La paranoia del controllo della madre che non delega mai

Se tutti i fantasmi che ci portiamo dietro e che ispirano le nostre azioni fossero visibili, ognuno di noi, maschio o femmina, sarebbe seguito da un crocchio di personaggi vocianti, genitori, qualche insegnante, un amico o amica giudicante, eccetera. Ma dietro la mamma che non delega mai, quella con la paranoia del controllo, c’è un vero e proprio corteo che neanche le stime della questura potrebbero ridimensionare. Padre, madre, nonna, sorella, partner, suocera, mamme di due o tre chat, maestre, allenatori, il pediatra reale, venti pediatri virtuali più blogger di complemento e Marie Kondo, l’evil genius del magico potere del riordino.

A questa imponente commissione d’esame la poveretta si sente in dovere di rendere conto, da tutti costoro si sente valutata, soppesata, criticata. È tutto nella sua testa, e per questo vuole, anzi, deve tenere tutto nelle sue mani. Perché ogni appunto, ogni osservazione, potrebbe ferirla, anzi, sbriciolarle letteralmente il fragile ego costruito sui “brava” che colleziona dall’infanzia. Quelle che da fuori ci sembrano superdonne accentratrici sono condannate al multitasking per non perdere pezzi di se stesse; certo, probabilmente i loro compagni non sono così bramosi di sobbarcarsi una parte delle fatiche domestiche, e ancora meno di venire trattati da infanticidi se dànno alla figlioletta la merendina del super e non il porridge all’avena bio. Ma alla fine queste poveracce, per quanto insopportabili, tolgono le castagne dal fuoco a tutti, tranne che alle sventurate tate che incappano nel loro perfezionismo. Però attenzione: le fuoriserie del dover-essere, dài e dài, rischiano di ingolfarsi e di scoppiare. Se ce n’è qualcuna cui volete bene, portate pazienza e insegnatele a fare l’unica cosa che può salvarla: ridere di se stessa. E ricordatele che sorreggere una metà del cielo basta e avanza.

I padri-mariti imbranati e il pensiero unico “mammesco”

Cosa succede se una mamma decide di partire dieci giorni lasciando i suoi tre figli al papà? È la domanda lanciata dal nuovo film con Fabio De Luigi, Dieci giorni senza mamma. L’immaginario va subito al padre imbranato che si cimenta per la prima volta con cura dei figli e pulizia della casa. Ma i motivi dell’inesperienza, però, possono essere diversi. Non solo pigrizia maschile ma, anche, una donna che magari condividere non vuole proprio. Perché per rendere giustizia alla verità, e cioè anche all’universo maschile, bisogna dire che quello femminile – di universo – è molto variegato. E quindi come c’è la donna che magari chiede aiuto e tenta inutilmente una condivisione (se non 50-50 almeno 30-70!), c’è anche quella che il monopolio dei bambini se lo tiene ben stretto. È la madre occhiuta, incapace di delegare, che controlla chi prende in mano i suoi figli (e spesso la sua casa): che sia il marito, i nonni, una baby sitter. Non c’è spazio per l’altro, per un modo diverso di giocare e di crescere i bambini. Così cominciano le frasi di rito: “Lui non sa cambiarlo”,“la signora delle pulizie mi nasconde tutto”, “Con la tata dal parco torna tutto sporco”. Ergo, servo solo io: un pensiero unico mammesco, tremendo come tutti i pensieri unici.

Ovvio che in Italia ci vuole accortezza, perché motivi sociali perché una donna sia sovraccaricata ce ne sono a dozzine. Ma se una mamma ha cambiato sette volte baby sitter in un mese e nessuna va bene, se impedisce al padre di svolgere il suo ruolo perché lo ritiene incapace e imperfetto il problema non è sociale ma suo.

Imparare a delegare è un’arte e non è per nulla scontata, richiede fiducia ed empatia. Però bisogna esercitarsi, perché solleva dalla fatica e arricchisce la vita dei bambini. E poi dà diritto alla protesta, legittima unicamente dopo aver chiesto a voce alta una mano (anzi, pure due).

