No al Tav e via la concessione ai Benetton: le condizioni di Dibba per tornare in campo

In pubblico non parla e non appare, ormai da quindici giorni. Scomparso, assieme alle certezze da slogan del Movimento, franate nel voto in Abruzzo dopo settimane di sondaggi brutti da non dormirci la notte. E dalla pancia del Movimento hanno salutato l’assenza con critiche e sfoghi: tanti, contro l’ex deputato rientrato a Natale, “perché noi non abbiamo bisogno di star”. E la star, quello che riempiva le piazze come nessun altro, sarebbe sempre lui, Alessandro Di Battista. Il Coriolano che nei piani di Luigi Di Maio doveva e dovrebbe fare la differenza nella corsa in cui il capo politico e il M5S si giocano quasi l’intera posta, le Europee. Ma il primo assaggio di campagna in Abruzzo è andato male, anzi peggio. E quindi che si fa? Si fa che adesso si deve cambiare moltissimo nel Movimento, ha deciso Di Maio assieme a Beppe Grillo e Davide Casaleggio. E assieme a Di Battista, quello che non si vede più ma c’è, ancora. Perché il vicepremier lo ha ampiamente consultato sulla riorganizzazione prossima ventura, “e anche Alessandro è assolutamente favorevole, anzi ha spinto in questo senso” dicono. Anche se non avrà alcun incarico nel nuovo organigramma, e su questo sono tutti concordi. Però per tornare in prima linea, per esporsi nella campagna per le Europee Di Battista pretende “garanzie”. Una parola che aveva già evocato a Porta a Porta, a fine gennaio: prima del tonfo abruzzese e del caso Chalençon, il Gilet giallo che lui e Di Maio erano andati a trovare in Francia per cementare un’alleanza elettorale, ma che poi ai microfoni di Piazzapulita ha straparlato di “corpi paramilitari” e di “colpi di Stato”, e allora tanti, imbarazzatissimi saluti.

Così Di Battista è fuori inquadratura, per ora. Ma quello che chiedeva, le garanzie, sono ancora lì sul tavolo. E si chiamano no al Tav e revoca della concessione ad Autostrade, due condizioni irrinunciabili, di cui parla da quando è tornato in Italia. Ma ora rilancia Di Battista, che ha notato come Matteo Salvini continui a insistere per la Torino-Lione: nonostante la mozione di maggioranza appena approvata alla Camera, che parla di revisione completa dell’opera, esattamente come il contratto di governo, cioè punta a congelarla per ucciderla. “Ma io mi sono impegnato in prima persona per il no al Tav, in ballo ci sono 8 miliardi che verrebbero buttati in un’opera inutile” ha ragionato con alcuni parlamentari. Quindi non si può cedere sulla Torino-Lione, neanche in parte. Anche perché Di Battista sente ancora sulla pelle la ferita del Tap, il gasdotto in Puglia su cui in un comizio si era esposto: “Una volta al governo lo fermeremo in due settimane”. Invece è andata diversamente, e l’ex deputato si è dovuto scusare. Ma per Di Battista, dicono, conta molto anche la revoca della concessione ad Autostrade, la società dei Benetton: “Anzi, forse questa è la cosa a cui tiene di più”. E anche in questo caso conterebbe molto il tema delle risorse, “perché con i soldi dei pedaggi puoi investire in sicurezza”, ripete spesso. Insomma, questo pensa e vuole l’ex parlamentare, per essere in campo da qui alle prossime settimane. E il come è ancora tutto da definire. “Ma la quadra si troverà e poi lui e Luigi vanno d’accordo, si sentivano spessissimo anche quando Di Battista era in Sudamerica” assicura un deputato della vecchia guardia. Tradotto, il tema delle garanzie non è un problema con il capo politico. Però c’è, esiste. Come l’idea di fare in fretta sull varo del “nuovo” Movimento. “L’obiettivo è completare le votazioni sulle nuove regole e sulla struttura entro un mese o poco più” spiegano dai piani alti. Molto prima delle Europee, così da dare per tempo agli elettori l’immagine di un M5S più solido e anche più tradizionale (rassicurante). Insomma, di un partito. Che punta ancora (anche) su Di Battista: nonostante l’Abruzzo, e le garanzie.

“Io mai in politica. Paghiamo di più i consiglieri comunali”

Non mutamenti radicali, ma normali evoluzioni nella storia del Movimento 5 stelle. La consapevolezza che per sopravvivere bisogna cambiare, a partire dal rapporto con chi sta a presidiare i territori e che si sente abbandonato. Quindi la proposta: “Aumentare lo stipendio a consiglieri comunali e municipali”. Anticipiamo qui alcuni brani di una lunga intervista che verrà pubblicata sul prossimo numero di Fq MillenniuM, in edicola dal 9 marzo. Casaleggio risponde alle critiche sul voto per il caso Diciotti e spiega perché, secondo lui, il governo durerà l’intera legislatura. Affronta la questione dei rapporti con la Lega e ricorda gli ultimi discorsi avuti con suo padre in cui Gianroberto Casaleggio, prima della morte, parlava del futuro dell’Italia e del M5s. Infine, presidente dell’associazione Rousseau, descritto dal New York Times come “una specie di mago di Oz” che guida il partito nell’ombra, alle domande sulla sua azienda e il suo ruolo. E ricorda di aver partecipato sin dal primo giorno con Grillo e il padre alla creazione del movimento. Ecco i brani che riguardano la più stretta attualità.

Il M5s si prepara a una rivoluzione?

Stiamo affrontato un momento che richiede un’evoluzione. Ne abbiamo attraversati molti nella nostra storia.

Questa volta però si toccano dei pilastri: l’apparentamento con le liste civiche ad esempio. O la regola del massimo due mandati.

Sono indiscrezioni giornalistiche e non sono state comunicate agli iscritti.

