si abbatteva contro i matrimoni misti che andavano criminalizzati e contro l’omosessualità. Il suo razzismo sfacciato faceva sì che ogni volta che prendeva la parola si rivolgeva a una aula vuota perché la Knesset si svuotava. Restava solo lo stenografo, che era pagato per rimanere. Il suo partito venne messo fuorilegge nel 1994, sotto il governo di Yitzhak Rabin (che sarà ucciso l’anno dopo per mano di un assassino vicino al Kach), dopo il massacro di Hebron. Qui nella Tomba dei Patriarchi un discepolo di Kahane, Baruch Goldstein aprì il fuoco con un mitragliatore uccidendo 29 fedeli musulmani in preghiera e ferendone 125. Kahane sarà ucciso qualche anno dopo – nel 2000 – a Manhattan da un seguace di al Qaeda durante un meeting in un hotel. Oggi i tempi sono cambiati e coloro che vennero messi all’indice adesso tornano su un tappeto rosso, alleati del primo ministro.

Dopo la morte di Kahane i suoi seguaci si sono riuniti sotto diverse sigle, l’ultima appunto è Otzma Yehudit. Fra i nomi di spicco c’è Michel Ben-Ari a cui è negato l’ingresso negli Usa per la sua passata appartenenza al Partito Kach (partito giudicato terrorista in Usa, Canada e Europa), Itamar Ben Gvir – noto per la difesa dei sospetti terroristi ebrei – Baruch Marzel che fu segretario del Kach quando Kahane era deputato, Bentzi Gopstein – allievo di Kahane – e leader del gruppo di estrema destra Lehava. In tre collezionano più di cento arresti negli ultimi anni per incidenti con gli arabi, pestaggi e scontri con la polizia. Personaggi difficili da far digerire all’ala liberale del Likud – il partito del premier – ma Netanyahu c’è riuscito. Non è detto però che l’alleanza con il “diavolo” e la deriva verso l’estrema destra porti Netanyahu di nuovo alla vittoria. Il suo allarme contro “un governo di sinistra legato agli arabi” è un’affermazione ridicola e non influenzerà nessuno fuori della sua base elettorale. Infatti “Resilienza per Israele” continua a macinare consensi. Descrivere poi la lista avversaria – che include tre ex comandanti in capo dell’IDF – come disfattista è davvero troppo per l’elettore medio. In qualsiasi altro contesto il triumvirato Benny Gantz, Gabi Ashkenazi e Moshe Yaalon sarebbe considerato eccessivamente “falco”, al limite di una giunta militare. Ma non Israele. Non se devi provare a battere Bibi Netanyahu.

Vaccini, il medico su Fb: “Cerco bimbo per un esperimento”

“Sto cercando un bambino/a rigorosamente volontario/a che abbia la parotite in atto. Si tratta di esperimento che rispetta la convenzione di Oviedo e non infrange le regole del Codice di Norimberga”: è l’annuncio pubblicato su Facebook da Fabio Franchi, medico antivaccinista autore, tra gli altri, del libro Aids: la grande truffa. L’annuncio, diventato virale solo ieri, era stato pubblicato il 22 febbraio. “Non posso spiegare più di tanto per ora. Invito al passaparola – scriveva Franchi – Non ho intenzione di fargli alcuna iniezione”. Dopo le critiche, ha fatto marcia indietro: “Viene sospesa la ricerca del bimbo parotitico poiché sono state sospettate chissà quali nefandezze da parte mia. La riprenderò tra poco, spero, non appena potrò spiegare nel dettaglio di cosa si tratta; comunque è cosa di una banalità estrema che comporta rischi zero”. È intervenuto il ministro della Salute, Giulia Grillo: “Non è assolutamente consentito effettuare ricerche o esperimenti scientifici al di fuori delle regole stabilite dalle leggi. Ho già dato mandato ai miei uffici per le verifiche del caso e sollecito inoltre la Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo) ad attivarsi per i necessari approfondimenti sull’autore del post”.

Neppure Di Maio vuol cancellare l’aiutino nascosto per l’Alitalia

Quando si tratta di cassa integrazione Alitalia, al ministero del Lavoro guidato da Luigi Di Maio la mano destra non sa quello che fa la sinistra. O, almeno, finge di non saperlo.

