Un enorme pino di oltre 30 metri, caduto in centro a Roma. E due uomini schiacciati e feriti. Il maltempo continua a fare danni e vittime, anche dopo l’ondata che si è abbattuta sulle Regioni del Centro-Sud Italia nel weekend. Dopo i 4 morti di sabato, ancora paura nella Capitale: ieri mattina un albero è caduto in viale Mazzini, nel quartiere Prati. Ha travolto prima un lampione, poi è finito su tre auto che si trovavano in mezzo alla strada: nell’incidente sono rimasti coinvolti un automobilista e un passante, rispettivamente di 52 e 42 anni. Entrambi gravi, non sarebbero però in pericolo di vita. “Ero in strada quando ho visto l’albero venire giù all’improvviso. Mi sono salvato per miracolo”, ha raccontato un testimone rimasto illeso. Caos e disagi nel quartiere per tutta la mattinata, con i vigili del fuoco che hanno transennato l’area per rimuovere gli altri rami pericolanti. Anche la sindaca Raggi ha partecipato ai sopralluoghi, prima di far visita ai feriti in ospedale. Quella della caduta di tronchi a Roma sta diventando una vera e propria emergenza: non è la prima volta, infatti, che si verifica un incidente del genere nella Capitale, dove ci sono decine di migliaia di alberi anziani e a fine vita; già un anno fa altri due pini erano caduti nello stesso quartiere, sfiorando la tragedia.
Primo sequestro in Italia di droghe sintetiche: “L’eroina in confronto è acqua”
Appena venti grammi che trattati avrebbero prodotto ben 20 mila dosi di eroina sintetica. La droga è stata sequestrata ieri dal Nas di Roma dopo una lunga indagine partita dal traffico di farmaci dopanti. La sostanza, spedita dall’estero in una busta, era indirizzata a una città del Centro Italia. Si tratta del primo sequestro nel nostro Paese. La sostanza è risultata avere una struttura chimica simile al Fentanyl, un potente sedativo. Il dato è rilevante. Nel settembre scorso, infatti, una morte per overdose avvenuta a Milano nel marzo 2017, è stata collegata a una sostanza simile. In quel caso il decesso è avvenuto per l’assunzione di Ocfentanyl (OcF), un oppioide sintetico 200 volte più potente della morfina. Quella di Milano è stata la prima morte in Italia collegata all’eroina sintetica. Secondo gli investigatori del Nas che ieri hanno operato il sequestro, “in confronto l’eroina è quasi acqua fresca, anzi, proprio per la sua economicità, in alcuni casi viene venduta dai pusher a giovani convinti di comprare eroina”. Come probabilmente è stato il caso di Milano. La gestione del dosaggio è poi molto complicata. Spiega il generale Adelmo Nesi comandante dei Nas: “Con 25 milligrammi di eroina ci si sballa, con 25 mg di simil-fentanyl, come quello appena sequestrato, si muore”. In un recente report della sezione di Tossicologia forense del Dipartimento di scienze biomediche dell’Università Statale di Milano si legge: “La capacità di agire dell’Ocfentanyl a concentrazioni molto ridotte, se usata illecitamente per scopi ricreativi, determina un alto rischio di sovradosaggio”. L’Ocfentanyl, individuato a Milano e molto simile a quello sequestrato ieri, è uno dei tantissimi derivati dei fentanili. Uno di loro, il fentanyl, è da tempo in commercio. Si utilizza per il dolore cronico. L’OcF, invece, non è mai entrato sul mercato legale. Chi lo usa, lo acquista sul mercato nero. La produzione è soprattutto in Cina. Da qui poi viene immesso nel mercato e prevalentemente acquistato attraverso i canali del dark web.
RoxyBar, 7 anni a Casamonica per il raid “mafioso”
Si è opposta a quel potere mafioso che incombe nel suo quartiere, alla Romanina, zona sud della Capitale. Ha alzato la testa ribellandosi ad alcuni esponenti del clan Casamonica che pensavano di dettar legge nel suo locale, il Roxy Bar. Adesso, mentre i parenti del boss insultano giudici e minacciano giornalisti, Roxana Roman, cittadina romena di 34 anni nominata Cavaliere al Merito dal presidente Mattarella, esulta: “Questa sentenza grida giustizia, rifarei tutto quello che ho fatto”. È grazie alla sua denuncia che ieri Antonio Casamonica è stato condannato a 7 anni di carcere per aver picchiato il titolare del bar, il marito di Roxana, e una ragazza disabile che aveva osato alzare la testa contro quell’ostentazione di potere. Quella avvenuta al Roxy bar infatti, durante la domenica di Pasqua del 2018, non era un’aggressione come tante, ma un vero e proprio raid “mafioso”.
