Il funerale di Camilleri: la morte di Pasquano tra requiem e cannoli

Venivano seppelliti in terra sconsacrata gli attori e invece, Marcello Perracchio – colonna del Teatro Stabile di Catania, scomparso nel 2017 – lunedì scorso ha avuto consacrata la sua assenza da questa terra con un frammento del Montalbano televisivo su Rai1 di toccante solennità. Ha avuto tributato, infatti, il consolo: il perfettissimo rito di transito e ristoro che i popoli civili riservano ai propri cari accompagnandoli al sepolcro con un banchetto di viatico.

Amatissimo nel ruolo dello scorbutico dottor Pasquano, il medico legale delle inchieste del Commissario di Vigata, Perracchio che non compariva nel primo episodio – dice che era in ferie – si svelava la settimana scorsa annodando un groppo in gola a tutti.

Un botto di ascolti, con un picco di audience alto come il cielo blu di Ibla con la scena che s’apparecchia nell’incredulità: l’espressione di Luca Zingaretti – nel ruolo del protagonista, Salvo Montalbano – quando non trova nessuno nel proprio commissariato. Chiama tutti, il Commissario, e davvero, per dirla con Vitti ‘na Crozza, morte gli risponde.

Tra le stanze vuote spunta un Catarella piangente per poi sciogliere, nelle sequenze, il dispiacere, il vivo dolore, le condoglianze, la commozione e il commiato.

Il personaggio dell’eternità di letteratura va incontro al proprio funerale perché il suo interprete – nella fuggevolezza della vita – è morto. E siccome quell’impasto di arte e vita porta il marchio della vera letteratura – Andrea Camilleri – un fotogramma, uno, riavvolge il filo di millenni di civiltà per farne guantiera, trionfo di acquolina, ricotta e requiem.

Una scena consumata nello schermo televisivo di Rai1 che risulta da subito – nell’immediatezza della messa in onda – e poi dopo, nella fotografia, come l’esatta celebrazione del Teatro Greco antico di Siracusa.

Il commissario e i suoi uomini addentano la scorza dei cannoli – i dolci di cui era ghiotto il dottore Pasquano – ed è il coro dei lirici tragici che computa le parole del rito funebre: il consolo, appunto. Parole masticate nell’impasto di refrigerio con cui ciascuno destina per sé e negli altri, la luce e il lutto.

Un elegante fuori scena nel fuori testo dello sciorinare televisivo – questo del fare il funerale al personaggio – attraverso cui il richiamo ancestrale della terra di cui la poesia si fa tramite trasfigura il sangue in fabula. Una rappresentazione dove chi è omaggiato, Marcello Perracchio, è parte attiva ancorché morto.

Se si fosse tratta di un altro professionista e non di Perracchio, gli Dei dell’Ade – e con loro gli angeli del lutto – non avrebbero fatto degli attori, degli sceneggiatori, di Carlo Degli Esposti e dei singoli cannoli, dei posseduti per indurli al rito di consolo.

Morto un Papa se ne fa sempre un altro ma ciò non vale per chi è caro agli Dei cui spetta di decidere chi è inimitabile, insostituibile e unico. Morto Perracchio, infatti, non ce ne sono stati altri. Altri che come lui, lasciando un’avviata scuola guida nel ragusano, trovavano l’arte in un camerino al Piccolo, a Milano, o nelle scuole di Ragusa dove lui, accendendo di bellezza i ragazzi, leggeva i Cantos di Ezra Pound.

Morto Perracchio, però, a Modica – proprio nel suo paese – tolgano l’intestazione “Garibaldi” al teatro. Si chiama “Perracchio”, quel palcoscenico: sbrigatevi.

La teoria “maschilista”: Wanda Nara ha castrato il marito Icardi (e Lopez)

Gentile Selvaggia, nel suo articolo del 19 febbraio su Wanda Nara penso che lei sia andata un po’ fuori le righe, più Selvaggia che ironica. Wanda Nara è una vera femminista ante litteram e, Come ha scritto lei, è un capitano, ma questa volta come in passato ha superato il limite. Sun Tzu diceva che prima di iniziare una guerra bisogna calcolare le forze del nemico. Penso che la signora Wanda questa volta abbia sbagliato i calcoli. Marotta non è Moratti e la vittima sacrificale sull’altare del femminismo di Wanda è Icardi come in passato è stato Maxi Lopez. Il risultato della battaglia della narcisista Wanda potrebbe essere la distruzione della carriera del marito Icardi come lo fu di Maxi Lopez. In passato Icardi non andò alla Juventus su consiglio della moglie perchè alla Juve c’era Marotta. Adesso che Marotta è all’Inter Wanda ha cercato di anticipare le mosse 2 anni prima della scadenza del contratto per far vendere il marito ad un’altra squadra, ma non ha considerato che Marotta ha le palle vere e non virtuali come le sue e che nessuna squadra acquisterà Icardi a 110 milioni finchè avrà come “capitano” e “agente” Wanda. Il risultato potrebbe essere che Icardi dovrà restare all’Inter con stipendio e mansioni ridotte. Il calcio è uno sport per uomini e da uomini che sfogano in esso la propria aggressività repressa. Far intervenire e interferire le donne nel calcio sarebbe come far intervenire e interferire gli uomini negli hobby delle donne, nel loro modo di gestire la casa, di montare le tende e di fare gossip dalla parrucchiera. Noi vecchi maschilisti definiamo le donne come Wanda “castranti” e di un uomo castrato una donna non se ne fa più nulla e prima o poi lo abbandona. La crisi di gol sul campo che Icardi ha attualmente ne è la prova. La narcisista Wanda servendosi della sua sensualità ha gestito Icardi come fece con Maxi Lopez. Il suo articolo in difesa di Wanda Nara potrebbe far sospettare che lei si identifichi nel suo comportamento, ma questo non sarebbe negativo. Ogni persona è come è e non sta a me dare giudizi. Quelli che le ho scritto sono fatti e constatazioni. Sempre con immensa simpatia le ho già detto in passato che lei assomiglia a mia figlia che amo tantissimo, ma, ripeto, noi vecchi maschilisti preferiamo avere donne come lei per figlie ed amiche piuttosto che partner. Sia più ironica e meno selvaggia, le dona! Un cordiale saluto.

