Il mare si è mangiato la spiaggia e il bosco: dalla Regione quattro milioni, ma ormai è troppo tardi

Non c’è più spiaggia a Eraclea Minoa, perla mediterranea di Cattolica Eraclea, in provincia di Agrigento. Negli ultimi 80 anni l’erosione costiera si è mangiata 150 metri di spiaggia e 50 di boschetto, spazzando via una delle zone più belle della costa agrigentina. Ottanta anni in cui nulla è stato fatto: la Regione infatti si è interessata del caso solo lo scorso maggio, quando già era troppo tardi, stanziando 4 milioni per il rifacimento del litorale in erosione. Il finanziamento è contenuto nel Patto per il Sud, documento alla cui presentazione, tre anni fa, è seguito l’avvio di poche opere nonostante 2 miliardi e 300 milioni di euro promessi per oltre mille cantieri in Sicilia.

Mentre il mare continua ad avanzare, è la burocrazia a essere ferma: le somme, a causa di un lungo iter fatto di pareri, bandi, gare d’appalto e carte bollate, sono immobilizzate. Oggi il progetto è fermo all’assessorato regionale Territorio e Ambiente che avrà 90 giorni di tempo per rilasciare la Valutazione di impatto ambientale. In seguito verrà indetta la gara d’appalto cui però, come accade spesso, potrebbero seguire ricorsi da parte delle ditte non aggiudicatarie.

Nonostante i lavori non siano ancora partiti.

A criticare l’opera è però Legambiente, che reputa inutili gli interventi artificiali sulla spiaggia, giudicandoli “peggiori del male che si vuole contrastare” in quanto l’erosione è riconducibile a fatti naturali che sarebbero difficilmente mitigabili artificialmente. “Il sistema costiero – ha spiegato Daniele Gucciardo, vicepresidente del circolo Legambiente di Agrigento – è molto complesso e prima di poter intervenire occorre raccogliere una mole di dati di osservazione pluriennale sulle correnti e sulle dinamiche dei sedimenti tale da supportare le eventuali soluzioni progettuali”. Intanto il mare continua la sua opera di erosione e solo la scorsa settimana più di venti alberi sono stati rimossi dalla spiaggia.

BM8 Spoleto-Cascia, la partita più lunga del mondo per colpa di una bestemmia

Se a ogni bestemmia in campo – “in area”, of course – si dovesse fischiare un rigore, le partite di calcio avrebbero un risultato rugbistico o da basket. Una roba tipo 30-10 o 100-84, per intenderci. Dipende dalla foga e, perché no, dalla regione. La conseguenza: la bestemmia è… depenalizzata, regolamento alla mano è previsto venga sanzionata non con un rigore, ma con una punizione indiretta (o di seconda, per chi adora il vintage). La realtà: ci sono arbitri, o teocon o bigotti o scarsamente informati, che restano molto scioccati dalla blasfemia e si trasformano in giudici veterotestamentari.

Si prenda la partita BM8 Spoleto contro Cascia, prima categoria umbra, zona centro classifica, disputata il 20 gennaio. Il BM8 Spoleto è un inno alla fusione. B sta per Bacigalupo (club chiaramente fondato da tifosi del Grande Torino), M8 sta per le iniziali e il numero di maglia di un ragazzo morto in un incidente stradale (Marco Montioni) e società nata sui campi della parrocchia Sacro Cuore, Spoleto sta per Atletico Spoleto. Ci si è messi insieme per dividere le spese, come studenti residenti in città. Uno a zero per i padroni di casa. Poi il pareggio su rigore del Cascia, concesso per fallo di mani di Alessio Falchi, mediano del BM8 Spoleto.

Due minuti dopo e, con la palla un po’ lontana, lo stesso Falchi si scontra in area con un proprio compagno di squadra. Le immagini lo ritraggono mentre si alza e manda al diavolo il compagno distratto. Mischia sacro e profano, urla al diavolo e agli dei, per la verità. L’arbitro, Daniele Fora di Terni, “piuttosto lontano dall’azione”, ha l’udito fino, torna indietro, espelle Falchi e concede la massima punizione per gli ospiti. Panico. Marco Sivori, vicepresidente del BM8 Spoleto, entra in campo: “Il nostro Falchi ha ammesso da subito la bestemmia, ma il regolamento parla chiaro, tanto più che avevo letto ciò che era successo in Piemonte, pochi mesi prima”.