Se l’influenza uccide il pronto soccorso

Quello che i politici non ci dicono è che il sovraffollamento nei pronto soccorso non c’entra niente con il picco influenzale. E che mandare i Nas negli ospedali non serve a nulla. Come ha fatto notare Carlo Palermo, il segretario nazionale del sindacato dei medici del Ssn (Anaao), governi e regioni continuano “a dare la colpa all’influenza o ai cittadini che non distinguono tra patologie banali e serie, piuttosto che prendere atto di una realtà che è il prodotto dei tagli di posti letto e di personale”. Oltre 75mila posti letto spariti in tutta Italia negli ultimi dieci anni.

Pazienti sistemati su sedie e barelle lungo i corridoi, con la luce sempre accesa, senza privacy, anche per una settimana. Medici ridotti al lumicino che si fanno in quattro per non chiudere i reparti. Questo è lo specchio di una crisi sistemica. Causata da “tagli lineari” e “fallimenti di programmazione”, ricorda Palermo. Ogni altra giustificazione quindi è un’alibi. E se veramente si vuole risolvere l’emergenza bisogna che questo governo, e i prossimi, torni a investire in posti letto e personale.

Buoni fruttiferi postali, la battaglia sui tassi è stata persa giustamente

Cause perse e straperse in partenza. Straperse per i risparmiatori, magari condannati anche a rifondere le spese legali delle Poste o della Cassa Depositi e Prestiti (Cdp). Ma molto redditizie per alcuni avvocati. Ora finalmente, l’11 febbraio 2019, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha dato torto a chi aveva torto e ragione a chi aveva ragione.

La faccenda rimanda a un decreto ministeriale del 13 giugno del 1986, che abbassò i tassi di alcuni buoni fruttiferi postali (BFP) già emessi. La Legge lo permetteva, la possibilità era generalmente nota – come ricordo io stesso – e tutto sommato era abbastanza prevedibile. Peccato che non pochi si siano lasciati convincere a intentare cause senza fondamento da tutti i punti di vista.

Il decreto del 1986 non andò neppure contro l’affidamento dei risparmiatori, cioè su cosa si aspettavano da quell’investimento. Anzi, semmai essi facevano affidamento proprio sulla possibilità all’occorrenza di una modifica dei loro tassi. Infatti in precedenza il Tesoro per ben tre volte consecutive li aveva alzati, precisamente per le serie L, M ed N: nel 1974, nel 1976 e nel 1981. Cosa che i sedicenti difensori dei risparmiatori furbescamente non dicono. Il Tesoro alzava gli interessi quando inflazione e rendimenti di mercato erano saliti, per ridurli se poi erano scesi. E in effetti li ridusse quella sola volta. Poi, a furor di popolo, la normativa venne cambiata e dal 2000 i tassi dei buoni fruttiferi postali non possono più essere né aumentati né diminuiti. Era meglio prima; ed era anche più giusto. I buoni fruttiferi sono infatti analoghi a conti o libretti non vincolati, per i quali è normale che i tassi siano modificabili.

Per di più i buoni in questione, pur col provvedimento del 1986, hanno reso tantissimo: capitali non di rado decuplicati in termini nominali e quintuplicati al netto dell’inflazione. Alcuni titoli, “colpiti” dal decreto di riduzione, rendevano il 12 per cento annuo netto ancora tre-quattro anni fa. Un tasso da sogno.

Nessun altro impiego, per giunta liquidabile ogni giorno senza oscillazioni di prezzo, ha reso così tanto. Anziché intentare cause, quei risparmiatori dovevano fare salti di gioia, rallegrandosi della scelta fatta o della fortuna avuta. Nessun risparmio tradito o baggianate simili. Potrebbero semmai essere i contribuenti italiani, che non avevano sottoscritto quei buoni, a potersi lamentare che il Tesoro abbia pagato interessi così alti. Non quelli che li hanno percepiti.