Aurelio

Gentile Aurelio, mi perdonerà se non posso dilungarmi troppo nella risposta ma purtroppo mi trovo sotto il casco per i colpi di sole e con le altre due signore accanto stiamo discutendo del ritorno di fiamma tra Belen e Stefano De Martino. Devo poi scappare a casa di corsa poiché oggi viene il tappezziere a cambiarmi le tende del salotto, visto che discutevo proprio ieri con mia cognata di quanto il damascato abbia fatto il suo tempo. Verso le sei poi ho il tè con le amiche della parrocchia con cui stiamo organizzando una pesca benefica in cui mettiamo in palio i centrotavola da noi creati, il cui ricavato andrà a alle sorelle beghine dell’istituto Maria Immacolata di Seveso. Nel frattempo, sto anche buttando giù una lista della spesa per far trovare la cena pronta al mio compagno che torna verso le 20,45 dal lavoro e se non trova un piatto fumante in tavola e la Gruber in tv mi prende giustamente a cinghiate. Spero che così vada meglio. La saluto umilmente.

 

Donne di calcio, la “cazziata” infinita per Fulvio Collovati

Ciao Selvaggia, ti scrivo a proposito della nota frase di Fulvio Collovati: “Quando sento una donna parlare di calcio mi si rivolta lo stomaco”. Vorrei dirgli, tramite te, che quando lo vedo mi girano le scatole e non solo quando parla di calcio, ma quando tratta ogni singolo argomento. Perchè Collovati è di una lentezza inaudita, non argomenta mai bene un concetto e vive di ricordi, perchè sostanzialmente lui da allenatore non ha fatto la carriera di tanti suoi colleghi. Non è neanche simpatico e spigliato come altri ex calciatori che partecipano alle trasmissioni. Fagli sapere che ci sono donne allenatrici che al contrario suo erano fortissime come giocatrici e valide anche in panchina, cosa che a lui non è mai venuta bene. Poi, pensasse alla sua consorte, una signora che non fa altro che andare da una trasmissione all’altra parlando del niente per visibilità. Almeno noi donne che parliamo e sappiamo di calcio qualche argomento lo abbiamo. Aggiungoche le donne del calcio italiano disputeranno il mondiale, al contrario di ciò che è successo recentemente nel calcio maschile e ci sono tanti suoi colleghi maschi che non si credono alfa come lui e che allenano le donne, divertendosi e togliendosi tante soddisfazioni. Infine, ci sono uomini come lui, che fanno ospitate da un’ora e prendono cachet altissimi in virtù di ciò che hanno fatto anni fa, mentre le donne che sudano per 90 minuti in campo, in qualsiasi categoria siano, non guadagnano quanto dovrebbero. Sarebbe bello che queste dichiarazioni le facesse davanti alle telecamere di Sky, con Ilaria D’Amico che lo intervista … chissà se avrebbe il coraggio di ripetere quei concetti. Per chiudere, caro Collovati, se vuoi fare una sfida di palleggi con me ti aspetto a Sassari, davanti a tutti, donne comprese.

Veronica Sotgiu

Collovati si è preso tanti di quei cazziatoni (compreso il tuo) che ormai credo sia capace di sostenere la tesi della supremazia femminile pure nel braccio di ferro e nella gara a chi fa la pipì più lontano.

 

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“Noi della Juve”, (J)laria si rivela

Dicono che Ilaria D’Amico stia pensando di cambiare nome: vuole chiamarsi ancora Ilaria ma con la J iniziale, la J di Juventus, che la farebbe diventare Jlaria. Ormai è tempo, la giornalista di Sky non si nasconde più. Indossando l’immancabile abito bianconero, nel dopo partita di Atletico-Juventus 2-0, mercoledì scorso, la compagna di Gigi Buffon, nel pieno del dibattito sulla difficoltà di giocare nella bolgia dello stadio Wanda Metropolitano, ha interrotto Fabio Capello e ha detto: “Non lo conoscevamo, noi della Juve”. Attimi di sconcerto in studio. Ma sarebbe finita lì, probabilmente, se non fosse che a Jlaria il tracollo bianconero aveva intaccato, assieme all’umore, la lucidità. Il fatto di trovarsi in compagnia di un ex allenatore (Capello) e di un ex campione (Del Piero) della Real Casa le aveva forse dato imprudenti certezze; sta di fatto che dopo il rivelatore “Noi della Juve” la D’Amico si è avventurata in una rovinosa disamina della partita tutta tesa a sminuire la bravura dell’Atletico, col risultato di farsi radere al suolo da tutti i suoi ospiti, da Capello a Del Piero, da Pirlo a Condò. “La cosa brutta – ha detto Jlaria in un italiano un po’ così – è che a dispetto delle squadre spagnole, l’Atletico Madrid non gliene frega niente di giocare male, di giocare un brutto calcio”. Premesso che se l’Atletico (due gol, una traversa, un gol annullato dal Var e un rigore a suo favore cancellato dal Var) aveva giocato male, dire come avesse giocato la Juve era un’impresa impossibile, il pistolotto della D’Amico aveva l’effetto di mandare in deliquio Capello (“Questi sono bravi”, “Non buttano mai via la palla”, “E’ una grande squadra questa”) che spalleggiato da Pirlo, Condò e Del Piero iniziava ad asfaltare donna Jlaria cantando le lodi del formidabile team di Simeone.