Cosa fosse successo, è presto detto. Stessa categoria, ma provincia di Torino. Nel “clasico” tra Bacigalupo (e ridagli…) e Barracuda (nomen omen), il direttore di gara punisce il “bestemmione” dello stopper ospite, Giampiero Opsi, e concede la massima punizione, che fisserà il 3-2 finale. Ricorso immediato e gara ripetuta. Quindi, Sivori (cognome importante) si avvicina alla panchina avversaria, e sussurra: “È un errore dell’arbitro, non c’è rigore, faremo ricorso, vi conviene calciarlo fuori”. Sì ciao, come no. Il Cascia segna il rigore e partita che finirà 4-2.

Il ricorso, però, dà ragione alla BM8 Spoleto.

Ma siccome siamo pur sempre nei dilettanti, la cosa è stata presa bene, con olimpica serenità. Il presidente del Cascia, Piero Mariani, ha detto che nessuno gli ridarà i soldi della seconda trasferta (48 chilometri di distanza) e ha invitato la BM8 Spoleto a ricominciare la gara non dall’inizio, dal 43° e in 10 contro 11, “perché l’espulsione era giusta”. Stavolta è stata la BM8 Spoleto a dire “sì ciao, come no”.

Sabato si rigioca.

Messina Denaro, presi 2 fiancheggiatori e indagato deputato Fi

Due parole, “Matteo susiti” (Matteo alzati, ndr) pronunciate da Francesco Catalanotto, legato al cognato del superlatitante Matteo Messina Denaro (nella foto, l’identikit) e captate da una microspia hanno spedito nel marzo del 2016 i carabinieri in un casolare di Campobello di Mazara di proprietà di Calogero John Luppino, proprietario di un centro scommesse online, con il sospetto che il boss potesse nascondersi lì. Il latitante non c’era ma ieri i carabinieri del comando provinciale di Trapani insieme al Ros hanno arrestato Luppino, 39 anni, lo zio Salvatore Giorgi, di 60 e Catalonotto, di Castelvetrano, anch’egli gestore di un centro scommesse. Sono accusati di favoreggiamento del boss trapanese superlatitante nell’operazione “Mafiabet”, nella quale gli investigatori hanno rinvenuto due casseforti piene di denaro contante, Rolex e gioielli. Nel contesto dell’inchiesta un avviso di garanzia per corruzione elettorale è stato inviato al deputato regionale Stefano Pellegrino di Forza Italia, componente della commissione antimafia: Luppino lo avrebbe sostenuto elettoralmente consegnando borse colme di spese alimentari ai suoi elettori.

Thyssen, da Essen via libera all’arresto dei tedeschi

Il Tribunale di Essen ha dato il suo ok. La Procura della città tedesca, dove ha sede il colosso dell’acciaio ThyssenKrupp, potrebbe procedere agli arresti di Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz, ex amministratore delegato ed ex consigliere della ThyssenKrupp Acciai Speciali condannati rispettivamente a nove anni e otto mesi e sei anni e dieci mesi per l’omicidio colposo plurimo di sette operai deceduti a causa del rogo dello stabilimento di Torino il 6 dicembre 2007. Ma c’è un ma, l’ennesimo che non dà pace alle famiglie delle vittime. I difensori hanno fatto un altro ricorso e bisogna aspettare un altro passaggio.

Ieri mattina l’agenzia di stampa tedesca Onvista ha dato notizia delle decisioni del Tribunale di Essen. Quelle decisioni sono state comunicate dal consolato italiano al ministero della Giustizia retto da Alfonso Bonafede dopo la lettera inviata mercoledì. Il 17 gennaio scorso i giudici tedeschi hanno dichiarato ammissibile l’esecuzione della sentenza italiana nei confronti dell’ex ad Espenhahn. Il 4 febbraio è arrivata la stessa decisione per Priegnitz.