Il Fatto è entrato in possesso di documenti da cui si evince che il ministero – Divisione degli ammortizzatori sociali diretta da Ugo Menziani – è stato informato a più riprese dell’esistenza e delle conseguenze di un’indagine sulla legittimità della cassa integrazione avviata mesi fa dagli ispettori del lavoro di Roma. Del resto ci sarebbe da meravigliarsi del contrario essendo Menziani un dirigente dello stesso ispettorato che, a sua volta, opera nell’ambito del ministero. Dall’indagine risulta che l’utilizzo della cassa integrazione è di dubbia legittimità in quanto sostituisce i permessi dovuti per legge e non concessi ai piloti e agli assistenti di volo. Nonostante questo il ministro Di Maio non si è mai mosso dall’assioma che all’Alitalia la cassa integrazione vada in ogni modo garantita.

Di più. Il ministero del Lavoro è stato informato che in base a quelle ispezioni innescate da segnalazioni del Cub Trasporti e Air Crew Committee, durate mesi e che hanno coinvolto almeno 500 dipendenti di volo della compagnia, è stata irrogata una sanzione amministrativa di circa 3 milioni e mezzo di euro nei confronti dei due manager direttamente coinvolti nell’affare, Giancarlo Schisano negli anni dal 2015 al 2017, e Massimo Iraci nel periodo successivo. Come responsabili di seconda istanza sono stati coinvolti anche i capi dell’azienda precedenti al fallimento, come il presidente Luca Cordero di Montezemolo, e successivamente i commissari straordinari Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Paleari.

Non è finita: sulla base delle risultanze degli Ispettori romani del ministero del Lavoro, la Procura della Repubblica di Civitavecchia, territorialmente competente sulle vicende Alitalia, ha avviato un’indagine che ha per oggetto proprio l’utilizzo degli ammortizzatori sociali. Infine il ministro Di Maio è ovviamente pure a conoscenza che la Corte dei Conti ha aperto un fascicolo sulla stessa vicenda ipotizzando che la reiterata e indebita concessione di cassa integrazione possa costituire un danno erariale. Cioè, detto in un altro modo, sospettando che lo Stato continui a tirare fuori ogni mese soldi a favore dell’azienda di Fiumicino forzando o ignorando le regole.

Non si stratta di pochi spiccioli, ma di una cifra tra i 50 e i 60 milioni di euro l’anno che in pratica, nel caso in cui l’ipotesi della Corte dei Conti fosse provata, risulterebbero a tutti gli effetti un aiuto di Stato. Una sorta di finanziamento-integrazione ai 900 milioni di euro di “prestito ponte” concessi all’Alitalia dallo Stato nella speranza che nel frattempo possa essere escogitata una qualche soluzione che sollevi l’azienda dei voli dall’amministrazione straordinaria in cui è stata confinata dopo l’ennesimo fallimento.

Nonostante il ministro Di Maio conosca tutto ciò, continua a firmare come niente fosse i decreti per la cassa integrazione Alitalia che, in base agli accordi sottoscritti con la maggioranza dei sindacati, durerà sicuramente fino al 23 marzo. Ma forse proseguirà anche dopo.

Lo stesso ministro durante gli incontri recenti con i sindacati non ha escluso che se necessario la cassa integrazione possa essere confermata fino a che dal mazzo non sarà pescato il jolly per la salvezza della compagnia.

Sono anni che la cassa integrazione è di fatto una stampella per Alitalia, usata dall’azienda anche nei casi in cui non ce ne sarebbe in realtà bisogno allo scopo di trarne vantaggio. Nel 2013, quando al timone della compagnia c’erano ancora i Capitani coraggiosi, i sindacati sottoscrissero un accordo con Alitalia Cai per un taglio di 2.236 posti di lavoro da gestire con la cassa integrazione a rotazione.