Di Maio ha parlato esplicitamente di liste civiche.

Chiedetelo a Di Maio.

Raccontano che è sempre stato lei a fare muro su questi temi.

Come ho detto, evoluzioni nel Movimento ci saranno. Ci sono sempre state.

La sconfitta in Abruzzo è un segnale. Il M5s si è concentrato troppo sul governo e ha dimenticato il territorio?

Sicuramente devono essere più valorizzati i consiglieri comunali e anche quelli municipali. Bisognerebbe dare più spazio alle loro battaglie. È importante perché hanno uno stipendio troppo basso.

Sta dicendo che dovrebbero guadagnare di più?

In qualche modo dovrebbe essere aumentato il loro stipendio e diminuito quello degli altri. A partire dalla riduzione di quello dei parlamentari e dei consiglieri regionali, come già fanno i 5 stelle. C’è poi anche un tema di legame con il governo. C’è l’illusione, forse perché lo fanno gli altri partiti, che il governo debba rappresentare solo una parte: in realtà il governo rappresenta tutti. Forse possiamo migliorare nel capire come convogliare le esigenze di tutto il territorio verso il governo.

A proposito di malumori: caso Diciotti. Perché chiedere alla base se far processare Salvini?

Penso che in tutte le occasioni in cui possono essere coinvolti gli iscritti su decisioni che segnano la vita del Movimento sia opportuno farlo.

Il quesito però era suggestivo. Diceva implicitamente: siete d’accordo che è stata una scelta politica?

Era quello posto in commissione.

Non testualmente.

No, però la domanda non era se bisognasse mandare a giudizio qualcuno, ma se quel fatto specifico fosse ragion di Stato.

Non sarebbe stato meglio dare spazio alle tesi del sì e del no al processo? Luigi Einaudi diceva: “Conoscere per deliberare”.

C’era una descrizione del quesito dettagliata. Alla fine si è optato per una presentazione asettica.

Una critica di molti, anche del nostro giornale, è che i 5 stelle siano stati incoerenti perché da sempre contrari all’immunità. Vede l’incoerenza?

Sono stato sorpreso che fosse una delle prime occasioni in cui è stato utilizzato un articolo diverso (art. 96 ndr). Si chiedeva non tanto se fosse stato commesso un crimine o se bisognasse processare Salvini (art. 68 ndr), ma si chiedeva se c’era ragion di Stato. C’è differenza.

Funzionano messaggi semplici. I 5 stelle dicevano: i politici vanno trattati come tutti gli altri.

Penso che i cittadini sappiano ragionare. E semplificare troppo i messaggi lascia il tempo che trova.

Il M5s è uscito diviso da quel voto. Qualcuno se ne andrà?

Penso che quando le persone possono esprimersi e dare la loro opinione, il 100 per cento di chi partecipa si sente importante per la vita del Movimento.

Suo padre al Fatto Quotidiano disse che sareste arrivati alla certificazione del voto da parte di un ente esterno. Non è mai successo.

È stato escluso perché ha costi troppo alti. Oggi abbiamo uno strumento di certificazione del voto che passa da una serie di procedure che noi seguiamo e da un notaio che ne valuta l’adozione e fotografa il risultato finale. In futuro adotteremo la certificazione distribuita (blockchain ndr).

Ma quando?

Presto comunicheremo l’inizio del percorso.

Qualcuno dice di aver votato due volte.

Non è possibile.

Cosa non ha funzionato? Ci sono siti che fanno molte più transazioni in un giorno.

Siti con budget miliardari.

L’associazione Rousseau riceve 300 euro al mese da ogni parlamentare M5s. Alcuni hanno chiesto un resoconto su come vengono usati.

Mi sembra assolutamente una richiesta corretta, infatti i bilanci dell’associazione sono stati pubblicati. Abbiamo anche fornito un dettaglio, pur non essendo tenuti, al Parlamento.

Il voto online viene usato poco o mai per scelte politiche.

Forse non ci sono state le occasioni, forse non c’è stata l’opportunità. Per me ogni votazione è importante. In totale ce ne sono state 248, una in media ogni 9 giorni. Sfido a trovare un’altra forza politica che abbia coinvolto così tanto i propri iscritti.

Suo padre diceva che l’obiettivo per il M5s era di non servire più e sparire. È ancora valido?

C’è sempre lo stesso obiettivo. Il Movimento è nato perché era indignato da una serie di cose che succedevano in Italia. Una volta risolte può anche sparire.

Nell’attesa di sparire, lei è cercato da tanti.

C’è molto interesse anche a livello internazionale per un nuovo modello di fare politica (…)

Lei ha però anche una associazione dedicata a suo padre. Come raccontato dal nostro giornale, ha organizzato cene con imprenditori e finanziatori. È un potenziale conflitto di interessi…

Il tema non esiste, perché da una parte non mi pago lo stipendio, dall’altra ho un’azienda comunque piccola e sartoriale. Con quella società (la Casaleggio associati ndr), tra l’altro ho avuto tre anni di perdite durante il periodo del Movimento. Se mi facessi nominare in un qualunque posto disponibile in Italia, probabilmente guadagnerei di più con un singolo stipendio che con tutto l’utile che faccio con la società.

A lei preoccupa la recessione dell’economia italiana? Il governo ha scelto la strada giusta?

Assolutamente sì, è la strada giusta. Sono preoccupato dell’evoluzione economica a livello mondiale.

Che voto dà all’esecutivo?

Mi sembra stia andando bene. Può migliorare su quest’anno e lo farà.

Ma bene da 6 o da 8?

Non do voti. Non faccio l’insegnante.

È convinto che la legislatura durerà 5 anni?

Sì.

Perché?

C’è un motivo pratico. E un motivo di solidità del patto di governo. Penso che a entrambe le forze convenga comunque portare a termine tutte le attività che sono state scritte in quel contratto.

