Prima gli italiani: meglio se fascisti di CasaPound

 

“In forza dei criteri ritenuti prioritari per gli sgomberi (in primo luogo le condizioni di sicurezza dell’immobile) il compendio di via Napoleone III non presenta i profili di criticità idonei a porlo in situazione di priorità”.

Paola Basilone, prefetto di Roma, sull’edificio occupato da CasaPound

 

Vogliamo scommettere che con Matteo Salvini, regnante al Viminale, il “compendio di via Napoleone III” non sarà mai sgomberato? E che i fascisti del terzo millennio potranno tranquillamente continuare a farla da padroni nello stabile di proprietà del Demanio, alle spalle della stazione Termini? Il cui cospicuo valore immobiliare va calcolato, oltre che sulla posizione centralissima, sulla dimensione e il particolare pregio: sei piani, 60 vani, una terrazza nel cuore del rione Esquilino con vista sulla cupola di Santa Maria Maggiore.

Scommettiamo che il ministro degli Interni non avrà il coraggio di mettersi contro le camicie brune? Coraggio politico, poiché con quelli di CasaPound il leader leghista lanciò nel febbraio 2015 “Sovranità”, alleanza nazionalista per rivendicare la potestà italiana in campo monetario, economico e politico (c’è anche una bella foto che li vede brindare insieme). Ma che gli mancherà soprattutto il coraggio diciamo così fisico perché, ammettiamolo, non è facile mettersi contro un movimento addestrato militarmente e che ha dichiarato di essere disposto a tutto pur di difendere ciò che considera suo. E dunque, boia chi molla la sede del primo centro sociale di ispirazione fascista che, casualmente, ospita una trentina di famiglie di camerati “in emergenza abitativa”.

In realtà, il cosiddetto Capitano è una pasta d’uomo che si trasforma nello sparafucile che chiude i porti e sequestra donne e bambini sulle navi mostrando il petto per pure esigenze sceniche. Però quando a chiedere lo sgombero immediato si muovono, nell’ordine, la sindaca di Roma Raggi (forte di una mozione approvata in Campidoglio), e poi il ministro dell’Economia Tria, sotto la cui giurisdizione agisce l’Agenzia del Demanio, sotto la cui responsabilità ricade il palazzo dato nel 1963 in uso al dicastero dell’Istruzione, quando dunque questa possente macchina da guerra politico burocratica avanza compatta, ecco che il ministro ha un’ideona. E passa la patata bollente al prefetto di Roma, Paola Basilone (che tra parentesi, è una sua sottoposta).

Basilone sa stare al mondo e con un comunicato vergato con lo stile di un codice mandarino del sedicesimo secolo (quando non sai che diavolo dire parla d’altro) sostiene appunto che il palazzo non “presenta profili di criticità”. In altre parole: non è pericolante e non presenta problemi igienico-sanitari.

Per il diritto di proprietà, si tratta di una svolta epocale. I giureconsulti Salvini-Basilone asseriscono che, d’ora in avanti, chiunque potrà occupare abusivamente un appartamento, o anche un grattacielo, purché si preoccupi di dare ogni tanto un’imbiancata alle pareti e di sturare i cessi. Cosicché quando il legittimo proprietario cercherà di tornarne in possesso verrà messo legittimamente alla porta. E se insiste si può sempre chiamare la polizia che accorrerà prontamente su disposizione del ministro e del prefetto. Insomma: prima gli italiani e se sono fascisti è pure meglio.

Giulia, l’influencer ruspante spopola come le rivali chic

Non so se è il clima politico che sta influenzando tutto il resto o se è tutto il resto che influenza la politica, fatto sta che anche nel fluido mondo degli influencer qualcosa sta cambiando. Su Instagram, infatti, perfino nel segmento moda e tendenze, si registra una netta e inarrestabile avanzata dei fenomeni più pop e ruspanti dopo anni di supremazia radical chic. E per la prima volta, dopo un lungo regno di engagement senza pari, perfino la regina Chiara Ferragni comincia a cedere il passo a nuovi fenomeni. Il più sorprendente è senza dubbio Giulia De Lellis, 23 anni, di Pomezia, un curriculum da corteggiatrice a Uomini e donne e concorrente del Grande Fratello Vip, mora, florida, verace. Capite bene che al cospetto dell’algida, filiforme, cremonese Ferragni – una che in tv non s’è mai sporcata le mani per mantenere la giusta distanza dal popolo – è un’altra galassia.