A stabilirlo sono stati i giudici della VI sezione penale del Tribunale di Roma, che hanno riconosciuto Antonio Casamonica colpevole di lesioni e violenza privata, il tutto aggravato dal metodo mafioso. Una sentenza in linea con quanto deciso lo scorso ottobre, nel processo con rito abbreviato terminato con la condanna degli altri protagonisti di questa vicenda: 4 anni e 10 mesi per Alfredo Di Silvio, 4 anni e 8 mesi per il fratello Vincenzo, e 3 anni e due mesi per il nonno Enrico.
I fatti risalgono al primo giorno dello scorso aprile. Per il clan dai mille affiliati era un giorno come tanti, in cui ostentare il proprio potere “su un territorio – aveva scritto il gip confermando la richiesta di arresto firmata dal procuratore aggiunto Michele Prestipino e dal sostituto Giovanni Musarò – che considerano sottoposto al loro dominio”. Per questo non potevano permettere che una giovane disabile, Simona Rossi, si ribellasse a chi pretendeva di essere servito prima degli altri clienti. “Questi romeni di merda non li sopporto proprio”, dicevano. Simona aveva risposto: “Se il bar non vi piace andate altrove”. Un’offesa all’onore: avevano massacrato la ragazza “con una cintura e, successivamente, con calci all’addome, con schiaffi in testa e stringendole con forza il collo”, mentre alcuni clienti rivolgevano lo sguardo alle macchinette mangiasoldi presenti nel locale. Poi avevano distrutto il bar, intimorendo in diverse occasioni eventuali testimoni: “Se chiami la polizia ti ammazziamo”. Minacce che non hanno sortito l’effetto sperato: ieri a distanza di quasi un anno Antonio Casamonica è stato condannato tra le urla dei parenti.
“Vergognatevi schifosi, l’Italia fa schifo”. Al momento della lettura della sentenza caos in aula e minacce pure per i giornalisti: “Guai a voi se pubblicate le nostre foto”. Roxana, invece, che a fine dicembre era stata premiata dal presidente Mattarella “per il suo contributo nell’affermazione del valore della legalità”, adesso è contenta: “Voglio cominciare ad andare nelle scuole. Parlare con i ragazzi per spiegargli che possono ribellarsi alle prevaricazioni”. Il Roxy bar continua a essere aperto, come sempre.
Han fatto nero Alemanno. 6 anni per i soldi da Buzzi
“Ma davvero Roma è ladrona?”. Si intitolava così il dibattito che andò in scena a Cortina d’Ampezzo nel 2010. L’allora sindaco della Capitale, Gianni Alemanno, intervistato dall’allora giornalista Gianluigi Paragone.
Chissà se Alemanno lo ricorda. Ieri è stato condannato in primo grado a 6 anni di carcere per corruzione e finanziamento illecito (i pm ne avevano chiesti 5). È l’inchiesta sul ‘mondo di mezzo’. I pm avevano definito Alemanno “l’uomo politico di riferimento di Mafia Capitale in Comune”. Ma la contestazione di associazione a delinquere di stampo mafioso nei confronti di Alemanno è stata archiviata. I fatti che hanno portato alla condanna vanno dal 2012 al 2014: l’ex sindaco, secondo i pm, avrebbe ricevuto dall’imprenditore Salvatore Buzzi, in accordo con Massimo Carminati, 223.500 euro soprattutto attraverso pagamenti alla Fondazione Nuova Italia. Il tutto con l’aiuto e l’intermediazione dell’ex amministratore dell’azienda romana dei rifiuti (Ama), Franco Panzironi, suo stretto collaboratore. Ad Alemanno sono stati confiscati 298mila euro.
