È statoarchiviata l’accusa per Pierluigi Boschi, padre dell’ex ministro Maria Elena, in uno dei filoni dell’inchiesta sul crac di Banca Popolare dell’Etruria. L’accusa, inizialmente contestata a 18 persone, era quella di falso in prospetto: in sostanza, tutti i membri del consiglio d’amministrazione e del collegio sindacale dell’istituto tra il 2011 e il 2014, insieme ai manager apicali, erano stati accusati di aver falsamente informato gli investitori sullo stato della banca mentre chiedevano soldi al mercato. La notizia, rivelata ieri da La Nazione, risale in realtà ad ottobre, ma è divenuta pubblica venerdì durante l’udienza preliminare del processo in cui, invece, restano imputati per la stessa accusa l’ex presidente della banca Giuseppe Fornasari, l’ex direttore generale Luca Bronchi e il funzionario Davide Canestri. In sostanza, il pm Julia Maggiore ha richiesto l’archiviazione per 15 imputati perché il cda nell’aprile del 2013 delegò proprio il dg Bronchi a redigere il prospetto per il collocamento di bond: secondo l’accusa, dunque, la responsabilità delle false informazioni sarebbe del direttore generale, che avrebbe agito di concerto solo con Fornasari e Canestri.
Tav e referendum: Chiamparino parla del nulla
Sul Tav bastano gli scricchiolii a seminare il panico. Così la, pur remota, prospettiva di una rinuncia da parte del governo induce il presidente del Piemonte a invocare un referendum. Curiosa proposta che svela la singolare idea secondo cui i cittadini non devono essere consultati per fare una grande opera, ma la consultazione si impone se si ipotizza di non farla. Del resto è evidente che il governatore bluffa per cercare visibilità data la prossimità delle elezioni regionali.
Dire referendum, infatti, non significa nulla se non si chiarisce di che tipo di referendum si tratta e chi sarà chiamato a parteciparvi. Cominciamo dal tipo di referendum. A livello nazionale la Costituzione ne conosce tre: il referendum abrogativo di leggi nazionali previsto dall’art. 75, quello sulle leggi costituzionali o di revisione costituzionale previsto dall’art. 138 e quello previsto dall’art. 132 sulla fusione o la costituzione di nuove Regioni ovvero il passaggio di Comuni o Provincie da una Regione a un’altra.
A livello regionale provvedono i singoli statuti e, per quanto qui interessa, quello del Piemonte, che prevede il referendum abrogativo di leggi, regolamenti o provvedimenti amministrativi regionali (artt. 78 e 80) e quello consultivo, avente ad oggetto “iniziative legislative o provvedimenti amministrativi, nei limiti e secondo modalità fissate con legge” (art. 83). È di tutta evidenza che nessuno di questi referendum è applicabile al caso del Tav. Dunque, per procedervi occorrerebbe una legge ad hoc di carattere nazionale, come la legge costituzionale n. 2 del 3 aprile 1989 (che autorizzò l’unico referendum consultivo nazionale della storia repubblicana avente ad oggetto l’attribuzione di un mandato costituente all’Europarlamento) ovvero una apposita legge regionale (analoga alla n. 15 del 19 giugno 2014 della Regione Veneto, avente ad oggetto “referendum consultivo sull’autonomia del Veneto”). Questa la situazione. Evocare oggi un referendum sul Tav significa, dunque, solo fare propaganda.
Il governatore Sergio Chiamparino peraltro, evidentemente consapevole dell’impraticabilità di quanto va dicendo, continua a usare il termine “referendum” ma, citando l’art. 86 dello statuto, mostra di riferirsi a un diverso istituto e cioè la “consultazione di particolari categorie o settori della popolazione su provvedimenti di loro interesse”. Anche qui non ci siamo. Una consultazione popolare deve essere preceduta – come confermano le motivazioni del parere n. 4654/1998 del Consiglio di Stato, in tema di referendum comunali – da una legge che ne disciplini modalità e tempi di indizione, procedimento, condizioni di validità e quorum, finanziamento e quant’altro (se non altro ad evitare che ogni consultazione si svolga con regole diverse). Ciò anche a prescindere del fatto (pur decisivo) che il citato art. 86 dello Statuto non autorizza una consultazione dell’intera popolazione piemontese ma soltanto quella “di particolari categorie o settori della popolazione”. Ancora una volta si parla del nulla.