 

Viaggi aerei, tutte le insidie per raggirare i passeggeri

Già quando la scorsa estate Ryanair e Wizzair hanno annunciato le nuove regole sui bagagli a mano che prevedevano l’esborso tra i 5 e i 25 euro in più per portarselo in aereo, la notizia aveva fatto storcere il naso a passeggeri e associazioni dei consumatori, facendo drizzare le antenne all’Autorità della concorrenza e del mercato. La notizia sembrava quasi una boutade, come quella che circola da tempo sulla possibilità di pagare per andare in bagno sull’aereo o di viaggiare praticamente in piedi, appoggiati a una sorta di schienale morbido, il tutto per consentire alle compagnie di risparmiare. Ma la questione del trolley non è, invece, di così scarsa rilevanza: “È un elemento essenziale del servizio di trasporto aereo e il suo trasporto deve essere permesso senza sostenere alcun costo aggiuntivo”, ha infatti spiegato l’Antitrust sanzionando per 3 milioni di euro Ryanair e per 1 milione Wizz Air proprio a causa della nuova policy sui bagagli a mano adottata dallo scorso primo novembre. Le modifiche, quindi, costituiscono “una pratica commerciale scorretta – spiega il garante – in quanto ingannano il consumatore sull’effettivo prezzo del biglietto, non includendo più nella tariffa base un elemento essenziale, prevedibile e inevitabile per la quasi totalità dei passeggeri”.

Da qui l’inganno per i passeggeri, in quanto il prezzo da pagare alla fine della prenotazione sarà quasi sempre superiore alla tariffa che viene presentata all’inizio, alterando il processo di comparazione con i prezzi degli altri vettori che invece includono il bagaglio a mano. Insomma, i supplementi devono essere sempre prevedibili, inevitabili e ricompresi nel prezzo del servizio base presentato sin dal primo contatto. A questo punto si pone, però, la questione dei rimborsi. Anche se per le associazioni dei consumatori il provvedimento dell’Antitrust “costituisce una base concreta da cui partire per ottenerli”, dalle parole ai fatti ce ne passa parecchio. Per ora è solo sancito che Ryanair e Wizz Air hanno tempo fino al 22 aprile per comunicare quali misure vorranno adottare spiegando anche se corrispondere un rimborso ai passeggeri. Che, intanto, continueranno a pagare il bagaglio a mano come costo extra. Una voce che si va ad aggiungere a tutti gli altri tranelli che si abbattono sui passeggeri aerei.

Dalla valigia smarrita al volo in ritardo o cancellato, passando per overbooking (la compagnia rifiuta l’imbarco perché ha accettato un numero di prenotazioni superiore all’effettiva disponibilità), insidie dei programma fedeltà, è tristemente noto il catalogo dei disservizi che potrebbero rovinare il volo. Poi c’è anche la spinosa questione delle commissioni extra, vale a dire i costi di gestione applicati sia dalle compagnie che dalle agenzie di viaggio online. Basta, infatti, scegliere come metodo di pagamento la carta di credito (e non quella sponsorizzata dall’operatore) e il prezzo del biglietto schizza rispetto a quello iniziale. Prassi vietata dal Codice al consumo e dalla direttiva Ue sui diritti dei consumatori, come ribadito anche a novembre dall’Antitrust che nel corso degli anni ha sanzionato numerose compagnie e siti per l’applicazione del sovrapprezzo.

Del resto, spiega AirHelp (che si occupa dell’assistenza ai passeggeri aerei in casi di problemi in aeroporto) il 2018 è stato l’anno record delle interruzioni di volo e disagi: 10 milioni di passeggeri in tutto il mondo hanno subito ritardi e cancellazioni, mentre sono 46mila gli italiani che ogni giorno hanno avuto problemi con il proprio volo, un dato in aumento del 20% sul 2017, soprattutto a causa degli scioperi. Ma anche il 2019 non promette proprio nulla di buono. Sempre secondo Airhelp, per l’Italia si prevedono più di 137 mila voli con interruzioni che causeranno disagi a 17 milioni di passeggeri, soprattutto a causa delle incertezze della Brexit, degli scioperi e della carenza di piloti.

