Bufala exit poll: il pasticcio è Noto

Di Nuovo la sciagura degli exit poll fallaci. È accaduto ancora una volta, nonostante gli errori del passato. E dire che stavolta, i sondaggisti coinvolti sono stati alquanto prudenti. Forchette ampie ma qualche certezza almeno sulle fatidiche tendenze. Nemmeno quelle, invece. E così ieri mattina tutti i quotidiani offrivano titoloni in prima pagina sull’incredibile testa a testa tra Solinas e Zedda. Il primo, sardoleghista, che addirittura arrancava dietro le liste della sua coalizione. Il secondo, al contrario, che sopravanzava le formazioni del centrosinistra.

Di qui analisi e riflessioni sulle tendenze che sarebbero dovute essere confermate dallo scrutinio delle schede. Parole al vento. E dire che alla Rai, questo il soggetto committente, le ricerche sono state fornite da un pool di tre noti sondaggisti: Antonio Noto, che ci ha messo la faccia in tv, Fabrizio Masia e Nicola Piepoli. Ovviamente non sono mancate le proteste politiche per questo “spreco” di denaro pubblico. E la giustificazione di Piepoli sembra quasi una presa per il sedere: “L’elettore, 120 volte su 4 mila contatti operativi, ha dimenticato di mettere due crocette e preso dall’entusiasmo ha messo solo la crocetta sul candidato. È capitata una cosa davvero banale, statisticamente normale”. Non bastava accorgersene durante lo spoglio degli exit poll?

Conte: “Voto locale, nessun contraccolpo per il governo”

Non ha voluto entrare “nelle valutazioni politiche”, però una cosa l’ha assicurata: “Non ci saranno conseguenze per il governo”. Così ieri sera il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha commentato l’esito del voto in Sardegna da Sharm El-Sheik, in Egitto, dove si trova per il vertice tra l’Unione europea e la Lega araba. Secondo il premier, “non dobbiamo enfatizzare il ruolo di elezioni regionali: sono importanti per la Sardegna e offriranno degli spunti agli eletti ma sicuramente non ritengo che dagli esiti possano derivare conseguenze sul governo nazionale”. Ma i nodi sul tavolo sono molti. E allora Conte ha confermato: “ Ci saranno molti vertici, abbiamo varie questioni da risolvere. Il governo deve marciare…”. Ma ovviamente il premier ha parlato anche del caso di Giulio Regeni, con sillabe molto diplomatiche: “Con il presidente egiziano Al Sisi quello di Regeni è stato il primo tema toccato, e devo dire che lui testimoniato la sua costante attenzione e il rinnovato impegno affinché il caso giunga a una soluzione”.

“Europee banco di prova. Ora nessuno romperà”

“Le elezioni in Sardegna hanno confermato il risultato abruzzese. Sarà così anche per la Basilicata, mentre per il Piemonte è diverso: si vota lo stesso giorno delle Europee e la consultazione sarà condizionata dalla tendenza nazionale”. Lorenzo Pregliasco, cofondatore di YouTrend-Quorum, è uno dei nuovi volti tra i sondaggisti ed esperti di flussi elettorali. Il suo sito, YouTrend appunto, è uno dei più cliccati se si vuole sapere che aria tira sulle intenzioni di voto degli italiani.

Pregliasco, in Sardegna il centrodestra ha vinto ma la Lega non ha sfondato.

C’è stata una conferma di ciò che abbiamo visto in Abruzzo con una larga vittoria del centrodestra come coalizione, vicina al 50%. Una sconfitta con un dato non devastante per il centrosinistra. E un tracollo dei 5Stelle che hanno perso 300 mila voti rispetto al 4 marzo.

Colpisce però anche il dato leghista, non così positivo: Salvini si è fermato al 12%, mentre FI è intorno all’8% e il Partito sardo d’azione al 10%.

Molti voti sono arrivati da liste civiche locali che in queste competizioni contano molto.

Nel Pd addirittura si esulta.

Il risultato di Zedda è piuttosto deludente e l’esultanza del Pd inopportuna. I dem forse saranno il primo partito col 13%, una piccola consolazione. Da notare, però, che l’effetto Zedda è stato molto più marginale di quanto ci si aspettasse. Avrebbe dovuto sfondare a Cagliari, la sua città, dove ha vinto solo di tre punti su Solinas. Il quale ha ottenuto 4 punti in meno rispetto alle liste che lo appoggiavano. Anche lui non si è dimostrato un candidato particolarmente forte, ma è bastato al centrodestra per vincere, come Marsilio in Abruzzo.

