Due colpi di pistola alla testa. Così ieri è stato ucciso l’imprenditore edile Giuseppe Giuliano, 64 anni di Napoli, nel Comune di Basiglio (Milano), fuori dal suo cantiere. L’appalto privato è di circa 5 milioni di euro. Giuliano aveva appena parlato con un operaio all’interno. In quel momento i colpi, sparati da una sola pistola di piccolo calibro. Una vera esecuzione, anche se la pista mafiosa resta una delle molte ipotesi. L’imprenditore aveva un vecchio precedente per ricettazione. Conviveva con una ragazza straniera e risiedeva a Binasco. Al momento non emergono screzi sul lavoro. Sul caso indaga il Nucleo investigativo dei carabinieri coordinato dal colonnello Michele Miulli. Giuliano non aveva debiti, né aveva denunciato minacce. Ancora da capire se il killer era da solo o con qualcuno e se è fuggito in auto: sul luogo dell’omicidio non vi sono telecamere. In serata, altro agguato – non legato al primo – a Milano Sud: davanti al centro commerciale “Il Gigante” un 63enne è stato ucciso a Rozzano. L’uomo, con precedenti, sarebbe stato raggiunto da 5 colpi di arma da fuoco sparati da due su uno scooter. L’omicidio sarebbe maturato negli ambienti criminali della zona.
“Rapinatore? Morto a 23 anni incensurato”
“È una ferita che non rimargina mai. Dolore su dolore ogni qualvolta sentiamo parlare di Giacomo come un rapinatore”. Sono queste le parole che la famiglia di Giacomo Buonamico, il padre Onofrio e la madre Antonia, fanno arrivare al Fatto. Giacomo Buonamico è morto il 5 giugno del 2010, a soli 23 anni, sparato nell’area di servizio di Palo del Colle-Bari. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini qualche giorno fa, sul palco a Bari, abbracciando Enrico Balducci (segretario della Lega a Bari, e condannato in via definitiva a 3 anni e 8 mesi per l’omicidio preterintenzionale di Giacomo) ha detto, tra varie cose: “Così il rapinatore nella prossima vita cambia mestiere”. La famiglia Buonamico sta valutando di querelare: in prima linea c’è lo zio di Giacomo, Michele Buonamico, che sottolinea: “Giacomo non è mai stato un rapinatore. È morto incensurato”.
Querelerete il ministro Salvini?
Stiamo valutando. Non doveva utilizzare termini offensivi per la nostra famiglia, ma soprattutto per la memoria e dignità di Giacomo. Possiamo sostenere che Balduccci è un assassino, visto che è stato condannato, ma Giacomo non è un rapinatore, non c’è nessuna sentenza postuma. Abbiamo una rabbia…
Perché?
È il ministro dell’Interno: poteva leggersi gli atti prima di parlare! Spara a zero sulla nostra famiglia, senza conoscerci. Non c’è alcun pregiudicato, tra noi.
Chi era Giacomo?
Un addetto gommista in una concessionaria. Ha lavorato lì dal 2005 al 2010, regolarmente. Ha lasciato la scuola presto, ma ha sempre lavorato, come tutti noi. Il padre di Giacomo è in pensione, ha lavorato per 18 anni nelle acciaierie e poi come marittimo. La madre è casalinga, e purtroppo si è ammalata, sicuramente anche per la tragedia che la nostra famiglia ha dovuto vivere. Siamo cresciuti nel quartiere San Paolo, uno dei cosiddetti “Bronx” d’Italia, un posto difficile. Ma questo cosa c’entra?
Suo nipote è stato colpito perché guidava il motorino assieme al suo ex compagno di scuola Donato Cassese. Cassese ha detto che nella mattina di quel giorno avevano già fatto una rapina in un supermercato.
Cassano è stato dichiarato inattendibile perché avrebbe parlato, solo in appello peraltro, per una riduzione della pena. E poi l’ha visto il filmato? Ha visto quei 6 secondi? Cassano aveva in mano una pistola giocattolo, mentre mio nipote guidava. Balducci sparò loro alle spalle, 3 colpi: uno è stato quello fatale per Giacomo. Il ragazzo è morto dissanguato dopo 10 minuti. Non c’è stata minaccia, non c’è stata richiesta di soldi, in quei 6 secondi non c’è nulla di tutto quello che si chiama rapina. Balducci è stato condannato, in nessuno dei tre gradi di giudizio è stata riconosciuta la legittima difesa, ma non c’è stata giustizia. Sa quanti giorni di carcere ha fatto? Venti.
