Nigeria: o corruzione o fame

Difficile in Nigeria scegliere il candidato alle prossime elezioni presidenziali previste per il 23 febbraio. Il Paese, ricchissimo di petrolio, è corrotto fino al midollo. Risultato: politici ricchissimi e popolazione poverissima. Nel sud operano gruppi di militanti che rivendicano una difficile equità sociale e nel nord i terroristi di Boko Haram spadroneggiano.

In questo coacervo sociale esplosivo, due sono gli aspiranti alla carica più alta del Paese con concrete possibilità di successo: Muhammadu Buhari, presidente uscente, e Atiku Abubakar, ex vicepresidente a cavallo degli anni Duemila. Buhari era diventato capo dello Stato una prima volta nel 1983, grazie a un golpe, e due anni più tardi era stato a sua volta rovesciato dai militari, accusato di corruzione. Atiku Abubakar è stato vicepresidente di Olusegun Obasanjo dal 1999 al 2007. Allora il suo capo l’aveva sospettato di distrazione di fondi e di essersi costruito una fortuna quand’era vicecapo delle dogane. Buhari nel 2015 è stato eletto con una agenda che al primo posto aveva la lotta al malaffare. In questi ultimi giorni di campagna elettorale, i due si sono combattuti duramente. Un portavoce di Atiku ha sostenuto che il presidente uscente ha “una lunga storia di riciclaggio di fondi rubati”. Ha citato per questo uno scandalo del 1984. Cinquantatré valigie provenienti dall’Arabia Saudita e appartenenti all’attendente di campo di Buhari erano state sdoganate senza controlli. Secondo l’accusa erano imbottite di dollari. Nel 2015 Muhammadu Buhari è stato eletto dai nigeriani che speravano in un serio impegno nella lotta ala corruzione. Effettivamente sono state avviate numerose indagini contro politici di alto profilo, la maggior parte però è stata diretta a colpire i membri del precedente governo. Insomma, la guerra al crimine politico non è stata imparziale. Anche parecchi processi a carico dei dirigenti dell’attuale amministrazione sono stati accantonati. “Si ha la sensazione – spiega un diplomatico occidentale contattato per telefono ad Abuja, la capitale, – che gli amici e gli alleati di Buhari siano trattati con il guanto di velluto, mentre i membri dell’opposizione con il pugno di ferro”. Il suo sfidante, Atiku Abubakar, è uno degli uomini più ricchi e potenti del Paese. Ha un socio d’affari italiano, Gabriele Volpi, naturalizzato nigeriano. Una commissione di inchiesta del Senato americano ha accertato ingenti tangenti pagate alla coppia da società petrolifere. Volpi e Atiku a Port Harcourt, la capitale petrolifera della Nigeria, sono proprietari di una società, la Intels (Integrated Logistic Systems), che gestisce un immenso “rifugio per espatriati” cioè una cittadella cintata e blindata con villette, campi da tennis, piscine, ristoranti, ma soprattutto guardie di sicurezza che la sorvegliano contro ladri, rapinatori e sequestratori, gente che nella ricca area del Delta del Niger abbonda. Lì vivono, praticamente, tutti gli stranieri che lavorano nell’industria del petrolio. A Port Harcourt prospera un complicato arcipelago umano in cui coabitano uomini d’affari occidentali in smoking, politici corrotti, militari senza scrupoli, banditi da strada, sgozzatori di professione e, naturalmente, 007. Atiku Abubakar ha solide amicizie in Italia. Nell’agosto 2003, tre mesi dopo la sua rielezione come vicepresidente, viene in Sicilia, ospite di Domenico Gitto, proprietario della Gitto Costruzioni Generali Nigeria Ltd, sospettato, secondo rapporti di intelligence, di fungere da “ufficiale di collegamento” con il clan di Bernardo Provenzano. Lo accompagnano la moglie Jennifer Douglas Abubakar, due dei fedelissimi, Boni Haruna, allora governatore dell’Adamawa State, Musa Adade, ex senatore, e due italiani, Gabriele Volpi e Gian Angelo Perrucci, allora capo dell’Intels.