Eppure rivalersi sulla compagnia è una procedura facile da seguire, ma pochi la conoscono. Tanto che, secondo AirHelp, nel mondo meno del 2% degli aventi diritto ha richiesto e ottenuto il risarcimento, mentre sul fronte italiano nella sola estate del 2018 i passeggeri avrebbero avuto diritto a un risarcimento di 94 milioni di euro. Peccato che solo il 42% dei destinatari abbia fatto richiesta di indennizzo. E dall’inizio dell’anno, le compagnie aeree dovrebbero già rimborsare oltre 83 mila italiani. Di quanto parliamo? Secondo la normativa europea, per voli in ritardo, cancellati o imbarchi negati, tutte le compagnie aeree (low cost comprese) devono corrispondere da 250 euro a fino 600 euro di rimborso a prescindere dal prezzo pagato per il biglietto acquistato. Mentre per il bagaglio smarrito o danneggiato si ha diritto a un indennizzo limitato a 1.223 euro, ma le compagnie sono esenti da responsabilità se hanno adottato tutte le misure a loro disposizione per prevenirlo.

Brexit, ora cosa farà il Sol Levante?

Qualche tempo fa avevamo parlato di una ritirata strategica dell’auto Usa dall’Europa. Con Chrysler inglobata in Fca, Gm quasi sparita dai radar dopo la vendita di Opel a Psa, e Ford guardinga che ha trovato un partner forte come Vw per sopravvivere nel vecchio continente. Le cronache recenti, tuttavia, ci mettono di fronte ad un’altro, potenziale, rischio: il disimpegno, seppur parziale, dei costruttori giapponesi. Il cavallo di Troia è la Brexit: Nissan, Honda e Toyota hanno interessi pesanti in Gran Bretagna, dove sono attivi diversi stabilimenti che sfornano auto per l’Europa. La percentuale di export è più o meno quella del resto dell’automotive made in England: circa l’80% della produzione è destinata al lasciare il Regno Unito, a fronte di pesanti importazioni di componentistica. Un mix potenzialmente esplosivo, se in seguito a un’uscita hard dovessero scattare le tariffe Wto del 10% sulle merci.

Nissan ha già dichiarato che non produrrà la prossima generazione del fuoristrada X-Trail a Sunderland e proprio pochi giorni fa Honda, che non ha mai dimostrato di puntare più di tanto sull’Europa, ha annunciato la chiusura nel 2021 della fabbrica di Swindon, dove nasce la Civic, mettendo a rischio 3.500 posti di lavoro. Toyota ancora stringe i denti. Ma anche lei, a Burnaston, produce un pezzo da 90 che si chiama Corolla: semplicemente l’auto più venduta al mondo, di cui è appena arrivata la nuova generazione. Quanto saranno disposti a rischiare i giapponesi?

Lexus UX 250h, arriva il lusso ibrido e compatto

La competizione con i nomi del lusso tedesco per ora resta tale per mancanza di avversari. UX 250h infatti è l’unico suv premium di taglia media ad avere una motorizzazione ibrida con appeal sul mercato. O, se si preferisce, l’ennesima fotografia concreta degli investimenti fatti nel tempo su questa tecnologia. UX 250h è lungo 4,5 metri, dunque potrà vedersela con Audi Q3, e punterà ai buoni spazi che hanno conquistato BMW X2 e Volvo XC40. Linee taglienti che si abbinano a superfici più morbide, cura elevata negli assemblaggi della carrozzeria, con molti elementi in alluminio e soprattutto un pianale meccanico Ga-C che segna l’ingresso di Lexus nelle piattaforme modulari evolute del gruppo Toyota. Le sospensioni sono ben strutturate per distribuire il peso della vettura anche in chiave più sportiva, l’abitacolo ha un posto guida ribassato e c’è allineamento corretto tra strumentazione, pedali e volante. Il livello di finiture e qualità costruttiva degli interni è poi elevato. Su strada, il compromesso tra sport e maneggevolezza paga grazie alle caratteristiche della nuova motorizzazione Ibrida benzina 2 litri da 184 Cv, molto evoluta nella capacità del secondo propulsore elettrico di fornire spinta consistente in ripresa, e di “veleggiare” anche oltre i 100 km/h , con intervento minimo di quello a benzina: il consumo medio è di 5,3 l/100 km secondo il ciclo Wltp. Lexus UX 250h arriverà nelle concessionarie italiane a marzo in cinque allestimenti, con prezzi a partire da 37.900 euro, ma il listino può essere tagliato di 4.000 euro grazie ad un Hybrid bonus offerto dalla Casa in caso di permuta o rottamazione. È prevista una versione F Sport e una variante a trazione integrale E-Four con un secondo motore elettrico destinato alle ruote posteriori.