L’esecuzione deve essere curata dalla Procura di Essen che a settembre aveva chiesto al tribunale l’ok all’esecuzione. Lo aveva fatto già con più di due anni di ritardo. Il 13 maggio 2016 la Cassazione aveva confermato la sentenza della Corte d’assise d’appello di Torino e subito la Procura generale piemontese aveva chiesto alla Germania di fermarli in base a un mandato d’arresto europeo. Questa procedura, però, prevede che il condannato possa rifiutarsi e chiedere di scontare la pena nel suo paese. In base agli accordi tra Roma e Berlino bisognava quindi mandare una traduzione della sentenza della Corte d’assise d’appello di Torino e quella della Cassazione, ma prima il Tribunale di Essen ha chiesto informazioni sulla contumacia dei due imputati e poi la traduzione di tutte le sentenze, un lavoro enorme. Lo scorso 6 agosto Roma ha inviato tutto al Nord Reno Westfalia. Sulla base di questi atti a settembre la procura tedesca ha chiesto la carcerazione per la durata di cinque anni (la pena massima prevista in Germania per i reati contestati). La richiesta è stata accolta, ma la Procura non ha potuto ancora procedere: gli avvocati hanno fatto ricorso e la questione passa all’Alta corte regionale di Hamm, dove – spiega un portavoce – ancora non è fissato nessun processo.

“Continueremo a monitorare giorno per giorno la vicenda e terremo informati tutti voi e soprattutto le famiglie”, ha scritto su Facebook il ministro Bonafede. “Anche se ancora non chiude il capitolo di quella tragedia è assolutamente un fatto in avanti positivo – ha commentato Antonio Boccuzzi, operaio sopravvissuto alle fiamme ed ex deputato Pd –. Ora mi auguro che la Germania mostri rispetto nei confronti dei miei sette colleghi morti, delle loro famiglie e della decisione della giustizia italiana”. L’ingresso in carcere di Espenhahn e Priegnitz potrebbe avvenire quando gli altri condannati saranno già liberi. Due di loro, l’ex consigliere Marco Pucci (6 anni e 10 mesi) e il responsabile della sicurezza dello stabilimento Cosimo Cafueri (6 anni e 8 mesi) hanno già ottenuto l’affidamento in prova ai servizi sociali perché avevano meno di quattro anni scontare, buona condotta e nessuna pericolosità sociale. Nei prossimi mesi anche Raffaele Salerno (7 anni e 2 mesi) e Daniele Moroni (7 anni e 6 mesi) potranno chiedere una pena alternativa.

Corruzione in atti giudiziari, Bigotti finisce agli arresti

Da un lato Ezio Bigotti, un imprenditore già finito nell’inchiesta Consip che cerca di fuggire alle indagini che rischiano di farlo finire in manette con l’accusa di false fatturazioni. Dall’altro, Massimo Gaboardi, un tecnico nel settore petroli che sarebbe stato pagato per collaborare nella redazione di un falso verbale utile al complotto per destituire i vertici dell’Eni. Storie diverse che ieri hanno portato a un epilogo identico: Bigotti e Gaboardi sono stati arrestati perché accusati di corruzione in atti giudiziari e falso. ll gip di Messina, Maria Militello, ha disposto gli arresti domiciliari.

C’è un’altra cosa che accomuna l’imprenditore al tecnico petrolifero: entrambi sono entrati in contatto con Pietro Amara e Giuseppe Calafiore, gli avvocati che oltre a pilotare le sentenze del Consiglio di Stato, vantavano un’amicizia alla procura di Siracusa. L’amicizia era quella di Giancarlo Longo, l’ex sostituto procuratore già condannato a 5 anni di reclusione. È a lui che Amara e Calafiore, che la scorsa settimana hanno patteggiato a Roma condanne dai 3 anni ai 2 anni e 9 mesi di carcere, si sarebbero rivolti per aiutare Ezio Bigotti.

Quest’ultimo era già stato indagato in un’altra indagine, quella sull’appalto Fm4 della Consip. Il titolare di un’azienda rivale, l’ormai noto Alfredo Romeo, in quell’occasione pensava che “i vertici Consip favorissero la Cofely, capogruppo di un raggruppamento temporaneo di imprese (Rti) di cui faceva parte una società riconducibile a tale Bigotti, imprenditore (…) legato a Verdini”. Ma non è per questo motivo che Bigotti aveva chiesto aiuto ad Amara. L’obiettivo questa volta era quello di far approdare un fascicolo sulle false fatturazioni, nato a Torino e giunto poi a Roma, sul tavolo del pm Longo, magistrato ritenuto “amico” che finirà con il chiedere l’archiviazione di Bigotti. Per riuscire nell’intento, Longo avrebbe acquisito verbali “materialmente e ideologicamente falsi, poiché precedentemente formati da Amara”. “Calafiore – si legge negli atti – per la vicenda Bigotti ricorda di avere ricevuto da Amara 20 mila euro da dare a Longo (…). Si trattava di quattro mazzette da 5 mila euro con banconote da 50 euro che Calafiore ha fatto pervenire a Longo mettendogliele in una busta nel bagno privato dell’ufficio”.