Di lì a poco i numeri della cassa furono tradotti in licenziamenti: 2.251 dipendenti espulsi per preparare il terreno ai nuovi entranti, gli arabi di Etihad che ricevettero la compagnia alleggerita da un bel po’ di lavoratori. A fine 2014 furono avviate forme di assistenza tramite lo strumento di contratti di solidarietà per i piloti e gli assistenti di volo. Arrivati i commissari straordinari il 2 maggio 2017 la solidarietà fu trasformata in cassa integrazione e fu estesa anche al personale di terra. Infine, la cassa è stata rinnovata per tre volte dai ministri dei governi di centrosinistra e ora dai gialloverdi. Oggi riguarda 1.300 dipendenti: 90 piloti, 380 assistenti di volo e 830 lavoratori degli uffici e delle manutenzioni.

Tav, l’assist di Tria a Salvini. M5S: “Tradisci il contratto”

Il tempo in più che l’esecutivo è riuscito a ottenere venerdì scorso sul Tav, grazie all’approvazione della mozione M5S-Lega che, come previsto dal contratto di governo chiede di ridiscutere integralmente l’opera dopo l’analisi costi-benefici, già è stato rosicchiato da una nuova ondata di polemiche. Questa volta a innescarle non è la minoranza, ma il ministro dell’Economia Giovanni Tria che, ospite di Quarta Repubblica (Rete 4) non nasconde le sue perplessità sull’opera. “Non mi interessa l’analisi costi-benefici. Il problema non è il Tav, il problema è che nessuno verrà mai a investire in Italia se il Paese mostra che un governo che cambia non sta ai patti, cambia i contratti, cambia le leggi e le fa retroattive”, ha detto il responsabile di via XX Settembre. Che ha aggiunto: “Bisogna portare avanti l’economia italiana”. Già in un’intervista di due settimane fa a La Stampa , il ministro aveva affermato che bisogna “dimostrarsi affidabili” prendendo ad esempio proprio il Tav: “Ho detto più volte che ritengo sia un’opera utile da realizzare ed è chiaro che ci possono essere opinioni contrarie. Quando si parla di infrastrutture, e dunque degli investimenti a lungo termine necessari all’Italia, c’è bisogno di certezze”. Parole, insomma, che sconfessano la linea dell’esecutivo e che non considerano il risultato dell’analisi costi-benefici: uno spreco di soldi pubblici che genera un effetto negativo (sbilancio tra costi-benefici) di 7 miliardi.

“Tria ha dimenticato che c’è un contratto di governo, lui dovrebbe ricordarlo. Si atterrà a quello che c’è scritto”, è stata la secca replica del ministro dei Trasporti DaniloToninelli che pensa, invece, di utilizzare le risorse della linea veloce per migliorare la sicurezza delle infrastrutture. “Quello che mi preoccupa – ha ribadito – è impegnare tutti i soldi per fare un buco in una montagna ed evitare di impegnarli, perché purtroppo la coperta è corta, su tantissime opere di manutenzione per ponti e gallerie troppo vecchie e ammalorate”.

Che nella maggioranza la partita Tav resti uno dei temi più caldi è evidente anche dalle dichiarazioni di Matteo Salvini che, nella tarda serata di ieri, ha comunque ribadito che “farà tutto il possibile perché l’opera si faccia, con tutte le restrizioni del caso”. E che il referendum potrebbe essere la soluzione finale: “Se qualcuno chiedesse che l’ultima parola spetti ai cittadini noi come Lega non ci opporremmo”, ha sottolineato il leader del Carroccio. Che tenta ancora la carta del mini-Tav, come richiede il viceministro delle Infrastrutture, Edoardo Rixi, chiedendo maggiori risorse all’Ue per tutte le linee del Nord-Ovest. Ma il tempo sta per scadere: entro due settimane vanno pubblicati i bandi di gara per il tunnel in Val di Susa: in caso contrario verrà applicata una riduzione di 300 milioni sugli 813 milioni dell’intera contribuzione prevista dai finanziamenti europei.

