Pericolo scampato – È finita la guerra con i cugini francesi, provocata da quei cattivoni del M5S amici dei gilet gialli: il rappresentante di Macron in Italia rientra a Roma e torna per fortuna alle sue attività principali: “prime” a teatro, libri e salotti. Nel frattempo Bertinotti continua a frequentare preti
Spagna, la prima crisi di Podemos: sinistra in panne
Mentre il governo spagnolo annunciava le elezioni anticipate per il 28 aprile, i militanti delle destre riempivano le strade. Sabato 16 febbraio, più di 200 mila persone hanno manifestato a Barcellona per protestare contro il processo politico portato avanti contro i dirigenti indipendentisti catalani. Una questione che divide profondamente le sinistre spagnole.
Di fronte alla radicalizzazione degli avversari la sinistra, in generale, non è al collasso. Ma la questione indebolisce Podemos. I suoi principali fondatori, Pablo Iglesias, attuale segretario generale, e Íñigo Errejón, l’ex numero due, sono infatti al limite della rottura. Errejón ha lasciato la poltrona di deputato dopo aver ufficialmente annunciato la sua adesione a una lista diversa per le elezioni regionali a Madrid.
Diverse chiavi di lettura del divorzio tra Iglesias e Errejón sono possibili. Mediapart ha raccolto il parere di quattro intellettuali francesi, che hanno potuto lavorare in prima persona su Podemos: Laura Chazel, ricercatrice a Sciences Po Grenoble e all’università Complutense di Madrid; Héloïse Nez, sociologa presso l’università di Tours, autrice del volume Podemos. De l’indignation aux éléctions; Lenny Benbara, fondatore del sito Le vent se lève; e Gaël Brustier, politologo e autore dell’introduzione a Construire un peuple, un libro di interviste di Chantal Mouffe e Íñigo Errejón.
Molti osservatori avanzano l’esistenza di importanti divergenze di punti di vista sulla “linea” che il partito, Podemos, dovrebbe seguire. Quanto contano queste divergenze nel conflitto tra i due?Héloïse Nez: “Diverse incompatibilità tra i due uomini sono sostanziali. Errejón dimostra una certa costanza poiché resta fedele alla strategia messa in atto al momento della nascita di Podemos. Si preoccupa più dell’unità del popolo che dell’unità della sinistra. In questa prospettiva, il partito ecologista-comunista Izquierda Unida (Iu-Sinistra unita) non dovrebbe rappresentare un partner ideale. Al contrario, sin dall’arrivo in Parlamento, nel 2016, Iglesias moltiplica nei suoi discorsi i riferimenti e i simboli propri alla storia della sinistra tradizionale. Difende l’idea di un fronte di sinistra classico contro quello che chiama il “blocco monarchico” (che andrebbe dalla destra ai sociodemocratici del Psoe). Il suo stile è globalmente più contestatario di quello di Errejón”.
Lenny Benbara: “Errejón e i suoi amici accordano una grande importanza all’ideologia. I suoi più vicini collaboratori presentano un profilo analogo: sono giovani diplomati provenienti da categorie sociali piuttosto agiate e con un importante bagaglio culturale. Errejón ha accumulato una certa frustrazione nei confronti di Iglesias, che sembra non essere mai al passo con la congiuntura politica. E soprattutto non intende ripiegare, come invece ha fatto Iglesias, sulle tematiche tradizionali della sinistra radicale spagnola (per esempio la questione repubblicana). Attualmente Errejón cerca piuttosto una sintesi tra una comunicazione politica modernista, che potrebbe sembrare quasi macroniana, e un discorso “nazionalpopolare”, nel senso gramsciano del termine, a contenuto popolare e privo di connotazioni xenofobe”.
Laura Chazel:“C’è stato un momento in cui era possibile distinguere chiaramente tra “pablismo” e “errejonismo”. È il periodo compreso tra l’ingresso di Podemos in Parlamento, nel gennaio 2016, e l’investitura del socialista Pedro Sáncheza a primo ministro, nel giugno 2018. L’ironia della situazione attuale è che Iglesias e Errejón, nel frattempo, si sono ravvicinati su questioni di fondo, in particolare sulle relazioni con le istituzioni e il Psoe. Ecco perché la rottura oggi mi pare essenzialmente un banale episodio di lotta tra due attori razionali alla ricerca del potere”.
Gaël Brustier: “Al congresso di Vistalegre 2 abbiamo assistito a una purga. Quello che sta succedendo a Podemos accade a tanti partiti: tra talenti politici si instaura un po’ alla volta una certa diffidenza che può andare fino alla rottura. Entrambi i clan dispongono di un capitale culturale elevato e quindi posseggono gli strumenti per costruire argomenti che legittimano il conflitto”.
Perché la rottura si sta producendo adesso?Héloïse Nez: “Al momento delle elezioni regionali in Andalusia, nel dicembre 2018, l’alleanza Podemos-Iu ha ottenuto un risultato mediocre, mentre le destre sono cresciute, in particolare grazie al netto progresso del partito di estrema destra Vox. Questo episodio ha potuto scatenare la rottura che covava da tempo”.
Laura Chazel: “Quando Podemos è entrato in Parlamento, si sono create delle frizioni sulle possibili alleanze. Quando sono state annunciate le elezioni anticipate del giugno 2016, Iglesias pensava che Podemos dovesse allearsi con Iu per poter sorpassare il Psoe. Errejón riteneva invece che fosse importante conservare un discorso “trasversalista”. Alla fine il partito ha seguito allo stesso tempo le due strade. Nei due anni seguenti, l’opposizione tra “pablisti” e “errejonisti” si è accentuata finendo col ridurre in minoranza i secondi. Ma dal giugno 2018 i due campi hanno sostenuto il ritorno al potere del Psoe, e non sono sicura che si separeranno radicalmente sulle scelte delle alleanze future”.
