Violante, che cambiò idea su tutto e ora ambisce al Quirinale

Anche se non sembra al primo sguardo, Luciano Violante è autore di testi folgoranti, qualche volta poetici, quando lo ispirano le montagne sopra di lui, a Cogne. Più spesso politici, quando a stimolarlo sono le poltrone sotto di lui, a Roma. Testi che di stagione in stagione, di ravvedimento in ravvedimento, recita con l’intensità e i tempi di una commedia italiana esemplare, la sua.

Dai remoti esordi di magistrato duro e puro, ha scalato mezzo secolo di politica diventata soffice come gomma piuma – con tanto di allori, infortuni, e appassionanti giravolte – per finire tra gli acciai della Fondazione Leonardo, emanazione della nostra più prestigiosa fabbrica di armi e relazioni internazionali, che passano talvolta per l’inconveniente dei bombardamenti umanitari, purtroppo rumorosi. Al netto dei quali lui personalmente organizza eleganti convegni con luci adeguate e coffee-break, dove non si parla delle molte macellerie in corso, dal Medio Oriente all’Africa, ma “di favorire il dialogo con la società civile”, spiegando i benefici della Difesa che è “tecnologia per il bene comune”.

Il suo bene personale, suonati gli ottant’anni di carriera esistenziale, punta a due vette, quella domestica del Gran Paradiso, se mai si ritirerà in pensione. O quella assai più alta, la cima del Colle. Dove sedersi fino a quando in pensione ci andremo noi.

Nacque sfortunato, Luciano Violante, nel campo di prigionia inglese di Dire Daua, Etiopia, anno 1941, impero coloniale dell’Italietta già in sfacelo. Rientra con la madre in Italia, a Rutigliano, provincia di Bari, il padre, giornalista comunista, arriverà solo nel 1946. Si laurea in Giurisprudenza, diventa assistente di Aldo Moro in università e militante togliattiano in casa. Primo incarico, Giudice Istruttore a Torino, anno 1968. Prima condanna, quella di un ragazzo che ha dato del fesso a un vigile urbano. Cosa che oggi lo farebbe inorridire, ma all’epoca fa curriculum.

Si specializza in inchieste sul terrorismo rosso e nero. Ma sarà il cosiddetto “golpe bianco” di Edgardo Sogno a lanciarlo nella piena risonanza mediatica. Edgardo Sogno è un personaggio di molti romanzi in proprio, nobile, monarchico, franchista in Spagna e antifascista clandestino in Italia – guiderà l’evasione dal carcere di Ferruccio Parri – in tempo di pace polemista senza pace, giornalista, carriera diplomatica in mezzo mondo. Violante lo accusa di preparare il colpo di Stato. Lo indaga. Nel 1976 lo arresta. Due anni dopo le prove non reggono, l’inchiesta va in fumo. Ma intanto Violante ha conquistato le prime pagine dei giornali e delle polemiche. Cosa che oggi lo farebbe inorridire, ma all’epoca fa curriculum.

Al punto che il Pci lo candida alle elezioni politiche del 1979, bye bye magistratura. Entra trionfale alla Camera dei deputati, dove rimarrà per sei legislatura, 29 anni filati, un record che si gioca con il capocannoniere Mastella. In pieni Anni di Piombo diventa membro della Sezione Problemi dello Stato, delfino di Ugo Pecchioli, eminenza grigia del Pci, canale di collegamento con il generale Carlo Alberto dalla Chiesa nella lotta alle Brigate Rosse, gestendo infiltrati e controinformazione nelle fabbriche.

Si impegna nell’antimafia dalla parte sbagliata, anche se lui crede a fin di bene: fa la guerra a Falcone che dopo il Maxiprocesso a Cosa Nostra si ritrova isolato tra i corvi della Procura di Palermo, accusato di protagonismo e di non inquisire Andreotti. Salvo santificarlo subito dopo il boato di Capaci, come tutti, e conquistare, un mese dopo, la presidenza della Commissione Antimafia.