Jlaria iniziava a barcollare come Griffith contro Benvenuti al Madison Square Garden, alla 12^ ripresa, il 17 aprile 1967. Provava a rifugiarsi all’angolo chiedendo a Del Piero, collegato da Madrid, se il gol dell’1-0 di Gimenez non fosse da annullare per fallo su Bonucci; e nonostante Capello le avesse già detto che “Bonucci è stato appena sfiorato, si è buttato subito e questi sono i risultati” mentre in Italia “se ti pressano e ti danno una spintarella, ti butti per terra e fischiano”, lei decideva ugualmente di tentare la carta Pinturicchio. Imbarazzato oltremisura, Del Piero rispondeva che a dispetto di quel che gli dettava il cuore, dire che il gol fosse da annullare gli era impossibile. Jlaria a quel punto era alle corde. Ma lì accanto notava Pirlo: e nonostante con lui avesse già menato fendenti a vuoto (“Com’è giocare queste partite di Champions League, tu che hai giocato la finale con la Juventus?”, gli aveva chiesto; “Veramente le ho giocate anche col Milan”, le aveva risposto lui, che per delicatezza aveva evitato di ricordarle le due finali vinte in rossonero, una contro la Juve), gli sollecitava speranzosa un ultimo, definitivo giudizio su Madama: “Ho visto una squadra senza personalità – le rispondeva Pirlo – con poca voglia di proporre gioco o di inventare qualcosa. In Europa bisogna fare la partita: chi vince la Champions non ha paura”.

Ci sarebbe voluto, a quel punto, qualcuno all’angolo pronto a gettare la spugna. Ma non c’era. E Jlaria finiva al tappeto. Fra gli uccellini che cinguettavano.

Il martirio mancato di Formigoni, cattolico arrogante e orgoglioso

Roberto Formigoni va in carcere e fino all’ultimo i suoi amici cattolici di Comunione e Liberazione hanno pregato perché ciò non accadesse. La condanna è pesante, corruzione, e costituisce l’epilogo funesto del lungo regno formigoniano alla Regione Lombardia, dove il mercimonio avveniva nelle ricche casse della sanità.

Il giorno dell’ingresso nelle patrie galere dell’ex governatore (democristiano nella Prima Repubblica, berlusconiano nella Seconda) sono arrivati infiniti e trasversali messaggi di dolore da parte di politici e giornalisti. E fin qui tutto molto umano e mondano, cioè nelle cose di questo mondo. Il punto è che nella narrazione del personaggio Formigoni si è dato parecchio spazio alla sua dimensione di cattolico praticante: quella di ciellino che viveva in una comunità di Memores Domini, dediti al voto di povertà e di carità fraterna.

Quello che colpisce, allora, non è tanto la figura di Formigoni peccatore convertito ai lussi del potere (solo “la fedeltà del Signora dura in eterno”, recitano i Salmi) ma l’assoluta mancanza di accettazione cristiana del martirio, ovviamente dal punto di vista del credente. Può sembrare paradossale o provocatorio, ma il Vangelo e le lettere di San Paolo sono un continuo richiamo alla transitorietà della vita quaggiù e lo stesso Gesù inserì tra i “beati” coloro che sono perseguitati a causa della giustizia (beatitudine che si presta a molte interpretazioni). Ma se appunto guardiamo con lo sguardo della fede al carcere di Formigoni (peraltro politico arrogante e pieno di sé) spicca proprio la mancanza di una “vera umiltà” che non può essere tale “senza umiliazione” (papa Bergoglio). E se il martirio è imitazione di Cristo innocente ucciso in croce cosa c’è di più grande per un cristiano che si proclama non colpevole e viene rinchiuso, a suo dire, ingiustamente? La si può mettere anche in termini più laici, per dirla con lo straordinario Matthew McConaughey nella prima serie di True detective: “Rifletto sull’idea di permettere la propria crocifissione”.

Forse tutto è da ricondurre all’esperienza dei cattolici di Comunione e Liberazione, per anni accusati di essersi secolarizzati facendo solo politica e affari. Non proprio la strada per il martirio.

La Chiesa non ha alcuna voglia di eliminare davvero i pedofili

È innegabile che il summit vaticano sugli abusi del clero appena conclusosi abbia contenuto degli elementi positivi e di novità. Il primo di tali elementi risiede nella stessa decisione di Jorge Bergoglio di indire il vertice. E’ vero che sul tema degli abusi le gerarchie cattoliche sono state messe sotto pressione dall’opinione pubblica di tutto il mondo, ma è altrettanto indubitabile che, convocando il vertice, il papa abbia implicitamente riconosciuto che quella degli abusi sessuali è una piaga essenzialmente cattolica, che riguarda la chiesa di Roma più di ogni altra istituzione, religiosa e non.

Il secondo elemento positivo consiste nella decisione di far ascoltare ai convenuti la voce dei sopravvissuti. I dirigenti cattolici erano già venuti a conoscenza di un’infinità di racconti analoghi a quelli che hanno sentito a Roma, ma il significato simbolico della presenza attiva delle vittime è stato comunque notevole. La gerarchia cattolica ha voluto così mostrare al mondo di essere finalmente disposta a fare ciò a cui per tempo immemore si è sottratta, preferendo invece dedicarsi alla protezione omertosa dei suoi funzionari colpevoli.

Queste sono le note positive. Veniamo ora a quelle dolenti, ai limiti dell’iniziativa di Francesco e ai tanti nodi ancora da sciogliere.

Prima nota dolente: il vertice non ha preso nessuna decisione concreta; si sono udite molte parole, molte buone intenzioni, molti atti di contrizione e di pietà, ma nessuna riforma, nessun cambiamento sostanziale. Questa è in parte una conseguenza della natura stessa dell’evento, che ha visto coinvolti esclusivamente la curia e i vertici delle conferenze episcopali e che è durato solo un paio di giorni. In un tempo così ridotto era di fatto impossibile affrontare la questione con la profondità che essa avrebbe meritato. Ben altra consistenza e profondità avrebbe assunto il dibattito se il papa avesse deciso di dedicarvi un sinodo mondiale, casomai posticipando quello innocuo e vacuo dedicato alla condizione giovanile. Un dibattito più ampio e meglio preparato avrebbe non solo sortito l’effetto di far emergere, come già avvenne nei sinodi sulla famiglia, posizioni realmente diverse sulla questione, ma avrebbe anche fugato l’impressione che la Chiesa si volesse prodigare in un’azione meramente propagandistica e dimostrativa, priva di conseguenze reali. Un esame serio e approfondito avrebbe poi permesso di aggiungere alla voce dei sopravvissuti quelle degli esperti indipendenti, di quegli studiosi che da anni si dedicano, forti di una consolidata esperienza sul campo a contatto con gli abusatori e con le vittime, a comprendere in profondità la natura e le cause del fenomeno.