Quali sono i legami tra queste due sensibilità e il populismo di sinistra?Laura Chazel: “A questo proposito condivido l’opinione del politologo spagnolo Javier Franzé, secondo il quale il “pablismo” e l’“errejonismo”, in particolare tra 2016 e metà 2018, hanno incarnato due interpretazioni alternative del populismo. È impossibile stabilire quale delle due è più giusta, anche perché entrambe si ispirano al pensiero di Ernesto Laclau. Iglesias ha fatto suo soprattutto il concetto di populismo in opposizione all’“istituzionalismo”: da un lato il conflitto diretto o “l’attività politica per eccellenza”, secondo Laclau; dall’altro l’amministrazione delle cose o “la morte della politica”. Di qui un atteggiamento anti-establishment molto più accentuato che in Errejón. Quest’ultimo interpreta il populismo in una dimensione egemonica, come creazione di nuove identità collettive. Errejón ritiene dal 2016 che il sistema politico è parzialmente stabilizzato. Ha quindi concluso che la contestazione dovesse essere accompagnata da un’offerta di “ordine alternativo”. Al contrario Iglesias pensava che l’alternativa di un populismo di opposizione fosse ancora possibile e che Podemos dovesse fare il possibile per mantenere questa “situazione eccezionale”. A partire dal giugno 2018 ha tuttavia scelto la cooperazione istituzionale con il Psoe, cosa che per lui rappresenta, a parole sue, la fine del “momento populista”. Al di là di queste differenze, Iglesias, rispetto a Errejón, ha un legame globalmente più disteso con le idee di Laclau”.
Lenny Benbara: “È evidende che Errejón è il più “laclauiano” dei due, nel senso che non ci sono ambiguità sul suo costruttivismo. Errejón è convinto che il popolo non esista in sé, di qui l’importanza di una strategia populista per tessere una logica di equivalenza tra le domande eterogenee presenti nella società, che non avrebbero nessuna tendenza naturale o meccanica ad assemblarsi. Da parte sua, Iglesias occupa una posizione gramsciana, che non nega l’importanza del fronte culturale nella lotta per l’egemonia ma conserva un fondo marxista materialista”.
La rottura attuale può pesare sulla traiettoria di Podemos e sul suo posto nello scacchiere politico spagnolo?Héloïse Nez: “La situazione è frustrante. Podemos è una delle evoluzioni del movimento degli Indignati, che presentava risorse importanti per la trasformazione del modo di fare politica. La guerra dei capi a cui si assiste adesso è la conseguenza della scelta iniziale di una formazione verticale, individualizzata, molto lontana da quel modello. È un peccato, perché Podemos partecipa a dei governi locali, con un bilancio apprezzabile, ma rischia di non trarne profitto”.
Lenny Benbara: “Iglesias sta cercando di ottenere dei risultati concreti in termini di politiche pubbliche, per dimostrare che Podemos è una forza utile. Ma non sono sicuro che sappia quale direzione prendere alle prossime elezioni generali. Nell’attesa, ha lanciato prematuramente delle primarie interne, mentre ha ancora la mano sul partito, per estromettere i suoi avversari politici. Ciò traduce la cultura di un partito forte che salda i “pablisti” contro gli “errejonisti”, più individualisti e meno emotivamente coinvolti in uno strumento politico di cui fanno un uso strumentale. Non è da escludere l’ipotesi che possano tentare di crearne uno nuovo, se dovessero giungere alla conclusione che Podemos ha ormai perso la sua spinta propulsiva”.
Guaidó s’aggrappa agli Usa: “Maduro è finito”
È arrivato a Bogotà già ieri l’autoproclamato presidente del Venezuela Juan Guaidó per il summit del gruppo di Lima a cui sarà presente anche il vicepresidente degli Usa Mike Pence che si apre questa mattina nella capitale colombiana e che dovrebbe servire a “discutere possibili azioni diplomatiche” sulla crisi di Caracas.
“Chiederemo alla comunità internazionale in maniera formale di tenere aperte tutte le opzioni per arrivare alla liberazione della patria”, ha twittato Guaidó, compreso l’uso della forza contro il regime”, ha sottilineato il suo portavoce al summit.“Non tutte le opzioni sono sul tavolo. Non appoggeremmo e condanneremmo fermamente qualsiasi intervento militare straniero, che speriamo non si produca”, gli ha risposto il ministro degli Esteri spagnolo Josep Borrell, a cui ha fatto eco il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, che si è detto “scioccato” dalla morte di civili in Venezuela e ha lanciato un appello alla moderazione e ad evitare ogni tipo di violenza come l’Alto rappresentante dell’Ue per gli affari esteri Federica Mogherini. Ma oggi la palla passa ai paesi vicini Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Honduras, Messico, Panama, Paraguay Perù, Guyana e Santa Lucia sostenuti da Stati Uniti, Barbados, Grenada, Giamaica e Uruguay, oltre che dall’Origanizzazione degli Stati americani e l’Ue. Certo a trovare una via diplomatica non aiutano le parole del segretario Usa Mike Pompeo che si è detto sicuro che “Maduro ha i giorni contati”, non escludendo “un intervento militare Usa, conformemente alla linea tenuta da Washington dall’inizio della crisi”. Intanto alla frontiera con il Brasile ieri sono continuati gli scontri tra attivisti impegnati nel far passare gli aiuti, l’esercito di Maduro con gas lacrimogeni e i collettivi armati, sull’onda di quelli di sabato che hanno causato 285 feriti e 4 morti, lasciando a Ureña, una delle città di frontiera i segni della guerriglia durata 12 ore. Da Cúcuta, al confine con la Colombia, è arrivata invece notizia del misterioso avvelenamento del deputato di Guaidó Freddy Superlano in un ristorante dove mangiava con suo cugino, morto all’istante. E mentre nelle Forze Armate si sarebbero registrate un centinaio di diserzioni, Maduro starebbe dando “segnali della fine della dittatura”, secondo il presidente colombiano Ivan Duque che ha accusato il regime di “atti di barbarie”. “Il mondo intero ha potuto vedere quello che il popolo venezuelano sta soffrendo ormai da anni”, ha aggiunto Duque, secondo il quale “bisogna continuare a isolare la dittatura”.