Ha più “spettatori” di un programma Rai…

Eppure, di post in post, di selfie in selfie, di storia in storia, Giulia De Lellis comincia a essere un case history eccezionale. La ragazza, per cominciare, conta 3 milioni e 700.000 follower di cui il 67% sono donne. Le sue storie sono viste mediamente da 1 milione di follower, il che vuol dire che in 24 ore un suo monologo in macchina o una sua recensione del rossetto mat preferito ha più “spettatori” di parecchi programmi Rai e Mediaset, per non parlare delle reti satellitari. Per dire, l’esordio di Popolo sovrano su Rai 2, ha realizzato 570.000 spettatori, la metà di una sua storia. Il vero successo però sta nell’engagement, ovvero nelle interazioni o, come se dovessi spiegarlo a mia nonna, nella partecipazione dei suoi follower a quello che Giulia dice o propone. Tanto per capirci, Chiara Ferragni ha 16 milioni di follower, quindi circa 12 milioni in più della De Lellis, ma le loro foto hanno più o meno lo stesso numero di like (mai meno di 100.000, difficilmente più di 500.000).

E questo nonostante la De Lellis non abbia figli con gli occhi azzurri, pannolini e famiglie felici da esibire. Da un punto di vista commerciale questo ha creato una serie di effetti a catena: il primo è che se la De Lellis si prova un mascara e condivide il momento topico con le fan nelle sue storie su instagram, quel mascara finisce spesso esaurito online in pochi minuti. Proprio poche settimane fa la De Lellis ha risposto a una ragazza, sempre nelle storie, che le chiedeva di che marca fosse la tuta che indossava spesso. Lei ha risposto che era una tuta da uomo di Primark. Il giorno dopo l’ha contattata il Primark della sua città (Verona, in cui vive) per ringraziarla perché avevano esaurito quelle tute e le avevano dovute riordinare.

Al Festival di Venezia l’hashtag ufficiale #venezia75 ha potuto contare sul traino social di attori di fama internazionale ma al quarto posto, per engagement, si è piazzata l’italiana non attrice Giulia De Lellis from Pomezia che con sei foto postate ha realizzato un engagement pari a 1,400 000. In sostanza, per alcuni marchi, ormai può essere un investimento migliore una storia su instagram che uno spot in tv, un banner su un sito o una pagina di giornale.

Abolita la puzza sotto il naso delle maison

Il secondo risultato è che di fronte a questi numeri, anche i marchi di lusso hanno cominciato a togliersi la puzza sotto il naso e a considerare una De Lellis troppo commercialmente rilevante per ignorarla. Blumarine, YvesSaintLaurent, La Mer sono solo alcuni dei brand con cui Giulia ha chiuso contratti negli ultimi mesi, ma lei stessa disegna anche capsule di costumi (ha venduto 8000 costumi subito sold out) e di occhiali. Ed è così che mentre fino a qualche anno fa una ragazza che arrivava da Uomini e donne aveva come prospettiva più ambiziosa qualche serata in discoteca o un falò a Temptation Island, ora l’ex corteggiatrice De Lellis è in prima fila alle sfilate della fashion week. L’ultimo effetto di questo successo social è che l’influencer Giulia guadagna una cifra che nel solo 2019 potrebbe aggirarsi intorno al milione di euro. Niente male per una ventitreenne che al Grande Fratello è passata alla storia per frasi come “La capitale dell’Africa è l’Egitto?” o “Le tre Caravelle sono la Nina, la Pinta e… la Rossa” o “Il Nabucco è la musica che hanno fatto per La bella addormentata”.

“Best dieta 2019, le corna fanno dimagrire”

Intendiamoci, non proprio istruita sì, ma scema la De Lellis non lo è mai stata, anzi. Che fosse una sveglia lo si era già capito quando al Grande Fratello – unica impavida nella storia del reality – diede dello stupido/inutile ad Alfonso Signorini che la derideva da tempo per la sua ignoranza. O quando alla fine di una sua lunga storia d’amore, scoperto di essere pluricornuta, commentò senza isteria alcuna: “Best dieta 2019, le corna fanno dimagrire”. Oppure, quando si è fidanzata pure lei con un cantante/rapper (Irama) come la regina Ferragni, ma anziché farci sapere ogni 5 minuti tramite social cosa fanno e quanto limonano, ha continuato a recensire ombretti e proporre outfit. Perché l’era da corteggiatrice è finita. È iniziata quella da imprenditrice.