Suo padre sognava un “governo dei migliori”. In questo esecutivo ci sono ministri che sono stati protagonisti di gaffe anche gravi. Serve un rimpasto?

Non vedo a breve questa cosa. E penso anche che quando si parla di gaffe, in realtà stiamo parlando di un sistema mediatico che le monta.

Lei critica i media. Dicevate “I partiti fuori dalla Rai”. Ma le mani lì ce le avete messe.

Non mi sembra. Qual è l’iscritto M5s finito a fare il dirigente della Rai?

Il M5s prima delle elezioni si era preoccupato di dare un’immagine di serietà. Poi Di Maio è andato dai gilet gialli con Di Battista…

Il Movimento ha tante sensibilità, tante persone che danno apporto nei vari modi in cui possono. Alessandro è sicuramente una persona importante per il Movimento.

Ma se Luigi fa Alessandro?

Luigi ha sempre fatto Luigi.

Lei entrerà mai in politica?

Penso di essere saturato a sufficienza.

Odo Gelli far festa

È un vero peccato che Licio Gelli non sia più tra noi. Sarebbe davvero entusiasta, dopo quarant’anni di calunnie, di questa riabilitazione, purtroppo postuma, del suo mitico Piano di Rinascita Democratica. Aveva sperato in Craxi, Andreotti e Forlani, ma gli era andata male: il Caf aveva orizzonti più prosaici che la Grande Riforma della Giustizia. Si accontentava di rubacchiare e/o di mafiare sperando di farla franca, e alla fine nemmeno ci riuscì (a farla franca). Poi aveva puntato tutto su B., ma anche quello ben presto lo deluse: era troppo impegnato a non finire in galera depenalizzando i suoi reati, allungando i suoi processi e dimezzando la prescrizione, per perder tempo a diventare il Grande Architetto della Giustizia. Gli piaceva molto D’Alema, che con la Bicamerale e la bozza Boato ce la stava per fare: “Dovrebbero versarmi il copyright, sono tutte idee mie, solo che a me davano del golpista”, confidò gongolante nel 1997 al sottoscritto. Ma anche quella preziosa occasione sfumò, e sempre a causa del confratello Silvio, che la fece saltare sul più bello perchè i “comunisti” non volevano dagli pure l’amnistia. Quando arrivò Renzi, che sarebbe stato perfetto col suo bel progettino costituzionale per dare tutto il potere a un uomo solo al comando e svilire il Parlamento a cameretta di nominati dalla Casta e con la sua riabilitazione di Tangentopoli (“Mani Pulite fu barbarie giustizialista”), il sor Licio se n’era già andato. Ma ne sarebbe rimasto deluso anche stavolta: a lui piacevano i vincenti, e Renzi era un perdente nato. Infatti perse tutto: referendum, governo, amministrative, politiche e faccia.

Ma proprio ora che l’eterno sogno autoritario piduista pareva definitivamente tramontato, ecco la svolta. Il Pd che doveva derenzizzarsi si rirenzizza in articulo mortis. Due dei tre candidati alla segreteria – Martina e Giachetti – erano in prima fila, l’altroieri al Lingotto di Torino, a spellarsi le mani per la sceneggiata del figlio di Tiziano e Lalla (momentaneamente agli arresti), mentre questo caso umano itinerante sparava sui pochi magistrati e i pochi giornalisti che osano ancora indagare su chi è e da quali lombi discende. Martina, nella sua mozione congressuale, vuole la separazione delle carriere fra giudici e pm, copiata paro paro dal Piano di Gelli e dai programmi di Craxi e B. Giachetti fa di più e dichiara che, da buon ex radicale, “sulla giustizia la penso come B. da vent’anni”: basta con “lo strapotere dei pm”, carriere separate fra chi indaga e chi giudica, anche se fanno lo stesso mestiere di cercare la verità. Che poi è da sempre il vero terrore della Casta.

Se si scoprisse mai tutta la verità, si salvi chi può: in manette non ci finirebbero solo Formigoni e la Sacra Famiglia di Rignano, ma una processione di politicanti, prenditori e magnager che rubano e/o mafiano da una vita. Non che in questi anni la Procure abbiano dato gran noia a lorsignori, anzi: la controriforma Castelli-Mastella che ha accentrato il potere in mano a un pugno di procuratori e il Csm napolitan-renzizzato che ha epurato i pm importuni hanno riesumato i vecchi cari porti delle nebbie e delle sabbie. Ma purtroppo qualche scheggia impazzita qua e là ha continuato a curiosare dove non doveva. E a scoprire il marciume, che tracima anche dove si tenta con tutte le forze di nasconderlo sotto i tappeti. Trattativa Stato-mafia, Expo, Mose, Etruria, i 49 milioni della Lega, Consip, grandi opere, i Renzis. Ora è bastato che in pochi giorni si chiudesse il processo Formigoni sul più grave scandalo di corruzione nella sanità degli ultimi 25 anni e finissero ai domiciliari Tiziano & Lalla perchè la Banda Larga rientrasse in fibrillazione, atterrita dall’incubo che l’attanaglia dal ‘94: una nuova Mani Pulite. Prospettiva fantasiosa, per chiunque sappia come son ridotte le Procure. Ma la parola “arresti” in prima pagina, per chi ha una coda di paglia lunga come il tunnel del Tav, ridesta brutti ricordi. Infatti, in automatico, l’on. avv. berlusconiano Sisto è corso a depositare un ddl per separare le carriere. E subito, come le api sul miele, gli sono corsi incontro i pidini renziani, che parevano estinti e invece erano solo nascosti in attesa di tempi migliori e ora adescano la Lega (quella che a giorni alterni chiamano fascista) per una bella Unione Sacrée con FI e contro il M5S, pro-affari e anti-giudici.
Il fatto poi che un politico condannato a soli 5 anni e 10 mesi per appena 6,6 milioni di tangenti e 200 milioni di euro pubblici regalati alla sanità privata entri in galera senza la certezza di uscirne dopo un paio di giorni, alla Previti, incrementa il terrore. Infatti i giornaloni di regime, anziché raccontare perchè è giusto che un supercorrotto sconti la pena come in qualunque paese civile, partecipano al lutto nazionale della Casta e maledicono la legge Anticorruzione del ministro Bonafede che rischia di scongiurare, almeno per lo scandalo formigoniano, il classico esito a tarallucci e vino. Anche quelli un tempo schierati dalla parte della legalità, come Repubblica, che lacrima come una vite tagliata perchè un ladrone patentato “finisce in carcere a 72 anni” (orrore, disgusto, raccapriccio!); e sostiene addirittura l’incostituzionalità della Spazzacorrotti perchè qualcuno vuole applicarla anche a chi è stato condannato per reati commessi prima e a chi ha compiuto 70 anni. E questa sarebbe “la peggiore giustizia, quella ‘esemplare’”. Scemenze che un tempo leggevamo sul Giornale (e ancora le leggiamo, a firma di Claudio Brachino, quello che sputtanò su Canale5 il giudice Mesiano del caso B.-Mondadori per i calzini turchesi) ora escono in stereofonia anche su Repubblica. Ditemi voi se non è un’ingiustizia che Licio Gelli, dopo tante amarezze e incomprensioni, non possa godersi la meritata rivincita.