Quando scoppia Mani Pulite, cavalca l’onda, più di tutti. Cossiga lo battezza “il piccolo Vishinskj”, il giudice dei processi staliniani. Diventa la bestia nera dei socialisti e dei democristiani inquisiti, addirittura il capo del partito dei magistrati giustizialisti. Lui replica indignato: “Il partito dei magistrati non esiste. Esiste invece quello degli imputati eccellenti, capeggiato da Craxi e da un pezzo di classe politica abituata all’impunità”. Quando Berlusconi scende in campo, anno 1994, annuncia battaglia contro il “giro mafioso” che lo sostiene, definisce Forza Italia “un manipolo di piduisti”. E siccome gli piace vantarsi di saperla lunga, rivela a mezzo stampa che “esiste una inchiesta a Palermo su Dell’Utri”. Ecco il complotto delle toghe rosse, strilla Silvio B. che vince alla grande le elezioni, mentre Vishinskj deve dimettersi dall’Antimafia.

Visto che non paga, Violante si dimette anche da soldato dell’intransigenza per trasformarsi in “uomo del dialogo”. Dice che con le inchieste forse si è esagerato e che Craxi non è solo un latitante. Funziona. Al punto che due anni dopo, 1996, viene eletto presidente della Camera, dove esordisce con l’entusiasmo del neofita, chiedendo di riconoscere sempre le ragioni degli avversari, comprese quelle “dei ragazzi di Salò”. Che poi sarebbero i patrioti che con le SS tedesche bruciavano i paesi italiani e impiccavano ai lampioni i partigiani. Seguono polemiche, applausi, fuochi d’artificio. Ma specialmente segue la celebre Bicamerale per le riforme costituzionali condivise, dove sinistra e destra promettono la riconciliazione sotto il magistero di D’Alema e Berlusconi. Il quale, istruito dalla politica degli affari, rovescia il tavolo al momento opportuno e si prende il banco. Violante regala precetti al nuovo corso: “Mani Pulite è stata una stagione giacobina”, “Craxi un capro espiatorio”. E poi: “Esistono giudici che hanno costruito le loro carriere sul consenso popolare”. Stigmatizza, da reduce, l’“intreccio malato” tra giornalisti e pm. Conferma a Silvio B, in un celebre intervento alla Camera nel 2002 “che lui sa per certo che gli è stata data la garanzia piena, non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo, che non sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta”. Con il quale, siamo nel 2008, apre la sua riconciliante fondazione bipartisan, “Italiadecide”, dove non si decide un bel nulla, ma si intagliano idee di palissandro, grazie alla liberalità dei finanziatori coinvolti, non le masse popolari, ma Eni, Enel, Autostrade, Banca Intesa, Terna, Poste italiane, Unicredit e naturalmente Leonardo. Mondo di massima eleganza, dove Violante, che veste abiti su misura e cena d’abitudine in terrazza con vista sui Fori Imperiali, si trova come un’acciuga nel burro.

A coronare oggi la sua metamorfosi arrivano gli elogi di destra, sinistra, centro. Gli inviti quotidiani di Mediaset. I complimenti di Dell’Utri: “Anche lui può redimersi”. Regalo magari inaspettato, ma mai restituito.

Stoccaggio di Co2, la lettera di 51 ricercatori. “I 150 mln a Eni? Accanimento terapeutico”

“Un doloroso e insensato accanimento terapeutico”. L’inganno che si celerebbe dietro il maxi deposito di stoccaggio di CO2 di Eni nell’Adriatico è stato definito in questi termini domenica da 51 luminari, in una lettera aperta inviata a Sergio Mattarella e Mario Draghi. La missiva riunisce accademici provenienti da tutta Italia e alcuni ricercatori delle Agenzie regionali per la tutela ambientale e del Cnr. A farli insorgere è la notizia che il Fondo per la transizione industriale da 150 milioni, approvato in legge di Bilancio e istituto presso il ministero dello Sviluppo, verrà destinato al Cane a sei zampe. Dal dicastero nessuna smentita. Col paravento della portata tecnologica del progetto CCUS (Carbon Capture Use and Storage) di uso e stoccaggio della CO2 – secondo i firmatari – si sta costruendo “un alibi straordinario per continuare a produrre anidride carbonica contribuendo all’attuale trend di crescita esponenziale del disastro ambientale”.