In sede civile avete chiesto un risarcimento di quasi un milione di euro a Balducci.
Stiamo chiedendo solo quello che la legge prevede.
Il disegno di legge sulla legittima difesa è in discussione in Parlamento.
Io sono per la legittima difesa. E le dirò di più: se non avessi visto il filmato, quei maledetti sei secondi, forse sarei stato con Salvini a difendere l’“aggredito”. Ma non è questo il caso. Non c’è una persona che si è introdotta in casa, non c’è un pericolo… Salvini cosa ha in mente? Purtroppo, sta facendo campagna elettorale anche su di noi, sul nostro dolore. Noi, che in stiamo in prima linea in quartieri come San Paolo, che dovremmo fare per Salvini? Armarci tutti? Così è guerra.
Legittima difesa, i 5Stelle non ci stanno: altro rinvio
L’esame del disegno di legge sulla legittima difesa, uno dei cavalli di battaglia della Lega, slitta di una settimana. Un rinvio tecnico, si affrettano a suggerire fonti parlamentari come a confortare il Carroccio, che invece non aveva fatto mistero di voler portare a casa il provvedimento in tempi rapidissimi. Ma che si tratti di uno slittamento dovuto al calendario non pare convincere nessuno.
Nel Movimento 5 Stelle lo scontento della minoranza per la svolta securitaria che piace tanto all’alleato del governo, monta. E c’è l’obiettiva necessità di stringere le file e recuperare un po’ di visibilità rispetto alla Lega, andando di corsa all’incasso delle due presidenze della commissione su Banche e quella d’inchiesta sul caso Forteto, prenotate da tempo dai pentastellati Gianluigi Paragone e Laura Bottici.
Ma bisognerà far digerire a Salvini la nuova battuta d’arresto sulla legittima difesa dopo quella che, sempre alla Camera, si era materializzata il mese scorso, quando improvvisamente ci si era accorti di un buco sulle coperture passato inosservato nel passaggio del testo al Senato. Circostanza che renderà necessario un nuovo ok a Palazzo Madama per il via libera definitivo. A gennaio l’impasse era stata liquidata come un “incidente di percorso”. Ora però il termometro tra gli alleati di governo è tornato sottozero.
Il capo del Carroccio da giorni aveva fatto la bocca all’idea di rendere il provvedimento che liberalizza l’autodifesa domiciliare un’altra micidiale macchina del consenso: accanto alla questione del contrasto all’immigrazione, in modo da procedere a tutta birra verso l’appuntamento delle Europee.
Prima aveva parlato di legittima difesa a Bari, al fianco del segretario provinciale della Lega, Enrico Balducci, processato e condannato per aver sparato e ucciso Giacomo Buonamico, nel 2010.
Poi è andato a trovare in carcere a Piacenza Angelo Peveri, che sta scontando una pena di quattro anni per aver sparato, dopo averlo fatto inginocchiare, a un uomo che nel 2011 si era intrufolato nella sua azienda. “Cercheremo di fare di tutto perché stia in galera il meno possibile. Dal mio punto di vista non doveva nemmeno entrarci”, ha detto Salvini all’uscita della sua visita a Peveri che, dato il clima politico, probabilmente si convincerà a chiedere la grazia.
Ma le parole di Salvini hanno prodotto pure un altro effetto: il cortocircuito all’interno del sindacato delle toghe, che dopo la visita in carcere del ministro ha parlato di un tentativo di delegittimazione dell’ordine giudiziario. Ma se per la corrente dei magistrati progressisti la presa di posizione dell’Anm è stata troppo fiacca, Magistratura Indipendente, nel solco dell’appeasement tenuto fin qui nei confronti del governo, ha invece ritenuto inopportuno oltreché non concordato l’intervento del sindacato. Insomma uno scontro totale che mette in discussione addirittura l’unità della giunta dell’associazione, che da aprile sarà guidata proprio da un rappresentante di MI.