Ma c’è una questione ancora più importante. Chi si vuole coinvolgere nel referendum? Nonostante le chiassose esternazioni del presidente Chiamparino sulla consultazione regionale, le ipotesi possibili, ai sensi della normativa vigente, sono solo due: o una chiamata alla urne di tutti i cittadini italiani (interessati all’opera come contribuenti) o quella dei residenti nel territorio su cui l’opera dovrebbe insistere (“categoria di popolazione” interessata ai sensi dello statuto della Regione Piemonte).
Evocare oggi un referendum serve, dunque, solo a sollevare un polverone per condizionare o ritardare le decisioni politiche e per fare campagna elettorale (per le europee o per le regionali).
Nell’attuale sistema normativo non sono i No Tav a poter richiedere il referendum ma solo la maggioranza del Consiglio regionale o del Parlamento. Non potremo chiederlo ma – se ci sarà – sapremo vincerlo come accaduto per il nucleare, l’acqua pubblica, la Costituzione (tutti referendum in cui ai blocchi di partenza ci davano perdenti e che abbiamo vinto alla grande).
La Sardegna vota: Zedda contro l’invisibile Solinas
“Io l’uomo invisibile? Ci hanno visto poco perché abbiamo fatto chilometri e parlato tra la gente”. Finalmente ha battuto un colpo anche Christian Solinas, il candidato sardo-leghista alla presidenza della Regione Sardegna che nei giorni scorsi aveva dato l’impressione di essere quasi un avatar al seguito del suo alleato di ferro, Matteo Salvini.
Colpa della strabordante presenza mediatica del leader leghista, che nell’ultima settimana di campagna elettorale in vista del voto di oggi ha battuto palmo a palmo tutta l’isola, lasciando ben poco spazio al candidato della coalizione regionale.
Un centrodestra in formazione classica, quello visto nei giorni scorsi a Cagliari, con Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi attenti a lanciare messaggi di compattezza e a offrire una “sponda” alla Lega in caso di crisi di governo, dove ancora una volta il candidato sardista Solinas era parso quasi oscurato dalla presenza dei big nazionali.
Non per nulla il suo avversario di centro-sinistra Massimo Zedda lo aveva attaccato definendolo per l’appunto “invisibile” e “senza volto”: persino nelle affissioni stradali e in quelle dei bus il viso di Solinas sembrava infatti essere scomparso, sostituito dalla faccia sorridente del “Capitano”. E forse non è un caso che abbia marcato visita anche all’ultimo confronto televisivo organizzato da un’emittente locale.
Quella di Solinas potrebbe essere una vera e propria strategia del “basso profilo”, giustificata dai mal di pancia interni per una candidatura non gradita ad alcuni colonnelli di Forza Italia ma anche da ambienti leghisti nel Nord Sardegna.
Nell’ultimo giorno della campagna elettorale però il leader sardista, sotto attacco anche per alcuni aspetti non del tutto chiari relativi al conseguimento della sua laurea, ha messo da parte gli imbarazzi, trasformandosi nel mattatore incontrastato del Palacongressi alla Fiera di Cagliari, con la parola d’ordine “discontinuità” abbinata ai temi della sanità e all’urbanistica regionale. “Serve una legge urbanistica che superi il Piano paesaggistico regionale per restituire impulso a un comparto che in questi anni ha lasciato sul terreno 30 mila addetti”, ha detto Solinas, fra gli applausi dei suoi fans.
Clima carico e folla delle grandi occasioni anche a Sassari dove Massimo Zedda ha scelto di chiudere la sua campagna elettorale. È da qui che il golden boy della sinistra sarda ed esponente del Movimento dei sindaci ha lanciato l’ultimo guanto di sfida a Solinas e Salvini, colpevoli l’uno di aver tradito l’originario spirito sardista e l’altro di aver debordato dal suo ruolo istituzionale, promettendo facili soluzioni sulla vertenza dei pastori sardi: “Ma le uniche risorse messe a disposizione per il momento sono quelle della Regione” ha attaccato Zedda.