Gitto, poche settimane dopo, ottiene ordini da varie agenzie governative nigeriane per oltre 100 miliardi di Naira (500 milioni di euro). Tra i proprietari dell’Intels e costruttori siciliani però non tutto va nel verso giusto, questi ultimi perdono alcune commesse e Domenico Gitto muore di infarto (qualcuno sospetta che non sia stato propriamente un colpo apoplettico). Il denaro che ha lasciato in Africa, diversi milioni di euro, infatti sparisce. I rapporti di Atiku con la mafia siciliana hanno richiamato l’attenzione degli investigatori del Congresso Usa. In un rapporto del Senato si legge che tra il 2000 e il 2008 Volpi e la sua famiglia avrebbero trasferito in tre conti americani – uno dei quali appartiene alla moglie, cittadina Usa – almeno 45,1 milioni di dollari, provenienti da affari illeciti e da corruzione (1,7 milioni parte di una bustarella proveniente dalla società tedesca Siemens Ag, e 38 di una tangente pagata da società offshore meno note).

Addio La Porta signore della notte “oltremarzullo”

Sembrava svanito nel nulla, immerso in una delle sue meditazioni trascendentali. Invece Gabriele La Porta se n’è andato da comune mortale, come tutti noi. Non se ne aveva notizia da quando aveva abbandonato la Rai dopo quarant’anni di onorato servizio. Durante il primo governo Berlusconi fu direttore di Rai2; era riuscito a saltare sul carro leghista con ottimo tempismo e una certa credibilità; l’incarico durò poco, causa ribaltone, ma perderlo fu una fortuna perché ne favorì la natura di animale notturno. Per 14 anni è stato il primo e unico direttore di Rai Notte. Niente a che vedere con l’impagabile goliardia arboriana, “ma la notte no”. Per La Porta era la porta aperta sul lato oscuro, magico dell’esistenza, da Jung a Hillman. Ma la notte sì. Compariva nell’Oltremarzullo, allo spegnersi di Mezzanotte e dintorni. Chioma fluente e vaporosa, sguardo acrobatico, eloquio sincopato; non mollava fino alle prime luci dell’alba, tenendo sotto chiave i suoi ospiti. Poi, avvolto in un pallore lunare, spariva come un puro spirito. L’insonne sapeva di trovare a ogni ora un amico sicuro, inteso a discettare di teosofia, esoterismo, codice dell’anima. Quando si registravano quei programmi in onda alle 3, alle 4, alle 5? Non l’ho mai saputo. Ma mentre la notte di Marzullo è farlocca, si capisce subito che le interviste sono registrate alle quattro del pomeriggio, i programmi di La Porta avevano un quid di autentico. Si capiva che per lui la notte era uno stato della mente.

Da Silvio a Matteo, viva la retorica

“Dieci nemici non riescono a infliggere a un uomo il danno che egli è in grado di infliggere a se stesso”

(da “Nemici” di Isaac Bashevis Singer – Adelphi, 2018 – pag. 163)

 

C’è, lo sappiamo bene, il conformismo dell’anti-conformismo. Quello di chi deve dire sempre qualche cosa di stravagante ed eterodosso, per spiazzare gli interlocutori e occupare l’angolo libero come nel gioco dei quattro cantoni. E c’è anche la retorica dell’anti-retorica: quella di chi oggi predica che non bisognerebbe criticare troppo Matteo Salvini per non alimentare la sua popolarità e quindi per non favorirlo.

L’avevamo già sentito ai tempi di Silvio Berlusconi. E non a caso la raccomandazione proviene da una corrente di pensiero che accomuna per lo più tanti opinionisti ex o cripto-berlusconiani, giornalisti che hanno lavorato o tuttora lavorano nelle sue testate televisive o di carta. Sono i corifei del “pensiero equidistante”, cerchiobottisti di professione, pronti a saltare prima sul carro di Sua Emittenza e adesso sul Carroccio di Rambo Salvini.

In genere è un mix di opportunismo e malafede che ispira i funamboli della comunicazione, inducendoli a non prendere mai una posizione netta, a non schierarsi e a mettere le vele al vento del potere. Ma non manca neppure chi ci crede veramente. Non tanto perché sia in buona fede, quanto per autoconvincersi e autogiustificarsi, alla ricerca di un alibi psicologico.