Centro Rai di Napoli, lavoratori a rischio. De Magistris cerca Foa
In una lettera al presidente del Consiglio di amministrazione della Rai Marcello Foa, il sindaco di Napoli Luigi de Magistris ha espresso la sua “viva e forte preoccupazione” per il destino del Centro di produzione Rai della sua città, uno dei quattro insieme a Roma, Torino e Milano, che dovrebbe subire dei tagli e gli ha chiesto un incontro. “Sono a conoscenza della prossima approvazione del piano industriale della Rai che sembra prevedere il ridimensionamento delle produzioni e dell’organico della storica sede della nostra città” che secondo il primo cittadino avrebbe conseguenze occupazionali negative “con gravissimo discapito della realtà produttiva e culturale di Napoli e del Mezzogiorno, un territorio che già paga un prezzo altissimo alla crisi economica”. Per il sindaco invece bisognerebbe rilanciare il Centro produzioni napoletano, che ha definito una “fondamentale e importante ricchezza, costituita dall’immenso patrimonio culturale e artistico prodotto nei decenni dalla struttura di viale Guglielmo Marconi”. Inaugurato nel 1963 dal presidente del Consiglio Amintore Fanfani, in quegli studi sono stati trasmessi programmi come Senza Rete, L’ottavo nano e Un posto al sole.
“Spreco affitti, chiederò sede al Demanio”
Gentile direttore, approfitto dell’inchiesta sui canoni di locazione delle Autorità indipendenti (“Authority col vizio affitti”, 24 febbraio) per aggiungere alcuni dettagli a mio avviso rilevanti.
Come riportato nel servizio, non ho mai amato “lo sfarzo di Galleria Sciarra”. Mi sembrava infatti eccessivo il canone lasciato in eredità dalla Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (3,3 mln) benché fosse minore della spesa sostenuta in precedenza dall’Avcp (3,8 mln per due sedi) e dall’Anac prima del mio arrivo (altri 159 mila euro), dalla cui fusione per incorporazione è nata l’Anac attuale. Nell’autunno 2014, poco dopo essermi insediato, chiesi pertanto al Demanio di utilizzare immobili pubblici ma senza successo: all’esito di apposita ricognizione l’Agenzia certificò “l’indisponibilità di beni demaniali”.
Da allora i costi sono peraltro aumentati ulteriormente, poiché nel 2016 Morgan Stanley, dopo aver acquistato l’immobile da Unicredit, ha deciso di assoggettarlo a Iva, comportando così un consistente aggravio economico.
Sebbene l’Anac si autofinanzi senza gravare sul bilancio dello Stato e pur scadendo l’attuale contratto di locazione nel 2022, reputo doveroso programmare per tempo l’ipotesi di una nuova collocazione dell’Autorità. Al più presto avvierò dunque le procedure per verificare nuovamente la disponibilità di immobili demaniali.
L’ultimo nemico dei 5 Stelle: il voto utile
Il nemico numero uno del M5S da oggi non si chiama né Salvini né Renzi ma “voto utile”. La polarizzazione registrata in Abruzzo e più ancora in Sardegna pone il Movimento in una condizione scomoda, quella del classico vaso di coccio tra i vasi di ferro. I candidati di Luigi Di Maio alla prova dei fatti non si sono rivelati una valida alternativa al centrodestra. E gli elettori potrebbero velocemente adattarsi alla lezione delle ultime due consultazioni regionali. Chi vuole arginare l’ondata sovranista nelle amministrazioni d’ora in poi sarà ancora più restio a mettere la croce sulle 5 Stelle. Chi ritiene davvero che i messaggi di Salvini aprano la strada al razzismo, sarà sempre più portato a votare a sinistra. Il M5S non è da tempo alternativa politica a livello nazionale per la semplice ragione che governa con Salvini. La novità è che non lo è più nemmeno a livello locale. Stavolta per via dell’aritmetica. Il calo dei voti potrebbe avere un effetto moltiplicatore non solo dal punto di vista numerico ma anche politico: al calo dei voti per colpa dello spostamento a destra del vertice potrebbe seguire un ulteriore spostamento a destra della base. Chi ha una formazione di sinistra e ha votato e magari rivoterebbe M5S per le sue battaglie sulla legalità potrebbe preferire tapparsi il naso e tornare a votare a sinistra pur di non far vincere Salvini. Chi ha votato M5S in Sardegna e Abruzzo ma ha il mal di pancia per gli eccessi di legittima difesa e per il blocco delle navi non sarà felice dall’effetto pratico del suo voto. Il voto al Movimento in Abruzzo ha spianato la strada a un ex militante del Msi e in Sardegna ha tirato la volata a un ex alleato di Francesco Cossiga. A livello nazionale lo smottamento si potrebbe ripetere. La legge elettorale vigente mitiga l’effetto maggioritario ma nei collegi uninominali il M5S rischia di restare a bocca asciutta. Prima di affrontare le prossime competizioni Luigi Di Maio dovrebbe studiare con più attenzione la storia di tutti i terzisti, da Mario Segni a Mario Monti.