Il sindaco per ora ha vinto una sfida non semplice: andare oltre il “modello Cagliari”, verso l’orizzonte allargato di un “modello Sardegna” che riesca a convincere al di là delle performances non sempre brillanti della scorsa legislatura e dei travagli interni alla maggioranza di centro-sinistra. La partita iniziata tutta in salita si gioca ora sugli indecisi e sul cosiddetto “voto utile”. Zedda ci spera, ma sull’esito delle urne pesa l’incognita del voto disgiunto.
La Procura di Genova chiede a Firenze le carte sui Renzi
La notizia arrivada Genova: la Procura ha chiesto quella di Firenza (procuratore Creazzo, nella foto a destra) i documenti dell’inchiesta toscana che ha portato agli arresti di Tiziano Renzi, Laura Bovoli e Mariano Massone. Si tratta del materiale relativo a episodi avvenuti nel capoluogo ligure: non è stato ancora aperto un fascicolo.
A interessare i pm liguri sono le dichiarazioni di Claudio Remorino (non indagato) riportate dal Fatto e da Repubblica. Remorino – dipendente della Delivery, cooperativa al centro dell’inchiesta – ha dichiarato alla Finanza: “In via Argine Polcevera ci riunimmo per stabilire i livelli di compensi del personale atto alle consegne della posta”. Il passaggio ha fatto ipotizzare che il capannone genovese fosse snodo delle attività dei Renzi e dei loro soci. Remorino prima di essere assunto alla Delivery ha lavorato per un’altra cooperativa riconducibile a Massone: “Le direttive operative mi venivano date da Massone… alla Delivery mi ci aveva mandato lui per uno scambio di furgoni tra la sede di Genova e quella di Rignano”. Gli inquirenti vogliono capire se si tratti di quei veicioli che sarebbero scomparsi. Da qui l’ipotesi di bancarotta per distrazione. Non solo: a Firenze tra gli indagati c’è un genovese, Alberto Ansaldo, membro del cda della Delivery. E c’è poi quel messaggio a Tiziano Renzi riportato nell’ordinanza fiorentina in cui l’interlocutore gli scrive: “Per poter affidare la commessa all’associata dovresti poter intervenire sul Comandante della Finanza a Genova di cui ti ho già fornito il cognome”. A chi si fa riferimento?
Se emergessero elementi di rilievo, come ha ipotizzato il procuratore di Genova Franco Cozzi (nella foto a sinistra) sentito ieri da La Verità, i pm potrebbero aprire un fascicolo. L’inchiesta Delivery è l’ultima sulla galassia di cooperative che sarebbero state usate “come bad company dove riversare debiti”. La precedente era stata quella di Cuneo (il caso Direkta, indagata Laura Bovoli). E dal Piemonte sono stati trasmessi a Genova anche gli atti relativi a questo fallimento. Il primo era stato il fallimento della Chil Post, a Genova. Un’indagine che aveva visto indagato Tiziano Renzi. Massone ha patteggiato 2 anni e 2 mesi. Renzi sr ha avuto l’archiviazione. Ma con nuovi elementi, nulla impedirebbe la riapertura del fascicolo.
Zingaretti ora ha paura di mancare il milione
Nicola Zingaretti non sembra si sia accorto della palude politica in cui si trova. Intorno al presidente della Regione Lazio inizia a farsi strada la convinzione che anche se vincerà le primarie “non convincerà”. Non porterà, probabilmente, più di un milione ai gazebo e così i suoi avversari continueranno a condizionarlo per poi, magari, toglierselo di torno. La sua campagna non morde. Non riesce a immaginare una zampata che vada oltre un certo veltronismo d’antan e una sorta di “volemose bene”.
Per paradosso, uno che candidato non è, come Carlo Calenda, ha dato uno scossone maggiore, sia pure limitandosi a una idea di fronte europeista, riciclando le vecchie idee renziane. E lo stesso Matteo Renzi, tra un insulto e un annuncio di querela, intestandosi la più berlusconiana delle battaglie, l’attacco ai magistrati “che non mi fermeranno”, ricompatta “i suoi” come dimostra la sceneggiata del Lingotto presenti Maurizio Martina e Roberto Giachetti.