Che cosa dovrebbe fare, secondo i teorici del cerchiobottismo, coloro che non approvano oggi la politica di Salvini come non approvavano ieri quella di Berlusconi? Stare zitti, far finta di niente, rinunciare a esprimere le loro riserve e le loro critiche? Oppure, arruolarsi nelle file della Lega, come tanti mezzibusti o bellimbusti televisivi?

Se gli oppositori si comportassero così, oltre a tradire la propria libertà di pensiero e di opinione, finirebbero davvero per fare il gioco dell’avversario, lasciandogli campo aperto. Certo, per non contraddire il Capitano e i suoi seguaci, sarebbe più comodo e conveniente rassegnarsi al silenzio. Ma chissà fino a che punto sarebbe arrivato Berlusconi e dove arriverebbe Salvini senza essere contraddetto da nessuno.

Prendiamo il caso della politica sull’immigrazione. È chiaro che in passato sono stati commessi errori e omissioni. Ma è altrettanto evidente che la “linea dura” adottata dal ministro dell’Interno è contraria al senso di umanità, ai principi della solidarietà, al diritto internazionale. Tant’è che lui stesso – una volta ottenuto l’effetto propagandistico – ha dovuto fare spesso retromarcia, com’è avvenuto per il processo sul “caso Diciotti”.

Oppure, facciamo l’esempio delle polemiche sull’uso a dir poco disinvolto che il leader della Lega fa delle divise militari o paramilitari. Fino a entrare addirittura a Montecitorio con il giubbotto della Polizia di Stato, mentre ai veri poliziotti l’ingresso in Parlamento è interdetto. Se stiamo tutti zitti, lui continuerà a farlo come e più di prima. Se qualcuno invece lo contesta, in nome dell’opportunità e della legge, si può sperare magari che il vicepremier contenga i suoi travestimenti e rispetti le Forze dell’Ordine che rappresenta.

Certo, bisogna evitare di farne una vittima o un martire. Ma l’autocensura può essere anche peggio della censura. E il black-out delle opinioni non appartiene ai canoni di una società democratica. Prima o poi, anche per effetto delle legittime critiche, il logoramento dell’immagine e della credibilità di un uomo politico si traduce in una perdita di autorità e di consenso.

I cattivi maestri e il razzismo sdoganato

È difficile rimanere lucidi di fronte alla notizia del maestro di una scuola di Foligno che fa le sue “sperimentazioni didattiche” e osa una “provocazione” ai danni di due bambini di origine nigeriana, un fratello e una sorella, definiti “brutti” e, pare, “scimmie”, e costretti a fare il giro delle aule per una ostensione umiliante. Se le cose stanno come hanno percepito gli alunni, che hanno subodorato la carognata e solidarizzato coi compagni, e non come ha rivendicato il maestro a Porta a Porta (“Era un esperimento sulla Shoah”), questo individuo sarebbe un caso clinico di razzista oltre che un traditore dell’etica che sottende al suo ruolo. Tuttavia, il suo sarebbe solo l’ennesimo atto di sadismo razzista perpetrato da adulti nei confronti di bambini, e dunque o ci si limita a enumerarli allargando le braccia, o li si inquadra dentro un contesto in cui in tutta evidenza insultare un bambino di origine africana da una posizione di potere ha smesso di essere un tabù sociale.

Tale Luca De Marchi, il consigliere di Mantova di Fratelli d’Italia che alla fiera del luna park ha promesso di regalare frittelle solo ai “bambini italiani” (ma evidentemente, vista la composizione demografica italiana, lo sventurato intendeva ai bambini bianchi, purosangue) ha tentato di portare questa plausibilità dell’implausibile dentro un’iniziativa popolare, offrendo a esso la corsia preferenziale della legittimazione politica. Lo stesso era accaduto a Lodi, dove un’ordinanza della sindaca leghista impediva ai bambini stranieri e poveri delle scuole materne e elementari di pranzare in mensa insieme agli altri; lì la discriminazione razziale si celava, per il sollievo dei benpensanti, dietro la falsa e capziosa cortina della burocrazia.