La sconfitta di Zedda fa pendere il Pd a sinistra
È durata lo spazio di una notte l’illusione che Massimo Zedda potesse diventare davvero il Golden boy da portare ad esempio nel centrosinistra italiano, diventando governatore della Sardegna. Oppure arrivando a un soffio dal centrodestra. Non è andata così: il tuttora sindaco di Cagliari alla fine si ferma al 33%, ben dietro al vincitore, Christian Solinas. Ma saldamente prima del candidato del Movimento 5 Stelle, Francesco Desogus.
Sono circa le 18 quando Zedda ammette la sconfitta. Mettendo l’accento sul bicchiere mezzo pieno: “Siamo passati dal rischio di essere quarti al secondo posto. I dati ci dicono che siamo andati oltre le aspettative iniziali. Abbiamo superato il Movimento, la prossima volta supereremo anche il centrodestra”. In realtà, nel quartier generale di Zedda speravano di andare molto meglio. Però, lui ricorda da dove era partito: “Il centrosinistra era a rischio frantumazione, non era scontato nemmeno il terzo posto. L’obbiettivo era quello di ricomporre un campo di forze contro la scomparsa”. E poi rivendica: “Su 109 mila voti di liste, 71 mila sono stati presi da me e dalle mie liste”.
Analizzando il voto sardo, si individuano una serie di tendenze. Da notare prima di tutto che Zedda nella sua Cagliari arriva primo (con il 44%). E il candidato-presidente sta sopra, ma solo di 3 punti rispetto alla somma delle 8 liste che lo sostengono.
Il dato del Pd evidenzia l’ormai consueto crollo del partito: raccoglie il 13,4%, ma resta comunque il primo in Regione. Nove punti in meno rispetto alle Regionali del 2014, quando aveva preso il 22%. Mentre alle Politiche guadagnava il 15%. Il secondo dato interessante riguarda il risultato delle liste di sinistra: Liberi e Uguali prende il 3,9%, Campo Progressista il 3,2%. E poi, c’è la lista legata a Pizzarotti, Sardegna in Comune, con il 2,5%. Le due civiche di Zedda ottengono oltre il 5% e c’è persino Progetto comunista, con lo 0,4%. Unica lista di centro, quella dei Cristiano Popolari socialisti con l’1,4%.
Quello di Zedda è il secondo risultato significativo per il centrosinistra, dopo quello in Abruzzo di Giovanni Legnini il 10 febbraio. Anche lì, le liste in appoggio erano 8 (compreso il Pd). Ma Liberi e Uguali si era fermata al 2,8%, non c’era Campo progressista e tra centristi e Italia dei Valori erano arrivati a un complessivo 4,6%.
E il giorno dopo la Sardegna, è proprio sulla natura della coalizione che si ragiona a Roma. Tralasciando il fatto che i vertici dem ancora una volta cantano vittoria per quella che resta una sconfitta, è il valore sperimentale del caso Sardegna (e prima dell’Abruzzo) che entra nella riflessione. “Il risultato della Sardegna disegna un bipolarismo che vede uno scontro tra centrodestra e centrosinistra”, dice il quasi segretario Nicola Zingaretti. Definendo esplicitamente “malato” il Pd. Forte del risultato di Zedda, il presidente è pronto ad aprire a sinistra.
Ma per capire come il Pd potrà interpretare questo bipolarismo bisognerà aspettare il 4 marzo. Quando, a congresso finito, comincerà ufficialmente la discussione su come presentarsi alle Europee. Zingaretti pensa che il listone alla Calenda sia impossibile e punta a costruire una coalizione simil-ulivista, con dentro Più Europa, Pizzarotti, anche Liberi e Uguali. Per farlo, come ha detto anche esplicitamente, è pronto a rinunciare al simbolo del Pd. Simbolo (e partito) che appaiono sempre di più un contenitore senza contenuto reale. Carlo Calenda continua a pensare al Fronte Repubblicano: domenica, quando ha saputo che sarebbe stato Giuliano Pisapia il capolista nel Nord-Est, è andato su tutte le furie. Per lui c’è pronto un posto come capolista a Roma. E poi c’è Matteo Renzi, con i suoi ormai due candidati, Maurizio Martina e Roberto Giachetti, che continuerà a fare il partito nel partito. Pronto a testare la sua capacità di trattativa proprio sulle liste alle Europee. Il Pd, più che una lista perno, potrebbe essere davvero una federazione di correnti.