Maduro avrebbe minacciato anche una nave di aiuti diretta in Venezuela da Portorico, motivo per il quale il governatore portoricano ha deciso di farla richiamarla accusando la marina venezuelana di “grave violazione contro una missione umanitaria”. Il timore, in attesa del summit, è che la situazione diventi “pericolosa”, giacché Maduro potrebbe lanciare “azioni disperate” per mantenersi al potere, come ha spiegato il ministro degli Esteri del Paraguay, Luis Alberto Castiglioni.
“Fca, suicidio assistito e la politica dorme”
“La Fca? Qui a Torino credo sia giusto parlare ancora di Fiat. Per farsi capire soprattutto dalla gente che si ricorda che cosa è stata, com’è ridotta oggi e che cosa rischia di non essere più domani”.
Va bene Giorgio Airaudo, chiamiamola come vuole lei. Che della Fiom torinese è stato segretario, prima dell’esperienza in Parlamento con Sel, e che ora si prepara a ritornare con un ruolo attivo tra i metalmeccanici della Cgil. Da dove partiamo, allora, per parlare di Fca o di Fiat?
Dall’ambiente e dalla Ue. Due argomenti che vengono agitati attorno all’Alta velocità e al Tav. Uno scontro che occupa lo scenario nazionale e locale e che vede su fronti opposti Comune e Regione. Nessuno, invece, si occupa del futuro dell’industria dell’auto in questo territorio. Il che significherebbe farlo per l’Italia, visto che a Torino la Fiat ha ancora 30 mila dipendenti, un terzo del totale. Ma su tutto questo, non abbiamo avuto manifestazioni di piazza. E il silenzio arriva anche dal governo.
Perché l’ambiente e le direttive Ue riguarderebbero quel futuro?
Non è solo un problema di Fca, ma di tutti i produttori europei. Tra quest’anno e il 2021, i grammi di Co2 emessi per km dovranno scendere a 95. La Fiat oggi è il produttore messo peggio: la media della sua flotta si attesta su 127-130 grammi. L’azienda rischia di veder scattare già da quest’anno le multe Ue: in passato è stata calcolata una cifra tra i 200 e i 300 milioni di euro. Una situazione che richiede tecnologie e investimenti. Segnali veri non se ne vedono, anzi: di qui nasce il pessimismo.
Eppure Fca si è impegnata con un piano da 5 miliardi in Italia, ha annunciato l’auto elettrica e ha indicato la 500E come nuovo modello per Mirafiori.
La litania delle promesse dura da anni. La dura realtà di Mirafiori è la cassa integrazione in deroga: prorogata di un anno per 5.400 tute blu. Stiamo per avvicinarci al record di 11 anni di Cig. Con uno stipendio di 1.200-1.300 euro, in cassa si scende a 800-900 e intanto chi riprende a lavorare lo fa su un turno unico e perde le maggiorazioni per il secondo. L’auto elettrica? La Fiat è più in ritardo di tutti: l’impressione è che la scelta non sia strategica, ma legata alla possibilità di diminuire proprio l’entità delle multe. La domanda è sempre la stessa: ci sono mezzi e voglia per affrontare questa sfida?.
Rimane l’impegno per la 500E, però.
La stima è che, per far lavorare i 5.400 di Mirafiori, occorra produrre oltre 150 mila vetture l’anno. Oggi ne escono 40 mila e neppure la 500E è in grado di imprimere la svolta.
Il Lingotto però gli investimenti li ha annunciati, e anche consistenti. Non lo si può negare.
Abbiamo assistito a una contraddizione allarmante. Fca ha distribuito un miliardo di euro di dividendi agli azionisti, dunque soprattutto a Exor, e ha anche formalizzato l’incasso dei due miliardi per la vendita di Magneti Marelli. Se vogliono convincerci di voler investire, perché non hanno usato una parte dei due miliardi? L’impressione è di una proprietà interessata soprattutto a incassare e a vendere, mentre i programmi di pochi anni fa sono già falliti.
Un’analisi dura. A che cosa si riferisce?
Al mitizzato “polo del lusso” che fu la grande idea-promessa di Sergio Marchionne. L’Alfa Romeo, la Maserati: l’obiettivo era di produrre 300-400 mila vetture all’anno. Gli ultimi dati ci dicono che l’Alfa si è fermata a 70 mila, la Maserati a 30 mila. Il “polo del lusso” è già dimenticato e quei marchi rischiano la svalutazione.
Qualcosa che si può addebitare alla scomparsa di Marchionne e al nuovo management?
Bisognerebbe chiederlo alla proprietà. Io noto soltanto che Marchionne e la sua stagione sembrano già essere state accantonate: non se ne parla più: a Torino, in Italia.
Ma se il futuro non è quello indicato da Fca, qual è invece quello che immagina il sindacato?
Si tratta di capire se i nuovi vertici dell’azienda, ma soprattutto la proprietà, continuano a credere negli investimenti in Italia o se invece non si sta ragionando su una cessione, su una vendita-spezzatino o su una diluizione del controllo dei marchi. Un’ipotesi, questa, cui John Elkann ha già accennato.
Lei accusa anche le istituzioni, compresi il Comune e la Regione, divisi sul fronte del Tav.