A ben vedere, è la stessa matrice della polemica che insegue il vincitore di Sanremo, Mahmood, italiano di padre egiziano e mamma sarda: invece di appellarsi al tema risibile dello scontro tra popolo (televoto) e élite (giuria d’onore), i suoi detrattori farebbero meglio a confessare che ciò che non gli va giù è il fatto che a vincere non sia stato un ragazzo di pura razza italiana (a proposito, si registra che il conduttore di Sanremo non può parlare di immigrazione mentre il ministro dell’Interno può di Sanremo contestare per settimane sketch comici e risultati).

Trump ha vinto non nonostante, ma perché insultava afroamericani, messicani, disabili e donne. L’insulto rivolto a un soggetto debole da una persona che dovrebbe essere autorevole ha l’effetto di produrre uno sfogo vicario in chi ancora non si permette di esternare l’odio ingiustificato per una qualche categoria. Questo meccanismo funziona finché non si spana, ed è quello che sta accadendo.

Fa ridere quel Pd che ora strilla alla messa in stato di accusa di Salvini, lasciato correre nelle praterie del consenso emotivo degli italiani mentre i suoi leader erano troppo occupati a rafforzare il loro potere per accorgersi dei deboli di ogni etnia. Salvini ha raccontato la storia di un Paese invaso dagli africani e offeso nelle sue parti più fragili dalle conseguenze della globalizzazione: questo racconto sfocia naturalmente nel razzismo perché oblitera un passaggio dirimente, e cioè che i migranti sono essi stessi vittime della globalizzazione. Il ministro dell’Interno, invece di recarsi in scuole finte per propagandare in Tv la sua immagine di uomo forte-tenero, potrebbe fare un giro nelle scuole vere, come aveva promesso e mai fatto Renzi, e mettere riparo alla brutale superficialità con cui ha accarezzato il rancore razzista. Non lo farà, perché sarebbe stridente da parte del capo di un partito il cui esponente di spicco Calderoli ha paragonato la ex ministra Kyenge a un orango (in questo senso il pessimo maestro di Foligno è un ottimo allievo), ma soprattutto perché in quell’accarezzamento risiede il 99% del suo consenso (che fine ha fatto la flat tax?).

Pd, se non ora quando con il M5s?

Non so se il 18 febbraio rappresenterà uno spartiacque. So che le forze di opposizione avrebbero l’interesse e persino il dovere di non starsene alla finestra e semmai di assumere qualche iniziativa orientata a mettere in moto processi suscettibili di disarticolare l’attuale maggioranza politica. In essa, infatti, al netto delle questioni giudiziarie, si sono aperte contraddizioni genuinamente politiche che maturavano da tempo. Ben prima del conclamato, umiliante cedimento dei 5stelle a Salvini sul caso Diciotti. Tanto più ora, a valle di esso, dentro quel movimento e tra i suoi elettori, i dissensi dissimulati o repressi affiorano in superficie e accennano a volersi organizzare. Forse ben oltre il 41% dell’opaco voto online circoscritto agli attivisti. Chi, dentro il Pd, aveva subito la strategia aventiniana imposta da Renzi, oggi, a fronte di un conflitto tutto politico apertosi nei 5stelle, dovrebbe interpretare la cosa come una opportunità, attivarsi, scommettere sulla circostanza mai così evidente che i 5stelle non si risolvono per intero nella loro anima governista consegnatasi a Salvini. Quando, dopo le elezioni, irresponsabilmente, il Pd si rifiutò persino di interloquire con i 5stelle nonostante Mattarella gliene avesse fornito l’opportunità, si motivò tale inerzia con la tesi secondo la quale un rapporto di forze decisamente squilibrato avrebbe condannato il Pd a fare da ruota di scorta. Argomento già allora pretestuoso: il Pd, pur sconfitto, sortì dalle urne come il secondo partito, e la Lega, uscita terza, in pochi mesi ha rovesciato i rapporti con il M5S raddoppiando i propri consensi.