Primarie a Bari e a Foggia: Forza Italia batte il Carroccio
Nel giorno dell’ennesimo trionfo di Matteo Salvini, pure Forza Italia si prende una soddisfazione, proprio a scapito della Lega. E con una votazione quasi sconosciuta da queste parti: le primarie. I candidati berlusconiani alle primarie del centrodestra per esprimere i candidati alle amministrative di Bari e Foggia, infatti, hanno battuto quelli della Lega. A Bari Pasquale di Rella (Fi, nella foto), con un passato nel Pd, ha sconfitto con il 50,9% il candidato leghista Fabio Romito (28,7%) e Filippo Melchiorre di Fdi (19,1%). Nonostante Salvini domenica su Twitter avesse molto spinto il suo candidato. A Foggia, invece, l’attuale sindaco Franco Landella, costretto alla competizione, ha battuto con il 44% il candidato leghista Luigi Miranda (29,5%) e il centrista Leonardo Iaccarino (25%). “È un segnale della competitività di Forza Italia sul territorio. Il centrodestra non può esistere senza di noi che siamo il vero motore della coalizione”, hanno detto all’unisono Gasparri, Gelmini, Ronzulli, Ravetto e il pugliese Francesco Paolo Sisto. Si distingue, come al solito, Giovanni Toti: “Le primarie sono un ottimo strumento che, invece di essere osteggiato, dovremmo usare molto di più”.
Solinas, l’uomo invisibile ce l’ha fatta. E l’ambiente non sarà più un “dogma”
L’ “uomo invisibile” ce l’ha fatta: Christian Solinas è il nuovo presidente della Regione Sardegna, con un distacco netto fra 13 e i 14 punti fra il segretario sardista e il suo sfidante Massimo Zedda, leader del polo civico e di centro sinistra. Un exploit che smentisce clamorosamente i pronostici degli exit poll della vigilia: “Non ho mai visto un testa a testa, che non rispondeva al vero, 14 punti di vantaggio rappresentano un dato incontrovertibile”, ha detto Solinas in conferenza stampa, subito dopo aver rivolto il suo pensiero “alla gente comune, ai sardi che hanno creduto nel nostro progetto di governo”.
Il neo governatore ha subito voluto ricordare i punti chiave del suo programma, a partire dalla controversa riforma sanitaria varata dal centro-sinistra: “Confermo che verrà azzerato il riassetto della rete ospedaliera, che avvieremo subito una trattativa con lo Stato per la disapplicazione delle norme del decreto ministeriale 70 che ha portato alla dismissione degli ospedali minori e al ridimensionamento di molti reparti ospedalieri, che elimineremo la Asl unica a favore di una sanità che metta al centro le persone”. Solinas ha poi detto di voler riprendere in mano il tema della continuità territoriale e di voler restituire “certezze nel rapporto fra ambiente, urbanistica e paesaggio”: i valori ambientali sono condivisi da tutti, ma non possono diventare un “dogma incomprensibile” che in questi anni ha prodotto “la perdita di 30 mila posti di lavoro” nel comparto dell’edilizia.
Nei confronti di Zedda Solinas ha poi voluto togliersi qualche sasso dalla scarpa: “Si è parlato di un candidato che non c’era”, ha detto, riferendosi agli attacchi ricevuti dal candidato del centrosinistra, che lo aveva accusato di essere un’ombra al fianco del ministro Salvini, vero protagonista della campagna elettorale nell’isola. “Forse quel candidato era in giro per la Sardegna a stringere mani e ad ascoltare i problemi della gente”, ha proseguito Solinas. “Credo sia arrivato il momento di chiarire una volta per tutte: o si è perso contro un candidato senza volto, il che non dà molta credibilità a chi ha perso, oppure si dice che quest’uomo senza volto, che è segretario di un partito con più di cento anni di storia, ha più che raddoppiato i suoi consensi in questa competizione elettorale”. Conclude il nuovo governatore sardoleghista: “Oggi si può dire con chiarezza che una coalizione ha vinto. Ho sentito dire che il Partito Democratico ha tenuto e che dalla Sardegna riparte il suo percorso. Ma è lo stesso partito che rispetto alle ultime Regionali ha perso per strada più di dieci punti”.