La voce delle vittime può infatti, nel migliore dei casi, contribuire a risvegliare per un attimo la coscienza morale a lungo assopita di tanti ecclesiastici, ma quella degli studiosi aiuterebbe chi governa l’istituzione a capire, con l’aiuto di dati scientifici robusti, da dove viene il problema e come si può tentare di risolverlo. Naturalmente l’istituzione dovrebbe essere pronta a sentirsi dire che gli abusi sono generati anche dalla repressione sessuale che essa impone ai suoi preti e che il clericalismo è una malattia connaturata alla stessa esistenza di quella clericale come casta separata (e gerarchicamente superiore ai semplici fedeli) di maschi celibi. Rischierebbero anche i vertici cattolici di sentirsi dire che, nella produzione degli abusi sessuali, il problema non è tanto un perverso desiderio di sesso con i minori, ma piuttosto la radicata attitudine di tanti sacerdoti a considerare i fedeli, compresi purtroppo talvolta i più piccoli (ma anche gli adulti sono vittime di abusi), come sudditi, come creature inferiori sui quali il prete può esercitare un potere senza limiti, meri oggetti sui quali il prete ha tutti i diritti, incluso quello di soddisfare i suoi appetiti sessuali.

Se le cose stessero così, si dovrebbe prendere atto che il problema non lo si risolve con mezzi polizieschi e cioè intensificando la sorveglianza sulla vita del seminarista, ispezionando meglio la sua personalità e i suoi comportamenti, ma che invece tutta la questione ha un legame diretto con quella del potere, quello che il prete si arroga su mandato diretto dell’istituzione e quello che purtroppo, per effetto di una cultura clericale ancora troppo forte soprattutto nelle zone più povere del pianeta, i fedeli gli accordano. Questa cultura non si cambia con discorsi moralizzatori e appelli alla conversione, ma con i cambiamenti strutturali: ad esempio, chiudendo i seminari, abolendo il celibato e spalancando alle donne l’ingresso principale della Chiesa.

Un’ultima riflessione riguarda i sopravvissuti. Tanti, troppi di loro giacciono ancora nell’oscurità e in un silenzio pieno di tormenti, non avendo riferito a nessuno i fatti orrendi di cui sono stati vittime. Perché la Chiesa Cattolica non li aiuta per prima a denunciare, varando una grande campagna mondiale di verità e offrendo loro un sostegno psicologico e finanziario? Sarebbe, in attesa delle riforme strutturali, un atto di parresia davvero sconvolgente e “rivoluzionario”.

Dal rosso al verde, la rivoluzione ormai ha mutato colore

Il tribuno che nell’autunno caldo infiammava le assemblee operaie della Pirelli, un sabato mattina di mezzo secolo dopo prova ancora a cercare di cambiare il mondo. Emilio Molinari ha lasciato da qualche ora l’ospedale. È l’una quando prende la parola per concludere l’ennesima “assemblea pubblica” della sua vita. Tema: “Acqua terra salute”. La folla non ha le fattezze di una volta. Una sessantina di attempate persone ascolta con rispetto il vecchio combattente parlare di acqua, concimi, agricoltura, inquinamento. Un repertorio impensabile quando i suoi temi erano la lotta di fabbrica, la catena di montaggio, i ritmi e la nocività del lavoro, il cottimo e i salari. Molinari lo spiega con semplice efficacia: “L’acqua è stata la seconda scoperta della mia vita dopo la politica, dopo il valore della lotta di classe”, per questo ora è un esponente di spicco del Movimento mondiale per l’acqua, che nel 2011 contribuì a portare alla vittoria in un referendum impossibile. Gli occhiali pendono dal collo sopra un maglione girocollo verde scuro. I baffi sottili, i capelli sono meno ricci e ribelli di un tempo, intatta la fede in un mondo migliore. Si mette dalla parte dei non credenti quando evoca con passione la figura di papa Francesco e la sua “Laudato sì, mì Signore” in difesa dell’ambiente. E arringa contro “questa fede cieca nella tecnologia che risolve tutto, i giovani ne sono impregnati, credono che la fame nel mondo si risolverà con nuove tecnologie, e pure il problema dell’acqua e anche quello dell’inquinamento. L’ottocento si chiuse con l’inaugurazione della torre Eiffel”, prosegue, “inno alla illimitatezza della potenza dell’uomo. E abbiamo chiuso il novecento con gli studiosi che ci avvisavano che forse non siamo neanche più in tempo per salvare il pianeta”. Cita scienziati, cita Noam Chomsky, non cita Bauman e questo vuol dire che i libri li legge sul serio. Prende ad esempio gli interventi che lo hanno anticipato, la nuova coscienza e civiltà agricola, e chiede retoricamente al pubblico se le micro-esperienze raccontate durante la mattinata costituiscano un ritorno all’indietro o non piuttosto “l’attualità della storia”. Ricorda una volta ancora che “abbiamo nelle mani il destino dell’umanità”, e che una nuova conversione dell’agricoltura è possibile, dopo quelle della meccanizzazione e dei semi. Stavolta una “grande conversione” che dovrà valorizzare gli antichi saperi contadini, per superare una civiltà che vuole le patate tutte uguali in forme e dimensioni e l’acqua buona solo se minerale. L’utopia dà le ali alle parole, così Emilio indica la necessità di una nuova evangelizzazione, sottolinea che proprio grazie al movimento per l’acqua l’Onu è stata costretta a riconoscere che l’acqua è un diritto umano, altro che privatizzarla. Ricorda le reazioni entusiaste che hanno i bambini delle quinte elementari, o i ragazzini delle medie, durante i suoi interventi nelle scuole, ne ha fatti a centinaia su questi temi solo a Milano. Lo osservo. Ed è difficile non riandare al leader dalla voce tonante di Avanguardia operaia, poi Democrazia proletaria, poi Verdi arcobaleno; al consigliere regionale e senatore, o al parlamentare europeo che si occupò come pochissimi di mafia e politica, con quella sua campagna contro la figura di Salvo Lima, a cui dedicò, anche in onore di Peppino Impastato ucciso mentre era candidato proprio di Democrazia proletaria, il famoso dossier “Un amico a Strasburgo”. Passa una sequenza di immagini dietro il Molinari di oggi che maneggia da maestro l’antica retorica (“un’ultima cosa”, “e qui chiudo davvero”…). Un turbinio di piazze, di comizi, di generazioni e di generosità. Quando finisce, l’uomo si alza e si appoggia a un bastone. Con quello cammina verso l’uscita perché ha un nuovo appuntamento per la sua salute. Lo affianca premurosamente la moglie: “Non può prendersi nemmeno un raffreddore”, spiega. Problemi al cuore, ma anche ai reni. Lui stesso confessa di essere malandato. Gli occhi rimangono orgogliosi. Dice che il suo rammarico è non avere avuto figli, ma che ha una nipote e una ragazza ivoriana che ha aiutato alle quali ha cercato di trasmettere i suoi valori. “Lo sai che è una di loro che ha scatenato la rivolta sulla questione delle mense e dei bimbi immigrati a Lodi?”, interroga con una qualche fierezza. Altro che rottamare. Altro che classe dirigente del domani. Emilio Molinari, rivoluzionario di professione, con gli affanni regalati dagli ottanta e da una vita avventurosa, spera ancora di cambiare il mondo. E ci prova.