Authority col vizio affitti: 15 milioni di euro all’anno

I fabbricati pubblici in Italia sono un milione e valgono 283 miliardi di euro. Capannoni, palazzi, tuguri. Ogni tanto, anzi a ogni legge di Bilancio, governi di colori diversi esultano per la stessa idea: dismettere gli immobili del Demanio e usare i soldi del mattone per sistemare i conti. Eppure neanche le Autorità di garanzia e controllo, che sono pubbliche, riescono a usare uffici pubblici.

Al contrario, le cosiddette Autorità indipendenti – finanziate da oboli e tasse di chi è vigilato o direttamente dal Tesoro e nominate da palazzo Chigi o dal Parlamento – spendono oltre 15 milioni di euro all’anno in affitti. Pochi virtuosi, molti spreconi. E non s’accontentano di un’architettura sovietica di periferia, essenziale e però funzionale, ma setacciano le migliori offerte nel centro di Roma o di Milano per sedi anche di scena, cioè di rappresentanza, luoghi in cui gli impiegati hanno 30 metri quadri ciascuno a disposizione.

Privacy Il Garante per la protezione dei dati personali ha traslocato pochi mesi fa. Il presidente Antonello Soro e colleghi, assieme a 140 dipendenti, hanno lasciato le stanze di fronte alla Camera e adesso alloggiano in piazza Venezia, con affaccio sul celeberrimo balcone in un palazzo di Generali. Soro aveva commissionato una relazione al servizio di controllo interno. Il gruppo aveva esaminato quattro o cinque soluzioni alternative e poi ha avallato la scelta di firmare il contratto di 1,285 milioni di euro all’anno per 4.103 metri quadri e, soddisfatto, ha aggiunto: conviene, prima il Garante sborsava un milione per soli 2.608 mq. Vuoi mettere.

Anac Il magistrato Raffaele Cantone, il capo dell’Anticorruzione (300 dipendenti), non adora lo sfarzo di palazzo Sciarra. Il contratto è del 2013, precedente all’avvento di Cantone e scade nel 2022. Anac versa 4 milioni di euro all’anno agli americani di Morgan Stanley, una banca d’affari. Al termine dell’accordo, Anac avrà “bruciato” 40 milioni.

Ivass Il governo di Monti ha cambiato l’acronimo (prima si chiamava Isvap) e ha affidato l’istituto che vigila sulle compagnie assicurative a Bankitalia. Più di recente, invece, Ivass ha modificato il canone per il palazzo vicino al Quirinale che affitta dall’Inpgi, l’ente previdenziale dei giornalisti. Dal maggio 2017 e fino al 30 aprile 2023, l’istituto paga 2,8 milioni di euro all’anno e non più 2,2.

Agcom Più attiva sul mercato telefonico, più agile nei procedimenti, più poteri d’intervento: spesso si invocano riforme dell’Autorità per le comunicazioni, ma la struttura resta divisa in due ampie sedi. A Napoli, al centro direzionale, per un immobile che costa 1,67 milioni di euro all’anno; a Roma, in via Isonzo da nove anni, per 2,1 milioni.

Arera L’Autorità per l’energia e l’ambiente ha una gestione immobiliare complessa. Capitolo proprietà: ha cinque piani di uffici a Roma e sei a Milano (in parte da ristrutturare, secondo gli ultimi documenti disponibili). Capitolo locazioni: ha la sede principale a Milano per 2,13 milioni di euro e un appartamento a Roma per 176.000 euro.

Antitrust Dopo troppo tempo passato a spendere 4,5 milioni di euro all’anno di affitto, nel dicembre 2017 l’Autorità ha investito 85 milioni di euro per acquistare il palazzone di piazza Verdi a Roma e l’ha lasciato in gestione al Demanio.

Covip e Cgsse La commissione di vigilanza sui fondi pensione è in procinto di chiudere o fondersi da almeno cinque anni. Nel frattempo, la Covip ha aperto gli uffici di piazza Augusto Imperatore a Roma con un affitto di 651.743 euro. Il Garante degli scioperi, che ha poche decine di dipendenti, tiene viva l’ex sede della Democrazia Cristiana in piazza del Gesù al costo di 285.600 euro.