Il crollo dei 5 Stelle era prevedibile?

Sì, ma non in queste proporzioni. Vanno considerati due aspetti: la tradizionale debolezza dei pentastellati alle elezioni locali e la conferma di un trend negativo per il partito di Di Maio, come si vede nei sondaggi nazionali. Ora sarà interessante la Basilicata, una delle regioni dove sono andati meglio alle Politiche del 4 marzo scorso. Poi per loro, come per tutti, il vero banco di prova saranno le Europee.

Ci saranno ripercussioni sulla maggioranza e sul governo?

Credo che nessuno dei due partiti abbia intenzione di rompere in questa fase. E anche nella seconda parte dell’anno rimarrà questo assetto perché nessuno dei due ha un vero interesse a far cadere il governo. Magari cambierà il rapporto di forza, con un’accentuazione dei temi leghisti sull’agenda di governo, mentre i 5 Stelle sentiranno di più la pressione.

Quindi Salvini non romperà?

Lui è in una posizione di forza perché sa di avere un altro campo dove giocare. Ma ci sono due aspetti da considerare: far cadere il governo non verrebbe capito anche da molti suoi elettori e, in secondo luogo, nessuno può dargli la garanzia assoluta di una vittoria alla guida del centrodestra. Sarebbe un salto nel vuoto.

Perché i 5 Stelle continuano a perdere voti?

È un movimento antisistema che paga il prezzo di stare al governo. Ma pesa anche l’incertezza sui processi interni e sulla linea politica, oltre a una certa confusione nella leadership e nei processi decisionali. Dovrebbero recuperare un po’ di chiarezza. E dare una risposta a questa domanda: qual è il motivo per cui oggi si dovrebbero votare i 5 Stelle?

Pd e Forza Italia escono malconci, ma reggono.

Il Pd è piuttosto stabile rispetto al 4 marzo, segno che ha un solido zoccolo duro. Al momento però è fuori gioco perché non è in grado di costruire un’alternativa e non ha al suo fianco alleati competitivi. FI è assai marginale, una posizione speculare al Pd, con la differenza che si trova nella parte del campo vincente, il centrodestra. Che però vive solo a livello locale. Quanto potranno andare avanti con questo doppio binario?

Perché gli exit poll hanno toppato?

Hanno evidenti limiti metodologici e sono difficili da realizzare quando ci sono così tante liste locali.

Di Maio, l’ultima trincea: “È colpa dei suoi amici”

Sembrava una sconfitta, invece era una frana. Niente sorpasso sulla Lega, come pure raccontavano gli exit poll a cui si erano aggrappati come a una zattera. Niente “Movimento primo partito in Sardegna”, come strombazzavano domenica notte, e niente risultato a due cifre: ma tre voti su quattro persi rispetto alle Politiche, quelle del 42 per cento. Niente, se non macerie per i Cinque Stelle.

E la slavina del 9 per cento e qualcosa in Sardegna finisce tutta sulla testa di Luigi Di Maio, il capo politico, assediato. Con il candidato governatore Francesco Desogus, rimediato all’ultimo minuto, che lo dice ovunque: “Era una partita persa in partenza”. E che sull’Huffington Post picchia: “Metterci la faccia in questa partita per Di Maio non era utile”. E già risuona il tam tam di chi invoca la testa del vicepremier. Mentre la rabbia si fa solida, visto che i parlamentari hanno capito che il capo andrà dritto e in solitudine, nonostante o soprattutto per via della Sardegna. Perché domani sul web Di Maio calerà una “sua” struttura e una “sua” segreteria politica. Venti referenti (coordinatori) regionali e una segreteria con 5-10 persone, ripartite per temi.

Tutti, o quasi, graduati di sua fiducia, e gli iscritti sulla piattaforma Rousseau potranno solo ratificare votando sì o no. E può essere l’ultima ridotta del capo. Il fortino, costruito in faccia ai parlamentari che nel lunedì della disfatta proprio questo gli rimproverano, “tutti questi amici e fedelissimi che Luigi ha portato con sé al governo, gente scelta perché gli è leale ma che non è capace. E sono gli stessi che hanno fatto danni in Abruzzo come in Sardegna”. Un’accusa che trabocca, tra gli eletti che si attendevano un’assemblea in cui discutere delle nuove regole. Invece Di Maio ha cancellato la riunione congiunta che immaginava per oggi. Ha accelerato “perché non c’è più tempo, dobbiamo farlo ora” riassume un fedelissimo. Sincero: “Sarà un passaggio inevitabile ma sanguinoso, e c’è chi potrebbe andarsene”. Ma si farà.