“Sono innocente, ricorrerò in appello. Nessuna irregolarità né dolo nei finanziamenti”, giura l’ex sindaco. Ma la condanna di ieri pare il sigillo su un’era, quella della destra che esce allo scoperto e conquista Roma, dove era stata sempre forte: dalle associazioni nere, ai gruppi studenteschi fino alle curve dello stadio. Mai, però, era arrivata nella stanza dei bottoni. Fino al 28 aprile 2008 quando Alemanno conquista il Comune. E sui giornali di tutto il mondo finiscono le foto dei sostenitori che festeggiano in Campidoglio con il saluto fascista. Lui, Alemanno, parlando con il Sunday Times rassicurò: “Non sono fascista, ex fascista o postfascista”. Ma bisognava stare attenti a non perdere il consenso di quell’area politica: “Il fascismo fu fondamentale nella modernizzazione dell’Italia. Il regime prosciugò le paludi. Creò l’infrastruttura del Paese”.
Alemanno sembrava la figura ideale. Da una parte c’era il passato turbolento negli anni di Piombo a Roma, quando fu arrestato tre volte (“ne uscii con una condanna e due proscioglimenti”, racconta). Per non dire del pedigree familiare, essendo all’epoca sposato con Isabella Rauti, figlia di Pino, leader storico della destra. Ma dall’altra parte c’era un ruolo rassicurante di governo: Alemanno fu ministro dell’Agricoltura dal 2001 al 2006. E gli elettori già si erano dimenticati della vicenda Parmalat, della storia del latte microfiltrato, delle contestazioni ad Alemanno (prosciolto dal Tribunale dei ministri) per aver ricevuto viaggi dalla società di Calisto Tanzi. Così Alemanno sbarca al Campidoglio: modi felpati, sguardo d’acciaio. Il suo potere cresce, come dimostra l’aneddoto di Cortina. Alla rassegna di incontri allora guidata da Enrico Cisnetto – una specie di Porta a Porta tra le Dolomiti – gli Alemanno la fanno da padroni: il sindaco interviene quattro volte in dieci giorni. Poi ci sono la sorella Gabriella (numero uno dell’Agenzia del Territorio) e la moglie Isabella.
Ma alla fine la destra straborda. C’è chi denuncia la marea di assunzioni: 854 all’Atac, l’azienda di trasporto pubblico, e 1400 all’Ama, che si occupa dei rifiuti. Il Corriere rivela che tra gli assunti sono finiti due ex Nar, il gruppo armato neofascista. Ma ci sono anche mogli e figlie di assessori e sindacalisti. Perfino cubiste. E c’è la compagna dell’allora deputato Marco Marsilio (mentre la sorella Laura era assessore). Sì, proprio quel Marsilio oggi presidente della Regione Abruzzo. “Non sono mai stato indagato per questo”, ricorda Alemanno. Ma la radiografia del potere alemanniano è la Fondazione Nuova Italia dove si trovano i suoi fedelissimi Franco Panzironi, nominato ad dell’Ama, e Ranieri Mamalchi (già capo segreteria al ministero dell’Agricoltura e poi dirigente di Acea). Altra figura chiave era Riccardo Mancini, scelto per l’Ente Eur.
Tanto, troppo. E i romani infilzarono Alemanno a modo loro. I cronisti ricordano un episodio memorabile: siamo alla Garbatella, quartiere rosso. Alemanno arriva sull’auto blu che, però, si ferma in doppia fila e blocca un bus. Ed ecco un passante che fulmina il sindaco: “Gianni, sposta la macchina che deve passare tuo cugino con il bus”. È la fine. Alemanno nel 2013 – caso più unico che raro – non è confermato. Chissà se la sentenza di ieri sarà confermata in appello. Un verdetto politico, però, è stato già emesso: il fallimento della destra di potere. Ma tanti protagonisti di quell’epoca sono sulla cresta dell’onda. A spasso è rimasto solo Alemanno: “Ci sono errori che mi rimprovero di quegli anni: la scelta di alcune persone, aver ignorato le tante bucce di banana sul mio percorso”. E adesso? “Addio politica, con una condanna sulle spalle non si può fare”.