Alla riscoperta di Giuseppe Berto e del suo cielo indifferente alla guerra

Ma perché, mi son chiesto più volte negli ultimi anni, Giuseppe Berto non ha il posto che si merita nel canone dei grandi autori italiani del Novecento? Apro le antologie scolastiche del triennio e vedo pagine su pagine dedicate a Italo Calvino. Pagine su pagine dedicate a Pasolini narratore e poeta. E Berto? Rare volte compare con un paio di paginette ma troppo spesso è assente. Lui che con Soldati, Bassani, Chiara e Celati resta uno dei miei preferitissimi. Perché sa raccontare, cattura il lettore, talento che è di pochi. Grazie dunque alle edizioni Neri Pozza, che stanno ristampando con pazienza e coraggio i suoi romanzi (ma a quando il recupero di La cosa buffa, che resta il suo capolavoro assoluto?). Torno ai perché. Forse pesa su Berto l’equivoco che lo fece etichettare come autore di destra. Quando occorre che in letteratura destra e sinistra, reazione e progressismo non contino. La prova migliore: secondo questo criterio dovremmo liquidare tutto Balzac, che progressista certo non era, e che per contro si meritò la stima e l’ammirazione di Marx e di Engels. Forse, anche, perché l’opera di Berto è difficilmente classificabile, esistendo, nonostante il pari valore, un notevole salto stilistico tra Il cielo è rosso (1947), Il male oscuro (1964) e La cosa buffa (1966). Ma in Berto l’ansia di rinnovarsi andava di pari passo con la trasformazione del suo mondo interno; rispondeva a uno scavo interiore e a un’esigenza di verità in lui via via sempre più forte: passata soprattutto attraverso l’incontro fondamentale con la psicoanalisi.

Pubblicato nel primissimo dopoguerra, e riproposto ora appunto da Neri Pozza, Il cielo è rosso fu scritto da Berto durante la prigionia (1943-45) nel campo di Hereford, Texas. Sicché, ambientata nell’ultimo periodo del conflitto, in mezzo ai bombardamenti degli aerei inglesi, e fino all’arrivo degli americani, in una piccola città simile a Treviso, la trama, che narra i travagli e la disperazione di quattro adolescenti e di una bambinella, Tullio, Daniele, Carla, Giulia e Maria, accomunati dal fatto di aver perso la famiglia e la casa, e costretti a dolorosamente arrangiarsi per sopravvivere, si basa su una ricostruzione avvenuta attraverso la lettura dei giornali di propaganda antifascista distribuiti nel campo e i racconti degli ultimi prigionieri arrivati. Eppure, magia dell’autore, la descrizione di ciò che avvenne in tante città italiane – bombe, cadaveri ovunque, quartieri distrutti, paura, miseria, fame – è assolutamente reale. Forse in tale prospettiva Berto fu scambiato per un autore neorealista, quando invece è molto di più. Perché in lui alla scrittura piana si mescola spesso uno stile più alto e solenne (l’anticipazione del verbo rispetto al nome, e dell’aggettivo rispetto al sostantivo cui si riferisce, a volte anche separati dal predicato nominale; l’uso continuo e voluto di “essi”, “esse”, “essa”, “egli”) che conferisce al racconto una tonalità sacrale: non si sta parlando solo del travaglio di cinque infelici accomunati dalla stessa sorte, quanto si narra una specie di via crucis laica fatta di angoscia, distruzione e orrore. Certo, gli sguardi dei poveri protagonisti vanno spesso al cielo, “il cielo azzurro intenso”; il fumo degli incendi che copre tutto il cielo; e la luna che non è ancora sorta; e “la luce bianca e vivida”, poi “rossastra e nebbiosa” per via degli incendi; e “il cielo pieno di stelle”. Un cielo che tuttavia è muto, che ha la stessa indifferenza con cui, nell’ultima mirabile frase del romanzo, impreparati al futuro, “uomini seduti al sole aspettavano con stanca pigrizia”.