Così la “secessione” leghista distruggerà il patrimonio

Se c’è qualcosa che ci fa italiani, differenziandoci da tutte le altre nazioni e unendoci tra noi al di là delle infinite diversità della Penisola, ebbene, quel “qualcosa” è il legame tra pietre e popolo che dà il nome a questa rubrica. Una identità affermata nell’unico tra i principi fondamentali della Costituzione – l’articolo 9 – a pronunciare la parola “nazione”, rendendola inseparabile dalla “tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico”. Non il sangue, non il colore della pelle, non la lingua, non la fede: è invece l’appartenenza reciproca tra umani e territorio (un’appartenenza che non si acquista per nascita, ma per cultura) a farci italiani.

Ma oggi, mentre grida “prima gli italiani”, la Lega di Matteo Salvini è impegnata a scardinare proprio questo: cioè l’Italia. Presto, forse anche prima delle Europee, il Parlamento sarà chiamato a ratificare l’intesa tra lo Stato e le regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna per la loro “autonomia differenziata”: si voterà, ma il testo non sarà modificabile. “Come avviene per i trattati tra stati stranieri”, ha detto Salvini intervenendo ad una puntata di Agorà.

Stati stranieri: ecco il ritorno, esplicito, della secessione. La secessione dei ricchi, per riprendere il titolo dell’utile libro (scaricabile gratuitamente dal sito di Laterza) in cui l’economista Gianfranco Viesti spiega quali saranno le conseguenze dell’autonomia differenziata delle tre regioni che producono il 40% del Pil italiano, e che mirano a tenersi i soldi delle loro tasse: la fine di ogni solidarietà nazionale e l’abbandono delle regioni più povere, quelle del Sud.

“Un’operazione – ha scritto lo storico Piero Bevilacqua in una lettera aperta al presidente Mattarella – di aperta eversione dello Stato repubblicano, tenuta sotto silenzio per mesi dalle forze politiche promotrici, nella disinformazione generale dell’opinione pubblica”.

Moltissime sono le competenze oggi statali che le tre regioni rivendicano (ben 23 Lombardia e Veneto, 15 l’Emilia). Tra di esse, la tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale. Le regioni con il consumo di suolo più alto del Paese chiedono ora le mani definitivamente libere sul loro territorio. Evidentemente per finire il lavoro. E che l’ispirazione di questa indipendenza di fatto sia sviluppista, e non certo ecologista, lo testimonia il fatto che la Lega, contemporaneamente, impedisce l’autodeterminazione del popolo della Val di Susa sul Tav: l’autonomia va bene solo se porta più cemento.

Il paradosso è che esiste già una regione in cui l’ambiente dipende in toto dalla Regione: la Sicilia. L’autonomia concessale addirittura prima della Costituzione ha creato nell’isola uno stato parallelo, in cui le sorti delle coste, delle foreste e del patrimonio culturale dipendono da soprintendenze nominate e controllate dal potere politico regionale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: le mani della politica (e non solo) sul territorio; e dunque lo sfascio pluridecennale di un ambiente e di un patrimonio culturale tra i più importanti del mondo. Ma, dice la Lega, le regioni del Nord hanno una classe dirigente diversa da quella della Sicilia: tesi difficile da sostenere nei giorni in cui entra in galera il celeste Formigoni, per 18 anni alla guida della Lombardia. O anche solo rammentando che l’onnipotente doge veneto Galan è egualmente agli arresti.

Sempre ad Agorà, Salvini ha detto esplicitamente: “Che male c’è se il direttore di Brera o il soprintendente di Milano saranno nominati dalla regione Lombardia invece che dal ministero per i Beni culturali?” Accanto ai mali evidenti in Sicilia – quelli che verrebbero dal corto circuito tra un potere locale vicinissimo e chi dovrebbe tutelare valori (culturali e ambientali) non negoziabili sul piano del consenso immediato – ce ne sono anche altri. È chiaro che con Brera ai lombardi e l’Accademia di Venezia ai veneti si inizierebbe a costruire una cultura etno-nazionale, cioè proprio quella che la nostra Costituzione (e prima la nostra storia comune) hanno escluso. Fondamento visibile e riconosciuto della Nazione, e dunque della sua unità, il patrimonio storico e artistico non può essere diviso in base a sotto-appartenenze locali. La Repubblica tutela non solo il patrimonio in sé, ma la sua appartenenza alla nazione: ogni cittadino, membro della nazione e sovrano, è così proprietario dell’intero patrimonio nazionale, senza altre limitazioni. È per questo che un napoletano possiede il Palazzo Ducale di Venezia, o le Dolomiti, non meno di un veneto.