Davvero Zingaretti pensa di replicare con la flemma prudente e saggia di chi, così facendo, si condanna alla scena muta? Davvero pensa di risolverla con la solidarietà totale a Renzi per l’arresto dei genitori senza pronunciarsi sulla magistratura? E, soprattutto, davvero pensa che il futuro del Pd possa essere affrontato senza idee forti? I 5Stelle possono vantare il Reddito di cittadinanza, Salvini la cattiveria anti-migranti, anche Berlusconi può vantare la solfa anti-tasse e anti-magistrati. Ma qual è la “bandiera da issare sulla testa della gente” del Pd? Altri partiti, in altre parti del mondo, dopo sonore batoste e sconfessioni plateali da parte dell’elettorato sono ripartiti rimettendo al centro un’idea-forza per appassionare almeno i propri militanti: lo hanno fatto Jeremy Corbyn e Pedro Sanchez. Zingaretti pensa di non averne bisogno. E così facendo si condanna a essere un perdente di successo.
Gli amorosi interessi che spingono il Pd verso Salvini e la Lega
“La Lega è un partito con cui si può interloquire e dialogare. Molto più che con i Cinque Stelle, che nella maggior parte dei casi non sanno quello che fanno”. La considerazione nelle file del Pd si sente da inizio legislatura spesso e volentieri. Una sorta di controcanto sotterraneo a chi vagheggiava un governo col Movimento. Una constatazione che rivela soprattutto una valutazione strutturale: con il Carroccio si può arrivare ad accordi su dossier e questioni specifiche, legate ad affari ed interessi comuni, al netto di chi effettivamente sta alla guida del Paese. Ed è proprio quello che si sta muovendo in questi giorni.
A teorizzarlo in chiaro è Vincenzo De Luca, governatore della Campania, in un’intervista al Foglio: “La Lega interpreta in larga parte le domande di un popolo che coltiva valori di buonsenso e di sacrificio. Per noi è doveroso dialogare e collaborare con queste realtà”, dice all’interno di un ragionamento che di punti di convergenza con il partito di Salvini ne tocca molti, dall’autonomia in giù, fino alla riforma della giustizia come grande questione da affrontare. De Luca, va ricordato, è uno dei capibastone che Matteo Richetti indica come responsabili dello scarso peso dato ai suoi sostenitori nelle liste a sostegno di Maurizio Martina per l’Assemblea congressuale. E nella mozione Martina, anche qui non a caso, si parla della necessità della separazione delle carriere dei magistrati, tema arrivato all’ordine del giorno nel Pd con una certa prepotenza, ma da sempre cavallo di battaglia del berlusconismo e più in generale del centrodestra.
I segnali di convergenza con la Lega, comunque, si sprecano. Sergio Chiamparino, presidente della Regione Piemonte, ha deciso di preparare un referendum sulla Tav, che martedì porterà in Consiglio regionale. Matteo Salvini plaude: “Ai referendum siamo sempre e comunque favorevoli”. D’altra parte a gennaio i dem in Senato avevano provato a fare asse coi leghisti proprio con una mozione per salvare l’Alta velocità. E il Pd era stato tentato di offrire una mano ai leghisti anche alla Camera, durante la discussione sulla prescrizione.
A proposito di convergenze, e anche lì si parlava di giustizia, va ricordata solo due mesi fa la cena organizzata da Annalisa Chirico, presenti i big leghisti insieme a Maria Elena Boschi e Francesco Bonifazi.
Niente di nuovo sotto il sole: da sempre maggioranza e opposizione si sono parlate più o meno sotto traccia, quando la convenienza lo rendeva necessario. E alcuni personaggi di punta del renzismo, a partire da Maria Elena Boschi, hanno sempre avuto rapporti politicamente trasversali (per dire, la sua ex collaboratrice a Palazzo Chigi, Daria Perrotta, aveva lavorato con Giancarlo Giorgetti, dal quale adesso è tornata).