L’Alta Velocità occupa le cronache, ma è un progetto ormai superato. Il futuro della Fiat invece non suscita interesse. Il Lingotto ha disertato i tavoli di confronto con gli enti, utilizzando il pretesto della polemica sul bonus-malus ecologico, ma loro sono rimasti zitti. Però, per discutere di questa emergenza, non c’è bisogno della Fiat. E proprio lo scenario dei rischi legati al problema ambientale delle emissioni potrebbe essere lo spunto per chiedere chiarezza e impegni reali. È un problema del Piemonte: i dati del Pil del 2017 ci dicono che la ripartizione pro capite qui è di 30 mila euro, in Lombardia è di 39 mila e siamo stati scavalcati dalla Liguria e anche dal Lazio. La Cig alla Fiat è una causa pesante di tutto ciò.
Poi, però, c’è il governo gialloverde. Anche loro stanno zitti.
Si, dopo la confusione sul bonus-malus ecologico, tutto si è fermato. È quasi inutile citare ancora che cosa hanno fatto invece Obama e Sarkozy o che cosa sta facendo oggi il governo cinese per il settore dell’auto. C’è un rischio legato al futuro immediato e che non riguarda solo che cosa intende fare Fca.
Quale rischio?
Assistere a un’eutanasia. Serve qualcuno che prenda in mano questa vicenda: per capire che cosa intende fare chi c’è oggi, ma anche chi potrebbe arrivare domani. E che potrebbe decidere di prendersi i marchi e basta.
“Così Fiat schedava gli operai in Brasile”
Nell’ottobre del 1978 i lavoratori di Fiat Brasile stavano preparando il loro primo sciopero. In sudamerica l’azienda automobilistica italiana avrebbe conosciuto in seguito il suo maggior successo: oggi vengono prodotte più auto col marchio Fiat in Brasile che in qualsiasi altro paese, oltre all’Italia, e nel Paese sono al terzo posto come diffusione. Ma 40 anni fa, mentre la Fiat stava portando avanti l’operazione d’ingresso nel mercato brasiliano, cominciavano i primi problemi: nella fabbrica Fiat dello stato brasiliano di Minas Gerais i lavoratori, temendo la repressione, si stavano organizzando in segreto. I militari, che avevano preso il potere con il colpo di stato del 1964, contrastavano ogni organizzazione operaia, anche con la violenza. A sei giorni dallo sciopero, Airton Reis de Carvalho, il capo del distretto di polizia locale, inviava una lettera al regime. Un operaio Fiat stava da ore davanti alla stazione di polizia, cercando di individuare e liberare un collega arrestato e considerato indispensabile per far partire lo sciopero. “Tutte le misure che prendeva il nostro distretto erano in linea con quanto concordato con il colonnello Joffre, del dipartimento sicurezza di Fiat Automotive”, scriveva.
Reis si riferiva a Joffre Mario Klein, un colonnello della riserva dell’esercito che aveva aderito all’operazione brasiliana della Fiat sin dai primi giorni. Sotto l’attenta vigilanza di Klein, la Fiat spiava gli operai brasiliani, in collaborazione con la dittatura militare. Queste operazioni di sorveglianza e repressione emergono ora per la prima volta con un’inchiesta durata un anno e fatta da The Intercept Brasile. Lavoro reso possibile grazie ai documenti emersi dagli archivi italiani e brasiliani e dalle interviste fatte a ex lavoratori della Fiat, ex dirigenti sindacali e magistrati dei due paesi.
La Fiat operava anche grazie al Dipartimento brasiliano di Ordine politico e sociale, una forza di polizia conosciuta con l’acronimo portoghese di Dops, che agiva indisturbata tra i lavoratori della Fiat.
A Minas Gerais lo sciopero scoppiò il 23 ottobre 1978. Fu uno scontro con forti conseguenze a livello nazionale. Per i lavoratori di tutto il paese quello che accadeva nella Fiat, che aveva investito ingenti risorse e stretto alleanze politiche con la dittatura per costruire la propria presenza in Brasile, dimostrava che era comunque possibile resistere. A questo seguirono nuovi scioperi in altre aziende di auto.
I politici brasiliani avevano promesso tutt’altro alla Fiat, distribuendo depliant in cui l’Istituto nazionale di sviluppo industriale del Brasile cercava di attrarre investimenti stranieri. Durante i negoziati per portare la casa automobilistica in Brasile, il governatore locale Rondon Pacheco diceva agli italiani che il suo paese offriva una forza lavoro pacifica, “giovani depoliticizzati” e poco istruiti, provenienti per lo più da aree rurali, e senza una cultura di lotta sindacale. La promessa di una forza lavoro docile portò le autorità locali a collaborare con la Fiat per alzare di molto gli obiettivi di produzione e quindi inasprire i ritmi di lavoro. L’obiettivo era di sfornare 190mila macchine l’anno. Per accelerare i ritmi la Fiat mandò operai dall’Italia e prese tecnici esperti dagli stati brasiliani di Santa Catarina e San Paolo. Lavoratori qualificati che portavano anche esperienze nell’associazionismo e di sindacato.
I nuovi arrivati spinsero i colleghi all’azione, chiedendo salari più alti e il permesso di istituire un comitato di rappresentanza dei lavoratori. Ma, soprattutto, i lavoratori volevano che si rallentassero i ritmi di produzione, allora insostenibili. Per questo organizzarono e misero in atto lo sciopero. Il lavoro si fermò per cinque giorni, il sindacato firmò un accordo dopo un incontro a cui parteciparono poche decine di persone. Ma la Fiat mantenne solo alcune delle sue promesse e le tensioni rimasero alte. L’anno seguente scoppiò un altro sciopero. Gli scontri con l’azienda cominciavano a diventare troppi per i dirigenti della giovane Fiat Brasile. Quindi l’azienda decise di usare il pugno duro e si rivolse al colonnello Joffre Mario Klein. Klein entrò in Fiat nel 1975, prima dell’apertura della fabbrica di Minas Gerais, su segnalazione del Servizio Nazionale di Informazione, la principale agenzia di spionaggio del Brasile dell’epoca. Klein creò un ufficio nella Fiat dal nome rassicurante: “Sicurezza e informazioni”. Tutto all’insaputa degli operai. Solo dopo divenne chiaro che il suo primo compito era di dirigere un apparato interno di repressione che compilava dossier sui dipendenti.