Droga, botte e paranoie: sono “Storie di ordinaria follia rock”

Jerry Lee Lewis intrappolato nel suo ribellismo refrattario a ogni regola sociale e morale, Madonna vittima della propria voglia di emergere che pretende di essere sempre al centro della scena, sul palco come in famiglia, Nico algida bugiarda pronta a mentire anche sé a stessa pur di ritagliarsi un posto nel mondo, e poi l’alienazione prossima alla patologia di Kraftwerk e Devo, e ancora fobie, paure, paranoie e bizzarrie pronte a sfociare nel caso clinico. Il mondo della musica non si fa mancare nulla. A volte c’è quel guizzo di genialità che trasforma il mal di vivere in idee che lasciano un segno nel tempo. A raccontarne le storie (27 in totale) è Massimo Padalino, Storie di ordinaria follia rock. Con dichiarata volontà di evitare sensazionalismi morbosamente gossipari sceglie una strada diversa affidandosi a Charles Bukowski: “Non sono le cose importanti che mandano un uomo al manicomio, la morte o l’omicidio, l’incesto, il furto, l’inondazione – quelli se li aspetta. No, è la continua serie di piccole tragedie che manda un uomo al manicomio… non è la morte del suo amore ma il laccio della scarpa che si rompe quando uno ha fretta”.

Così, pagina dopo pagina – scrittura da “fanzine” sorretta da un solido bagaglio culturale – si incontrano le paranoie di Elvis Presley che vede nei Beatles, nei comunisti e nella gioventù moderna preda di droghe e idee pacifiste, i nemici dei veri valori americani. Paranoie che lo portano a scrivere e poi incontrare Nixon chiedendo “il distintivo del Bureau Of Narcotics And Dangerous Drugs per infiltrasi fra gli odiati hippy come uno 007 e spiarli con tutte le carte in regola in nome e a servizio del Paese”.

Chiede udienza anche al suo idolo Edgar J Hoover che però rifiuta. L’allora capo dell’Fbi è più paranoico di lui. E poi le ossesioni di un Giovanni Lindo Ferretti in cerca di risposte certe e assolute – politiche prima e religiose poi – al suo mal di vivere. Si continua squarciando il velo sulle “squallide intemperanze di James Brown. Vive un presente da star ma sulle spalle ancora pesano le ingiustizie subite. La sua ira incontrollabile lo porta più volte alla sbarra, denunciato dalle mogli e poi per aver fatto irruzione, pistola alla mano, in un convegno di assicuratori riunito in una sua proprietà”. A guidarlo c’è la solita ira, “hanno usato il suo cesso personale senza permesso”. Le violenze domestiche segneranno anche Yamma, figlia di James e testimone impotente dei pestaggi subiti dalla madre. Appena sposata si ritrova a fare i conti con un marito violento e con un già sentito consiglio della psichiatra: “Non trasformare il dolore in ossessione e impara a vivere con i tuoi fantasmi o diventerai pazza”.

Freddie Mercury, irascibile fino a rasentare l’isterismo che dopo ogni lite – avvenivano spesso prima di un concerto – una volta arrivato sul palco dava il meglio di sé. Come la volta che poco prima dell’esibizione alla Milton Keynes Bowl l’amante dell’epoca, Bill Reid, durante una furibonda lite gli pianta i denti fra pollice e indice. “Quella volta temetti – ricorda l’assistente Peter Freeston – che Freddie facesse saltare il concerto e invece no, salì sul palco e fece vibrare la sua voce”.

Altri si dedicano con metodo all’autodistruzione e inseguendola e coccolandola, fra risse e sbronze, la trovano come John Henry “Bonzo” Bonham. Oppure la cercano frequentando assiduamente eroina e violenza. Sid Vicious muore di overdose a poca distanza dalla notte in cui ha accoltellato la fidanzata nelle stanze del Chelsea Hotel. Kurt Cobain, fra disintossicazioni e ricadute, sceglie invece la certezza definitiva di un fucile calibro 20. Altro capitolo la schizofrenia, c’è chi ne resta schiacciato e chi come David Bowie – la teme come una tara familiare, lo erano le zie, la madre e il fratellastro – la esorcizza con un colpo di genio: crea Ziggy, rosso di capelli e alieno dal mondo come l’amato fratello. Nel libro altre storie dai Rolling Stones che flirtano con gli Hells Angels, al latente bipolarismo di Nina Simone, al disarmante donchisciottismo di Zappa, a Nick Drake, Lennon e Yoko, Moondog. Una lunga lista. Per tutti la certezza che il laccio di scarpa, strappandosi, ci ha regalato emozioni uniche.

Mia nonna un’emigrante. Io soltanto una straniera

Quando i miei nonni partirono verso gli Stati Uniti a metà degli anni Sessanta, non avevano dubbi su come chiamarsi, o su chi erano per gli altri: degli immigrati. Si sono insediati a Brooklyn in mezzo ai loro coetanei che erano partiti dalla Calabria o dalla Sicilia, e a differenza di tanti altri hanno deciso di non cambiare il proprio nome: mio nonno Vincenzo non è mai diventato Vinny e mia nonna Maria si è trasformata al massimo in Marì. Più che vivere in America, i miei nonni volevano vivere nel loro quartiere, insieme a persone a cui somigliavano per i dialetti o per le abitudini alimentari.

Quando sono partita io verso Londra nel 2011, invece, quella parola così familiare a chi era venuto prima di me, non veniva mai usata. Né da me, né dagli altri italiani con cui avrei condiviso storie e mitologie sul nostro allontanamento da casa. Eravamo tante cose: persone frustrate, ingenuamente innamorate dell’Inghilterra, costrette a una partenza per la disoccupazione, più o meno versatili nell’uso della lingua del paese che doveva accoglierci. Ma mai, tra di noi, ci chiamavamo immigrati.