Operava così il “sistema Siracusa”. Anche quando si trattava di complottare ai danni dei vertici Eni. È in questo caso che viene avvicinato il tecnico Massimo Gaboardi, coinvolto nella vicenda in virtù dell’amicizia che lo lega a Alessandro Ferraro, il factotum di Piero Amara, legale della società petrolifera.

Il suo nome si legge negli atti della Procura di Trani, dove era stata depositata una registrazione audio in cui si ascolta Gaboardi dialogare con un soggetto anonimo sul progetto “di destabilizzare i vertici Eni”.

Nonostante i tre esposti anonimi, redatti da Amara, e la registrazione audio, la Procura di Trani sembrava orientata ad archiviare, perché “l’insieme delle investigazioni svolte non hanno consentito di trovare certi e sicuri riscontri su quanto asserito dall’anonimo estensore”. L’avvocato riesce però a far trasferire l’intero fascicolo a Siracusa, a disposizione del pm Giancarlo Longo, che il giorno prima di ferragosto riceve la denuncia di Ferraro. Quest’ultimo racconta di essere stato sequestrato da “due uomini di colore e un italiano con accento milanese” perché avrebbe appreso, mentre si trovava in un ristorante milanese, del “complotto Eni”. Qualche mese dopo, Ferraro si presenta ancora da Longo e deposita “un dossier di Massimo Gaboardi”, a convalida della sua tesi.

Il magistrato ascolterà per ben due volte il tecnico Eni, nella seconda il verbale era già “precompilato” da Amara e Calafiore, in modo da creare un atto falso redatto con il “chiaro scopo di costituire delle prove false per confermare la credibilità” di Ferraro.

Sea Watch in Francia: “Contro di noi un abuso di potere”

Nei 20 giorni in cui la Sea Watch 3 è stata obbligata a rimanere nel porto di Catania, le autorità italiane ed olandesi hanno “abusato del loro potere ispettivo per cercare qualcosa, la minima cosa, pur di impedire l’attività di soccorso in mare ed impedire che si parli della tragedia in corso nel Mediterraneo e in Libia”. Lo dice la portavoce italiana di Sea Watch Giorgia Linardi ribadendo che il trasferimento a Marsiglia della nave non è per completare gli interventi chiesti dalle autorità, come sostenuto da Guardia Costiera e Olanda, ma per una “manutenzione programmata”: la nave – dice la Ong – naviga verso il cantiere navale di Marsiglia per l’annuale manutenzione, con l’obiettivo di riprendere le sue attività a metà marzo”. Secondo la ricostruzione di Sea Watch il via libera alla partenza della nave è arrivato “pochi minuti prima” che scadesse il termine entro il quale la Ong avrebbe avviato un’azione legale urgente per “detenzione illegittima” della nave. Per 21 giorni, dice la Ong, “le autorità italiane e olandesi hanno cercato ogni possibile pretesto per bloccare la nave in porto”. “Cinque diverse ispezioni da parte delle autorità italiane e olandesi hanno scandagliato la nave per oltre 80 ore”.

Il territorio, i Santi e quel doppio incarico

Senatore Augussori, buonasera, siamo del “Fatto quotidiano”.

Buonasera, mi dica.

Volevo farle qualche domanda in merito all’emendamento su…

La interrompo: non sento, non sento… (in lontananza, musica di sottofondo)

Giusto tre domande, per le modifiche all’emendamento sul reddito di cittadinanza…

Sono in Moldavia.

Lei è anche consigliere comunale a Lodi…

Ma chi le ha dato il mio numero?

Tu-Tu-Tu

Fosse mai caduta la linea, riprovo.

Scusi, ma mi ha buttato giù il telefono?

Parli col mio ufficio stampa.