Il colonnello diventò presto amico personale del primo presidente della Fiat Brasile, Adolfo Neves Martins da Costa. I dirigenti della sede centrale della Fiat in Italia elogiavano Klein. Lo rivela un ex dipendente del dipartimento risorse umane dell’azienda, che ha chiesto di rimanere anonimo. La vicinanza con le principali figure Fiat dimostra come Klein avesse acquisito un’enorme influenza. “Nessuno è mai stato assunto senza che mio marito ne fosse a conoscenza”, dice la vedova di Klein, Maria Antonieta, a The Intercept Brasile in una serie di interviste fatte nel 2017.
I lavoratori non sapevano chi fosse, ma ricordano che la sua presenza li rendeva nervosi. “Un tipo magro, con i baffi ben curati, i capelli grigi a spazzola e sempre vestito in modo impeccabile”, diceva Edmundo Vieira, presidente del sindacato metalmeccanico negli anni ’80. La vedova di Klein ha ricordato che il marito ha fatto almeno un viaggio nel quartier generale internazionale della Fiat a Torino. Ne avrebbe effettuati altri, per capire come gli italiani controllavano gli scioperi. E imparò in fretta.
Quando gli apparati di sicurezza della Fiat italiana presero piede in Brasile, tuttavia, anche i lavoratori in Italia si misero in contatto con i colleghi latinoamericani. “Dal 26 settembre al 4 ottobre 1979, ero a Rio de Janeiro e Betim per monitorare i movimenti degli scioperi e le operazioni della Fiat in Brasile”, ha detto Antonio Buzzigoli, ex rappresentante della Federazione italiana dei metalmeccanici che vive a Torino.
Dopo essere tornato in Italia Buzzigoli, attraverso i metalmeccanici, pubblicò una relazione in cui scriveva che c’era una “polizia interna armata” nella fabbrica di Betim. Il testo diceva che la squadra di sicurezza era composta da 70 agenti, addestrati da “un italiano e in seguito da un brasiliano” e la cui funzione era di esercitare pressioni psicologiche sui lavoratori. Buzzigoli ha osservato che gli agenti monitoravano tutto: tenevano d’occhio i “bagni e le mense, circolando nella fabbrica tutto il giorno”.
Nell’archivio aziendale della Fiat a Torino c’è un documento che risale al novembre del 1980 sull’operazione della casa automobilistica italiana in Brasile intitolato “Statistiche, posizioni e salari”. Un grafico sulla struttura organizzativa dell’azienda mostra che quattro dipendenti facevano parte di una divisione chiamata “sicurezza e informazione” controllata da Klein. Secondo il documento 141 impiegati Fiat rispondevano al capo della sorveglianza, Mauricio Neves, braccio destro di Klein e secondo in comando delle operazioni di sicurezza dell’azienda. La squadra di sicurezza raccoglieva informazioni per minare l’attività politica o avvantaggiare potenziali leader dei lavoratori. In particolare ascoltavano le chiamate dall’unico telefono pubblico disponibile in fabbrica, nel cortile. Gli attivisti sindacali prendono nota: Adriano Sandri, un italiano che lavorava alla Fiat in Brasile, scriveva a Buzzigoli per informarlo che i telefoni erano monitorati e che il capo della sorveglianza teneva traccia delle chiamate relative al sindacato. Un’altra tattica della Fiat era di dare ai dipendenti l’opportunità di raccomandare nuovi assunti, rendendoli così responsabili della condotta delle persone che prendevano. I lavoratori ritenuti pericolosi dalla Fiat venivano arrestati con un pretesto, in genere accusati di aver rubato utensili, e poi licenziati.
L’intelligence sulle attività dei lavoratori si fece strada nel centro di sicurezza della Fiat in due modi: con agenti che facevano il doppio gioco e infiltrati che lavorano per i Dops. La squadra di Klein reclutava agenti tra i sospettati di sovversione. Venivano portati nella stanza della sicurezza della Fiat e veniva loro promessa una promozione o maggior stabilità professionale. In cambio si fingevano alleati con i sindacalisti, per poi spiarli.
Gli infiltrati circolavano all’interno dell’azienda, raccogliendo informazioni dai dipendenti e alle riunioni sindacali, dentro e fuori della fabbrica. Avevano divise sempre pulite, senza macchie, neanche di grasso, e non parlavano con gli altri colleghi. All’inizio passarono inosservati. Poi i lavoratori cominciarono a individuarli: “Camminano a coppie, indossando le uniformi verdi della squadra di controllo qualità, che permetteva loro di accedere a tutte le aree della fabbrica”, dice Antônio Luiz Vasco, che lavorò alla Fiat dal 1978 all’82. “Ma i veri membri del controllo qualità non sapevano chi fossero. E il fatto che avessero divise sempre immacolate era strano”.
Fiat inoltre monitorava da vicino le riunioni dei lavoratori. Intercept Brasile ha scoperto negli archivi pubblici di Minias Gerais un documento su carta intestata dell’azienda con dettagli sulle operazioni di sorveglianza di Fiat sull’attività sindacale. Il documento del 19 aprile 1979 riportava le osservazioni di un ex dipendente, Enilton Simões, al gruppo di lavoratori. A un certo punto chiedeva se i dipendenti della Fiat presenti potessero spiegare come la Polizia Militare operava nella fabbrica. Si legge: “Parlando a nome del sindacato di Betim, chiese se c’era ‘qualche rappresentante dei lavoratori Fiat che può riferire come i dipendenti vengono trattati dalla polizia nella fabbrica?'”.