Eni punta al pompaggio della CO2 liquida nei giacimenti di gas esauriti a Porto Corsini nel Ravennate. L’obiettivo è produrre idrogeno dal metano. Gli scienziati hanno ricordato che la stessa Commissione Ue ha bocciato questo tipo di prospettiva: non gioverà alla riduzione delle emissioni, anzi consentirà di “mantenere lo status quo di utilizzo del gas naturale”. I colossi petroliferi sono responsabili del 75% delle emissioni di gas serra dell’Ue. “È socialmente accettabile – scrivono i 51 al capo dello Stato e al premier – che siano proprio le vittime delle emissioni di gas climalteranti a dover risarcire i ‘carnefici’, già abbondantemente assistiti con 19 miliardi di euro l’anno di Sussidi ambientalmente dannosi, sopportando per una seconda volta il costo dell’abbattimento della CO2?”. In ballo c’è anche il rischio che così si garantisca lunga vita al consumo di gas fino al “punto di non ritorno” fissato al 2050. Tutto per produrre da fonti fossili idrogeno blu. Senza peraltro adempiere alle “costosissime attività di ripristino ambientale: dai 15 ai 30 milioni di euro per singola piattaforma”. Eni di piattaforme in mare ne ha 138 e già dal 2008 punta ai pozzi esauriti. “In un Paese in cui la partita energetica la giocano in pochi (Eni, Snam, Terna ed Enel), con il placet di governo, Parlamento, Arera, Autorità per la concorrenza e Cassa Depositi e Prestiti – concludono gli scienziati – […] il CCUS si candida ad essere una comoda scorciatoia”. A beneficio di pochi e a danno della collettività.

Ex Ilva: nel piano meno emissioni, ma anche più Cig

Dieci anni e 4,7 miliardi di investimenti per decarbonizzare l’ex Ilva con i forni elettrici e l’idrogeno, ma anche con ampio ricorso alla cassa integrazione, per arrivare a produrre 8 milioni di tonnellate nel 2025, tagliando del 40% le emissioni di CO2 e del 30% le polveri sottili. Sono i punti salienti del piano presentato ieri dall’ad di Acciaierie d’Italia, Lucia Morselli, al ministro Giancarlo Giorgetti, ai presidenti di Liguria e Puglia, a Invitalia e ai sindacati.

“Il piano è realistico, ma non semplice. Passaggio all’idrogeno e gestione occupazionale hanno bisogno di tempo”, ha commentato Giorgetti. Preoccupati i sindacati: “È un’ipotesi di percorso piena di condizioni più che un piano industriale: se l’impianto sarà dissequestrato, se ci sarà disponibilità finanziaria… Vogliamo capire cosa succede tra due mesi, ma anche due-tre anni”, ha spiegato la segretaria Fiom Francesca Re David. “Purtroppo siamo ancora agli annunci, 10 anni sono un’eternità. Serve un confronto di merito”, ha ribadito il segretario Uilm, Rocco Palombella.