“Ardita intollerabile”. Gasparri furioso per l’intervista al Fatto
Maurizio Gasparri ha perso le staffe per un’intervista al Fatto del consigliere del Csm Sebastiano Ardita sul progetto di legge che vuole separare le carriere dei magistrati. I toni di quell’intervista, ha detto Gasparri, “sono intollerabili. Ardita dice cose senza fondamento, andando ben al di là dei suoi ruoli di magistrato e di membro del Csm”. Ardita aveva detto che “in passato il controllo politico dei pm fu un caposaldo del Piano di rinascita della P2: già sotto il fascismo i pm erano funzionari sottoposti al Guardasigilli. È una riforma che piace a tutti coloro che non gradiscono che qualcuno disturbi il manovratore”. Sempre Gasparri dichiara che si è abituati a toni come quello del consigliere Csm “perché leggiamo ogni giorno cose anche peggiori dette da colleghi di Ardita, non a caso seguace di Davigo, che si sta esibendo in esternazioni incredibili. Rimandiamo al mittente le affermazioni di Ardita e ribadiamo il diritto del Parlamento di esprimersi sulla separazione delle carriere”.
Evidentemente per Gasparri i magistrati, che verrebbero toccati direttamente da questa riforma, devono restare in silenzio.
Publitalia, arriva la condanna per il sodale di B.
Condannato a due anni e otto mesi: questa la sentenza in primo grado del Tribunale di Milano nei confronti di Alberto Bianchi, imputato per frode fiscale con un giro di false ricevute. Le fatture provenivano dalle casse di Publitalia, concessionaria di pubblicità del gruppo Mediaset, e avrebbero fatto incassare a Bianchi 30 milioni in totale, 27 dei quali tra il 1999 e il 2013, secondo quanto sostenuto dal pm Mauro Clerici. Alla Procura “sfuggono ancora – aveva detto il pm – le ragioni di tutti questi soldi dati negli anni”. La difesa ha sostenuto che fossero provvigioni per la vendita di spazi pubblicitari diretti alle reti Mediaset, ma nessuna attività lavorativa è stata riconosciuta a Bianchi, nè alla società di mediazione pubblicitaria da lui fondata, la Publigest. Secondo l’accusa, era stato accertato che l’unico motivo per cui avvenivano i versamenti di denaro era l’amicizia tra lui e Berlusconi: i due si conoscono dai tempi dell’università. Intercettato, Bianchi diceva: “Mi pagheranno fin quando è vivo Dell’Utri”. Il Tribunale di Milano ha inflitto anche altre quattro condanne, tra 8 mesi e 2 anni, mentre è stato assolto Romano Luzi, ex maestro di tennis del leader di Forza Italia, per cui il pm aveva chiesto 3 anni
L’arresto e l’inchiesta
Il provvedimento di cattura per Tiziano Renzi e Laura Bovoli è scattato lunedì 18 febbraio per i reati di bancarotta fraudolenta e false fatturazioni. I pm accusano i genitori di Matteo Renzi di aver provocato “dolosamente” il fallimento di tre cooperative, dopo averne svuotato le casse. La svolta nell’inchiesta è arrivata lo scorso autunno, grazie all’esame della documentazione della Eventi6, che portava alle cooperative Delivery, Europeservice Srl e Marmodiv (poi perquisite).
L’interrogatorio di garanzia si è svolto ieri al nono piano del palazzo di giustizia di Firenze. Prima la madre, Laura Bovoli, per circa tre ore, poco meno di due per il padre Tiziano. Gli avvocati difensori hanno chiesto la revoca dei domiciliari. L’imprenditore ligure Mariano Massone, il terzo indagato ai domiciliari, si è invece avvalso della facoltà di non rispondere. Sulla madre di Renzi incombe anche l’inchiesta da parte della Procura di Cuneo, che è stata la prima a indagare sul “sistema” delle coop di famiglia: sulla richiesta di rinvio a giudizio per Laura Bovoli il tribunale piemontese dovrebbe pronunciarsi il 28 febbraio
Il cellulare intoccabile di Renzi sr.: come nel caso Consip, i pm non lo sequestrano
Anche stavolta il telefonino di Tiziano Renzi è salvo. Era già successo il 20 dicembre 2016 nel pieno del caso Consip. Allora il Noe dei Carabinieri voleva perquisire Tiziano (non indagato allora) e i pm napoletani Henry John Woodcock e Celeste Carrano preferirono lasciar perdere, vista anche la contrarietà del pm di Roma Paolo Ielo.