L’operazione di spionaggio di Fiat in Brasile andò in parallelo con quanto accadeva in Italia durante gli “Anni di piombo” e che si legge negli archivi della Fiat a Torino e del Tribunale di Napoli. A rivelare il sistema di monitoraggio fu l’inchiesta sulle schedature Fiat dell’agosto 1970, condotta dal procuratore Raffaele Guariniello. Dalla perquisizione fatta nella Fiat emersero circa 350mila schede con informazioni sulla vita privata dei lavoratori, inclusi dettagli intimi, raccolti da spie guidate da un ex agente segreto, che operavano per l’azienda. Le informazioni servivano alla Fiat per identificare i capi sindacali legati agli scioperi. Anni dopo la fine delle indagini, alcuni funzionari pubblici e dirigenti della Fiat vennero condannati (reati poi prescritti in appello). Molti dettagli vennero alla luce, ma la storia dello spionaggio italiano è rimasta incompleta.
Una volta chiuso il caso gli archivi del tribunale di Napoli, dove erano conservati i fascicoli, chiesero alla Fiat di riprendersi i 150mila documenti, la metà del totale. L’ufficio archivi nel tribunale ha riferito che non aveva spazio per archiviare tutti i documenti e non è chiaro che fine abbiano fatto. Intercept Brasile ha esaminato quel che resta dei fascicoli di Napoli, dove sono stati trovati alcuni fogli lasciati dalla Fiat. Uno dei documenti trovati è quello su Salvatore B., che viene descritto così: “Singolo, apolitico, vive in affitto in un modesto appartamento con la sorella, anch’ella single, è un lavoratore con una buona condotta morale e civica”. Salvatore era considerato “adatto” a lavorare nello stabilimento di Torino.
Un’altra scheda descrive invece Carlo C., considerato “sovversivo”, nonostante non avesse precedenti e avesse una buona condotta morale e civica.
Non è chiaro se la portata dello spionaggio di Fiat sui lavoratori in Brasile abbia mai eguagliato quello sugli operai italiani. Non sono emerse schede del personale approfondite su un gran numero di dipendenti. Se lo spionaggio italiano ha avuto un’appendice in Sud America, forse i documenti sono stati bruciati, come è capitato a molte carte per spegnere i riflettori sui giorni bui della dittatura militare. Alla richiesta di chiarimenti, la società ha risposto di non avere più memoria e documenti sugli eventi di quel periodo.
Il Papa: “Pedofilia mostruosa”. Ma le vittime: “Solo parole”
Il vertice sulla protezione dei minori nella Chiesa si è chiuso, ma il lavoro è appena iniziato. Per dare l’esempio, il Vaticano si doterà di una legge di contrasto alla pedofilia valida per il territorio dello Stato Città e per la Curia, quindi anche per il personale diplomatico in forza all’estero. La legge, che sarà presentata a breve, accompagnerà un Motu Proprio del Papa e delle Linee guida per il Vicariato della Città del Vaticano.
Dice papa Francesco: “Vogliamo che tutte le attività e i luoghi della Chiesa siano sempre pienamente sicuri per i minori; che si prendano tutte le misure possibili perché simili crimini non si ripetano”. Il Papa ha chiuso il summit con un discorso duro: “Ogni abuso è una mostruosità. Nessuno abuso deve essere coperto, come era abitudine”. Le vittime, però, che si aspettavano un cambiamento nella Chiesa, non sono soddisfatte: “Nelle parole del Papa, il Vaticano si ritiene vittima. Allora si costituisca parte civile nei tribunali contro i preti pedofili, non li copra”. dice Francesco Zanardi, presidente di Rete l’Abuso.
“Vogliono dei pm governativi che non disturbino la Casta”
Dottor Sebastiano Ardita, ha notato? Bastano un paio di iniziative giudiziarie “eccellenti” in pochi giorni (dalla condanna di Formigoni all’arresto dei genitori di Renzi), e subito i partiti tornano a parlare di separazione della carriere. Dal suo osservatorio del Csm, che idea s’è fatto?
Quello di separare le carriere di pm e giudici è diventato uno slogan per reagire alle iniziative giudiziarie. Ma, secondo me, non ci crede più nemmeno chi se ne fa portatore. Oppure non ne capisce nemmeno il significato. Il giudice fonda tutto sui dati processuali e sulla sua coscienza: che il pm abbia una carriera formalmente analoga alla sua è del tutto irrilevante.
Che conseguenze avrebbe separare le carriere?
La separazione delle carriere di fatto l’ha già prevista la legge di ordinamento giudiziario del 2007, firmata dall’allora ministro del centrosinistra Mastella con qualche modifica alla precedente legge delega del suo collega di centrodestra Castelli: se vuoi passare da pm a giudice devi cambiare regione e, se vuoi tornare pm, puoi dimenticarti di fare carriera, perché perdi anni di specificità e dunque titoli. Ormai, togliendo quelli di prima nomina o inviati nelle sedi disagiate, cambia funzioni meno di un magistrato su dieci.
E dunque perchè la vogliono quasi tutti?
La separazione giuridica ha un senso solo se si vuol mettere le mani sulla indipendenza del pm, assoggettandolo al potere esecutivo, cioè al governo. Altrimenti l’unico effetto sarebbe quello di accentuare la vocazione poliziesca del pm, sganciandolo dalla cultura della giurisdizione, fondata sulla ricerca della verità. Insomma se il timore, come si sente dire, sarebbero le iniziative giudiziarie “avventate” – e francamente ne vedo sempre meno – con un pm ancora più indipendente e autoreferenziale l’unico effetto sarebbe quello di moltiplicarle. A meno che il pm non sia controllato dalla politica…
La separazione della carriere è il minimo comun denominatore che unisce tutto il peggio della storia repubblicana: da Gelli a Craxi, da Berlusconi alla Bicamerale di D’Alema. Perchè?