Riforma del Csm, i magistrati in subbuglio “La Cartabia favorisce correnti e potentati”

Tutte (quasi) le correnti dei magistrati contro l’ipotesi di riforma della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che ha pensato una nuova legge elettorale per il Csm, il “maggioritario binominale”: collegio unico nazionale per i togati di legittimità, due consiglieri di Cassazione; 2 collegi per eleggere 4 togati in quota pm; 4 collegi per eleggere 10 togati in quota giudici di merito. Per ogni “partita” ci devono essere almeno 16 candidati, se non ci sono, si sorteggiano. Per Area, Autonomia e Indipendenza e Unicost è un meccanismo che premia la correntocrazia e penalizza candidature indipendenti. Articolo 101, unico gruppo non in Giunta Anm, da sempre è schierata per il sorteggio, che, ha detto il procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho, sarebbe l’unica scelta da adottare. Apprezza l’ipotesi Cartabia solo Magistratura Indipendente, che ha vinto le recenti elezioni per il rinnovo di alcune sezioni distrettuali dell’Anm.

Secondo Area, la corrente progressista, “la linea di intervento ministeriale perpetra dinamiche di sostanziale designazione degli eletti da parte delle correnti o dei potentati locali. Tanto che il sistema prevede, per compensare questo maleficio, un irrazionale sorteggio di candidati al fine di ampliare la rosa”. La pensa così anche Autonomia e Indipendenza: “Si tratterebbe di modifiche non risolutive né delle indebite ingerenze politico-correntizie nelle nomine dei procuratori, emerse con lo scandalo dell’Hotel Champagne, né della corsa agli incarichi direttivi generata dalla precedente riforma, che ha incrementato il carrierismo”. Ci sarà “una sorta di bipolarismo giudiziario destinato a ideologizzare la magistratura e a renderla definitivamente subalterna ai gruppi politici”, Concorda Unicost, decimata dal caso Palamara, l’ex magistrato che è stato leader della corrente centrista: “Il sistema ideato porterebbe alla formazione di due poli contrapposti, di conseguenza i laici diventerebbero ago della bilancia nelle scelte del Csm”. Ma per Mi, la corrente conservatrice che ha avuto come leader il deputato renziano Cosimo Ferri, coinvolto nello scandalo nomine, la proposta “prevede meccanismi di voto che non si prestano ad accordi opachi tra correnti e garantiscono un adeguato numero di candidati”. A dirlo è il segretario Angelo Piraino, che si riserva, però, un giudizio definitivo quando ci sarà un testo: “I dettagli possono fare la differenza”.

“Talon Avil”: il nucleo segreto per colpire l’Isis faceva strage di civili

Secondo le rivelazioni del quotidiano americano New York Times, la squadra speciale delle forze armate Usa denominata Talon Avil, di cui in pochi conoscevano l’esistenza, durante la guerra all’Isis non ha colpito solo gli estremisti islamici, ma molti civili, senza alcun riguardo per donne e bambini. Droni armati ed esplosivi sono stati usati eludendo le procedure standard dal 2014 al 2019 dalla cellula formata dall’intelligence a stelle e strisce. Su questo gruppo operativo negli anni più duri della lotta allo Stato Islamico, qualche settimana fa, ha ordinato un’inchiesta il nuovo capo del Pentagono Lloyd Austin, che voleva far luce in particolare sul letale incidente avvenuto a Baghuz il 18 marzo 2019: una tragedia in cui hanno perso la vita 80 civili, tra cui donne e bambini, ma su cui l’Amministrazione Trump si è sempre rifiutata di indagare. Composto da 20 unità attive ma non ufficialmente esistenti, il gruppo pilotava i suoi micidiali droni verso i bersagli indicati dalla Delta Force, le forze speciali che a terra stabilivano gli obiettivi. Spesso, però, nei loro mirini finiva anche chi non aveva alcun legame con lo Stato Islamico: hanno perso la vita nel corso di queste operazioni decine di bambini, donne e altri civili che scappavano da guerra, bombardamenti e terrore dei miliziani dell’Isis.