Tu-Tu-Tu

Nuovo tentativo di chiamata: squilla a vuoto. Scrivo un messaggio: nessuna risposta. Riprovo a chiamare: scatta la segreteria. Non potendo così chiedere al senatore della Repubblica Luigi Augussori quanto avremmo voluto, ci dedicheremo al personaggio.

Luigi Augussori torna a Lodi ogni venerdì, per mantenere il contatto col territorio. I suoi viaggi sono tutti documentati dai selfie sulla sua pagina Facebook: lo si vede mentre posa la prima pietra del nuovo campanile di Marudo, per festeggiare la sistemazione della rotonda della Faustina, per celebrare San Bassiano, santo patrono della città lombarda. Classe 1972, informatico, si è imposto sulla scena politica lodigiana impedendo la cessione gratuita di un terreno pubblico per la costruzione della seconda moschea più grande d’Italia. Oggi si divide tra gli impegni in Parlamento – dove, destino vuole, è compagno di “seduta” dell’onorevole Simone Pillon, padre del discusso decreto – e l’Europa (attualmente è in Moldavia in missione di monitoraggio elettorale Osce, per il voto di domenica). È stato Presidente del Consiglio comunale di Lodi (i suoi volantini per l’ultima tornata delle amministrative del 2017 riportavano la riapertura al traffico di Piazza della Vittoria, chiusa dagli anni ‘80, come principale battaglia per farsi rieleggere) fino a quando non è arrivata Roma, e il Parlamento.

Augussori è stato quindi Presidente del Consiglio Comunale della giunta della sua collega di partito, Sara Casanova, anche quando venne presentato, il 4 marzo 2017, il famoso regolamento discriminatorio sui criteri di accesso per le famiglie straniere alle tariffe agevolate di mense e bus. Un regolamento difeso da Augussori più volte, come si può leggere anche sulle pagine del Cittadino: “Sostengo la bontà dei principi che ci hanno ispirato, più equità, risparmio per le casse comunali e rispetto della volontà democratica”.

Piccola nota di cronaca: nei suoi passati trascorsi da politico lodigiano, quando, durante un precedente mandato del sindaco Pd Lorenzo Guerini, Augussori era vicepresidente del Consiglio comunale per l’opposizione, ricopriva contemporaneamente anche la carica di vicepresidente dell’Aler di Lodi, l’istituto che gestisce gli alloggi popolari. Ha mantenuto le due cariche fino a quando ha potuto, ovvero fino alla norma sull’incompatibilità dei doppi incarichi, “troppo rigidamente interpretata”, disse al tempo lui. È sempre una questione di regole. È sempre una questione di risparmi.

Reddito modello Lodi. La ricetta Lega la stessa

Reddito di cittadinanza, ultima corsa a ostacoli per gli stranieri. Arrivare a strappare una risposta positiva ora si fa difficile per gli extracomunitari. Merito della Lega e di un emendamento che riporta sul tavolo il caso Lodi e la disputa sull’accesso alle mense scolastiche. Come per il regolamento voluto dalla giunta del sindaco Sara Casanova, ex parrucchiera prestata alla politica del Carroccio, anche il decretone sul reddito di cittadinanza impone allo straniero di portare documenti originali del proprio Paese per dimostrare di non possedere laggiù beni mobili e immobili.