Quel che stiamo ora preparando è invece un tribalismo escludente: che è lo stesso rischio della scuola regionale, in prospettiva dialettale, prevista dalla stessa “riforma”. Un’idea contro cui gli studenti sono già scesi in sciopero venerdì scorso, dimostrando più senno dei loro padri.

Il paradosso è che ora Salvini e i suoi “sparano” all’unità nazionale con una “pistola” forgiata dalla riforma del Titolo V della Costituzione imposta dall’Ulivo (2001), e “caricata” dalle pre-intese firmate dal governo Gentiloni. Come in quasi tutto il resto, dunque, anche in questo caso nessun cambiamento: perfetta continuità con il peggio della nostra storia recente. Ma c’è una novità: le conseguenze di questo “sparo” rischiano di essere letali.

“Mio marito è stato ucciso”. Il mistero del giornalista

Potrebbe mancare un nome nell’elenco dei giornalisti assassinati in Italia dalla mafia. Accanto a Giuseppe Alfano, Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giuseppe Fava, Mario Francese, Peppino Impastato, Mauro Rostagno e Giancarlo Siani, forse dovrebbe essere ricordato Ezio Calaciura, agrigentino, collaboratore nei primi anni Sessanta de L’Ora di Palermo e autore di inchieste scottanti come quella sull’omicidio del commissario di polizia Cataldo Tandoj, capo della Squadra mobile di Agrigento, che uscì in sei puntate nel 1962.

Calaciura morì quando, secondo le testimonianze della moglie Maria, stava indagando sulla scomparsa di Mauro De Mauro, il grande cronista de L’Ora e suo amico. Morì ufficialmente in un incidente stradale avvenuto in Calabria il 21 marzo 1973. La Sicilia di Catania, il giornale per cui all’epoca scriveva, il 22 marzo, in prima pagina titolò: “È morto in un incidente il nostro Ezio Calaciura”. Nell’articolo si raccontava che in “un tragico incidente stradale dopo Palmi Calabro e a due km da Gioia Tauro, mentre percorreva il ponte Petrace dell’autostrada per Salerno, è morto, alle tre circa, il giornalista Ezio Calaciura”. Seguiva la ricostruzione dell’incidente: “La Fulvia coupè si è scontrata quasi frontalmente in un tremendo urto con un autocarro…”.

Della morte di Calaciura, a funerali avvenuti, non si parlò più. Ma nel 2001, 28 anni dopo, Maria Bellone, la vedova di Ezio, volle infrangere il silenzio. Il 14 febbraio rilasciò alcune dichiarazioni clamorose al Tg3 della Sicilia. “Potrebbe essere legata all’omicidio del giornalista Mauro De Mauro – scrisse l’agenzia Adnkronos – la morte, avvenuta nel ’73 ufficialmente per un incidente stradale, del giornalista agrigentino Ezio Calaciura. A riaprire il caso, quasi 30 anni dopo, è la vedova, Maria Bellone. ”Non ho mai creduto alla storia dell’incidente – ha detto la donna al Tg3 Sicilia – i primi sospetti nacquero quando, poco dopo la morte di mio marito, due uomini vennero a casa ad offrirmi una grossa somma di denaro in cambio del rottame dell’auto che era stata distrutta nell’incidente”. E aggiunse: “Provai ad indagare sul motivo di tanta generosità nell’offerta che quei due uomini mi avevano fatto. Ma fui fermata. Qualcuno mi disse che quelli erano dei mafiosi e che era meglio lasciare perdere. Altrimenti avrei messo a rischio la vita della mia bimba di 7 anni”. Proseguiva l’Adnkronos: “È sempre lei a raccontare che il marito ‘era stato molto amico di Mauro De Mauro. Insieme avevano lavorato per il giornale L’Ora. E negli ultimi tempi Ezio stava indagando sulla sua scomparsa’”. Subito dopo la morte del giornalista agrigentino, ignoti entrarono in casa e portarono via l’archivio del marito. “Non portarono via nulla – racconta la vedova – mi accorsi però che mancavano molte carte. E nessuno fu più in grado di recuperarle”.

Dopo la sua denuncia al Tg3 Sicilia, Maria venne contattata da qualche cronista. La signora voleva che il caso della morte del marito fosse riaperto. Confermò i suoi sospetti su una possibile manomissione dell’auto di Ezio; avrebbe voluto che il rottame della macchina venisse esaminato dalla polizia scientifica. E rammentò inoltre che tanto De Mauro quanto Ezio avevano lavorato sull’assassinio di Tandoj, avvenuto ad Agrigento il 30 marzo del 1960. L’inchiesta giudiziaria sul delitto fu segnata da molti depistaggi; si segui intanto una pista passionale, fino a quando non emerse che il poliziotto era stato ucciso perché stava per fare chiarezza su alcuni omicidi di natura politico-mafiosa. Significativo è che L’Ora, nei giorni della scomparsa di De Mauro, il 25 settembre 1970 pubblicò un articolo intitolato “Droga, Tandoj, Mattei: l’esplosivo trinomio esplorato da De Mauro prima del sequestro”. Ancora nel 2007, in un libro di Arcangelo Badolati, Ndranghta eversiva. La scomparsa di Mauro De Mauro e la strage di Gioia Tauro, si poteva leggere: “Calaciura era in Calabria di passaggio, oppure cercava qualcosa? Forse non lo sapremo mai. L’unica cosa certa, come dice la moglie, è che stava indagando sulla scomparsa del collega”.

L’appello di Maria Bellone a fare luce sulla morte del marito, però, è caduto nel vuoto. E lei stessa, a un certo punto, ha detto a un giornalista che “qualcuno”, ma non si sa chi, l’aveva convinta che quello di Ezio fosse stato davvero un incidente. Poi è uscita di scena.