E allora in giornata Di Maio appare davanti Palazzo Chigi, per assicurare che “il Movimento è vivo e vegeto” e per negare lo sfacelo: “Se si guarda agli altri partiti il M5S è in linea con tutte le altre forze, e per la prima volta eleggeremo consiglieri regionali in Sardegna”. A contare è però l’annuncio : “Si andrà avanti sulla riorganizzazione”. Sugli accordi con le liste civiche il leader frena, spiegando che “si partirà in via sperimentale” e che “bisognerà sentire gli iscritti, non sarà un percorso lampo”. Ergo, per le civiche si dovrebbe aspettare un altro po’. Proprio come per la novità più rumorosa, la cancellazione dell’obbligo del doppio mandato per consiglieri comunali e circoscrizionali e per i sindaci dei piccoli Comuni. Però il capo riflette ancora, su tempi e modi della svolta che non piace a Davide Casaleggio, e al Fatto il manager lo ha confermato domenica: “Della riorganizzazione chiedete a Di Maio”. E lui, il vicepremier, ieri replica con uguale gelo alla controproposta di Casaleggio junior: “Aumentare gli stipendi ai consiglieri comunali? Quelli non li decide il Movimento”. Fuori, piovono macigni. E il primo arriva dalla senatrice Paola Nugnes, vicina a Roberto Fico: “La leadership di Di Maio va rimessa in discussione, una riorganizzazione calata dall’alto non è la soluzione”. Poi c’è Alberto Airola, che al fattoquotidiano.it dice: “Il risultato deve far riflettere. E io resterei sempre con unica lista e un unico simbolo”. Si cambierà, comunque. “Il M5S di governo non può essere quello che era all’opposizione, serve più organizzazione” rilancia il sottosegretario dimaiano Mattia Fantinati.

Così ecco i referenti regionali, e si fanno già nomi. Come Max Bugani in Emilia Romagna, la consigliera regionale Valentina Corrado nel Lazio e l’eurodeputato Ignazio Corrao in Sicilia. Figure che avranno un paio di collaboratori a testa, e che dovranno parlare con le imprese, ricucire con le categorie. Quasi un’ossessione, per Di Maio. Poi ci sarà la segreteria, “senza membri dell’esecutivo” dicono. A proposito, ma il governo? Tiene, “nessun problema” assicurano Di Maio, Matteo Salvini e il premier Giuseppe Conte. Però conterebbe anche il come. Così un big dei 5Stelle osserva: “Salvini sta comodo con noi, lui cresce e noi precipitiamo, chi glielo fa fare di staccare la spina?”. E il leghista giura: “La mia parola vale 5 anni, dopo le Europee non chiederò mezzo ministro in più”. Generoso.

La destra prende tutto. In un anno 300 mila elettori fuggiti dal M5S

Nessun testa a testa, gli exit poll hanno toppato un’altra volta. La Sardegna la vince il centrodestra, e pure a mani basse. Lo spoglio delle schede – che è cominciato ieri mattina alle 7 e che quando siamo andati in stampa era ancora incompleto per un centinaio di sezioni su 1800 – ha raccontato tutta un’altra storia rispetto a quella di domenica sera: Christian Solinas è governatore dell’isola con il 48 per cento dei voti, lo sfidante di centrosinistra Massimo Zedda è fermo al 33.

Solinas, dunque, porta a casa un vantaggio di quasi 15 punti. E vanno ancora meglio le liste del centrodestra che lo sostenevano: toccano quota 52. Dentro, la fa da padrona la Lega, che sfiora l’11,5 per cento e tira la volata al Partito sardo d’Azione, di cui è segretario lo stesso Solinas.

Il patto di ferro tra i due era stato siglato alle elezioni nazionali del 4 marzo: il neo governatore della Sardegna è stato eletto al Senato nelle liste della Lega e adesso entra nel palazzo della Regione anche grazie alla campagna elettorale che Matteo Salvini ha fisicamente condotto per lui.

A dirla tutta, il rapporto tra le energie spese dal ministro dell’Interno e il risultato finale, non è un trionfo: è vero che il Carroccio è al suo esordio alle Amministrative isolane – alla tornata del 2014 non si era presentato – ma è altrettanto evidente che i 75 mila voti conquistati nelle urne l’altro ieri sono quasi 20 mila in meno rispetto a quelli dell’anno scorso. Lui, Salvini, la mette così: “Ricordo solo che l’anno scorso prendemmo insieme al Partito sardo d’azione l’11 per cento, oggi insieme prendiamo il 22”.