Comunque oggi i rapporti sono assai meno sbilanciati tra un Pd stabile (nonostante un anno in stand by) e i 5stelle già calati di 10 punti e prevedibilmente destinati a pagare ulteriormente il loro sostegno a Salvini. Palesemente, la divisione interna ai pentastellati trascende lo specifico nodo paragiudiziario ed è di natura politica. È interesse del Pd – e, come non si stanca di ammonire Cacciari, della stessa democrazia italiana allo stato priva di alternative – rimarcarne la portata politica e lavorarci appunto politicamente. Se non ora quando? Reiterare l’inerzia da parte del Pd sarebbe oltremodo inspiegabile nel mentre, per converso, dalla Lega si moltiplicano i segnali tesi a fare evolvere il “rapporto contrattuale” con i 5stelle in un’alleanza strategica anche nelle amministrazioni e persino nel Parlamento Ue nel segno della propria egemonia. Del resto, è stato proprio il vertice governista dei 5stelle ad autorizzare una lettura politica del voto teso a salvare Salvini mettendo a verbale la totale condivisione delle scelte del ministro dell’Interno sulla Diciotti. Un penoso escamotage, una pietosa bugia per sé non rilevante ai fini della deliberazione del Senato sulla richiesta del Tribunale dei ministri – l’eventuale reato sarebbe per definizione individuale e comunque le indagini hanno accertato che si è trattato di decisione tutta riconducibile personalmente a Salvini – ma un’assunzione di responsabilità eloquente e impegnativa sul piano politico. Un allineamento a Salvini del “partito ministeriale” M5S non su un terreno qualunque, ma precisamente su quello che più qualifica politicamente la Lega connotandola come partito di una destra chiusa e dai tratti xenofobi. Possono ignorare le forze di opposizione da sinistra il malessere di tanti elettori e parlamentari del M5S, nonché il malcelato imbarazzo del suo fondatore che ha ammonito i suoi circa la mortificazione della originaria sensibilità sociale e ambientalista del movimento?

Certo, è difficile che possa assumere una iniziativa efficace, abbandonando il suo sterile Aventino, un Pd che si facesse risucchiare dalla deriva berlusconiana della guerra ai magistrati. Sarebbe lecito attendersi che le voci più responsabili interne al Pd – e segnatamente Zingaretti con la sua asserita discontinuità – dicessero chiaro e forte che si rifiutano di cedere a tale sconsiderata deriva. Sia perché nelle istituzioni ci si crede davvero (non rifugiandosi nell’abituale, ipocrita formula di una professione di fiducia nella magistratura che lascia intendere l’esatto contrario); sia perché, su questo cruciale terreno, è utile che il Pd post-renziano ristabilisca una linea di comportamento meno ballerina. Come dimenticare il disinvolto passaggio dalla perentoria richiesta di dimissioni per la Cancellieri, ministro del governo Letta neppure inquisita, all’attuale accusa ai magistrati di ordire complotti contro i politici?

Mail box

 

I delusi dei 5S a sinistra non trovano niente di nuovo

Caro Marco Travaglio, prendendo spunto dagli interventi di vari esponenti del Pd dopo gli arresti domiciliari dei genitori di Matteo Renzi, lei ha scritto che i 5Stelle dissidenti devono rientrare precipitosamente all’ovile. La mia opinione è che per i 5Stelle dissidenti la strada non è obbligata. Tornando nel loro Movimento essi farebbero parte di nuovo e comunque di una forza politica ambigua, che non sceglie chiaramente tra la destra e la sinistra. Essi hanno, invece, un’altra possibilità ed è quella di entrare a far parte della sinistra esterna al Pd, quella che fa riferimento a Bersani, Grasso, Boldrini, Speranza, Gotor e Fratoianni e che nel corso delle ultime elezioni si è presentata col simbolo di Liberi e Uguali. Questa forza politica è stata penalizzata dall’ultimo voto nazionale (anche perché ha fatto l’errore di ripescare un personaggio come Massimo D’Alema) ma i suoi esponenti hanno fatto una sacrosanta lotta al Pd di Matteo Renzi e poi si sono seriamente battuti contro l’approvazione delle modifiche della Costituzione volute dal leader del Pd. Sono convinto che si tratta di una sinistra che ha le carte in regola per costruire una forza politica seriamente alternativa al Pd e ai 5Stelle.

Franco Pelella

Caro Pelella, io non ho scritto che i dissidenti “devono” tornare all’ovile. Ho scritto che molti elettori del centrosinistra che il 4 marzo votarono 5 Stelle e ora sono delusi resteranno dove sono perché al momento a “sinistra” si vede lo spettacolo a tutti noto.