Anche stavolta i pm di Firenze hanno declinato l’invito della polizia giudiziaria. Nessuno vedrà mai cosa si scrivono nelle chat Tiziano e i suoi amici. Nonostante Matteo Renzi li ripaghi ogni volta con allusioni poco generose sui tempi delle inchieste, i magistrati ce la mettono tutta per essere gentili con la famiglia. Il procuratore aggiunto Luca Turco per esempio ha deciso di non sequestrare i cellulari del padre e della mamma di Matteo Renzi. Alcuni ufficiali della Guardia di Finanza avrebbero dato volentieri una sbirciatina alle chat di Tiziano con i tanti soggetti che si sono alternati nelle cooperative in rapporti con la società Eventi 6 di moglie e figlie di Tiziano. In un’indagine basata sul concetto di amministratore ‘di fatto’ la curiosità dei finanzieri per le chat era ovvia. Meno ovvia la reazione del pm Turco. I finanzieri, quando sono andati a notificare gli arresti domiciliari firmati dal Gip Angela Fantechi, avrebbero voluto fare quel che spesso si fa: il sequestro dei telefonini degli arrestati. Il pm Turco ha tirato le redini. La richiesta di mettere mano ai telefonini, confermata al Fatto da più fonti, è stata informale, come anche la risposta negativa di Turco. Dal suo punto di vista, il materiale probatorio era sufficiente. Non c’era bisogno di altro. La stessa ottimistica valutazione è stata opposta a chi si è sorpreso dei domiciliari ‘soft’ imposti a Tiziano e Laura. I coniugi infatti sono liberi di comunicare dai domiciliari a loro piacimento.
Di qui la sorpresa della Procura per la reazione di Matteo Renzi dopo i domiciliari ‘gentili’ . Cosa dovevano fare di più i pm fiorentini per far contenti i Renzi?
Tiziano e Laura Renzi sono sì ai domiciliari ma senza limitazione alle comunicazioni con l’esterno. A differenza del terzo arrestato, Mariano Massone. I domiciliari del vecchio compagno di affari ligure sono accompagnati dal divieto di comunicare con soggetti diversi dai conviventi. Il Gip Fantechi, quasi per giustificare la differenza di trattamento precisa nell’ordinanza che lei non poteva imporre nulla perché è stato il pm a non chiedere la limitazioni per i coniugi Renzi.
Non basta. Dopo aver potuto parlare dal vivo e al telefono con chi volevano, gli ‘arrestati’ si sono potuti anche trasferire dalla loro residenza di Tori nella campagna vicino a Rignano. E dove sono andati con il timbro della legge? Nello stabile sull’Arno di proprietà della Eventi 6.
I magistrati hanno autorizzato il trasferimento nell’abitazione al primo piano dello stabile dove vive la figlia Matilde Renzi che è la prima socia della Eventi 6. Al piano terra si trovano gli uffici della società. Uno strano caso di casa e bottega con nonni ai domiciliari. Il provvedimento suscita qualche ilarità in paese e la giustizia vista da Rignano non ha certo il volto truce descritto da Matteo Renzi nel suo tour. Anche perché Eventi 6 è citata più volte dai magistrati nell’ordinanza contro i Renzi: “La Cooperativa Marmodiv avrebbe poi svolto attivita di sovratturazione per consentire alla Eventi 6 – per il pm Turco – 1’evasione delle imposte”. Non basta. Sempre per il pm “si sarebbe avvalsa del personale, formalmente assunto dalle cooperative le quali, non appena raggiunta una situazione di difficolta economica, sono state dolosamente caricate di debiti previdenziali e fiscali, e abbandonate al fallimento”.
Certamente Tiziano e Laura saranno ben attenti a non scendere le scale per entrare negli uffici. Però una considerazione si impone: a magistrati così gentili con mamma e papà, il figlio Matteo dovrebbe fare un monumento. Invece si comporta come chi avuto il dito e vuole tutto il braccio. Inaccontentabile.
Le minacce di Matteo e quei 150 mila euro di debiti con lo Stato
Matteo Renzi sul palco a Torino ha firmato una querela ‘social’ contro Marco Travaglio condividendola con il pubblico in estasi. Poi ha chiesto al direttore di pagare pure il padre Tiziano per una causa civile vinta in primo grado e pendente in appello. Poi è arrivato a minacciare il sequestro delle quote del Fatto. Renzi è un senatore pagato per fare gli interessi dello Stato e non quelli del padre. Se per un attimo uscisse dalla faida privata e rientrasse in una logica pubblica, capirebbe che i debiti di cui dovrebbe chiedere conto non sono quelli (provvisori) di Travaglio. Bensì quelli (altrettanto provvisori e ingenti) della cooperativa Marmodiv verso il fisco e l’Inps. Per i pm fiorentini ci sono indizi che la Marmodiv sia stata amministrata di fatto dai genitori di Matteo fino a un anno fa, quando è stata trasferita a Torino sotto la regia di Daniele Goglio e di Aldo Periale, presidente e poi liquidatore.