Presidenziali, si naviga a vista: la lista ufficiale dei candidati non c’è

Mentre si avvicina il 24 dicembre, si allontana la probabilità che la Libia vada al voto in questa data suggerita l’anno scorso dalla roadmap dell’Onu e ribadita un mese fa a Parigi al termine della conferenza indetta dall’Eliseo con Italia e Germania. I motivi per cui difficilmente si terranno le elezioni presidenziali la vigilia di Natale sono quelli per cui la Libia è rimasta una nazione destabilizzata nonostante il cessate il fuoco tra le forze della Cirenaica guidate da Khalifa Haftar e quelle di Tripoli (queste ultime riconosciute con il governo di transizione dalle Nazioni Unite, ndr) scattato l’anno scorso. Se sullo sfondo, ma non per questo meno importante, rimangono i problemi relativi alla distribuzione dei proventi del greggio da parte della Banca centrale; l’assimilazione di entrambi gli eserciti in uno nazionale; la fuoriuscita dei mercenari russi della Wagner e delle armi egiziane ed emiratine a sostegno di Haftar e di quelli inviati dalla Turchia per aiutare il governo di Tripoli, per fare alcuni esempi, altri se ne sono aggiunti in queste ultime settimane. L’Alta Commissione elettorale nazionale libica (Hnec) ha annunciato ieri il rinvio sine die della pubblicazione della lista definitiva dei candidati presidenziali. L’Hnec aveva chiuso ieri la registrazione delle candidature per le elezioni presidenziali dopo che oltre 80 candidati avevano presentato i documenti.

Solo nella giornata di ieri avevano esposto la propria candidatura ben 14 persone, tra uomini d’affari rientrati da poco in Libia dopo anni di auto esilio per paura dei propri scheletri nell’armadio collezionati durante l’era Gheddafi. L’ultimo degli aspiranti presidenti della Repubblica a registrarsi è stato Sulaiman Al-Buwaidi, presso un ufficio Hnec di Tripoli. L’Hnec ha rinviato la conferenza stampa finale citando l’ingombrante numero di candidati l’ultimo giorno di registrazione. Di conseguenza la campagna elettorale avviene in modo dimezzato e senza punti fermi. Vale la pena ricordare che anche l’attuale primo ministro ad interim Abdul-Hamid Dbeibah ha presentato la propria candidatura alle elezioni presidenziali nonostante le molte riserve su questa mossa da parte di diversi partiti. Dbeibah per essere nominato premier di transizione dovette rinunciare alla prospettiva di candidarsi alle elezioni, ma come sempre in Libia, le promesse non valgono. Nel frattempo l’Alto consiglio di Stato (Hsc), una sorta di Senato, con sede a Tripoli che fa da contrappeso al Parlamento di Tobruk ha proposto di far svolgere le Presidenziali in contemporanea con le Legislative a febbraio, con un sistema di liste composte da un candidato presidente, due vice e un premier. L’equivalente del Senato ha suggerito che il voto presidenziale dovrebbe tenersi più avanti per evitare di minacciare ulteriormente la transizione politica del Paese. “Portare avanti le elezioni presidenziali senza alcuna norma costituzionale o legale formale, con una legge elettorale decisa unilateralmente dal presidente del Parlamento, Aqila Saleh, a sua volta candidatosi alle Presidenziali, in mezzo a tensione, sfiducia tra gli attori (libici) e interferenze straniere, potrebbe distruggere l’intero processo politico”, si legge in una nota. Omar Boshah, primo vicepresidente del Consiglio, ha detto ai giornalisti a Tripoli che se il voto si terrà comunque il 24 dicembre, “i risultati non saranno accettati”. A ottobre il Parlamento di Tobruk aveva deciso che il voto legislativo era stato posticipato dal 24 dicembre a gennaio.