Cigs, privacy e riscatto contributivo: il decretone al Senato

È iniziata ieri la discussione generale sul decretone nell’aula del Senato, oggi dovrebbero prendere il via le votazioni. L’esame degli emendamenti dovrebbe richiedere un paio di giorni, poi il provvedimento dovrebbe passare alla Camera per la seconda lettura. Per quanto riguarda il Reddito di Cittadinanza e Quota 100, l’esecutivo ha presentato un pacchetto di modifiche su Cigs, privacy e riscatto dei contributi. Si parte dal tempo a disposizione dei lavoratori per riscattare gli anni contributivi, che raddoppierà mentre sono previsti sei mesi di cassa integrazione straordinaria per le aziende operanti in aree di crisi complessa, che saranno anticipati dall’Inps. Si aggiusta il tiro anche sulla privacy, dopo i rilievi del garante: le spese effettuate con la card saranno controllate in forma anonima e solo sugli importi complessivi spesi e prelevati sulla carta, senza conoscere i dati personali dei soggetti. Si prevedono poi 120 rate, invece di 60, per il riscatto contributivo ed è negli uffici giudiziari è previsto il reclutamento di personale non dirigenziale a tempo indeterminato, in deroga alle norme vigenti, per 1.300 posti.

Ancora precari, ancora proteste. La beffa ai mille ricercatori del Cnr

Quella di oggi sarà l’ennesima protesta dei ricercatori precari del Cnr. In mille non hanno ancora ottenuto un posto a tempo indeterminato, pur essendo in servizio presso l’ente da anni con contratti a termine. L’istituto, però, nel 2019 vuole assumerne in modo permanente solo 208. Nonostante la legge Madia che a maggio 2017 ha sbloccato le stabilizzazioni, e i quasi 75 milioni stanziati dagli ultimi due governi, la stagione del precariato storico nel più grande centro ricerche pubblico italiano non sembra finire.

I 22 enti di ricerca vigilati dal ministero dell’Istruzione hanno negli ultimi vent’anni arruolato migliaia di ricercatori, tecnologi, tecnici e amministrativi con contratti a scadenza, rinnovati di volta in volta tanto da creare la categoria dei precari “storici”. Poco meno di due anni fa, il governo Gentiloni ha provato ad affrontare il problema. La norma con il nome dell’allora ministro della Funzione pubblica ha stabilito un requisito per avere il posto fisso: vantare un anzianità di almeno tre anni negli ultimi otto. In tal caso, i ricercatori che lavorano come dipendenti a tempo determinato possono essere stabilizzati automaticamente; quelli invece con contratti di collaborazione o assegni di ricerca possono essere inseriti in pianta stabile solo con concorsi riservati. Il Cnr nel 2018 ha stabilizzato circa 1.100 dipendenti e bandito una selezione vinta da 800 tra co.co.co. e assegnisti. Finora, però, ha effettivamente assunto solo 100 di questi. Altri 700 sono in graduatoria e aspettano la chiamata. A questi si aggiungono altri 300 circa rimasti fuori per altri motivi (soprattutto perché esclusi dallo stesso concorso). Durante un incontro delle scorse settimane con i sindacati, è arrivata la doccia fredda: il Cnr intende assumerne solo 104 entro maggio e altrettanti entro settembre. Insomma, 800 precari resteranno tali. I sindacati e il coordinamento Precari uniti Cnr scenderanno oggi in piazza contro questa scelta. L’anno scorso il governo Gentiloni ha dato 40 milioni al Cnr, obbligando l’istituto a metterne altri 20 di propri e destinare tutto alle stabilizzazioni.

Il governo Conte ha aggiunto 34,5 milioni (presi dagli ex fondi “premiali”). Il Cnr però vuole fare un’operazione: attingere proprio dai nuovi fondi stanziati dall’esecutivo giallo-verde per prendere i 20 milioni di co-finanziamento imposto da Gentiloni. Così facendo, la dote totale passa da 94,5 milioni a 74,5 e, naturalmente, la platea degli stabilizzati si dimezza.

Il lavoro sparito: 1,8 milioni di ore in meno che nel 2008

Lavorare meno, lavorare tutti: chi invoca questo approccio come panacea non sa che l’economia italiana lo sta già applicando. Nel 2018, l’Italia ha recuperato il numero di occupati pre-crisi, cioè del 2008, e ha anzi segnato un nuovo record: 23,3 milioni di persone al lavoro, 125.000 in più che nell’anno del crac di Lehman Brothers. Ma nel 2018 mancano all’appello 1,8 milioni di ore lavorate rispetto a dieci anni fa, un buco del 5,1 per cento. E non perché gli italiani siano diventati più produttivi, cioè capaci di ottenere gli stessi risultati in minor tempo. L’economia, infatti, non è mai tornata al livello pre-crisi: il Pil dei primi due trimestri del 2018 era del 3,8 per cento più basso di quello del periodo corrispondente del 2008. Quindi lavorano più persone, ma per produrre meno.