Garante detenuti, Autorità trasporti e ConsobTre esempi di corretta amministrazione. Il Garante dei detenuti utilizza gli uffici del ministero della Giustizia. L’Autorità dei trasporti ha due immobili in comodato d’uso gratuito, il più grande a Torino, il più piccino a Roma. La Consob, che vigila sulla Borsa, ha una sede di proprietà a Roma su cui ha un impianto solare che frutta circa 45.000 euro all’anno e due a Milano, entrambe concesse dal Comune: la prima è gratuita, per la seconda paga 212.895 euro.

Primo giorno in cella per Formigoni: “È sereno e combattivo”

“Serenoe combattivo”, “addolorato ma realista rispetto alla situazione in cui si trova”. Così uno dei suoi avvocati, Mauro Brusa, ha descritto Roberto Formigoni dopo averlo incontrato ieri nel carcere di Bollate dopo la sua prima notte di detenzione (per oggi ha chiesto di partecipare alla messa). “Non ci sono particolari problemi e non desta particolari preoccupazioni: per lui è tutto normale, come per gli altri detenuti”, sostiene Cosima Buccolieri, direttrice dell’istituto, una delle poche “carceri aperte” italiane ovvero uno dei pochi istituti che rispettano appieno la legge lasciando che i detenuti non pericolosi siano liberi di muoversi negli edifici che li ospitano. Così farà anche l’ex presidente della Lombardia, che dorme in una cella con altre due persone, una delle quali sarebbe Costantino Passerino, l’ex direttore amministrativo della Maugeri, condannato in Cassazione a 7 anni e 7 mesi nello stesso processo che è costato 5 anni e dieci mesi al Celeste. Nello stesso braccio a Bollate, pare, sono detenuti anche Alexander Boettcher, condannato per aver sfigurato con l’acido gli ex fidanzati di Martina Levato, e Alberto Stasi, in carcere per l’omicidio della sua ex fidanzata Chiara Poggi a Garlasco.

L’Onda Civica e Verde: Bonelli e Pizzarotti lanciano la lista

Rimettere i temi ambientali al centro della scena politica con una lista che può andare da +Europa a Possibile di Pippo Civati. Dialogando con movimenti come Diem 25 (fondato dall’ex ministro greco Yanis Varoufakis), Volt e Sinistra Italiana. Ma soprattutto mettendo insieme i Verdi e Italia in Comune, il movimento dei sindaci creato nel 2018 dal primo cittadino di Parma, Federico Pizzarotti (ex M5S). Che ieri a Roma si sono dati appuntamento per lanciare la lista che verrà presentata alle Europee: Onda Verde e Civica. Elezioni che vedranno impegnato in prima linea lo stesso Pizzarotti, che non correrà per un terzo mandato da sindaco.

L’impresa di mettere insieme una lista che raduni sotto un unico simbolo pezzi della sinistra fuori dal Pd e forze ambientaliste non è affatto facile. Basti vedere le divisioni degli ultimi anni solo tra i Verdi. “Fino a poco fa c’erano 50 sfumature di verde…”, dice Carmine Maturo di Green Italia. “C’è un ritorno all’ambientalismo in tutto il pianeta. La sostenibilità ambientale è ormai un tema con cui tutti devono confrontarsi. Anche perché il pianeta è di nuovo sotto attacco, basti vedere le politiche di Trump e Bolsonaro…”, osserva Angelo Bonelli. Una grossa mano, almeno in Europa, la sta dando una ragazzina svedese di 16 anni, Greta Thunberg, che con la sua protesta sta raccogliendo massa critica intorno a sé, specie tra i giovanissimi.

“Sulla Tav noi e i Verdi la pensiamo diversamente, ma questo non vuol dire che il progetto non possa decollare. Ognuno deve concentrarsi su ciò che ci unisce…”, osserva Pizzarotti, che nei giorni scorsi ha chiuso al dialogo col Pd e lista Calenda. Il 4% sembra lontano, ma non è impossibile. “Vogliamo dire che l’Italia è un Paese antifascista? Sono stufo di dovermi vergognare ogni giorno per quello che fa o dice Salvini!”, scalda la platea il sindaco di Cerveteri, Alessio Pascucci. Un nome da tenere a mente.