Ma la missione delle Nazioni Unite in Libia ha esortato i leader a rispettare la data di dicembre. Il Consiglio dopo aver indicato febbraio per le parlamentari ha detto che il primo compito degli eletti sarebbe quello di redigere una nuova costituzione, la prima da quando il dittatore Muhammar Gheddafi annullò l’ultima nel lontano 1969. Proprio la candidatura del figlio, Saif-al Islam Gheddafi, prima bocciata quindi accettata in appello ha già screditato di per sé il processo elettorale essendo il rampollo ricercato dalla Corte Penale Internazionale dell’Aja per crimini contro l’umanità. L’ex membro del Congresso nazionale generale (GNC), Mahmoud Abdulaziz, ha sottolineato che le elezioni del 24 dicembre saranno “letteralmente catastrofiche” se si celebrassero come previsto e non raggiungeranno l’obiettivo. Abdulaziz ha spiegato che il voto non può andare avanti in un ambiente così teso. Dulcis in fundo centinaia di migliaia di persone che non si sono iscritte alle elezioni hanno trovato il proprio nome tra gli elettori. D’altra parte, altri hanno affermato che i propri nomi non sono stati elencati nella registrazione del voto, mentre alcuni sono stati registrati in un seggio elettorale a distanza, lontano dalla regione di residenza. Per finire, vi è il “biglietto di voto fraudolento”, come riportato da molti che hanno confermato che tessere elettorali vengono emesse per persone decedute, mentre alcuni vendono le proprie per poche migliaia di dinari.

Usa, 380 milioni alle ginnaste vittime degli abusi di Nassar

Il comitato Olimpico e la federazione statunitense di ginnastica hanno accettato la proposta di patteggiamento da 380 milioni di dollari presentata da oltre 500 ginnaste, vittime di abusi sessuali per mano di Larry Nassar, medico della nazionale americana dal 1996 al 2017, e condannato nel 2018 a scontare tra i 40 e i 175 anni di carcere. Secondo il Wall Street Journal si tratta di uno dei maggiori risarcimenti per molestie nella storia. A subire violenze anche la nota campionessa olimpica Simone Biles, appena nominata dalla rivista Time sportiva del 2021.

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L’occultamento di Stato su Piazza Fontana

Con giusto rilievo Il Fatto ha dato notizia, con un pezzo a firma di Gianni Barbacetto, della gestione scandalosa dell’anniversario della tragedia di Piazza Fontana da parte della presidente del Senato e del suo ufficio stampa. In prima battuta, viene ospitata sul profilo Twitter del Senato una dichiarazione delirante di due ex senatori ex missini, che rilanciano la pista anarchica allo scopo di occultare l’esecuzione della strage da parte di fascisti veneti, a dispetto di sentenze passate in giudicato. In seconda battuta, interviene la presidente del Senato che attribuisce l’errore al proprio ufficio stampa ma che, accanto ad altre parole condivisibili e scontate riguardo a un evento che è costata la vita a 17 vittime innocenti e indirettamente all’altrettanto innocente Giuseppe Pinelli, evita scrupolosamente di evocare le responsabilità dei fascisti responsabili. Ma vi è di più, molto di più. Nei mesi scorsi, il Senato ha avuto il merito di desecretare gli archivi precedentemente inaccessibili delle commissioni d’inchiesta parlamentari, grazie all’iniziativa della Commissione biblioteca e archivi, presidente il senatore Giovanni Marilotti, protagonista principale di questa esemplare azione a servizio della storia del nostro Paese. Un primo e importantissimo risultato è stato quello di rendere pubblica la testimonianza sulla strage di Paolo Emilio Taviani, non un gauchista sessantottino, bensì ex ministro dell’Interno e della Difesa. Taviani testimoniò che la strage, materialmente compiuta dai fascisti veneti, fu concepita e armata da agenti della Cia e dei servizi segreti italiani; e che, fin dal primo momento, il governo dell’epoca, presieduto da Mariano Rumor, con la collaborazione delle autorità statali nazionali e locali competenti, era al corrente delle responsabilità della strage e concepì, illico et immediate, la pista anarchica per l’assoluta necessità di deviare le indagini e le conseguenti reazioni dell’opinione pubblica. La presidente Casellati, anziché rivendicare il giusto merito a servizio della verità storica del ramo del Parlamento da lei presieduto, ha a sua volta contribuito al suo ulteriore occultamento.