La missione Madza 3. Stile, efficienza e tecnologia

“G

olf, ti aspetto fuori”: è con questo grido che al Salone di Francoforte del 2003 la prima generazione della Mazda3 lanciava la sua sfida al modello più noto della Volkswagen. Da allora la giapponese è stata venduta in oltre 6 milioni di unità in tutto il mondo. Alla quarta generazione della 3, che abbiamo provato, è affidata una missione di traghettare Mazda nel futuro in termini di stile, efficienza e tecnologia. E contribuire a spostare la percezione del marchio agli stessi livelli di Audi, Bmw e Mercedes.

L’impatto estetico non lascia indifferenti: la filosofia è quella delless is more e, più che le nervature nette, a definire le sembianze dell’auto è un gioco di superfici concave e convesse che crea riflessi in costante mutamento. Un approccio che trova sponda all’interno, minimalista e funzionale: ad alzarne il tono sono soprattutto i materiali, particolarmente curati. Nel cruscotto figura un display multifunzione da 7 pollici, mentre il nuovo sistema infotelematico sfrutta uno schermo da 8.8”, posto all’apice della plancia e controllabile dai comandi ricavati sul tunnel centrale, dietro il cambio.

In marcia la Mazda3 si rivela piacevole da guidare: lo sterzo è abbastanza pronto e la tenuta di strada sicura, il tutto senza rinunciare a buone doti di assorbimento delle asperità e di isolamento acustico. Gran parte di questi meriti va alla nuova piattaforma costruttiva – vanta una rigidezza torsionale superiore che in passato –, al sistemaG-Vectoring Control Plus (tramite interventi mirati sui freni migliora maneggevolezza e aderenza) e aisedili ridisegnati: offrono maggior supporto a bacino e vertebre.

Sotto al cofano figura il nuovo quattro cilindri a benzina di 2 litri, capace di 122 Cv di potenza e 213 Nm di coppia motrice, con tecnologiaMild Hybrid a 24V: più che per la “forza bruta”, che latita, si distingue per la rotondità di funzionamento e la parsimonia di esercizio, come testimonia il consumo medio omologato di 5,1 l/100 km. Decisamente più robusto il diesel 1.8 da 116 CV e 270 Nm: il suo medio dichiarato è di 4,1 l/100 km.Entro fine anno, poi, debutterà lo Skyactiv-X, un motore benzina che sfrutta l’accensione per compressione: eroga 181 Cv, 222 Nm e promette un’efficienza da diesel.

Curata la dotazione di sicurezza di serie o a pagamento: comprende head-up display, cruise control adattivo, frenata automatica di emergenza con riconoscimento pedone e ciclisti, fari full led, mantenimento automatico di corsia e controllo della stanchezza del guidatore. Prezzi: si parte dai 23.200 euro del benzina per arrivare ai 29.350 del diesel nell’allestimento più ricco. Per il cambio automatico vanno aggiunti 2 mila euro.