Rai, ecco i tagli al contratto di Fazio

Tra qualche settimana l’ad della Rai, Fabrizio Salini, e Fabio Fazio si siederanno al tavolo per vedere di ridurre il compenso del contratto monstre sottoscritto nel luglio 2017 dall’allora direttore generale, Mario Orfeo, che scadrà il 30 giugno 2021. Il contratto che lega Fazio alla Rai per 32 prime serate annuali di Che tempo che fa e per 31 seconde serate di Che fuori tempo che fa, infatti, è blindato e può essere modificato solo se il giornalista/conduttore è d’accordo. Se Viale Mazzini volesse uscirne, dovrebbe sborsare oltre 7 milioni di euro tra inadempienze e penali: 2.240.000 euro, ovvero il compenso annuale di Fazio; 704.000 per l’uso del format di Che tempo che fa pagati a Officina; più 600.000 euro di penale. Moltiplicato per due (le stagioni 2020 e 2021) fa 7.088.000 euro.

Ricordiamo che il contratto di Fazio vede la Rai sborsare pure 10.644.400 euro l’anno a Officina per i costi di produzione, più 5 milioni l’anno per i costi industriali. Così, tra tutto, per i 4 anni di messa in onda si arriva a circa 73 milioni di euro. Che ora Viale Mazzini vorrebbe ridurre.

Lo spazio di manovra, però, è ridotto e si potrà agire solo sul compenso del conduttore. Esclusa, invece, l’ipotesi di un ritorno a Raitre: visti i costi del programma, sarebbe controproducente. Dopo un primo momento di frizione in cui Salini e Fazio non comunicavano, la situazione è migliorata e il conduttore ha manifestato la sua disponibilità ad avviare un dialogo. Disponibilità che è la conseguenza delle polemiche sul compenso, ma è anche dovuta al cambio di scenario politico. Se prima Fazio era assai difeso da sinistra e Pd, gli attacchi di Salvini al programma hanno lasciato intendere che la copertura politica non c’è più. E in Rai, si sa, queste cose contano. La Lega non lo ama e i 5 Stelle non faranno le barricate per difenderlo.

La razionalizzazione delle spese di mamma Rai, però, toccherà anche altre voci. Come ad esempio la Lux Vide, la potentissima casa di produzione di Matilde e Luca Bernabei, con cui c’è un contratto quinquennale da 25 milioni l’anno, di cui oltre 8 milioni solo per la serie tv I Medici. “Negli ultimi anni in Rai c’è stata una spinta centrifuga che ha visto appaltare all’esterno troppe produzioni, quando invece l’azienda è ricca di talenti. Vogliamo riportare il brand Rai al centro e rimettere in moto le risorse interne”, ha detto Salini durante un convegno sulla tv pubblica giovedì a Montecitorio. Da qui l’input a ridurre spazio ai soliti big del settore per aprire l’azienda a nuove realtà: case di produzione, agenti, autori e registi.

Ci sarà poi un taglio di almeno 20 milioni di euro al contratto con la Cbs per la messa in onda di alcune serie tv americane, tra cui NCIS. Ma pure le fiction prodotte in casa subiranno tagli. Il caso di cui parla in questi giorni è quello del Paradiso delle signore che, con i suoi 17 milioni l’anno, è una serie considerata troppo costosa.

Infine, si vorrebbero “ridefinire impegni e risorse” anche per Bruno Vespa (un milione e 200 mila euro), tenendo però presente che un taglio c’è già stato, 2 anni fa. A fine gennaio Salini ha bloccato il rinnovo: se ne riparlerà (così come per Fazio) dopo l’approvazione del piano industriale, a marzo. Una razionalizzazione, quella di Salini, dovuta anche alla contrazione delle risorse: con 100 milioni in meno di entrate dal canone e un meno 2,6% di incassi pubblicitari, per Viale Mazzini si prevede un 2019 in rosso di 15 milioni.

Mediaset “ignora” Silvio: FI è finita, pensi all’azienda

Doveva capitare. Forse così pare un po’ feroce. Silvio Berlusconi non comanda neanche più in Mediaset. In casa sua. L’ex Cavaliere non s’è mai rassegnato al tempo che logora il fisico, il potere, la popolarità. Berlusconi rimprovera ai dirigenti del Biscione uno scarso supporto al rilancio di Forza Italia e una cortesia troppo mielosa verso i nemici dei Cinque Stelle e gli alleati a cottimo del Carroccio di Salvini. Almeno è il pensiero dell’ex Cavaliere che i parlamentari forzisti più prossimi e agguerriti diffondono per scuotere Cologno Monzese. Non funziona, però. E sembra assurdo.