 

La non autosufficienza e il messaggio a Di Maio

Il centrodestra vince grazie agli azionisti sardi che segnano un risultato storico, il 9,8 per cento, il doppio di cinque anni fa. Forza Italia perde più della metà dei consensi: passa da 126 mila voti del 2014 a poco più di 50 mila. Ma Silvio Berlusconi, ieri, ha avuto buon dire nel sostenere che “Salvini non è autosufficiente”. All’elezione di Solinas contribuiscono i 30 mila voti di Fratelli d’Italia, che ne prende 10 mila in più delle ultime regionali, e un discreto elenco di liste (in totale erano 11) che raccolgono complessivamente altri 120 mila voti.

Anche se non trionfa, Salvini gode. E ieri, raccontando di uno scambio di sms con Luigi Di Maio, ostentava superiorità: “Non c’è mica bisogno che lo conforti io…”, rispondeva a chi voleva sapere se i due si fossero sentiti al telefono.

Eppure, di consolazione, il leader dei Cinque Stelle ne ha bisogno. Lungi dall’essere primo partito, come erroneamente gli exit poll gli avevano fatto credere, il Movimento si ferma addirittura qualche decimale sotto al 10 per cento, al 9.7. Poco consola il fatto che non si possa fare il confronto con le Regionali di 5 anni fa, quando Beppe Grillo non concesse a nessuna lista l’uso del simbolo M5S. Alle Politiche del marzo scorso, quasi un elettore sardo su due aveva dato fiducia ai grillini. Adesso il Movimento è praticamente sparito. Il confronto in numeri assoluti è devastante: 370 mila gli elettori di un anno fa, 63 mila quelli di oggi. Qualcosa in più va al bibliotecario di Cagliari, Francesco Desogus, che i Cinque Stelle hanno candidato presidente: 79 mila i voti sul suo nome.

Nemmeno la tesi dell’astensionismo regge: stavolta l’affluenza alle urne è stata del 53,7 per cento, hanno votato solo 15 mila persone in più rispetto alle scorse Regionali, quando gli elettori grillini erano teoricamente rimasti a casa. Rispetto alle Politiche, invece, c’è un calo di 100 mila votanti: ma nemmeno in questo caso si può dare la colpa alla disaffezione, visto che di voti, i Cinque Stelle, ne hanno persi quasi tre volte tanti.

 

Il Pd dimezzato e l’ala sinistra che cresce

Calo significativo anche per il Pd, che ha governato la Regione fino a ieri con Francesco Pigliaru. In termini assoluti, l’area del centrosinistra perde quasi 100 mila voti dalle regionali del 2014. Il grosso delle uscite è tra i democratici, che dimezzano i consensi di cinque anni fa, da 150 mila a 88 (il trend in discesa era cominciato con i 128 mila voti delle Politiche). In controtendenza l’area sinistra della coalizione, che poi è quella da cui proviene Massimo Zedda: Liberi e Uguali è al 4 per cento, Campo Progressista sopra il 3. Un bacino che supera i 45 mila voti, un po’ più su rispetto ai 35 mila raccolti da Sel nel 2014 (allora però Michela Murgia da sola ne prese 76 mila) e ai 27 mila del 2008. Zedda comunque vince a Cagliari, la città di cui è sindaco: prende il 44 per cento dei voti, contro il 40 di Solinas. Motivo per cui, ragiona, può restare al governo dell’amministrazione.

Il laghetto dei cigni

Va bene il lutto, che però riguarda i famigliari e gli amici. Va bene il dovere di cronaca, che però dovrebbe misurarsi con l’interesse pubblico della notizia. Va bene persino un pizzico di indulgenza verso l’editore che ha perso la nonna. Ma siamo proprio sicuri che la morte di Marella Agnelli, vedova di Gianni, non proprio inattesa e prematura (92 anni), meritasse tutte quelle paginate con decine di articoli pieni di niente e tutti uguali, per dirci quanto era bella, elegante, ricca, colta, amica di altri Vip, riservata (senz’altro più dei laudatores), brava ad arredare case, a progettare giardini e a collezionare ville e quadri d’autore? Fosse rimorta Anita Garibaldi, uno capirebbe: con quel po’ po’ di vita avventurosa, hai voglia. Ma Marella Agnelli, con tutto il rispetto per la defunta, che avrà mai fatto di memorabile – a parte aver sposato Agnelli e avere il collo lungo – per guadagnarsi, suo malgrado e a sua insaputa, questa colata di piombo e bava? Uno legge e rilegge (per dovere d’ufficio, s’intende, mica per piacer suo) e non capisce. Intanto, quel “donna” appiccicato al nome (“donna Marella”, ci siamo cascati pure noi del Fatto): forse che qualcuno sospettava fosse un uomo? L’avevamo già notato sotto la monarchia di re Giorgio, la cui borghesissima moglie Clio era regolarmente promossa a “Donna Clio”. Quindi dipende da chi sposi: se è un Vip, sei “donna”, sennò sei una stronza qualsiasi.