Gian Giacomo Migone

 

Vaccini: troppe certezze alimentano i dubbi

Gran parte degli scienziati scelti per la comunicazione, che abbiamo visto in questi quasi due anni, hanno leggermente peccato di sicurezza quando, ad esempio, prima e senza dubbi hanno affermato che il vaccino sarebbe stato la panacea di tutti i problemi della pandemia salvo poi, dopo qualche mese, uscirsene a dire cose molto diverse, come se fosse normalissimo. Non vi pare che sia anche questo tipo di comunicazione, fatta di certezze che si sgretolano dopo poco, abbia contribuito ai dubbi delle persone sul vaccino, anche fra chi lo ha già ricevuto? Non è che forse, con un po’ più di chiarezza e quindi con meno sicurezze, avremmo potuto evitare perlomeno il diffondersi di teorie cospirazioniste?

Gianluca Pinto

Sì.

M. Trav.

 

Anche con il Green pass non si lavora in sicurezza

Sono un vaccinato con due dosi e quando sarà il momento farò pure la terza, ma allo stesso tempo sono contrario al Green pass nei luoghi di lavoro: trovo assurdo il dover mostrare un documento in questi casi, come se dovessi attraversare la dogana, quando per i primi due anni di pandemia abbiamo lavorato senza vaccino, senza che nessuno controllasse se i protocolli nelle aziende venissero rispettati. Mi ricordo i primi Dpcm, con i codici Ateco delle aziende che dovevano restare chiuse per un lockdown di quindici giorni, perché ritenute non essenziali. Codici che venivano poi modificati a seconda delle pressioni fatte al governo, per evitare lo stop, da parte delle stesse aziende. Ebbene, quegli intellettuali che oggi etichettano i contrari al Green pass sul lavoro come degli squinternati, all’epoca nessuno di loro ha mai sprecato una sola parola perché tali controlli venissero applicati, per salvaguardare la salute collettiva. Voglio ricordare a questi signori che nel nostro Paese, sia prima che durante il Covid, nei luoghi di lavoro muoiono più di mille persone l’anno per incidenti.

Flavio Bondi

 

Alla Scala non è in scena la “volontà del popolo

In termini calcistici lo si definirebbe un pressing a uomo, quello esercitato su Mattarella. I giornaloni sono arrivati a confondere il pubblico conservatore della prima alla Scala di Milano con la maggioranza dei cittadini. E dedurne che gli italiani chiederebbero un “Mattarella bis” che i partiti non dovrebbero sottovalutare. Un’altra forzatura nel tentativo di consolidare l’abitudine indifferente e la disaffezione dalle scelte e quindi dalla partecipazione.

Melquiades

Concorso “Il conservatorio di Trento boccia 28 prof. su 29 senza chiarire”

Caro “Fatto”, sembra di assistere a un remake del monicelliano “Mi dispiace, ma io so’ io, e voi non siete un cazzo”, magistralmente interpretato da Alberto Sordi nei panni del marchese Onofrio del Grillo, quando un conservatorio di musica statale, dinanzi a specifiche richieste di spiegazione da parte di candidati a un bando di docenza, decide di non replicare in alcun modo, di non fornire alcuna motivazione.