Più fonti qualificate del Biscione, sentite dal Fatto, raccontano il rapporto fra la società e il Silvio politico: “Il glorioso ’94, la fondazione di Forza Italia, è una pagina di archivio. Basta”.

A Mediaset non ascoltano più le indicazioni del “padrone”, restano indifferenti al lamento che si ripete in campagna elettorale e rammentano, invece, che l’urgenza non è spingere l’inutile candidatura di Berlusconi alle Europee – una sorta di concerto di chiusura di una brillante carriera – ma salvare l’azienda. Non ha senso sfruttare i canali per fare opposizione. Non ha senso per gli affari, semplice. Perché Mediaset – è l’assioma di Fedele Confalonieri, il presidente – è sempre gentile con chi governa. Anche il temuto esecutivo gialloverde, onnipresente nei programmi d’informazione, è docile col Biscione. Anzi, di più: il governo aiuta Mediaset. Un po’ di esempi: mercato sigillato ai nuovi entranti per le frequenze televisive in eccedenza; sostegno al progetto di fusione tra Mediaset e F2i per le torri tv; battaglia di Cassa depositi e prestiti al fianco del fondo Elliott in Telecom contro l’odiata Vivendi, azionista al 28,8 per cento del Biscione.

“Vi ricordate di Marino Mastrangeli?”, sussurrano da Cologno Monzese. La scorsa legislatura Mastrangeli era un senatore dei Cinque Stelle, espulso dal gruppo a palazzo Madama perché colpevole di gravissima violazione del codice di comportamento del Movimento: per diverse volte, il portavoce – già attivista a Frosinone – aveva accettato l’invito in televisione, soprattutto non s’era rifiutato di partecipare a una puntata di Pomeriggio Cinque di Maria Carmela detta Barbara D’Urso. “Esatto, roba di sei anni fa. Adesso dimenticate Mastrangeli e pensate a Di Maio, Di Battista, Buffagni, i più duri e puri: c’è la fila per un’intervista della D’Urso. I gialloverdi stanno ovunque, a Canale5 o Rete4, non fa differenza. E noi li accogliamo: prego, accomodatevi. E anche con i leghisti, col capo Salvini: facciamo ascolti e siamo polifonici. Berlusconi avrà sempre un posto, dove vuole, in prima serata, cinque giorni su sette, quando vuole, ma Mediaset non è più lo strumento per vincere le elezioni”. Forza Italia è un partitino dal dieci per cento, se il vento soffia a favore, è l’emblema di un successo politico consunto.

I principali consiglieri di Silvio, pure quelli che si detestano e spesso sono distanti, da Gianni Letta a Niccolò Ghedini, dai figli Pier Silvio e Marina all’amico Confalonieri, erano contrari alla candidatura per un seggio in Europa. Oggi Mediaset ha un’altra aspirazione europea: creare un gruppo televisivo continentale, che sia un tetto per proteggersi dalle intemperie finanziarie e sopravvivere senza soffrire. I dossier di Cologno Monzese sono concentrati da un anno sui rapporti già avviati e le trattative future con i tedeschi di Prosienbensat1 e i francesi di Tf1. Poi dipende da Vivendi, da Vincente Bolloré che non molla la quota del Biscione. E dunque serve pure il governo. Doveva capitare, il litigio. Silvio capirà.

Nel 2018, 11 milioni a Marchionne, 3 a Manley ed Elkann

Nel 2018l’ex amministratore delegato di Fca, Sergio Marchionne, morto lo scorso 25 luglio a 66 anni, ha percepito una remunerazione di 11 milioni di euro, mentre il presidente John Elkann 3,1 milioni. Lo stipendio di Marchionne nel 2018 è stato 6,6 milioni, di cui 2 milioni di base e un bonus per il 2017 di circa 4,6 milioni: è quanto emerge dal rapporto annuale che il gruppo automobilistico ha consegnato alla Sec, l’autorità di vigilanza Usa sulle società quotate in Borsa (ovvero la Consob americana, che contiene anche gli emolumenti dei manager) e pubblicato sul proprio sito. Dalle tabelle del rapporto emerge come l’attuale Ceo Michael Manley, che ha assunto le redini della società lo scorso 21 luglio, è stato remunerato con quasi 3 milioni di euro. Ad Andrea Agnelli sono andati 169.355 euro. Per gli anni dal 2014 al 2017, Marchionne ha ricevuto 2,8 milioni di azioni Fca, valutate circa 41,6 milioni di dollari. Il target di stipendio del nuovo Ceo Manley nel 2019 è di 14 milioni di dollari, di cui un salario base di 1,6 milioni di dollari, un bonus da 2,4 milioni e un premio in azioni valutato 10 milioni di dollari legati, questi ultimi due, al raggiungimento di determinati obiettivi di performance.