Alcuni si definivano viaggiatori, altri apolidi, nei frequenti casi di nostalgia la parola d’elezione era stranieri e nei casi più detestabili diventava expat, espatriati, una parola che si muoveva sempre sui confini della classe sociale: per essere expat dovevi avere titoli di studio, soldi e un passaporto inoffensivo. Credo che in questo deficit nominale, in questo aggirare la parola “immigrati” che nel caso della storia italiana faceva pensare subito a Ellis Island, l’Argentina ma pure le periferie di Torino negli anni Settanta, qualcosa che ormai aveva assunto una patina romantica ma non ci riguardava, si sia annidata una sostanza esplosiva, che ha fatto schizzare schegge ovunque all’indomani di Brexit: all’improvviso noi italiani a Londra non eravamo più expat né stranieri, eravamo persone potenzialmente illegittime come tante altre. Se da un lato questa esplosione ha avuto il merito di creare un legame tra la propria esperienza individuale e quella di tante persone partite senza avere sicurezza che sarebbero state accolte, dall’altro non ho potuto fare a meno di provare una specie di risentimento verso questo miscuglio di empatia e oltraggio. Come se non ci fosse alcuna possibilità di passare dall’“io” al “noi” senza una catastrofe di ordine superiore.

Come se io, per diventare la nipote di Maria che non è mai diventata Mary, mi sia dovuta ritrovare al cospetto di un brutale restringimento dei confini. Ma ci voleva per forza Brexit per immaginare che le nostre vite non erano così diverse, che il pregiudizio che aveva circondato la sua esistenza prima o poi avrebbe contagiato anche la mia? In realtà le nostre vite erano diverse: mia nonna è immigrata a quarantadue anni, non ha mai imparato bene l’inglese e in America si è adattata molto meglio di quanto abbia fatto io a Londra, in pieno possesso della lingua nazionale e sul finire dei miei vent’anni. È facile pensare che lei si sia adattata perché non aveva scelta e che io mi sia lasciata andare alla malinconia perché di scelta ne avevo fin troppa e nessun posto mi era precluso: mentre lei cercava di mettere radici, io continuavo a chiedermi se avessi fatto questo o se avessi fatto quello, immaginando mille altre destinazioni, concentrandomi su tutti questi “se del sé”: per me la migrazione coincide proprio con questa ramificazione, e ogni diramazione è una vita possibile.

Forse la realtà è che la sua migrazione è stata caratterizzata da un desiderio che io non avevo. La confusione nominale, il non sapere come definirmi, derivava dal fatto che a orientarmi non c’era un’idea così chiara di cosa volessi per me, dal mio futuro, o dal paese che avevo scelto. Da persona devota al linguaggio, tuttavia, mi rendo conto che una parola non funziona se non è condivisa, e migrazione non ha alcun senso se non si applica a un soggetto collettivo: posso usarla solo se contiene la mia vita tanto quella della mia famiglia, se contiene allo stesso tempo il passato, presente e futuro delle nostre evoluzioni. Di recente ho tradotto un libro di un autore americano che si sofferma su un concetto diffuso in gran parte delle religioni tradizionali, quando si parla del rapporto tra essere umano e linguaggio: tanto più una persona sa dare il nome a una cosa, tanto più la possiede. Ma secondo l’autore, questa frase è vera solo se è vero anche il suo esatto contrario, e cioè “Se non sai il nome di una cosa, allora quella cosa ti possiede”. Di questi tempi è così che mi sento rispetto alla distanza che intercorre tra expat, stranieri e immigrati, all’insufficienza e alla mancanza di una parola che contenga l’io e il noi, e sappia sterminare qualsiasi abuso e vergogna.

Minorenni e plusvalenze: il club di Sarri punito per 2 anni

Plusvalenzaè la parola magica che sostiene e permette gli scambi di mercato anche delle squadre più blasonate (e/o ricche). Il segreto del successo finanziario del Chelsea di Abramovic starebbe in buona parte nella rete di contatti e contratti che la società londinese ha sviluppato attraverso la sua succursale di fatto: la squadra olandese del Vitesse Arnhem dove vengono allevati le giovani (e giovanissime) speranze calcistiche individuate in giro per il mondo e selezionate attraverso il passaggio nei campionati olandesi, setaccio per arrivare poi in Premier League o altri campionati continentali. E se non sono campioni non importa: acquistati minorenni con valori a cinque zeri vengono poi rivenduti a cifre almeno a sei zeri. Per questo giro di calciatori (il Chelsea ne ha avuti fino a 25 sparsi per l’Europa) la Uefa ha multato la società di Stamford Bridge con il blocco di due anni del mercato (2019 e 2020), 530 mila euro di multa e 90 giorni per regolarizzare i minorenni coinvolti nel giro di trasferimenti internazionali non legali. Tra gli effetti del blocco il ritorno di Higuain (nella foto) a Torino: è di proprietà della Juve.

La Zarina Marina al Chelsea tutto potere e niente social

Di Wanda Nara sappiamo tutto, storia, mariti, figli, lati B, la tattica territorio off-limit per le donne in quanto donne, gli scontri con la dirigenza del club, il lavoro da grande manovratrice dietro le quinte. Di Marina non si sa niente. Presenza sui social? Zero, a parte un account Facebook in sonno. Annaspano i giornalisti sportivi britannici, si rimpallano informazioni di seconda e terza mano con i colleghi russi, sussurrano aneddoti con rispetto e timore, e se ne sta alla larga perfino la stampa scandalistica, quello col pelo sullo stomaco più fitto del globo. Marina Granovskaia, “probabilmente la donna di maggior potere nel mondo del calcio mondiale” azzarda l’Evening Standard in un pezzo così circospetto da evocare spie e segreti da guerra fredda.

Detta la Zarina, nazionalità russo-canadese, director nel consiglio di amministrazione del Chelsea F.C di Roman Abramovic e, si dice, vera detentrice del potere a Stamford Bridge. Poche foto, qualcuna sorridente, sempre in compagnia di giocatori, capelli lunghi, completi corporate, quarantenne, ma anche l’anno esatto di nascita è un mistero.