Il Fatto ha letto l’atto di cessione del ramo d’azienda firmato a dicembre da Aldo Periale, come presidente della Marmodiv, a una società di Milano di un amico genovese del solito Tiziano Renzi: Massimiliano Di Palma. La DMP Italia Srl ha rilevato l’azienda con 385 mila euro di debiti verso i fornitori più 150 mila euro di contestazioni provenienti da Fisco, Inail e Inps.
Per il pm Luca Turco ci sono indizi per dire che la Marmodiv è stata amministrata di fatto dai coniugi Renzi fino all’inizio del 2018. Ebbene nell’atto di cessione dell’azienda della Marmodiv depositato alla Camera di Commercio, che Il Fatto ha consultato, c’è scritto come si sono accumulate le pendenze verso lo Stato. A fine 2018 ci sono ‘carichi pendenti’ per 57 mila euro con l’Agenzia delle entrate, più 5 mila e 800 euro verso l’Inail per ‘premi scaduti’ e ‘88 mila e 187 euro oltre a oneri esattorali e sanzionatori’ per un ‘contenzioso con l’Inps e conseguente verbale ispettivo del 20 dicembre del 2016’.
Matteo Renzi, invece di chiedere quando la sua famiglia incasserà i soldi del Fatto all’avvocato Luca Mirco, che ha firmato come legale gli atti delle cause contro di noi, dovrebbe chiedere allo stesso Mirco, al babbo e alla mamma, qualcosa sulle imposte e i contributi richiesti dallo Stato alla Marmodiv.
Che c’entra Mirco? Semplice: non è solo l’avvocato che fa le cause per i Renzi. Mirco, già politico locale di sinistra a Rignano, è stato anche il presidente del consiglio di amministrazione della Marmodiv per cinque mesi dal 17 dicembre del 2015. Alla cessione di azienda della Marmodiv (effettuata quando i Renzi erano usciti, anche secondo i pm, dalla gestione di fatto da ormai 9 mesi) del dicembre scorso è allegato un prospetto del’Agenzia delle entrate: “risultano i seguenti carichi pendenti non definitivamente accertati: partita di ruolo anno di imposta 2015 consegnata al concessionario il 10 novembre 2018 derivante da liquidazione Irap controllo centralizzato per un debito di euro 28.228 (…) comunicazione di irregolarità relativa al modello IRAP per l’anno di imposta 2015 di importo pari a euro 22 mila e 868 notificata il 19 maggio 2017”.
Su questi carichi pendenti Mirco al Fatto ha risposto: “io ho ricoperto per 5 mesi circa una carica meramente onoraria non potendo assumere ruoli con poteri di gestione c’erano infatti due amministratori delegati e un procuratore speciale. Di tutto quel che mi dice so davvero poco”. Matteo Renzi potrebbe chiedere allora ai due consiglieri delegati di quel breve periodo in cui c’era Mirco: il dipendente della Eventi 6 Carlo Ravasio o il nipote di mamma Laura Bovoli, Paolo Terreni. Oppure a Giuseppe Mincuzzi, presidente dal maggio 2016 all’aprile 2018. Oppure ai genitori. Secondo il pm Luca Turco “vi sono indizi per ritenere che Renzi Tiziano e Bovoli Laura siano stati i promotori della cooperativa e si siano intromessi nell’amministrazione della stessa fintanto che non l’hanno ceduta a Periale Aldo e Goglio Daniele”. Quindi la cooperativa di Firenze, nata nell’ottobre 2013, secondo l’accusa, è stata in qualche modo legata ai Renzi fino al marzo 2018.