Fare sesso ma senza figli: sterili per via chirurgica

“Voglio diventare sterile” ha detto un giorno Andrea a sua moglie. Ma prima di trovare un andrologo disposto a fargli una vasectomia (l’intervento che consiste nel taglio e nella legatura dei dotti deferenti dell’apparato genitale per impedire agli spermatozoi di arrivare all’esterno) ci ha messo tre anni. “Nel pubblico nessuno te la fa, allora ho chiesto a tre studi privati ma si sono rifiutati, poi a forza di cercare sul web ho trovato uno specialista non obiettore”. Venti giorni fa, con un intervento di sei minuti in anestesia totale, Andrea, imprenditore milanese di 47 anni, ha perso la fertilità. “Ho pagato poco più di mille euro e non me ne pento. È più fastidioso andare dal dentista. Abbiamo già due figli, il preservativo è scomodo, mia moglie non tollera la pillola, l’unica soluzione era questa”. Anche per Nicolò, che ha 38 anni e abita in Sicilia, è stata un’Odissea. “Mi sono rivolto a due strutture pubbliche e mi sono sentito rispondere che era meglio che cambiassi idea, che per controllare le nascite ci sono altri modi. Ma io non voglio far prendere degli ormoni a mia moglie e il profilattico riduce il piacere. Quindi ho cercato un medico a pagamento. Non mi sento meno virile. Siamo a posto già con due bambini, il terzo sarebbe difficile da mantenere”.

In Italia la vasectomia, a parte essere un metodo contraccettivo poco conosciuto, è molto ostacolata. “È un intervento che eseguiamo solo per fini sanitari, in caso di epididimite cronica, cioè l’infiammazione del dotto che connette i testicoli con i vasi deferenti – spiega Andrea Salonia, andrologo all’ospedale San Raffaele -. Da noi come contraccettivo è ancora un tabù e la normativa non è chiara”. “Per questo motivo – continua il collega del Policlinico di Milano, Franco Gadda – preferiamo non erogare questa prestazione, che può costituire un danno grave, irreversibile, di cui il paziente non si rende conto. Chi mi dice poi che non si penta? Io voglio curare la fertilità, non impedirla”. Impossibile anche alle Molinette, il principale ospedale pubblico del Piemonte. O al Careggi di Firenze. O all’Umberto I di Roma, il policlinico più grande d’Italia. “Gli avvocati ce lo sconsigliano. Se il paziente lo fa all’insaputa della compagna, questa potrebbe denunciare il medico – racconta Giorgio Franco, professore di urologia e andrologia al Policlinico -. Privatamente però lo faccio, più o meno uno all’anno. Spiego che è reversibile, che si può tornare indietro, anche se il successo non è garantito al cento per cento”. In Italia nel 2017, ci fa sapere il ministero della Salute, sono state effettuate 260 vasectomie in regime pubblico ma, sottolinea Tommaso Cai, segretario della Società italiana di urologia – quelle per scopi anticoncezionali non sono neanche il 5 per cento. Poi ci sono quelle eseguite privatamente, di cui però non abbiamo conto”.

Dai dati raccolti dalle Nazioni Unite sulla contraccezione, la sterilizzazione maschile nel nostro Paese rappresenta lo 0,1 per cento tra i metodi usati per controllare le nascite. In Canada, quasi il 22 per cento. In Australia, il 14. Negli Stati Uniti, tra l’8 e l’11. Rimanendo nel Vecchio continente, le percentuali più alte si registrano nel Regno Unito (21), Belgio (8,1), Irlanda (7,3) e Spagna (4,5). Quello che tormenta di più i nostri medici è il vuoto legislativo sulla vasectomia. Depenalizzata con la legge 194 del 1978, fino a metà degli anni Ottanta la giurisprudenza la inserì nel reato di lesioni gravissime in quanto produce perdite nella capacità di procreare (secondo l’art. 583 del codice penale) e diminuisce l’integrità fisica (art. 5, codice civile). “Il richiedente deve essere messo al corrente dei rischi-benefici e firmare un consenso informato, perché – spiega Gianluca Montanari Vergallo, professore di Medicina legale alla Sapienza – il chirurgo può essere condannato al risarcimento del danno in caso di lacunosa informazione. O in caso di nascita indesiderata, se l’intervento fallisce, come ha deciso il tribunale di Reggio Emilia nel 2015”.

Al Sant’Orsola di Bologna hanno messo a punto un modulo di consenso con l’ufficio legale e in lista di attesa hanno già 4 uomini. Anche a Trento, dove trattano una decina di casi l’anno. Il privato comunque in quasi tutta Italia resta l’unica alternativa. Tra gli andrologi che a pagamento offrono la prestazione c’è Marco Cosentino, che opera a Milano, Padova, Mestre, Roma e Napoli. “Faccio 5 vasectomie al mese. L’età dei pazienti va dai 45 ai 50 anni”.

Un altro specialista molto attivo nel capoluogo lombardo è Riccardo Vaccari. Una media di 10 vasectomie mensili. “Preferisco far firmare il consenso anche alla partner, tendo a non operare i single, e per chi è incerto o depresso richiedo una valutazione psicologica”. Carlo Foresta, direttore del centro di crioconservazione dei gameti maschili di Padova e membro neoletto del Consiglio superiore di sanità, raccomanda alle istituzioni di creare subito un protocollo condiviso per la presa in carico di questi pazienti. “Nel nostro centro arrivano ogni anno almeno 5 o 6 uomini che hanno fatto la vasectomia e che oggi vorrebbero un figlio. Se avessero maturato meglio la scelta adesso il Ssn non dovrebbe accollarsi la spesa per il prelievo degli spermatozoi e la fecondazione assistita”.

I numeri della sterilizzazione femminile sono più alti: 5852 nel 2017. L’asportazione e chiusura delle tube è scelta dall’1,4 per cento delle italiane, mentre negli altri paesi avanzati dal 5,5 per cento, rileva l’Istat. Ogni ospedale fa a modo suo però. E ogni ginecologo è libero di opporsi. Ma le resistenze culturali sono facilmente aggirabili. “Innanzitutto l’Oms consiglia la chiusura delle tube dopo il terzo cesareo per evitare la rottura dell’utero in caso di un’altra gravidanza” specifica Rossella Nappi, docente di ginecologia all’università di Pavia. “Alcuni ospedali hanno messo dei limiti: 35 anni e tre figli o 37 e due figli” dice Silvia Von Wunster, referente per la Lombardia dell’Associazione Ostetrici Ginecologi Ospedalieri Italiani (AOGOI). Al Sant’Anna di Torino vengono sterilizzate circa 40 donne ogni anno. Il dottor Paolo Petruzzelli ci spiega che la paziente deve firmare due consensi, uno per il medico legale, l’altro per il ginecologo. E che non ci sono limiti di età. “Ma prima vanno informate su tutte le alternative disponibili, come pillola e spirale”. Mentre al San Camillo di Roma la paziente deve firmare due volte, a distanza di 30 giorni.