Donna Marella, il “cigno” che sopravvisse ad Agnelli

Se n’è andata “l’ultimo Cigno” di Casa Agnelli. Forse, con lei, se ne sono andati anche gli Agnelli: visto che l’ultimo discendente con quel cognome oggi è Andrea, figlio di Umberto, relegato però alle alterne fortune della Juve di Ronaldo. La Fiat, che ora si chiama Fca, è invece nelle mani del nipote John, detto Jaki: un Elkann e non più un Agnelli, nonostante sieda sulla poltrona del nonno, l’Avvocato, e guidi un impero con gli interessi più forti negli Usa e la sede legale e fiscale fuori da Torino e dall’Italia.

Quel riferimento al suo lungo collo, che avrebbe affascinato Modigliani, a quella sua bellezza aristocratica e assieme algida, glielo aveva regalato uno dei grandi amici americani: Truman Capote (conosciuto a New York, come John e Jacqueline Kennedy e Andy Wharol che, alla signora Agnelli, dedicò uno dei suoi quadri icona). Di sé, invece, Marella Caracciolo di Castagneto parlava citando il suo maestro nell’arte di pensare i giardini, il paesaggista inglese Russel Page: “Occorre saper essere il servitore di qualcosa di più alto o si diventa schiavi di tutto ciò che c’è di più in basso…”.

E quel ruolo di “servitore”, che cerca sempre di scansare tutto ciò che di “basso” c’è anche nella vita delle famiglie ricche e potenti, Marella Caracciolo Agnelli lo aveva messo a disposizione della sua non facile esistenza al fianco del “signor Fiat”. Gianni, lo scapestrato rampollo del dopoguerra tra la Roma della prima “dolce vita”, le notti belle e turbolente in Costa Azzurra, i viaggi negli Stati Uniti. Poi il presidente di una Fiat protagonista del boom economico e dello scontro di classe italiani; l’uomo che poteva permettersi di dire a politici e governanti che “ciò che va bene per Torino, va bene per l’Italia”. Ma pure l’eterno annoiato, il vitalista di barche, sci e guida spericolata, l’appassionato di calcio e giornali. Soprattutto, il narcisista che frequentava, e molto, le donne e al quale la pubblicistica, riverente verso la nuova “casa regnante”, aveva attribuito un verdetto che, se non è vero, è almeno verosimile: “Ci s’innamora a vent’anni: dopo s’innamorano solo le cameriere”.

Una frase cruda e quasi feroce, che per Marella deve essere stata una ferita dell’anima. Lei, però, per tutta la vita si è imposta di guardare in alto, di non reagire nell’ufficialità a nessuna notizia di un nuovo flirt, di una nuova scappatella. Quasi che le rotture, nella vita di una nobildonna di una delle più antiche famiglie dell’aristocrazia napoletana, fossero anch’esse la schiavitù a qualcosa di più basso. Le rabbie private, invece, restavano relegate nei pettegolezzi delle finte amiche. L’Avvocato, tutto questo, lo aveva spiegato così: “Si può fare di tutto, ma la famiglia non la si può lasciare”.

Marella invece aveva declinato la sua analoga risposta secondo la traccia della riservatezza e di una segretezza mai violate; un’etichetta che chi, da nobile, aveva deciso di vivere con un grande borghese, non poteva travalicare. Una dimensione di raffinatezza, di un lusso mai banale, le foto di Richard Avedon e Robert Doisneau, il disegno dei tessuti (lei che da ragazza, per mantenersi a New York, aveva fatto la modella), il collezionismo dell’arte più esclusiva, la progettazione di giardini, i libri su quel suo sapere, le tante case, arredate con mobili appartenuti alle grandi famiglie della Storia e sparse tra l’Europa, l’America e il Nord Africa. Sempre con un’eccellenza e una capacità che non è possibile giustificare solo col privilegio di chi nasce ricco. “Non si finisce mai di tentare di mettere a punto un giardino – spiegava – e anche la propria vita. Passo dopo passo, cercando sempre di trovare nuovi rimedi per far fiorire gli uni e l’altra. Nel buono e nel cattivo tempo”.