M. Trav.

 

Odiato da tutti, il Movimento resta il partito più onesto

Ho letto tutti i numeri del Fatto perché ne ho sempre condiviso la linea. Sul suicidio del M5S per il referendum qualche perplessità ce l’avrei. Premetto che io avrei votato sì al processo per motivi di principio e perché Salvini è riuscito a trarne un immeritato vantaggio politico. Però qualche considerazione va fatta: il M5S è l’unico partito odiato profondamente da tutti, Lega inclusa; e non c’è occasione che non sia colta (da tutti) per cercare di spaccarlo e metterlo in difficoltà. Anche il criterio di sentire spesso la propria base agevola le spaccature e se si continua con gli esami “sui principi” per ogni decisione di governo, il Movimento non può reggere. Credo che dalla sua nascita abbia complessivamente dimostrato un livello di onestà e di attenzione alla legalità sconosciuto a qualsiasi altra forza politica. A questo punto bisognerebbe lasciare che faccia le proprie scelte tattiche – ovviamente sempre nel rispetto della legge e dell’onestà – ma senza l’incubo che ogni decisione sia la prova del contrario della sua natura. Nessun gruppo politico in Italia ha titoli per alzare il ditino, mentre tutti lo fanno con un’arroganza pari solo alla loro faccia di bronzo.

Claudio Rossi

 

Ma perché Massimo Giannini non ha replicato a Berlusconi?

L’altra sera, nella trasmissione di Lilli Gruber Otto e mezzo, l’ex Cavaliere Silvio Berlusconi ha avuto la spudoratezza di dire che lui e i suoi amici dirigenti di partito sono gli eredi della tradizione politica di De Gasperi e di Don Sturzo.

A simili idiozie i due grandi uomini politici, non potendo smentirlo, si saranno certamente rivoltati nella tomba, non essendo possibile alcun parallelo né dal punto di vista dello spessore politico, né dal punto di vista etico e morale, e men che meno riguardo alla fedina penale! Il personaggio Berlusconi ormai lo si conosce e non merita di essere commentato. Ciò che mi ha lasciato di stucco e allibito è stata l’assenza di replica di Massimo Giannini: sconfortante, sconcertante!

Giuseppe De Tullio

 

Cresciuto in una zona difficile, non ho mai visto tanta impunità

Ho abitato, fino a 25 anni, in un quartiere difficile. Vi abitavano prostitute “disoccupate” causa la legge Merlin, profughi, come mio padre, dalla ex Jugoslavia, dalla Libia, dalla Somalia e persone semplici e analfabete. Ho avuto amici che hanno fatto anni di galera per aver rubato derrate alimentari. Ho assistito al lavoro di mantenimento dell’ordine da parte di polizia e carabinieri (anche con qualche eccesso). Si diceva “Governo ladro” e si era consapevoli che i politici (non tutti, per fortuna, con eccellenti eccezioni di veri Statisti illuminati, coerenti e onesti) si facevano anche i “fatti loro”. Ora però si sta esagerando. Si è perso il senso del pudore e della vergogna. Credo che ora prevalga la sensazione che, a essere onesti e coerenti, non si venga considerati “furbi e intelligenti”. Sono furbi e intelligenti quelli che, riparandosi dietro a una immunità sempre più vasta, fanno “affari” alla faccia nostra e con i nostri soldi. Quando vedo che anche certi politici, una volta arrivati al potere, si creano una corte di beneficiati e dettano le condizioni (v. leggi ad hoc) per favorire l’impunità di reati (es. evasione Iva), penso siano organizzate associazioni per delinquere. Poi, questi “fenomeni” ci fanno anche la morale. Non auspico una rivolta popolare, ma una sana revisione del Codice Penale e la costruzione di tante prigioni, con i soldi dei condannati.

Sono arcistufo di pagare quando sbaglio e di vedere che chi sbaglia più di me, oltre a non pagare, mi ride in faccia e si permette di fare anche lo stronzo.