La Stampa, organo della Real Casa, paradossalmente è il più sobrio: un solo articolo ancorché di due pagine, pezzatura in parte giustificata dai tripli, quadrupli, quintupli cognomi di coprotagonisti e comparse (“Filippo e Margaret Caracciolo principi di Castagneto e duchi di Melito”, “la nipote Ginevra con Giovanni Gaetani d’Aragona…”), oltreché dell’autrice (“Chiara Beria di Argentine”). E da qualche tenero volo pindarico: “Nella sua lunga vita, volata in cielo dalla collina di Torino…”, “L’iconica nobildonna – la più elegante al mondo nel XX secolo secondo Valentino Garavani…”, “Qualcuno li ha definiti i Buddenbroock italiani…”. Il giornale cugino Repubblica, invece, tracima un po’. Un cronista rivela che ai funerali “ancora una volta la famiglia si ritroverà unita”, dopo “i noti dissidi ereditari” (una malattia?): e così la figlia Margherita, madre di John e Lapo, che trascina in tribunale la madre svelando i fondi neri del padre nascosti in Svizzera al testamento e al fisco, diventa una scaramuccia passeggera. La scrittrice Benedetta Craveri svela che “la principessa che sposò l’Avvocato” s’era “innamorata di lui ancor prima di averlo conosciuto”: per dire l’intùito.

E ora “ci consola pensare che riposerà a Villar Perosa”. Vabbè. Il resto è il solito elenco da rivista di arredamento, tipo Ville e giardini. Anche l’amica Evelina Christillin, a parte le solite aiuole, stenta a ricordare qualcosa di imperituro: al suo cospetto – confida a Repubblica – “mi sentivo Heidi… mi conduceva sotto braccio sul prato di casa a guardare le montagne, la loro immutabilità, e mi diceva: vedi il Monviso?”. Ora, io non potrei giurarci, ma mi pare che anche mia nonna mi mostrò un paio di volte il Monviso dal balcone. Però non dal prato, ecco. E poi mia nonna non scriveva bigliettini, mentre Donna Marella sì, un’infinità: “poche parole per farsi sentire senza esagerare”. Uno lo scrisse persino a Fassino, per dire quant’era democratica. Già, perché la “principessa fiorentina di origine napoletana ha saputo interpretare l’animo di una città da cui aveva deciso di farsi adottare”: Torino, dove “l’aiuto ai poveri diventava charity”. Eppure – segnala il cronista, molto deluso dall’ingratitudine dei torinesi – “non si vedono in queste ore le folle in fila di fronte alla camera ardente della Signora”. Anzi “non c’è stata camera ardente a Torino”, dunque le folle, pur impazienti di mettersi in fila, non avrebbero saputo dove farlo. E pazienza.

Cerchiamo qualcosa di veramente notevole sul Corriere. Aldo Cazzullo, socio onorario della Rivista Araldica, si destreggia da par suo fra un “Raimondo Lanza di Trabia” e una Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare, ma non vuole esagerare con i ricconi e allora le ville di Donna Marella diventano “il rifugio sulla collina torinese” e “il buen retiro di Marrakech”. De Bortoli ha saputo che teneva “sempre in brocche d’argento matite perfettamente appuntite” e che una volta “leggendaria fu una fuga degli husky nei boschi intorno a Chesa Alcyon, a St. Moritz”: una vita da Camel Trophy. Il Giornale la chiama “Lei”, come la Madonna, poi introduce un altro amico del cuore, “il conte Gelasio Gaetani Lovatelli dell’Aquila d’Aragona”, che sarebbe tanto piaciuto a Cazzullo, ma purtroppo se l’è perso. Il socialista Francesco Forte fa sapere che ebbe la fortuna di “conoscerla”, ma non per sentito dire: “di persona nel 1967” e non se n’è più riavuto: “Mi aveva denominato come un importante fattore di localizzazione a Torino…”. Ora, sfido chiunque a essere mai stato definito da chicchessia un importante fattore di localizzazione a Torino: sono soddisfazioni. Su Libero Renato Farina, alias Betulla, non riesce a frenare la lingua: “regina madre”, “regina degli elfi”, “principessa regale” dai “piedi bellissimi”, “coetanea ma infinitamente più elegante e più bella di Elisabetta d’Inghilterra”, “l’ultimo cigno che sorvolava con grandi ali bianche i giardini incantati e talvolta stregati di un’esistenza dove la luce è stata al massimo quella della luna”, “un fiore e un uccello che sfiora stagni e piante rare”. E Betulla, con questo bucolico ditirambo, le rende omaggio a nome del regno vegetale. Ma anche di una categoria, i giornalisti italiani, che hanno sempre bisogno di padroni e, quando ne perdono uno, lacrimano per un paio di giorni. Poi corrono a cercarsene un altro.