Il fine ultimo è quello di far cadere un limite costituzionale all’esercizio del potere pubblico, ponendo forme di controllo sul pm. Se è per questo, tempo fa è stato anche proposto di togliere al pm ogni iniziativa investigativa (affidata alle forze dell’ordine, dipendenti dal governo), e pure l’esercizio della azione penale, relegando la sua funzione a quella di semplice rappresentate dell’accusa in udienza. Un metodo più sbrigativo, per cui non è necessario neppure separare le carriere. In passato il controllo politico del pm fu un caposaldo del “Piano di rinascita” della P2: già sotto il fascismo i pm erano funzionari sottoposti al Guardasigilli. È una riforma che piace a tutti coloro che non gradiscono che qualcuno disturbi il manovratore.
Non c’è il rischio che, in una magistratura sempre più “genuflessa” – come dice il suo amico e collega Davigo – questa controriforma possa raccogliere consensi?
Consenso culturale non ce ne può essere. Ma è pur vero che chi vuole una magistratura meno libera potrebbe far leva sugli effetti distorti del nuovo ordinamento giudiziario del 2007 che – moltiplicando gli obblighi formali e disciplinari – ha reso ingestibile la vita di chi ha migliaia di procedimenti sul “ruolo”. Dunque anche noi dobbiamo fare la nostra parte. Spetta al Csm non opprimere i magistrati valorosi e anzi garantire loro serenità e indipendenza. Invece va mantenuta la massima severità verso chi offende il decoro della funzione. Insomma occorre impedire che i magistrati siano posti dinanzi all’alternativa tra il rigore cieco del loro autogoverno e la dipendenza da un potere esterno, magari accondiscendente e generoso con una categoria che si “comporta bene” e non disturba il manovratore.
Diversamente dai tempi di Gelli, Craxi e B., la separazione delle carriere raccoglie consensi politici trasversali: dalle Camere penali a Forza Italia, da Salvini alla mozione Martina del Pd. Cos’è cambiato?
Molte cose. Un tempo, col sistema proporzionale, l’indipendenza della magistratura era difesa dalle opposizioni politiche, ma è anche vero che la maggioranza fu per oltre 40 anni quasi sempre dello stesso colore. Evidentemente, con il maggioritario e l’alternanza, le cose sono cambiate e pressoché tutti avvertono la stessa esigenza di porre un freno alla attività dei magistrati. Eppure nei miei nove anni di direzione dell’Ufficio detenuti del ministero della Giustizia, ho visto ben pochi colletti bianchi e “vip” che varcassero le soglie del carcere: si possono contare sulle dita di una mano…
Zedda insegue Solinas. Il M5S scivola sotto il 20%
Lo spoglio delle schede è iniziato solo questa mattina alle 7. Dunque, quando andiamo in stampa, a parlare sono gli exit poll. Che ricalcano in buona parte i sondaggi pubblicati nelle ultime settimane: il candidato del centrodestra è avanti, tra il 37 e il 41 per cento dei voti, ma quello del centrosinistra lo insegue a brevissima distanza (36-40 per cento), mentre i 5 Stelle restano lontanissimi dal podio, nettamente sotto al 20 per cento.
Con tutti i condizionali del caso, se lo scrutinio confermerà i dati raccolti dagli elettori fuori dai seggi, come l’Abruzzo anche la Sardegna premia il centrodestra, ma non come sperava il ministro dell’Interno, che ha passato gli ultimi dieci giorni tra Cagliari e Sassari, “scortando” in ogni dove il candidato presidente. A Christian Solinas solo l’ultimo giorno di campagna elettorale è stata concessa una mezz’ora di comizio tutta per sé. Al suo esordio alle regionali sull’isola, la Lega – che alle Politiche aveva preso quasi l’11 per cento – si attesterebbe tra il 12 e il 16. Va bene la coalizione (11 liste tra cui il Partito sardo d’Azione, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Udc) che avrebbe raccolto tra il 42 e il 46 per cento dei voti; va meno bene Solinas, fermo 5 punti percentuali più in basso. Esattamente il contrario di quello che accade a Massimo Zedda, il sindaco “arancione” di Cagliari: lui – sempre secondo gli exit poll – porta a casa un risultato personale altissimo, tra il 36 e il 40 per cento, quasi dieci punti sopra le 8 liste del centrosinistra che lo sostenevano: Pd, Leu, Campo Progressista e altre cinque civiche non vanno oltre il 28-32 per cento.
Un fatto che si verificò, seppur in dimensioni ridotte, anche nel 2014: il candidato del centrosinistra Francesco Pigliaru divenne governatore grazie ai 20 mila voti di vantaggio su Ugo Cappellacci, ma anche allora le liste del centrodestra avevano preso l’1,5 per cento di preferenze in più, senza riuscire però ad ottenere il premio di maggioranza che è legato alla percentuale di voti del presidente eletto.
Il sistema elettorale sardo prevede il voto disgiunto: è possibile, dunque, che una fetta di elettori abbia messo la croce sopra Zedda ma abbia poi preferito sostenere una lista differente. Difficile fosse quella dei Cinque Stelle: il Movimento esce con le ossa rotte anche da questa competizione regionale. La forbice degli exit poll è tra il 14 e il 18 per cento. Francesco Desogus tira ancora meno e prende tra il 13 e il 17 per cento dei voti.