Riassumiamo in breve l’accaduto. Ventinove candidati, un unico posto disponibile: questo il bando per la docenza di “Storia del jazz, delle musiche improvvisate e audiotattili” che il conservatorio Bonporti di Trento pubblica lo scorso 2 luglio. Un bando, così come molti altri, per soli titoli di studio, di servizio e culturali-professionali, che nello specifico, data la materia in oggetto, si traducono essenzialmente in pubblicazioni di articoli, saggi, libri, ecc. In data 2 novembre viene pubblicata la prima graduatoria, quella provvisoria: su 29 partecipanti un’unica idoneità. Strano, ma vero: strano perché tra gli esclusi vi sono professionisti che quelle stesse materie le insegnano già in altri conservatori, docenti che arrivano primi o comunque idonei in numerose altre graduatorie; strano per l’incredibile quantità di inidonei, praticamente il 96,6 per cento. Eppure è così: 29 candidati, un’unica idoneità.

Gli esclusi si apprestano dunque a chiedere delucidazioni inviando, ognuno dal proprio indirizzo pec, una email con le medesime domande: quali sono i criteri adottati per la valutazione dei titoli? Perché l’inidoneità di ben 28 candidati? Dal conservatorio di Trento nessuna risposta fino a quando, il 10 dicembre, a più di un mese di distanza dalla graduatoria provvisoria, viene pubblicata quella definitiva: identica alla precedente, un solo idoneo, lo stesso di prima, su 29 candidati. Nuovamente nessuna spiegazione. E meno male che sulla graduatoria definitiva è pure riportata la dicitura “Visti i reclami avversi, la valutazione della Commissione…”, che in totale assenza di qualsivoglia motivazione può tranquillamente tradursi in un “Li abbiamo visti i vostri reclami, ma sapete cosa ce ne facciamo?”. Eppure un conservatorio di musica statale, così come ogni pubblica istituzione, sarebbe tenuto, dinanzi alle richieste dei candidati a un proprio bando di insegnamento, a dare le dovute spiegazioni, a chiarire le proprie scelte, i propri criteri di selezione: o si sono ormai trasformati in enti di natura privata?

Fabrizio Basciano

Omicron: apartheid contro il Sudafrica

Il dubbio che nella gestione della pandemia sia stato commesso “qualche” serio errore, ogni giorno che passa, mentre progrediscono studi e analisi, diventa una certezza. Sebbene si escluda il complottismo, evocato dai soliti amanti di fantapolitica, restano in pochi a credere che, a livello mondiale, si sia trattato solo di casi accidentali o comunque che nessuno li abbia utilizzati a proprio uso e consumo. Il più recente errore, tanto grossolano da apparire poco casuale, è l’immediata chiusura dei confini con il Sudafrica, per la comparsa della variante Omicron. Non è pensabile che i politici occidentali abbiano dimenticato l’inutilità di tale misura nel contenimento della diffusione del virus. Ricordiamo ancora la ridicola chiusura dei confini ai cinesi, che arrivavano comunque usando scali intermedi. Nessuna barriera ha mai funzionato. La limitazione dei viaggi ha dato benefici molto esigui, non sempre così si può dire degli impatti economici. È interessante, in tal senso, la recente pubblicazione sulla rivista Science: The effect of travel restrictions on the spread of the 2019 novel coronavirus (COVID-19) outbreak (L’effetto delle restrizioni di viaggio sulla diffusione della comparsa del nuovo coronavirus Covid 19). Eppure, al primo isolamento di variante Omicron, Ursula von der Leyen si è premurata a proclamare il travel ban (restrizione di viaggio) per il Sudafrica. È legittimo il dubbio che si tratti di un errore: soprattutto quando tale provvedimento resta solo nei confronti di questo Paese, mentre il problema è vissuto da altri 57.

Il virus non è unico, la gestione della pandemia dipende dalle convenienze momentanee, dalle opportunità politiche. Il Sudafrica si sta sviluppando velocemente, dopo la fine dell’apartheid la sua viene considerata un’economia dinamica, motore economico dell’intera Africa australe. Bisogna chiedersi se c’è un interesse internazionale a potenziare un nuovo competitor o, forse, è più utile lasciare quel continente nella povertà, continuando nella finzione della solidarietà. La risposta potrebbe spiegarci perché Omicron africana sia peggiore di Omicron europea.