E quanto alla mozione Martina, Luca Lotti e Antonello Giacomelli – che ne sono ormai i veri dominus con Lorenzo Guerini – sono da sempre gli uomini ponte, quelli che stringono accordi riservati coi presunti oppositori politici. Last but not least: da inizio legislatura Matteo Renzi intrattiene rapporti con il suo omonimo Salvini. Un messaggio, una battuta. E ultimamente ha raccontato a tutti di sentirlo spesso e volentieri. Può essere che tutto questo non si concretizzerà in un partito di appoggio a un futuribile governo di centrodestra. Ma quanto meno a una corrispondenza di amorosi interessi sì.
Quell’idea di Gelli da attuare dopo un golpe, poi adottata dal Psi di Craxi e da Berlusconi
Avolte ritornano. Ci sono proposte che s’inabissano nel ventre carsico della Repubblica, ma poi riaffiorano, periodicamente, tenacemente, insistentemente. La separazione delle carriere, per esempio, tra magistrati d’accusa e giudici. Piaceva a Bettino Craxi. I Radicali l’hanno proposta in un referendum. Silvio Berlusconi l’amava quasi più delle “cene eleganti”. La Bicamerale di Massimo D’Alema l’aveva tra i suoi punti qualificanti. Oggi torna di moda, a destra e a sinistra, dopo che la magistratura ha osato mettere addirittura agli arresti il babbo e la mamma di Matteo Renzi. È una riforma che trova il suo primo modello ideale in quel grande magazzino sotterraneo di idee a disposizione dei cattivi riformatori d’ogni risma e d’ogni fase politica che è il Piano di rinascita democratica di Licio Gelli, Maestro Venerabile della loggia massonica segreta P2. Era un piano segreto elaborato tra l’autunno 1975 e l’inverno 1976 e sanciva il passaggio dell’Italia dalla fase golpista (quella delle stragi e dei tentati colpi di Stato tra il 1969 e il 1974) a quella più propriamente piduista. Dopo il 1974, cambia lo scenario internazionale, tramonta in Usa l’amministrazione Nixon e i centri sotterranei in Italia si attrezzano a una più complessa e raffinata occupazione dei gangli di potere. Una strategia di conquista dall’interno della politica, della magistratura, dell’informazione. Il Piano indica fin dalla prima pagina sei obiettivi da realizzare: nei partiti, nella stampa, nei sindacati, nel governo, nel Parlamento. Il quinto punto riguarda appunto “la magistratura, che deve essere ricondotta alla funzione di garante della corretta e scrupolosa applicazione delle leggi”. Come? Realizzando una serie di riforme. Eccole.
Introdurre “la responsabilità civile (per colpa) dei magistrati; il divieto di nominare sulla stampa i magistrati comunque investiti di procedimenti giudiziari; la normativa per l’accesso in carriera (esami psico-attitudinali preliminari); la modifica delle norme in tema di facoltà di libertà provvisoria in presenza dei reati di eversione – anche tentata – nei confronti dello Stato e della Costituzione, nonché di violazione delle norme sull’ordine pubblico, di rapina a mano armata, di sequestro di persona e di violenza in generale”. Seguono sei punti che indicano sei riforme concrete. La prima riguarda la separazione delle carriere, con il pubblico ministero diviso dai giudici: eccola, la “riforma” che torna anche oggi e che tanto piace alla politica, di destra e di sinistra, che vuole tagliare le unghie a un pm indipendente, libero di indagare sui politici, di destra e di sinistra. La seconda delle “riforme” proposte dal piano di Gelli riguarda la “responsabilità del Guardasigilli verso il Parlamento sull’operato del pm (modifica costituzionale)”. E sottolinea, per chi non avesse capito, che l’obiettivo è proprio il controllo dei magistrati d’accusa da parte della politica, attraverso la “responsabilità” del ministro della Giustizia. Il terzo punto indica la “istruzione pubblica dei processi nella dialettica fra pubblica accusa e difesa di fronte ai giudici giudicanti, con abolizione di ogni segreto istruttorio con i relativi e connessi pericoli ed eliminando le attuali due fasi d’istruzione”. Al quarto punto si toglie autonomia al Csm: “Riforma del Consiglio superiore della magistratura che deve essere responsabile verso il Parlamento”.