Paolo Benassi

Bloccandolo rendiamo inutili altri 3.000 km di ferrovia (che però non esistono)

Nei vostri articoli sul Tav si parla sempre del tratto che dovrebbe sostituire l’attuale ferrovia, ma non si parla mai del progetto completo. Questo tratto dovrebbe essere una piccola parte del fantomatico progetto Lisbona-Kiev ma, Francia a parte, la rete italiana a valle del Tav com’è? Sulla Torino-Milano non ho mai visto passare un treno merci; l’alta velocità non so se arriva a Venezia; sicuramente non arriva a Trieste. Dopo Trieste penso che la ferrovia dovrebbe proseguire attraverso altre nazioni tipo Slovenia, Croazia e non so poi quali altri Stati deva attraversare; in ogni caso non mi pare che le linee di Slovenia e Croazia siano adatte all’alta velocità. A questo punto mi chiedo: quanto influisce il tratto in questione sull’opera completa?

Claudio Bernardis

 

Caro Bernardis, mette il dito su una delle piaghe più purulente della disinformazione Sì-Tav, il mito del Corridoio 5 con cui il partito del cemento si trastulla da 30 anni. I 57 chilometri del nuovo tunnel ferroviario sarebbe l’anello mancante al collegamento ferroviario Lisbona-Kiev. Vero, a patto che nel frattempo un miracolo faccia comparire gli altri tre anelli mancanti: Lisbona-Madrid (600 km), Barcellona-Marsiglia (500 chilometri), Milano-Venezia-Trieste-Lubjana-Budapest-Kiev (altri duemila chilometri). In pratica, bloccando il Tav della Val di Susa, rendiamo inutili altri 3.000 chilometri di ferrovia che però non ci sono. Una banda di impostori gioca irresponsabilmente con le parole, alternando due argomenti opposti. Prima sostengono che il nuovo tunnel ferroviario serve per l’ambiente, cioè per spostare dalla gomma al ferro il traffico merci che intasa l’autostrada del Fréjus e inquina l’aria della Val di Susa. Quando gli si fa notare che è l’autostrada meno trafficata d’Italia, si offendono. E dicono che il traffico non c’è perché manca il nuovo tunnel ferroviario che scatenerebbe gli scambi di merci da Kiev a Lisbona. Uno chiede come mai allora, se ci sono tutte queste merci da spostare, non le mettono, per ora, sui camion. E loro ti rispondono che, senza l’effetto psicologico dell’infrastruttura che connette mondi lontani (come se fossimo nell’Ottocento), i commerci non si sviluppano. Chi dubita dei loro giochi di parole vuol fermare il progresso e tornare al carro a buoi. E via a fatturare studi e consulenze, l’unico settore dell’economia che il Tav è in grado di trainare.

Giorgio Meletti

Alberto, erede ed ex ad di Rizzoli, suicida a 74 anni

Alberto Rizzoli, 74 anni, uno degli eredi della famiglia di editori, si è suicidato ieri pomeriggio nel Pavese. A scoprire il corpo ormai agonizzante è stato il guardiacaccia della Garzaia di Villarasca nel comune di Rognano (Pavia), tenuta di cui era stato proprietario. Secondo gli accertamenti si sarebbe sparato: è morto subito dopo l’arrivo al Pronto soccorso del Policlinico San Matteo di Pavia.

Alberto Rizzoli, nipote di Angelo, è stato per alcuni anni ad dell’azienda di famiglia. Figlio secondogenito di Andrea Rizzoli e Lucia Solmi, inizia a 19 anni l’attività nella casa editrice nella quale, dopo avere svolto compiti sempre più importanti, diviene nel 1974 amministratore delegato (al tempo la Rizzoli è la seconda in Italia); nello stesso periodo è anche presidente della cartiera di Marzabotto. Nel 1979 abbandona la società, in disaccordo con la gestione del fratello Angelo. Nel 1980 fonda la casa editrice Quadratum, che rilancia riviste come La Cucina Italiana.

Nel 1983 viene arrestato per alcune settimane mentre la casa editrice Rcs è in amministrazione controllata, per esser poi prosciolto. Lasciata l’attività editoriale si occupa dell’azienda agricola di famiglia.