Protetta e blindata nelle sue “questioni private” anche rispetto alle voglie, sia pur mitigate dalla prudenza, dell’informazione italiana. Nei giornali di riferimento della Famiglia, vigeva una regola che non si poteva infrangere: ogni volta che la si doveva citare bisognava farlo chiamandola “donna Marella”.

Il suo “cattivo tempo”, anche questo condiviso non si sa quanto con il marito, si era poi dipanato nelle tragedie e nelle liti familiari. Il figlio Edoardo, debole, segnato dalle dipendenze e dal confronto impari con la figura dell’Avvocato, e infine suicida buttandosi giù da un viadotto autostradale. La primogenita Margherita (quando Gianni e lei si sposarono, il 19 novembre 1953, Marella era già incinta), protagonista di un duro scontro legale e mediatico attorno all’eredità di Agnelli. Marella era citata a giudizio perché, secondo la figlia, era stata lo strumento che i consiglieri del padre avevano usato per realizzarne la volontà: che il nipote Jaki diventasse il suo unico erede, in una tradizione Fiat dove bisogna che “comandi uno solo alla volta”.

Una madre raccontata gelida, lontana: questa è la sola ipotesi che il giornalismo italiano ha provato a concedersi attorno a “donna Marella”. Anche qui, la leggenda delle tante cose attribuite agli Agnelli narra una scena che, se reale, potrebbe dire più di tanti sentimenti: una sera, nella villa di Sankt Moritz, Marella e Gianni giocano con gli husky, davanti agli occhi tristi di due bambini, Margherita ed Edoardo.

Il “Cigno” era sopravvissuta all’Avvocato, gli aveva mormorato sul letto di morte l’ultima parola: “Dormi”. Testimone, oltre il tempo suo e di Gianni, di un mondo, di una dinastia sempre più lontani, troppo diversi da “qualcosa di più alto”.

Blutec, Di Maio: “Cig per 6 mesi”

Un emendamento al decretone in esame al Senato “per assicurare sei mesi di ammortizzatori sociali”: il vicepremier e ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, ha portato questa novità al tavolo che si è tenuto ieri a Termini Imerese con sindaci e sindacati sulla Blutec. Una soluzione tampone per i 700 ex operai Fiat dopo il mancato avvio della produzione, nonostante un contributo pubblico di 20 milioni di euro.

Il timore di una mancata proroga della cassa integrazione, scaduta il 31 dicembre, aveva generato giorni di proteste – con tanto di occupazione simbolica della sede del Comune – da parte delle tute blu. “La Blutec deve rispettare gli impegni che ha preso – ha detto Di Maio riferendosi alla necessità di attuare il piano occupazionale presentato all’ultimo incontro al Mise – e allo stesso tempo Fiat, cioè Fca, deve fare la sua parte, perché è vero che ha deciso di andare via ma si è impegnata a garantire la transizione”. Poi la rassicurazione: “Quando abbiamo cominciato ad affrontare la questione ci siamo resi conto che la legge non consentiva di erogare la Cig dal primo gennaio. Io sono venuto qui per dire che lunedì modifichiamo la legge con un emendamento al decreto sul reddito cittadinanza e quota 100”. Una modifica che dovrebbe erogare gli ammortizzatori di gennaio e febbraio e fino a giugno. Poi l’impegno a incontrare “soggetti economici che stanno mostrando interesse per l’Italia a causa della Brexit” e a verificare le voci di un interesse di Nissan e Honda.

Sempre da Termini Imerese Di Maio annuncia anche un’altra modifica ai criteri per la richiesta del Reddito di Cittadinanza. “I cambi di residenza degli ultimi tre mesi non valgono – ha detto rispondendo alle domande dei giornalisti -. Per evitare che il reddito venga macchiato da alcuni furbetti del Reddito di cittadinanza”.

E prevede numeri “imponenti” in Sicilia. “Le famiglie che ne usufruiranno avranno doveri – ha aggiunto, facendo riferimento ai lavori di pubblica utilità e alla formazione: “Non voglio dare soldi a persone senza formarle e richiamarle ai loro doveri di cittadini, la nostra sfida è mettere in moto un meccanismo per formazione permanente”.