Il quinto punto insiste sulla separazione delle carriere: “Riforma dell’ordinamento giudiziario per ristabilire criteri di selezione per merito delle promozioni dei magistrati, imporre limiti di età per le funzioni di accusa, separare le carriere requirente e giudicante, ridurre a giudicante la funzione pretorile”. Il Piano di rinascita democratica è il manifesto della nuova fase storica che si apre nel 1974. Ma sempre buono, in seguito, a offrire cattive idee a chi voglia ridurre la democrazia. Fino a oggi.
Separazione delle carriere, pm all’attacco: “Come la P2”
Ètornato il tormentone della separazione delle carriere dei magistrati: da un lato i pubblici ministeri e dall’altro i giudici, a vita. Con due Consigli Superiori della Magistratura.
Il caso vuole che il berlusconiano di ferro, e avvocato, Francesco Paolo Sisto abbia illustrato in commissione Affari costituzionali della Camera l’apposita legge di iniziativa popolare, proposta dall’Unione camere penali. Ciò avviene in pieno delirio renziano: nel senso di Matteo Renzi e dei suoi seguaci nel Pd, che a destra e a manca continuano a dire che i magistrati di Firenze – pubblici ministeri e giudice per le indagini preliminari – hanno deciso a tavolino di mettere ai domiciliari Tiziano Renzi e Laura Bovoli, genitori dell’ex premier. Con due obiettivi: colpire il figlio in politica e fare un favore al M5S nello stesso giorno, lunedì scorso, del voto online contro l’autorizzazione a procedere per Matteo Salvini, chiesta dal tribunale dei ministri di Catania.
A partire dalla metà della settimana prossima la discussione comincerà in commissione. I magistrati sono compatti nel respingere, ancora una volta, l’ipotesi di separazione delle carriere. Parecchi i messaggi nelle mailing list delle toghe. C’è chi ricorda il piano dell’ex capo della P2, Licio Gelli: “Spero che la magistratura non si lasci abbindolare da proposte che ne minano alla radice indipendenza, imparzialità ed autorevolezza. La separazione delle carriere è l’anticamera della sottoposizione del pm al potere esecutivo. Lo sapeva bene Gelli, quando nel ‘Piano di rinascita democratica’ prevedeva la responsabilità del Guardasigilli verso il Parlamento sull’operato del pm, la riforma del Csm…”. Un noto procuratore aggiunto si chiede: “I teorizzatori dell’abbraccio con le camere penali cosa dicono sul punto? È possibile stare seduti allo stesso tavolo, talvolta scambiandosi affettuose effusioni, con chi tenta di segare le gambe della sedia su cui stai seduto e non perde occasione per versare il suo vino sui tuoi abiti? Oppure per noi il tema è talmente secondario che ci si può anche passar sopra?”.
L’Anm non ha dubbi, non ci si può passare sopra: “Siamo totalmente contrari. Il rischio di un pm sottoposto all’esecutivo non dobbiamo correrlo”, ha detto il presidente Francesco Minisci, “perché la tutela dei diritti e la difesa delle garanzie sarebbero incerte e legate alle stagioni”. I magistrati di Area, la corrente progressista, vedono un legame tra il via alla discussione in Parlamento e gli attacchi alla magistratura di questi giorni: “Ancora una volta, a fronte di iniziative e provvedimenti giudiziari assunti nell’ambito di inchieste che attingono esponenti politici e i loro congiunti, si invoca la separazione delle carriere. Ciò che si vuol riformare non è il processo penale ma i magistrati, rei di adempiere al proprio dovere dando attuazione al principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge”. E spiegano perché la ritengono una legge pericolosa: ci sarebbe “un’autonomizzazione del pm che sfocerebbe nella sottoposizione al controllo del potere esecutivo oppure condurrebbe a creare un Ufficio del pm volto a coltivare tesi accusatorie contro l’imputato, senza esaltare la terzietà del giudice”.