Dopo si è trasferita a Torino e qui il 14 gennaio 2019 è stata messa in liquidazione da Aldo Periale, 72 anni di Avigliana, provincia di Torino che ne è il liquidatore. I soci? Secondo l’atto del 14 gennaio 2019 sarebbero due dipendenti della Marmodiv: Emiliano Picchi e Silvia Gabrielleschi, rappresentati per delega da Periale. Poco prima della liquidazione della società il 7 gennaio scorso però il solito Periale ha pensato bene di cedere il ramo di azienda alla DMP Italia Srl, dell’amico di Tiziano Renzi di vecchia data Massimiliano Di Palma. La cessione è condizionata come causa di risoluzione del contratto all’ottenimento “nel termine di 60 giorni del nulla osta da parte dei fornitori all’accollo liberatorio”. Alcuni fornitori, come la società Deliverando e la Martini Express, hanno già detto sì. Nell’atto non si parla dei debiti verso Inps e Agenzia delle Entrate.
“Le coop seguono una loro filosofia”: la difesa di Tiziano
“Non abbiamo commesso reati. Ciò che abbiamo fatto rientra nella filosofia delle società che lavorano nel settore della distribuzione. Ossia quella di doversi affidare a soggetti terzi che a questo punto diventano gli arbitri della tua reputazione”. Ed è questa la “filosofia” che ha seguito la Eventi 6, società riconducibile ai genitori dell’ex premier. In sostanza è questo il concetto ripetuto da Tiziano Renzi durante l’interrogatorio di garanzia di ieri per difendersi dalle accuse di bancarotta e false fatturazioni e magari riuscire a ottenere la revoca dei domiciliari, come ha chiesto insieme alla moglie Laura Bovoli tramite il loro avvocato Federico Bagattini. Già domani il pm titolare dell’indagine, Luca Turco, potrà dare il proprio parere. Ed entro la settimana la parola passerà al gip.
Così ieri per poco meno di tre ore a testa, Tiziano e sua moglie si sono difesi dalle accuse, consegnando una memoria (di circa 15 pagine) e molti documenti. Entrambi hanno provato a smontare la tesi della procura secondo la quale i due coniugi sono stati amministratori di fatto di tre cooperative, la Delivery, la Europe Service e la Marmodiv (le prime due fallite, per la terza c’è una richiesta di fallimento dei pm di settembre 2018) e che secondo l’accusa sono state “costituite per consentire alla ‘Chil Post/Eventi6’ di avere a disposizione lavoratori dipendenti senza dover sopportare i costi relativi all’adempimento di oneri previdenziali ed erariali, tutti spostati in capo alle cooperative stesse”. “Vi sbagliate” hanno ribadito più volte i coniugi Renzi. Quello che facevano era solo – ha spiegato in sostanza il padre dell’ex premier – “controllare e verificare le cooperative con cui lavoravamo, perché la nostra reputazione alla fine dipendeva da loro. Da qui nasce quell’interesse”. Interesse che secondo le accuse sta anche in una serie di mail, come quella del 30 settembre 2009, in cui – scrive il gip – emerge che Laura Bovoli si sia “occupata dei contratti e dei compensi del personale dipendente della Delivery Service”.
Tiziano Renzi ieri ha spiegato che la loro attività si nutre di contratti a tempo determinato, è un mercato volatile: “Noi avevamo la necessità – ha detto – che la Eventi6 verificasse la cifra imprenditoriale dei soggetti ai quali affidava lo svolgimento degli incarichi”. Non si può parlare quindi di “ingerenza, ma solo di una forma di presenza”.
Per respingere le accuse, i coniugi hanno depositato documenti per dimostrare che ad oggi la loro unica attività è quella di pensionati. A cominciare quindi dalle dimissioni di Laura Bovoli dalla Eventi 6 avvenute il 20 febbraio scorso, a due giorni dalla misura cautelare. O la cancellazione come agente di commercio di Tiziano che risale al 31 dicembre scorso. Depositate anche due mail nelle quali si chiede alla Esselunga (il cui contratto con Marmodiv ora è scaduto) di consegnare meno volantini, perché erano sovrabbondanti e non servivano. Questo per rispondere al gip che in una parte dell’ordinanza di custodia cautelare scrive: “Con esclusivo riferimento alla distribuzione di volantini Esselunga vi è un periodo temporale in cui la documentazione (…) ha consentito alla Polizia Giudiziaria di rilevare significative discrasie tra volantini distribuiti e prestazioni fatturate”.
Ieri non ha invece risposto alle domande del gip l’imprenditore Mariano Massone: tramite il suo difensore Luca Gastini ha depositato una memoria e chiesto la modifica dei domiciliari, togliendo il divieto di comunicazione con l’esterno e ha presentato ricorso al riesame di Firenze per la revoca della misura.