La verità televisiva è menzogna

Non solo in guerra, ma anche nelle quotidiane battaglie tra le reti televisive, la prima vittima è la verità. Non sono tanto ingenua da pensare che la televisione sia un luogo di verità, sempre meno poi da quando la “tv verità”, fatta di programmi domestici e alla mano, ha scansato la nobile finzione del varietà. Ma l’ultima cosa che vorrei è che ci si abituasse a una menzogna di seconda e terza mano, pubblicitaria e spensierata, superficiale e caciarona. Non accadrà finché ci saranno donne come la mia amica Enrica Bonaccorti. Durante una diretta di “Non è la Rai”, con grazia e intransigenza ha preteso la verità di fronte al misterioso caso di “premonizione” da parte di una signora invitata a rispondere al gioco del cruciverbone. L’abitudine di dare risposte a prescindere dalle domande sta prendendo piede, ma addirittura a dare risposte senza che le domande siano state fatte, e azzeccarle pure, ha in sé del miracolo. La signora del cruciverba sa che la risposta è Eternit, senza che le sia stata fatta alcuna domanda. Giucas Casella al confronto è un vero dilettante! Purtroppo Enrica non crede al miracolo, che ci vuoi fare, è fatta così. Chiede una spiegazione dell’accaduto: silenzi, giustificazioni, risposte evasive, altro che Eternit, che oltre tutto è diventato fuorilegge. La cosa finirà nei tribunali e chissà come finirà. Sarebbe bello conoscere la verità, non tanto per il fatto in sé che, se pur grave, è sempre meno grave di tanti fatti che hanno mortificato verità più importanti, ma se ci abituiamo, a partire dalla televisione, a una dose di menzogna quotidiana, finiremo per abituarci e per non riconoscerla più, farcela andare bene e pensare che sia normale! Allora torniamo al cruciverba, ditemi una parola di 6 lettere che inizia con T e finisce con A. Truppa? No, in questo caso è più giusto truffa.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Facce di casta

 

Bocciati

QUESTA E’ TATTICA Fulvio Collovati, ex difensore della nazionale italiana, campione del mondo 1982, è riuscito a vincere anche il campionato dei luoghi comuni, mentre commentava le partite di campionato a “Quelli che il calcio”, questa volta giocando in attacco: “Quando sento le donne parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco. Perché una donna non capisce come un uomo”. Per sua fortuna, chi non ha buona testa ha buone gambe.
PS: Caro Collovati, voi pensate pure alla tattica che noi ci occupiamo della strategia.

voto 2

IATTURE E MENETTE Nella fenomenologia della manetta, il cui gesto imitativo ha accompagnato innumerevoli bagarre parlamentari dalla fine della Prima Repubblica in poi, l’exploit del senatore Mario Michele Giarrusso che le mima ai colleghi del partito democratico, mentre questi ultimi dileggiano al coro di “onestà-onestà” gli esponenti Cinque Stelle che in Giunta per le Autorizzazioni hanno appena salvato Matteo Salvini dal processo, assume un sapore apotropaico finora inedito. Il senatore accompagna il suo gesto con una spiegazione apparentemente superflua: “Io non ho i miei genitori agli arresti domiciliari. Sono loro che dovrebbero vergognarsi per quello che hanno fatto loro e i loro parenti per distruggere l’Italia”. Eppure, guardandolo a distanza, quello di Giarrusso ricorda più un rito scaramantico: il capogruppo pentastellato in Giunta per le Immunità, spesosi così tanto in prima persona per disinnescare il rischio processo, sembra voler esorcizzare il fantasma dell’essere diventato un politico come gli altri’ aggrappandosi agli stilemi della sua storica identità manettara. Purtroppo, caro Giarrusso, la forma non è sostanza.