Il paragone con le precedenti elezioni regionali non si può fare: nel 2014, i Cinque Stelle nemmeno si presentarono. Ma il confronto con le politiche di un anno fa è impietoso: in Sardegna, il M5S aveva toccato quota 42,5, in linea con il boom di Luigi Di Maio nel Sud Italia che gli consegnò tra il 40 e il 50 per cento dei voti. La difesa del vicepremier è assai prevedibile: alle amministrative il Movimento non sfonda mai, la competizione con le coalizioni è persa in partenza (ragion per cui, nelle nuove regole allo studio dei 5 Stelle, c’è l’apparentamento con le liste civiche), il sorpasso della Lega, a differenza dell’Abruzzo, qui non c’è stato. Off the record, nei giorni scorsi il Movimento azzardava previsioni in Sardegna vicine al 10 per cento. Di certo non ha pagato la pessima figura del velista scelto come “bandiera” M5S sull’isola – quell’Andrea Mura costretto alle dimissioni per aver ammesso che lui, politica, la faceva dalla barca e non in Parlamento – né la “caduta” del candidato governatore Mario Puddu, costretto a ritirarsi per una condanna per abuso d’ufficio.
Ma mi faccia il piacere
I pronipoti di Mubarak. “Berlusconi: ‘Grillini peggio dei bambini dell’asilo’” (il Giornale, 18.2). Quindi le grilline gli piacciono.
Tucidide. “Chi parteciperà domani alla votazione su #Rousseau si sentirà per un attimo senatore della sua Repubblica. Si sentirà Stato, si sentirà elettore ed eletto, parte delle Istituzioni e ne avvertirà tutto il peso e l’emozione. Domani scriveremo insieme un’altra pagina di democrazia” (Ettore Licheri, senatore M5S, poco prima del voto degli iscritti sul processo a Salvini, Twitter, 17.2). Ecco: ora che l’hai scritta, cancellala ché è meglio.
Renxi. “Caro Renzi, ti sono vicina, ma chiudi con questa sinistra manettara” (Stefania Craxi, Il Dubbio, 20.2). Sono soddisfazioni.
Di male in peggio. “Tiziano Renzi: ‘La verità verrà fuori’” (Corriere della sera, 21.2). Sicuro che ti convenga?
Golpe suo. “Prima un vero e proprio colpo di Stato per farlo fuori da Palazzo Chigi. Ora, addirittura, vengono arrestati i suoi genitori. Vicende che fanno paura, indegne di un paese civile. Ha provato a cambiare davvero le cose, vogliono fermarlo ad ogni costo. #siamotuttiMatteoRenzi” (Luciano Nobili, deputato Pd, Twitter, 18.2). Uahahahahahahah.
Emile Petrucciolì. “Non mi sembra una esagerazione cominciare a fare un parallelo fra #affaireDreyfus e quello che si può ormai definire #AffareRenzi. E forse si può sperare che ci sia anche oggi un #EmileZola che scriva un #Jaccuse” (Claudio Petruccioli, ex parlamentare Pci-Pds-Ds, ex presidente Rai, Twitter, 20.2). Tranquillo, l’hanno già scritto i giudici di Firenze: per ora può bastare.
Testa di Lavia. “Renzi dovrebbe dire ai suoi le parole di Togliatti dopo l’attentato: ‘Non perdete la testa’” (Mario Lavia, vicedirettore di Democratica, organo online del Pd, Twitter, 19.2). Il problema sarà trovarne una.
Citofonare Massimo. “Riaprire le case chiuse è una buona idea? La Lega ci riprova: c’è il disegno di legge! Che ne pensi?” (Massimo Bitonci, Lega, sottosegretario Economia e Finanze, Twitter, 11.2). Ma certo, è ottima: purchè la inauguri lui in veste di maitresse.
Cavour Sì Tav. “Traforo del Fréjus, così Cavour vinse la battaglia per la Tav dell’800” (La Stampa, 18.2). Ma non vi fate ridere da soli?
È tornato. “Un gruppo di pensionati sardi di recente ha visitato il mio parco a villa Certosa. Nell’area delle 120 piante medicinali, uno di loro ha scoperto in un riquadro un cartello con la scritta ‘Viagra’. Alla fine hanno lasciato il terreno nudo: hanno mangiato tutte le foglie o se le sono portate via! Ora ne va ordinato dell’altro… Caro Solinas, te lo volevo dire: se per caso ci vai, non mangiare Viagra, ti regalo io le pillole che ho… Bene, ho detto due cazzate, ora vai avanti tu!” (Silvio Berlusconi, presidente FI, in campagna elettorale per le Regionali in Sardegna, 20.2). Sicuro che le piante non fossero di marijuana?
Il listino. “Da Bonino a Pizzarotti (e i Verdi). La trattativa di Calenda oltre il Pd. Listone alle Europee, la rete dell’ex ministro” (Corriere della sera, 18.2). Quindi ha deciso ufficialmente di entrare in clandestinità.
Bongiorno a tutti. “Sì, è vero, sono stata io a consigliare a Salvini di non rinunciare all’immunità per il caso Diciotti. Matteo rischiava dieci anni di processo. Ma sarebbe finito con l’assoluzione” (Giulia Bongiorno, Lega, avvocato e ministro della Pubblica amministrazione, Corriere della sera, 21.2). Certo, come no: chi sa che verrà assolto chiede l’immunità, furbo lui.
Vietato ai Minoli. “Fazio non serve e guadagna troppo” (Giovanni Minoli, Libero, 18.2). Lui invece, notoriamente, alla Rai lavorava gratis.
Il titolo della settimana/1. “Le persone che ruttano troppo è bene che vadano dal medico” (Libero, 19.2). Ora pure Libero si mette ad attaccare Salvini: non c’è più religione.
Il titolo della settimana/2. “Assessore di Zaia e sindaco di Verona aderiscono all’appello Sì Tav” (Il Foglio, 19.2). Apperò.
Il titolo della settimana/3. “Reddito di cittadinanza, 800 mila beneficiari non lavoreranno mai” (il Giornale, 18.2). Il che , a pensarci bene, è davvero bizzarro per una misura studiata per i disoccupati.