Ilva, la strage dei bambini: sfilata dei genitori “orfani”

Siria Santisi, 4 anni: 11 luglio 2009, neuroblastoma. Alessandro Rebuzzi, 16 anni: 2 settembre 2012, fibrosi cistica. Lorenzo Zaratta, 5 anni: 30 luglio 2014, tumore al cervello. Ambra Friolo, 6 anni: 31 maggio 2017, leucemia. Giorgio Di Ponzio, 15 anni: 25 gennaio 2019, sarcoma dei tessuti molli. Sono solo alcuni dei bambini tarantini morti per malattie connesse all’inquinamento. Di molti altri non se ne conoscono i nomi. Verranno ricordati per la prima volta oggi pomeriggio. Taranto scende in piazza e lo fa in silenzio, con una fiaccolata. “Loro dovevano vivere”, si legge sul manifesto. L’iniziativa è stata organizzata dai genitori, che si considerano “orfani”. “La nostra lotta – dichiara Francesca Summa, madre di Siria – nasce per tutelare gli altri bambini, affinché altri genitori non si uniscano a noi”.

Vita e morte a Taranto

Sono storie dalla stessa trama con lo stesso epilogo, ben note ai politici. È per questo che la loro presenza non è gradita. “Non vogliamo passerelle”, dicono gli organizzatori. Nel giorno del trigesimo di Giorgio Di Ponzio, l’ultimo bambino tarantino deceduto, gli “invisibili” reclamano giustizia. “Questo olocausto deve finire”, denuncia la presidente dall’associazione “Genitori Tarantini”, Cinzia Zaninelli. Non sono bastati i manifesti choc, come “I bambini di Taranto vogliono vivere”, la foto del piccolo Lollo intubato. Né le urla di Alessandro, che dalla ringhiera del Tribunale si sporgeva, togliendosi la mascherina dell’ossigeno, per gridare: “Voglio respirare aria pulita!”. Non hanno attecchito le parole del magistrato Patrizia Todisco: “Non un altro bambino, non un altro abitante di questa città, non un altro lavoratore dell’Ilva, abbia ancora ad ammalarsi o a morire a causa delle emissioni tossiche del siderurgico”. La storia di Taranto continua inesorabile. Ben 12 decreti salva Ilva e l’immunità penale assicurano lunga vita all’acciaieria più grande d’Europa. L’azienda gode anche di puntuali posticipazioni del piano ambientale: doveva essere ultimato nel 2015, si è passati al 2023. Privilegi di privati ai danni dei cittadini, costretti a emigrare per curarsi. Quasi tutti al nord. Anche quando disoccupati. Genitori che non hanno retto al dolore e hanno tentato il suicidio. Il ricatto tra il lavoro e la vita non è l’unico. Se c’è vento sta ai genitori decidere se mandare o meno i figli a scuola. Agghiacciante lo sfogo su Facebook di una delle maestre del quartiere Tamburi, vicino all’Ilva: “Stare in classe nei giorni di Wind day è un incubo. Quella poca aria che c’è nelle aule è irrespirabile. Ogni tanto portiamo i bambini nei corridoi. Quando si esce, non si dovrebbe respirare per le polveri, invece lo facciamo a polmoni aperti perché tutti abbiamo bisogno d’aria”. Per l’Istituto Superiore di Sanità nel capoluogo ionico si registra una mortalità infantile maggiore del 21% rispetto alla media regionale con un eccesso di incidenza di tutti i tumori nella fascia 0-14 anni. L’Istituto ha accertato anche i danni del piombo sul neurosviluppo, con una riduzione del quoziente intellettivo più ci si avvicina all’acciaieria. Lo studio epidemiologico Sentieri ha reso noto che le polveri sottili a Taranto provocano tassi di mortalità 2,2 volte maggiori rispetto alle altre città. I livelli di diossina in alcuni periodi hanno raggiunto picchi da record. Le falde acquifere sotto i parchi minerari (che verranno coperti senza bonifica) sono contaminate. Nei quartieri vicini all’acciaieria, i bambini dai 0 ai 14 anni si ammalano di asma bronchiale e infezioni respiratorie il 33% in più rispetto ai minori di altre zone. In alcune aree è interdetta la coltivazione e il pascolo. Ai bambini è vietato giocare nelle aiuole. Nelle urine delle donne è stata trovata naftalina. Metalli pesanti sono stati rinvenuti nel cervello di Lorenzo Zaratta, dopo l’autopsia. Sulla sua morte indaga la magistratura. “Finché non fermeremo questa strage resteremo tutti colpevoli e responsabili”, denunciano i Cittadini e lavoratori liberi e pensanti. “Tutti noi ci sentiamo chiamati in causa”, fa sapere il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, che si dice impegnato per la rinascita di Taranto. Non ha dubbi sul nesso inquinamento e malattie. “Troppe volte in passato – ammette – è stato ricusato, ma quel tempo è finito. Lo Stato deve affrontare una volta per tutte questo tema”. Sull’immunità penale annuncia imminenti novità. “C’è un muro di silenzio fatto calare da Roma su Taranto”, denuncia il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, che ha inaugurato la rete oncologica pugliese e aperto il polo oncoematologico in città. “Abbiamo il dovere – dice – di batterci fino alla fine”. Oggi lo faranno i genitori che hanno chiesto a Mittal di sospendere l’attività siderurgica per questa giornata in segno di rispetto. In futuro si augurano che il 25 febbraio diventi la giornata nazionale delle piccole vittime dell’inquinamento. “I veri morti e la vera tragedia – fa sapere una delle mamme tarantine – è nelle nostre case. La nostra è una condanna senza fine”.