voto 4

APRITE … LA MENTE Il picco settimanale lo tocca tal Massimiliano Galli, consigliere comunale della Lega ad Amelia, che per offendere Emma, rea di aver spronato la politica ad aprire i porti in un concerto, si avventura in un accostamento originale, poetico e quantomai pertinente, stabilendo una corrispondenza, udite udite, tra l’apertura dei porti e l’apertura delle cosce. Quali livelli di sublime! Il Galli, pragmatico come si conviene ad un leghista, ha però aggiunto all’aulicità della suggestione, il concreto suggerimento alla cantante di farsi pagare per la suddetta apertura. Una sola domanda alla Lega, che ha subito provveduto a comunicare la prossima espulsione del sommo poeta Gallico: ma soggetti come questi dove li andate a raccattare?

voto 9

 

Promossi

TUTTI CAVALIERI Che buona parte dei politici contemporanei questa settimana si siano comportati come, nello stesso contesto, avrebbe fatto Silvio Berlusconi, si è detto da più parti. Una buona sintesi, però, l’ha fatta su Twitter Alfredo D’Attorre: “Comunque il vincitore morale della giornata è Silvio Berlusconi. Fa egemonia sulla giustizia più di quando era premier: mezzo Pd parla come lui dei giudici sulla vicenda dei genitori di Renzi, mentre il M5S vota come Forza Italia per salvare Salvini nella Giunta autorizzazioni…”. Il Cavaliere ha fatto scuola.

voto 10

La voce graffiata di Peppino: musica, emozioni e passione

“Emozionato? Certo che lo sono. Un artista senza emozioni é un robottino, un algoritmo, ‘na cosa finta. E la gente se ne accorge. Canto da una vita, e alla mia età salgo sul palco e mi emoziono ancora”. Peppino Gagliardi, eterno ragazzo del 1940, torna ad esibirsi a Napoli (dopo domani) dopo sette anni. Il palco sarà quello del Teatro Sannazaro di via Chiaia, per la rassegna “I suoni della città” organizzata dal Teatro e da “Jesce Sole”.
Torna sotto il Vesuvio, lo scugnizzo con la fisarmonica che iniziò a 16 anni suonando nei locali di Santa Lucia frequentati dai marinai americani. “Una palestra, cantavi e suonavi tra fiumi di champagne, procaci entraineuse e militari che volevano solo divertirsi e farsi coccolare a pagamento da una bella femmina”. La gavetta fatta di notti insonni e il successo. Quello grande. È l’Italia appena uscita dalla guerra che si avvia ad assaporare il suo boom economico. Cinquecento, frigoriferi e voglia di cantare.

È l’epoca del cinema che vuole scrollarsi di dosso l’immagine dei “telefoni bianchi” e della musica leggera stanca di “Vecchio scarpone”. Nascono i cantautori e la musica si fa contaminare dai ritmi e dalle melodie americane. “E Napoli – ci dice Peppino Gagliardi – è da sempre luogo di grandi contaminazioni. Io cantavo e nel profondo dell’anima avevo il blues, nelle orecchie il tango e i ritmi sudamericani”. La sua voce roca, mai limpida come quella dei fini dicitori della vecchia canzone italiana, graffiata. “Il divo dell’amore nervoso”, lo definirono i critici quando ascoltarono T’amo e t’amerò. Un successo in quel 1963 che lo proiettò nel mondo musicale nazionale. Festival di Sanremo, Cantagiro, Un disco per l’estate, Festival di Napoli. E tanta televisione. “Quella del sabato sera – racconta -, con Alberto Lupo e l’orchestra alle spalle. Si cantava sempre in diretta”. Decine di album e successi internazionali. Che vuole questa musica stasera, diventa parte della colonna sonora di “Profumo di donna” e viene rilanciata negli Usa da un grande artista come José Feliciano, la canzone nella versione originale arriverà seconda nella hit-parade del Giappone. E poi Napoli. “La mia città, qui sono nato in Piazza Carlo III, e qui mi sono innamorato della musica, per questa ragione mi emoziono come un ragazzino per questo ritorno. Canterò i miei successi, ma soprattutto dedicherò parte del concerto alla grande canzone napoletana, quella immortale”. Sul palco un gruppo di musicisti giovani diretti da Massimiliano Gagliardi, suo figlio, pianista e compositore affermato. “Vedi, anche questa è una emozione grandissima, suonare con tuo figlio che ti accompagna al piano. Non è la prima volta, certo, ma vivo questa cosa come un grande momento di poesia”. Una passione, insieme alla pittura e allo studio continuo del pianoforte, del maestro Gagliardi. Attivo sui social con due pagine Facebook, ogni sera Peppino regala ai suoi ammiratori piccole perle. “Amo filosofi come R.W. Emerson, scrittori come Marquez, poeti come Neruda, Lorca e Bukowski. Li leggo e li trasmetto perché combatto una mia piccola e personale battaglia contro l’aridità di questi tempi. Scrivere poesie sui social e cantare le mie canzoni in un teatro ad un pubblico seduto e attento per me è magia pura”. Negli anni Gagliardi è stato definito il Charles Aznavour italiano, forse non a torto. Poche esibizioni, parole e musica di qualità, lontano dai riflettori di una tv che tutto brucia e tutto consuma.

