Venivano seppelliti in terra sconsacrata gli attori e invece, Marcello Perracchio – colonna del Teatro Stabile di Catania, scomparso nel 2017 – lunedì scorso ha avuto consacrata la sua assenza da questa terra con un frammento del Montalbano televisivo su Rai1 di toccante solennità. Ha avuto tributato, infatti, il consolo: il perfettissimo rito di transito e ristoro che i popoli civili riservano ai propri cari accompagnandoli al sepolcro con un banchetto di viatico.
Amatissimo nel ruolo dello scorbutico dottor Pasquano, il medico legale delle inchieste del Commissario di Vigata, Perracchio che non compariva nel primo episodio – dice che era in ferie – si svelava la settimana scorsa annodando un groppo in gola a tutti.
Un botto di ascolti, con un picco di audience alto come il cielo blu di Ibla con la scena che s’apparecchia nell’incredulità: l’espressione di Luca Zingaretti – nel ruolo del protagonista, Salvo Montalbano – quando non trova nessuno nel proprio commissariato. Chiama tutti, il Commissario, e davvero, per dirla con Vitti ‘na Crozza, morte gli risponde.
Tra le stanze vuote spunta un Catarella piangente per poi sciogliere, nelle sequenze, il dispiacere, il vivo dolore, le condoglianze, la commozione e il commiato.
Il personaggio dell’eternità di letteratura va incontro al proprio funerale perché il suo interprete – nella fuggevolezza della vita – è morto. E siccome quell’impasto di arte e vita porta il marchio della vera letteratura – Andrea Camilleri – un fotogramma, uno, riavvolge il filo di millenni di civiltà per farne guantiera, trionfo di acquolina, ricotta e requiem.
Una scena consumata nello schermo televisivo di Rai1 che risulta da subito – nell’immediatezza della messa in onda – e poi dopo, nella fotografia, come l’esatta celebrazione del Teatro Greco antico di Siracusa.
Il commissario e i suoi uomini addentano la scorza dei cannoli – i dolci di cui era ghiotto il dottore Pasquano – ed è il coro dei lirici tragici che computa le parole del rito funebre: il consolo, appunto. Parole masticate nell’impasto di refrigerio con cui ciascuno destina per sé e negli altri, la luce e il lutto.
Un elegante fuori scena nel fuori testo dello sciorinare televisivo – questo del fare il funerale al personaggio – attraverso cui il richiamo ancestrale della terra di cui la poesia si fa tramite trasfigura il sangue in fabula. Una rappresentazione dove chi è omaggiato, Marcello Perracchio, è parte attiva ancorché morto.
Se si fosse tratta di un altro professionista e non di Perracchio, gli Dei dell’Ade – e con loro gli angeli del lutto – non avrebbero fatto degli attori, degli sceneggiatori, di Carlo Degli Esposti e dei singoli cannoli, dei posseduti per indurli al rito di consolo.
Morto un Papa se ne fa sempre un altro ma ciò non vale per chi è caro agli Dei cui spetta di decidere chi è inimitabile, insostituibile e unico. Morto Perracchio, infatti, non ce ne sono stati altri. Altri che come lui, lasciando un’avviata scuola guida nel ragusano, trovavano l’arte in un camerino al Piccolo, a Milano, o nelle scuole di Ragusa dove lui, accendendo di bellezza i ragazzi, leggeva i Cantos di Ezra Pound.
Morto Perracchio, però, a Modica – proprio nel suo paese – tolgano l’intestazione “Garibaldi” al teatro. Si chiama “Perracchio”, quel palcoscenico: sbrigatevi.