I giornali russi corrono in soccorso: cresce a Mosca negli anni dell’ascesa di Putin e dei suoi oligarchi, frequenta l’esclusiva Accademia di Musica e Danza 1113, la stessa del duo tATu, pop star di una Russia dal volto nuovo. “Non era niente di speciale” è il commento di un ex insegnante. Poi studi di Lingue (ne parla un numero imprecisato) alla prestigiosa Università Statale della Capitale e lo sbarco alla Sibneft, compagnia petrolifera e primo scrigno della ricchezza di Roman Abramovic. Assistente personale, poi consigliere di Roman, che la coinvolge nella Millhouse Capital, società londinese che gestisce i beni dell’oligarca. Fra cui le sedi a Londra e Mosca di Sumosan, ristorante di sushi preferito da Marina (e da oligarchi e modelle della rutilante Mosca sul Tamigi) che qui festeggia i suoi compleanni con amici e giocatori blue.

L’ascesa è rapida e verticale: comincia nel 2003 con la presenza sempre più frequente alle riunioni del club. Nel consiglio d’amministrazione entra ufficialmente ne 2013, ma è già dalla fine del 2000 che è la Special One. Lo racconta Yuri Dud, direttore del sito russo sport.ru: “Eravamo in albergo durante un torneo. I giocatori scherzavano con lei come avrebbero fatto con un compagno. E io, un vecchio sessista, rimasi molto sorpreso che una donna russa potesse essere vista come un uomo per i giocatori del Chelsea”. Il sessismo nel calcio: tasto dolente, sotto tanti cieli.

Ma Marina è di più: “È praticamente il Potere al Chelsea. Roman si fida di lei ciecamente. Non le interessa la visibilità ma non ci sono dubbi su chi sia al comando e chi prenda le decisioni”, rivela sempre allo Standard, in via riservata, un procuratore.

Protetta dalla riservatezza, mai esposta a chiacchiere personali, si dice sia una negoziatrice abilissima. Comincia nel 2011 con l’acquisizione di Fernando Torres, affare da 50 milioni di sterline.

Tratta con un occhio di riguardo ai giocatori: lavora sui rapporti, ricuce ferite, coltiva talenti e personalità. È lei a volere Mourinho, e a riportarlo al Chelsea dopo la plateale rottura con Abramovic nel 2007. Sempre in volo fra Londra e Madrid, dove Mou è approdato, due anni di trattative pazienti fra personalità ombrose, una questione d’orgoglio per entrambi che rendeva il ritorno desiderabile ma delicato, poi una vittoria capolavoro di mediazione, che amplifica ancora la sua sfera di influenza. Media anche fra Roman e Antonio Conte, insoddisfatto per la campagna acquisti. Perde le staffe solo una volta, durante l’esasperante negoziato per il rinnovo del contratto del capitano John Terry nell’estate del 2014: “Firma o levati dalle palle”. Terry firma. Il suo potere cresce, con Abramovic sempre meno presente a Londra, sempre più propenso a delegare, sempre più lontano dal club.

Ora Marina la zarina deve gestire la grana Sarri. L’allenatore non funziona, il Chelsea perde, la tifoseria in rivolta punta il dito su di lei che Sarri lo ha voluto dal Napoli. Il Daily Mail lancia la bomba: Sarri cadrà e Marina con lui. Un pezzo acchiappa-clic corredato di foto dei due sorridenti alla firma del contratto. Solo otto mesi fa, e invece ora le tensioni sono profonde, il rapporto fra i due sembra essere davvero ai minimi termini con l’allenatore frustrato dalla mancanza di comunicazione con l’Uomo forte Abramovic.

Fra i tifosi napoletani circola il rumour, impossibile da verificare, di un commento di Sarri di un sessismo irripetibile, da far sembrare quello di Collovati sull’alter ego Wanda un bouquet di roselline. Forse davvero il potere di Marina è al tramonto, e il mondo del calcio europeo si rimangerà l’eccezione di una donna al vertice. E solo allora, dopo la caduta, un maschio troverà il coraggio di fare la domanda del giorno: “Ma di tattica, di tattica capisce?”.

“Noi testimoni di Geova in Russia arrestati e torturati come terroristi”

Yaroslav Sivulsky è il rappresentante dei testimoni di Geova europei e unica voce dei fedeli russi arrestati dopo i raid degli apparati di sicurezza. Ci parla dall’ufficio di rappresentanza a Riga, Lettonia.

Perché?

Sono un cittadino russo, a volte torno in Russia, ma rimanere lì vorrebbe dire essere continuamente a rischio incriminazione perché mi occupo della difesa dei diritti umani dei testimoni di Geova perseguitati nella Federazione. Credo che la religione non sia un reato.

Una sentenza della Corte suprema russa del 2017 ha dichiarato i testimoni di Geova membri di un “raggruppamento estremista”, ma lo stesso Putin l’ha giudicata un “non senso” invitando a indagare sula sentenza”.

In realtà dopo quella dichiarazione di Putin tutto è peggiorato. Gli arresti stanno avvenendo in zone remote, in totale in 31 regioni lontane dalle due capitali, Mosca e Pietroburgo, zone in cui mancano ambasciate e copertura mediatica, e se qualcuno finisce in cella, non fa rumore.

Dietro c’è il Patriarcato di Mosca?

La Chiesa ortodossa russa ha festeggiato il divieto del nostro culto deciso dalla Corte suprema, ma questo dice molto sul perché di tutti questi arresti. Circa venti persone sono state fermate tre giorni fa, alcuni sono ancora in cella.

A Surgut, Siberia ovest, c’è stata una grossa operazione degli apparati e del Comitato investigativo russo, che compie le indagini, coordinate da Mosca.

Da quando i testimoni di Geova sono considerati una minaccia per la società e soprattutto perché?

È una domanda che vorremmo essere capaci di porre a chi di dovere perché noi stessi non ci spieghiamo i raid contro i fedeli tacciati come terroristi. Tutto quello che facciamo è incontrarci e leggere la Bibbia.