Oblio di diritto, politici a lezione da Cicerone

Plauto nella Mostellaria ricordava il dovere morale dei genitori di occuparsi dell’istruzione dei propri figli, ma dobbiamo a Cicerone una notizia significativa che ci dice quanto siamo sempre più distanti dalle nostre tradizioni. In uno dei suoi trattati più celebri il De legibus (Le Leggi), l’oratore indicava quale passaggio fondamentale della formazione di un buon romano la conoscenza del diritto. E tra il materiale normativo che gli studenti romani avevano l’obbligo di studiare, ma stiamo parlando di quella che oggi sarebbe se non la primaria, certamente la scuola dell’obbligo, il posto preminente spettava alla Lex duodecim Tabularum, la Legge delle XII Tavole, la prima e fondamentale raccolta ufficiale di norme giuridiche, una sorta di codice ante litteram. Questa ‘codificazione’ continuò a rappresentare nella tarda repubblica e persino durante l’impero un testo fondamentale, secondo Livio “fonte di tutto il diritto privato e pubblico” (Storia di Roma 3.34.6), tanto da obbligare i giovani romani non solo a studiarlo e comprenderlo ma anche a mandarlo a memoria.

Ora, è vero, siamo molto lontani da quei tempi, ma in Italia, patria del diritto, un’invenzione dell’Occidente (consiglio a tal proposito la lettura di un libro importante di Aldo Schiavone), erede della grande tradizione della scienza giuridica romana, ma è pretendere troppo, a fronte delle imbarazzanti impellenze di una miserrima quotidianità politica, che i titolari di una carica pubblica conoscano nei minimi dettagli almeno la Costituzione repubblicana, per evitare così di far strame dei principi generali del nostro ordinamento?

La differenza di Pannella, cacciatore di diritti umani

Un nome ben noto a Radio Radicale, Gianfranco Palazzolo, ha curato un libro di scritti e discorsi tratti dall’immenso lascito culturale e politico di Marco Pannella (“La Rosa nel Pugno”, Kaos Editore). Il libro offre al lettore una straordinaria antologia di iniziative, riflessioni, messaggi, appelli, interventi, e quel tipo di lettere d’amore che sono certi discorsi politici, ovvero parole e opere con cui, attraverso alcuni decenni, Marco Pannella ha lasciato una impronta unica. Dirò perchè è giusto far notare l’unicità, non come elogio ma come descrizione di una serie di eventi realmente accaduti. In questo libro, molte delle parti scelte dal suo curatore (ma del resto tipiche di quasi ogni istante dell’attività politica di cui stiamo parlando) ci mettono di fronte a una testimonianza di cui Radio Radicale è ancora l’unico canale di comunicazione: la denuncia, la difesa, la conferma, il dibattito, la motivata e indispensabile ripetizione dei diritti civili e dei diritti umani. È un percorso che comincia e finisce (ma non finisce affatto ) con la difesa accanita e senza soste delle carceri e dei carcerati, inteso come la prova di uno Stato e di un livello di civiltà. L’unicità della vita politica radicale, pannelliana (e del libro di cui stiamo parlando) ha la sua spina dorsale nelle carceri (quelle italiane prima di tutto), un problema su cui si è accumulata una quantità di energia e di attivismo politico, e ha consentito di verificare l’azione e l’inazione dei più diversi personaggi politici di governo addetti alla Giustizia. In un momento della storia italiana in cui si parla, senza imbarazzo, della carcerazione dei bambini, la presenza e l’intervento, la denuncia dei Radicali e di ciò che resta (non è poco) è il grande lascito morale di Pannella. Se Radio Radicale venisse a mancare adesso, come vogliono gli agenti di un ambiguo “cambiamento” che punta al silenzio, la perdita sarebbe grandissima e irrimediabile. Però è impossibile che nell’irruente spinta verso un futuro sempre meno indegno il coraggioso pensare, parlare e agire di Pannella, si dissolva in un vuoto. In questo Paese dopo i Radicali devono esserci (verificate in questo libro) i Radicali, perchè il rispetto degli esseri umani riprenda ad essere il primo tratto di riconoscimento di questo Paese. È il “sovranismo” dei liberi esseri umani e non la sfilata di “popoli” senza volto tranne i capi di barbara memoria, a garantire ciò a cui persone come Gobetti, Rosselli, Spinelli e ai nostri giorni Pannella, hanno dedicato senza interruzioni il loro impegno, intelligenza, creatività e vita.