Lo stalker della Ferilli: “Io vengo da Marte, va preservata la specie”

“Mi segue ovunque, ormai lo trovo sotto casa, mi perseguita con lettere e regali”. È trascorsa una settimana da quando Sabrina Ferilli aveva raccontato ai magistrati romani le costanti, e per nulla gradite, attenzioni di un ammiratore. Una situazione, quella narrata dall’attrice, che sarebbe andata avanti dal 2009. Ieri però l’incubo è terminato: su richiesta del procuratore aggiunto Maria Monteleone e del sostituto Daniela Cento, il giudice per le indagini preliminari Alessandro Arturi ha disposto la misura del “divieto di avvicinamento” nei confronti dell’indagato. Si tratta di un uomo di 68 anni, un italiano che avrebbe perseguitato la donna appostandosi sotto casa e nei luoghi frequentati dalla vittima. La Ferilli in un primo momento avrebbe deciso di sorvolare, cercando di evitare il coinvolgimento degli inquirenti. Del resto la star è abituata alle attenzioni, talvolta anche sopra le righe, degli ammiratori. Capita, quando si vincono cinque Nastri d’argento, un Globo d’oro, quatto Ciak d’oro e si recita nel cast del film Premio Oscar La grande bellezza. Certe volte però i fan superano il limite. E anche in questo caso, giorno dopo giorno, gli atteggiamenti dell’uomo sarebbero diventati più pressanti. Non solo fiori e regali, ma anche lettere in cui l’indagato , Carlo N., esprimeva tra deliri e farneticazioni le ragioni che lo avrebbero spinto a infastidire la Ferilli: “Ho un mandato dei marziani per garantire la prosecuzione della razza umana”. Anche i collaboratori dell’attrice sarebbero stati infastiditi dall’uomo. E in un’occasione lo stalker si sarebbe anche avvicinato alla donna, afferrandola per un braccio. “C’è sempre, me lo trovo davanti in continuazione. Mi aspetta sotto casa, compare quando prendo l’auto o passeggio”, aveva rivelato ai magistrati Sabrina Ferilli. Ieri però l’incubo è terminato.

La “maledizione” dei padri: dopo babbo Renzi, nel “sistema Romeo” entra Di Stasio senior

I padridi parlamentari gravitanti a vario titolo intorno al sistema Romeo e colpiti in questi giorni da guai giudiziari salgono a due. Quello più famoso resta Tiziano Renzi, papà del senatore Pd Matteo Renzi, che l’amico di famiglia Carlo Russo nei colloqui con l’imprenditore Alfredo Romeo mise al centro di un presunto ‘accordo quadro’ corruttivo intorno agli appalti Consip (ma secondo la Procura di Roma Russo ha millantato, e per Renzi senior c’è richiesta di archiviazione), poi finito pochi giorni fa ai domiciliari su ordine del Gip di Firenze per fatture false e bancarotta fraudolenta. Se ne aggiunge un secondo, meno conosciuto: si tratta di Sergio Di Stasio, luogotenente dei carabinieri del Nas e padre della deputata M5s Iolanda Di Stasio. Il sottufficiale è il numero 34 dei 56 indagati dai pm di Napoli Celestina Carrano ed Henry John Woodcock nell’avviso conclusa indagine vistato dal procuratore capo Giovanni Melillo e notificato l’altro ieri agli avvocati. Il documento riassume l’inchiesta sulla porzione di ‘sistema Romeo’ rimasta a Napoli. Qui Romeo è indagato di associazione a delinquere e altri reati di pubblica amministrazione su appalti pubblici e favori privati. Di Stasio senior è accusato di rivelazione di segreto d’ufficio: avrebbe spifferato all’allora direttore del Cardarelli Ciro Verdoliva – a sua volta indagato con Romeo per l’appalto della pulizia dell’ospedale – notizie riservate sull’inchiesta nata da un esposto anonimo su un medico. Si è difeso sostenendo che Verdoliva, oggi commissario dell’Asl Napoli 1, era un suo ‘confidente’ e quei colloqui rispondevano a logiche investigative, convincendo il Gip che nel 2017 ha rigettato la richiesta di interdizione dall’Arma. I pm però hanno riproposto l’accusa. All’epoca la figlia era solo una militante impegnata contro il Tav di Afragola.