Tra tutti il caso più clamoroso è quello di Dannis Christensen, cittadino danese, che in base all’articolo 282 del codice penale è stato condannato a febbraio scorso “per organizzazione di attività estremista” a 6 anni di carcere.

Conosco Dannis, vive in Russia da oltre 15 anni perché sua moglie, Irina, è russa. La sua colpa è quella di aver letto la Bibbia ad alcuni incontri dei testimoni dopo il divieto del 2017, questo è stato il suo “atto terroristico”: pregare.

Alcuni credenti dei 175 mila presenti in Russia hanno cominciato a praticare il culto in segreto per paura di essere denunciati perfino dai vicini di casa. Conferma?

Questa cifra riguarda i testimoni rimasti in patria dopo il divieto: migliaia sono già scappati in America, in Europa, soprattutto in Spagna e Finlandia, oppure in altri paesi dove hanno chiesto asilo come rifugiati politici.

Perquisizioni a sorpresa, indagati o condannati a servizi sociali e al carcere, ma alcuni hanno riferito di essere stati denudati, minacciati, picchiati e torturati con waterboarding.

Sì, è successo e stiamo cercando un procuratore in Russia che sia disposto ad aprire un fascicolo al riguardo: gli investigatori governativi che abusano del loro potere devono essere fermati dal governo, ma non è facile trovare qualcuno che abbia il coraggio di occuparsene.

Guaidó e Maduro se le cantano al confine

“Me fuí”, me ne sono andata, canta Reymar Amoroso, una giovane artista venezuelana che, dopo aver vinto un concorso televisivo nel suo Paese è emigrata in Perù: “Me fuí”, canta la Amoroso, aprendo Venezuela Aid Live, il concerto che vuole essere un “ponte della speranza” organizzato da Richard Branson a Cucuta, sulla frontiera fra Colombia e Venezuela. La canzone racconto dell’esodo dei venezuelani dal loro Paese: secondo i dati dell’Onu, 3,4 milioni di persone, l’11% della popolazione, sono fuggiti in Colombia, in Brasile, o altrove, dall’inizio della crisi economica e umanitaria, una media di 5 mila al giorno.

Sono ore straordinariamente cariche di tensione in Venezuela, dove un conflitto sotto traccia pare in corso dentro l’apparato militare, finora fedele al presidente eletto Nicolás Maduro. Il presidente autoproclamato Juan Guaidó, riconosciuto dalla stragrande maggioranza delle diplomazie occidentali e latino-americane come traghettatore verso nuove elezioni, rinnova l’appello alla defezione ai comandanti dell’esercito.

E, intanto, le dichiarazioni dell’ex capo dell’intelligence militare “chavista” Hugo Carvajal, passato a Guaidó, possono aprire crepe al vertice del regime: Carvajal parla dei rapporti di “gerarchi”, e dello stesso Maduro, con reti di corruzione e narcotraffico. Ma il regime mantiene l’appoggio dei suoi partner internazionali: Cuba, ovviamente, dove Raul Castro, nell’imminenza d’un referendum costituzionale, conferma il sostegno a Maduro; e anche Russia e Cina, concordi nel vedere negli aiuti internazionali – che il governo di Caracas blocca al confine – il rischio d’un “cavallo di Troia” dell’intervento militare Usa. Dalla Bolivia, il presidente Evo Morales invita a difendere “la sovranità latino-americana”, proprio mentre i presidenti di Colombia, Paraguay e Cile, tutti di centro-destra, e il segretario generale dell’Organizzazione degli Stati americani Luis Almagro sono fra il pubblico che applaude la Amoroso. Militari venezuelani hanno saldato i container che bloccano la frontiera fra Venezuela e Colombia al ponte di Las Tienditas, che separa il concerto Venezuela Aid Live organizzato da Branson da quello Hands Off Venezuela voluto dal regime. Il ponte di Las Tienditas è uno dei quattro posti di confine dove l’opposizione vuole fare entrare con carovane di tir gli aiuti umanitari, respinti da Maduro come “uno show mediatico”, una messa in scena per giustificare, appunto, un intervento militare americano. Nonostante scienziati ed esperti denuncino su Lancet rischi di collasso del sistema sanitario e di diffusione di epidemie.

Sulla frontiera con il Brasile, un conflitto a fuoco tra militari venezuelani e un posto di blocco degli indigeni Pemon, a Gran Sabana, ha ucciso due persone e ne ha ferite una dozzina. Secondo prime frammentarie ricostruzioni dell’incidente, uomini dell’Aretauka, la forza di sicurezza autonoma della comunità indigena, hanno cercato di fermare un convoglio di truppe diretto a Santa Elena de Uarein, sul confine con il Brasile, da dove pure dovrebbero entrare in Venezuela aiuti umanitari. I miliziani della comunità indigena avrebbero catturato tre militari, tra i quali un alto ufficiale, pare un generale. In un altro incidente, questa volta verso la frontiera colombiana, un autobus di un convoglio di deputati dell’opposizione è stato fermato a più riprese e attaccato a sassate, la scorsa notte, a Guanare, nello Stato di Portuguesa: uno degli autisti è rimasto gravemente ferito. Sul canale Twitter dell’Assemblea Nazionale, Mariela Magallanes una deputata che sotiene Guaidó, ha pubblicato un video di denuncia dell’attacco, mostrando il vetro di un autobus spaccato e la pesante pietra finita dentro al veicolo: “Non sappiamo chi è stato”, ma “è stato un attentato”. Il convoglio di oppositori è partito da Caracas verso lo Stato di Tachira, nell’estremo Ovest del Venezuela, per raggiungere la frontiera con la Colombia. Durante il percorso, di circa 800 km, i deputati hanno dovuto superare posti di blocco disposti dalle autorità. Il quotidiano El Nacional riferisce che le forze di sicurezza hanno l’ordine di controllare tutti i veicoli diretti in Colombia e fermare Guaidó.