Foto choc e titoli strappalacrime: crowdfunding per pagare le cure

“Usate foto spettacolari, fate video. Le persone dovranno esclamare ‘wow’! E scegliete titoli accattivanti: non ‘Ci occorrono soldi’, ma ‘La Battaglia di Giulia contro il Cancro’”. Incitano a una narrazione emozionante della propria malattia, per aumentare le possibilità di successo: sono le piattaforme di crowdfunding per scopi sanitari, con milioni di utenti e centinaia di migliaia di campagne.
Si può chiedere aiuto un po’ per tutto: cure per patologie di ogni tipo (non aborto o eutanasia), ma anche aiuti per infertilità, cambio di sesso, per pagare un funerale, il college, o aiutare un genitore vedovo (GoFundme, YouCaring o GiveForward le piattaforme). Ultimi casi in Italia sono stati quelli del medico scomparso Lorenzo Farinelli – oltre 600 mila euro raccolti in pochi giorni – e del disegnatore Emilio Marco Catellani, che ha lanciato una campagna donando le sue tavole di fumetti ai sostenitori, per pagare la salata retta per il ricovero della madre. Nel paese dove milioni di persone sono senza assicurazione, e cioè gli Usa, il crowfunding per le cure sta aiutando a limitare le bancarotte delle famiglie. E anche in Italia, dove ancora non è sviluppato come altrove, potrebbe forse aiutare quel 6,5% della popolazione che non si cura per via dei costi eccessivi. E però questa nuova forma di stato sociale, che rimpiazza le vecchie associazioni di mutuo soccorso con comunità virtuali, non è senza rischi. Vero, la rete ha una grande capacità di autoregolamentazione e nelle campagne bisogna portare ‘prove’, ma si può incappare in truffe. Non solo: c’è il rischio anche, come ha mostrato una recente ricerca pubblicata su Lancet Oncology, di andare a finanziare terapie alternative e senza fondamento scientifico (trattamenti anticancro basati su omeopatia, integratori, rimedi erboristici). Il vero problema, però, è un altro, come ha sottolineato la giornalista Anne Helen Peterson in un illuminante articolo sui rischi del crowdfunding pubblicato sulla rivista BuzzFeed. Per avere successo, la malattia non basta, ci vuole la capacità di narrarla, raccontando e documentando con post e foto commoventi – mani intrecciate, sorrisi, giocattoli – la lotta per la sopravvivenza. Il rischio è che vincano, dunque, i casi più sensazionalistici, oppure le storie che hanno avuto la fortuna di essere riportate dai media o condivise da personaggi famosi. Da alcune ricerche è emerso, ad esempio, che sono favorite le persone afflitte da una malattia che appare come una disgrazia casuale, mentre è svantaggiato chi soffre di tossicodipendenza o problemi mentali, perché la gente tende a pensare, moralisticamente, che in fondo sia colpa loro. Sfavorite anche le malattie rare, magari gravissime, ma in cui la gente si identifica meno. Dal crowdfunding vero e proprio invece restano poi del tutto esclusi immigrati, anziani soli, coloro che non parlano bene la lingua o che, soprattutto, non hanno competenze digitali. Persone magari brutte, poco cute, incapaci di smanettare e che potrebbero essere raggiunte meglio da associazioni che però con il crowdfunding (che favorisce la disintermediazione), vengono in qualche modo aggirate. Insomma: benvenuto il crowdfunding sanitario, che racconta anche di quanto siano grandi i bisogni delle persone (e la loro disperazione). Proibito pensarlo, però, come il sostituto di un welfare che manca. Perché di questa mancanza, appunto, non è certo la soluzione. Casomai il sintomo.