Sul fronte politico, FI e Pd renziano si ritrovano dalla stessa parte della barricata e, come si dice, carta canta: “Il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale”, si legge nella mozione congressuale di Maurizio Martina. Un tema carissimo all’altro renziano candidato, Roberto Giachetti. E Martina, così come il presidente del Pd Matteo Orfini, che sui domiciliari ai Renzi ha parlato di provvedimento “allucinante” e di magistratura che “va salvata da se stessa”, sono entrambi in commissione Affari costituzionali.
Certo, i numeri, a bocce ferme, non ci sono perché questa legge passi, date la contrarietà di M5s e il silenzio strategico dei leghisti, ma questa discussione appena avviata è indicativa di un clima politico ostile verso la magistratura.
Nel contratto gialloverde, comunque, la separazione delle carriere non c’è e Salvini questa volta non fiata. Eppure, un anno fa, prima di andare al governo, firmò a Lucca al banchetto dei penalisti per questo progetto di legge. Infatti, Enrico Costa, responsabile Giustizia di FI, già provoca: “Siamo curiosi di verificare se la Lega sosterrà la legge, visto che il ministro Salvini risulta tra i sottoscrittori”.
Come fu che Bono restò a Fincantieri
La vita a Roma,vale a dire in quella metropoli-paese che è nata a un parto col potere e lo disprezza, è complessa, scivolosa, infida. Se ne sarà ormai accorto il sottosegretario lombardo Stefano Buffagni, illuminato in certi circoli dall’ampia delega in materia di nomine concessagli per motivi ignoti da Luigi Di Maio. Ecco, nei palazzi romani si dice – come ha scritto Il Fatto mercoledì – che l’attivo Buffagni, dopo aver contribuito mesi fa a portare Fabrizio Palermo alla guida di Cdp contro Dario Scannapieco, il preferito di Giovanni Tria, avrebbe di recente chiesto allo stesso Palermo di silurare l’eterno capo di Fincantieri Giuseppe Bono per far posto a Paolo Simioni, manager “grillino” della disastrata Atac di Roma. Palermo, sia detto en passant, dal 2005 al 2014 è stato uno dei principali manager proprio della Fincantieri di Bono. Risultato: ieri il grande vecchio di Fincantieri (è amministratore delegato dal 2002) ha ricevuto la conferma “di fatto” da Salvini in persona (“lo stimo, deve rimanere”) e persino dal Pd. Buffagni l’ha messa così: “Bono ha 75 anni ed è compito del governo pianificare il futuro di un’azienda importante”. L’interessato – forse dopo aver acceso un cero al ciarliero Mazzarino di Di Maio – ha fatto il bullo: “La mia conferma? Dipende dall’azionista, che deve proporla, e mio, che devo accettarla”.
I vicepremier contro Fitch: “Previsioni virtuali”
L’agenzia di rating conferma la valutazione sui titoli di Stato italiani che, seppur sfavorevole, non è peggiorata, mantenendo il livello di rischio del debito nazionale a BBB. L’outlook resta negativo, cioè rimane aperta la possibilità di un declassamento. Questo riflette la recessione in corso nel Paese, ma sopratutto l’instabilità politica: secondo l’agenzia le tensioni tra la Lega e il M5S potrebbero portare al voto anticipato. Per Fitch una caduta del governo è ritenuta quindi probabile, ma questi giudizi sembrano a Matteo Salvini lontani dalla sfera della quotidianità: il vicepremier, infatti, ha detto che preferisce occuparsi della “vita reale” piuttosto che di queste “previsioni virtuali”. Interviene anche il ministro Luigi Di Maio: “Non sono d’accordo con Fitch. Ogni politica che stiamo portando avanti ha una prospettiva di 5 anni”. Dall’opposizione, però, arriva un altro punto di vista: si crede con certezza che ci sarà bisogno di una manovra correttiva entro la fine dell’anno. Zingaretti (Pd), all’Intervista di Maria Latella su SkyTg24, aggiunge che l’eventuale manovra finirà per mettere le mani nelle tasche degli italiani, con più tasse e tagli alla sanità.