Quello che è successo, spiega il rapporto Il mercato del lavoro: un bilancio degli ultimi dieci anni presentato ieri dall’Istat, è che la qualità del lavoro è peggiorata, si sono ridotti gli impieghi a tempo pieno e sono aumentati i tempi determinati e i part time involontari (imposti dal datore di lavoro a chi invece sarebbe ben felice di fare il turno pieno). Ma l’ossessione con cui la politica guarda al numero di occupati ha generato l’illusione che tutto fosse tornato a posto. Il nostro tasso di disoccupazione (la quota di chi cerca lavoro e non lo trova) al 10,6 per cento è più basso di quello di altri Paesi Ue, ma se l’Italia avesse un tasso di occupazione (la percentuale di popolazione con un lavoro sul totale) analogo a quello del resto dei Paesi dell’eurozona, ci sarebbero 3,8 milioni di occupati in più.

In una prima fase, il calo delle ore lavorate si poteva spiegare con la scelta delle imprese di ricorrere alla cassa integrazione per gestire i cali di domanda. Ma ora la cassa integrazione è tornata al livello del 2008, eppure continuano a mancare 1,8 milioni di ore lavorate. Questo si spiega in parte con il fatto che in dieci anni sono spariti 866.000 posti di lavoro a tempo indeterminato e c’è stata una ecatombe silenziosa anche di lavoratori indipendenti (-602 mila, il 10,2 per cento del totale del 2008). Il vuoto lasciato è stato riempito soltanto in parte dalla carica dei tempi determinati: alla fine dei primi nove mesi del 2018 ce n’erano 735.000 in più che nel 2008, il grosso dell’aumento si è registrato tra quelli di breve durata, sotto i sei mesi (+613.000). E poi ci sono i part time involontari: un milione e mezzo in più che nel 2008. Non soltanto un effetto collaterale della crisi che riduce tutele e opportunità, ma la spia di un mutamento strutturale (e preoccupante) dell’economia italiana, spiega l’Istat: l’occupazione si sta spostando da settori dove dominavano i contratti a tempo indeterminato o comunque full time, come l’industria e le costruzioni, verso altri dove c’è una maggiore incidenza del tempo parziale: alberghi e ristorazione, servizi alle imprese, sanità e servizi alle famiglie.

A spiegare questo lavoro mancante c’è anche il blocco del turnover nella Pubblica amministrazione, che ha chiuso la strada alla più tipica delle occupazioni a tempo indeterminato. Ma c’è anche la debolezza del sistema delle imprese italiane nei settori più tecnologici che in altri Paesi trainano la crescita e offrono le opportunità più interessanti. Un dato riassume il problema: nel 2010 gli italiani con un dottorato di ricerca conseguito in un ateneo italiano che lavoravano all’estero erano il 14,7 per cento di quelli con un lavoro, nel 2018 la percentuale è salita al 18,8 per cento. E le generazioni più giovani risultano più propense alla mobilità, probabilmente anche perché di occasioni di sfruttare il loro titolo in Italia ce ne sono sempre di meno.

Se proprio si vuole vedere un segno positivo, nell’evoluzione del mercato del lavoro, si può notare che nel 2018 le donne occupate sono mezzo milione in più che nel 2008 (+5,4 per cento), soprattutto nel settore terziario. Da sempre gli economisti considerano una maggiore partecipazione femminile fondamentale per sfruttare il potenziale latente dell’economia italiana. Ma le mogli si sono messe a lavorare soltanto perché i mariti non trovavano più nulla. Gli uomini occupati sono calati di 388.000 unità (-2,8 per cento), colpa del crollo di industria ed edilizia. Altro segnale drammatico: la crisi ha spaccato ancora di più l’Italia. Il Centro-Nord ha 376.000 occupati in più che nel 2008, il Mezzogiorno 262 mila in meno. Il record degli occupati su base nazionale a 23,3 milioni su base nazionale, insomma, è ben magra soddisfazione