Il paradosso del centrodestra: è vincente, ma virtuale a Roma
Il grande balzo, come due settimane fa in Abruzzo, non c’è stato e Matteo Salvini gode a metà. E da solo. Senza nominare il centrodestra. Chi vince, agli occhi del Capitano, è sempre la Lega: “Dalle Politiche a oggi se c’è una cosa certa è che su sei consultazioni elettorali, la Lega vince 6 a zero sul Pd. Anche in Sardegna, dopo il Friuli, il Molise, Trento, Bolzano e l’Abruzzo i cittadini hanno scelto di far governare la Lega”.
Dove conduce, allora, il solipsismo sovranista del ministro dell’Interno?
A un clamoroso paradosso inedito nella storia repubblicana dell’Italia. Da nove mesi a questa parte, da quando cioè è nato il governo gialloverde di Giuseppe Conte, nel Paese è tornata prepotente una maggioranza di centrodestra, meglio di destra-centro con l’egemonia della Lega nazionalista e pigliatutto di Salvini. È questo che racconta innanzitutto il dato delle Regionali sarde dominato dal feroce 47,71 per cento del candidato governatore sardoleghista Christian Solinas. Un risultato che va maneggiato con la dovuta cautela, rispetto alle previsioni nazionali, ma che senza dubbio fornisce più di un’indicazione.
La prima, appunto, è che la Lega non replica il trionfo abruzzese. Vince ma non sfonda, per usare un’immagine semplice ed efficace. Nonostante i giorni spesi in Sardegna dal vicepremier e ministro dell’Interno, l’esplosione modello Abruzzo (27,5 per cento il 10 febbraio) non c’è stata. La Lega conferma in sostanza il dato delle Politiche di un anno fa in Sardegna, l’11,51 per cento, e perde pure 20 mila voti in termini assoluti. Tuttavia, Salvini rivendica il doppio, considerando il quasi dieci per cento, 9,92, del Partito sardo d’azione di Solinas: i due partiti erano insieme il 4 marzo 2018. E comunque lontano dall’exploit di quindici giorni fa. In realtà il destra-centro sardo è una coalizione pulviscolare, composta da ben undici liste, comprese quelle delle altre due formazioni nazionali “alleate” di Salvini: Forza Italia di Silvio Berlusconi e Fratelli d’Italia. Gli azzurri di B. sprofondano sotto l’otto per cento, 7,80, e lasciano per strada più di 80 mila voti rispetto a un anno fa al risultato delle Politiche nell’isola. Statici invece i meloniani di FdI: reggono intorno al cinque per cento, 4,68 per la precisione.
In ogni caso, il centrodestra a trazione leghista (di qui il destra-centro) inanella la sesta vittoria consecutiva, come specificato da Salvini, e diventa la nuova maggioranza virtuale in Parlamento. In altri tempi, ci sarebbero state una crisi di governo e la richiesta di elezioni anticipate per “fotografare” il ribaltamento degli equilibri nel Paese. In realtà, non accadrà nulla di tutto questo e la Lega continuerà a sostenere l’esecutivo gialloverde. Salvini ha ripetuto quanto già detto dopo il boom abruzzese. “Questo governo durerà 5 anni”. Non solo. In una telefonata allo speciale della 7 ha finanche specificato che dopo le Europee, qualora dovesse toccare quota 30 per cento, non rivendicherà altre poltrone per bilanciare i nuovi rapporti di forza. Neanche per sé, soprattutto: “Se chiederò la guida di Palazzo Chigi in caso di vittoria alle Europee? Assolutamente no. Il premier ha la mia piena fiducia, non chiedo né mezzo ministro né mezzo sottosegretario in più”.
Sicuramente stupisce questo istinto protettivo e generoso di Salvini nei confronti del Movimento di Luigi Di Maio, sempre più in difficoltà. Ma ovviamente il ministro dell’Interno ha il suo tornaconto nella promessa di perpetuare questo immobilismo che gli consente di svuotare i suoi due “alleati”: da un lato i Cinque Stelle, dall’altro Forza Italia. Ed è questo il motivo per cui il centrodestra resta maggioranza “virtuale” a Roma. Benché le pressioni del partito degli affari e dei leghisti filoberlusconiani (Giancarlo Giorgetti in primis) si siano intensificate negli ultimi giorni, Salvini almeno a parole e almeno fino alle Europee del 26 maggio proseguirà sulla sua strada solitaria ed egemonica. Anche perché, sondaggi alla mano, il capo leghista è convinto che il ritorno con Berlusconi, vecchio rappresentante dell’Ancien régime della Seconda Repubblica, possa appannare la sua allure di leader giovane e pseudo-nuovo.