L’emendamento dunque ripropone un problema che già il Tribunale di Milano, in riferimento al caso Lodi, ha definito discriminatorio. Una vicenda che ritorna per diversi motivi. Tra questi il fatto che il primo firmatario dell’emendamento è il senatore leghista Luigi Augussori, già presidente del consiglio comunale a Lodi e oggi ancora in consiglio. Il Comune lombardo è oggi lo specchio migliore per comprendere cosa succederà per l’accesso al reddito di cittadinanza. Partiamo dai dati forniti dal Comune di Lodi. Prima che il tribunale si esprimesse sui ricorsi dell’Asgi e del Naga, già il Comune aveva alleggerito il regolamento permettendo che la documentazione non arrivasse dal Paese di origine ma dal consolato in Italia. Stessa prassi prevista dall’emendamento votato in Senato due giorni fa. E nonostante questa concessione, la musica non cambia, almeno a spulciare i dati di Lodi e pubblicati ieri sul sito dell’Asgi. Su 22 consolati interpellati, ben 17 non hanno risposto. Silenzio dall’Albania, dalla Tunisia e dal Senegal. Mancano all’appello Paesi come la Moldova e la Russia, comunità che in Italia sono tra le più numerose. Chi risponde sono: Ecuador, India, Marocco, Pakistan, Turchia, Egitto. Ci si chiede: almeno chi risponde darà delle certezze? Per niente. Il 18 dicembre scorso, il Comune invia una richiesta al consolato egiziano. Gli uffici rispondono lo stesso giorno. E lo fanno in modo negativo su tutti i fronti. Si legge: “Per il possesso di beni immobili nel Paese di origine questo consolato non è in grado di produrre autonomamente tale certificazione”. La frase si ripete identica per i beni mobili registrati e per eventuali redditi percepiti. L’Ecuador, invece, sul reddito produce una certificazione. Restano negative le voci sui beni. Il consolato del Marocco spiega che “l’attestazione riguardante il possesso o non di redditi e beni registrati in Marocco si rilascia sulla base dei certificati rilasciati da parte dei servizi competenti in Marocco”. Stesso copione per la Turchia. “Questo consolato – si legge nel documento – non è in grado di sapere il reddito o la situazione patrimoniale dell’interessata in Turchia”.

Il documento richiesto dal Comune di Lodi è possibile solo nel caso il cittadino turco esibisca atti originali acquisiti nel Paese di origine. Siamo così punto e a capo. Nemmeno l’alleggerimento del Comune di Lodi risolve il problema. Problema che si ripresenta su scala più ampia per il reddito di cittadinanza. Di più: sull’emendamento firmato dal senatore Augussori si allunga un piccolo giallo. Nella prima stesura, infatti, il testo ricalcava alla lettera il regolamento di Lodi. Il testo approvato in Senato porta invece due differenze fondamentali. La prima: tutto viene fatto in deroga al decreto della Presidenza del Consiglio del 2013, quello sull’Isee. Un dato che, come spiegato dall’avvocato Alberto Guariso dell’Asgi, smaschera l’illegittimità del regolamento di Lodi. La seconda: si introduce l’obbligo della lista di quei Paesi dove è “oggettivamente” impossibile ottenere i documenti. Nella prima stesura di Augussori tutto questo mancava. Chi lo ha cambiato in corsa? La lista dei Paesi è poi un elemento dirimente. Già il Comune di Lodi sulla lista dei paesi aveva interpellato il ministero degli Esteri che però non aveva risposto. Ora però dovrà dare una risposta entro tre mesi. Peccato che già dal 6 marzo, partiranno le richieste per il reddito di cittadinanza.

Discriminati come a Lodi. Il reddito secondo la Lega

Reddito di cittadinanza, ultima corsa a ostacoli per gli stranieri. Arrivare a strappare una risposta positiva ora si fa difficile per gli extracomunitari. Merito della Lega e di un emendamento che riporta sul tavolo il caso Lodi e la disputa sull’accesso alle mense scolastiche. Come per il regolamento voluto dalla giunta del sindaco Sara Casanova, ex parrucchiera prestata alla politica del Carroccio, anche il decretone sul reddito di cittadinanza impone allo straniero di portare documenti originali del proprio Paese per dimostrare di non possedere laggiù beni mobili e immobili. L’emendamento dunque ripropone un problema che già il Tribunale di Milano, in riferimento al caso Lodi, ha definito discriminatorio. Una vicenda che ritorna per diversi motivi. Tra questi il fatto che il primo firmatario dell’emendamento è il senatore leghista Luigi Augussori, già presidente del consiglio comunale a Lodi e oggi ancora in consiglio.

Il Comune lombardo è oggi lo specchio migliore per comprendere cosa succederà per l’accesso al reddito di cittadinanza. Partiamo dai dati forniti dal Comune di Lodi. Prima che il tribunale si esprimesse sui ricorsi dell’Asgi e del Naga, già il Comune aveva alleggerito il regolamento permettendo che la documentazione non arrivasse dal Paese di origine ma dal consolato in Italia. Stessa prassi prevista dall’emendamento votato in Senato due giorni fa. E nonostante questa concessione, la musica non cambia, almeno a spulciare i dati di Lodi e pubblicati ieri sul sito dell’Asgi. Su 22 consolati interpellati, ben 17 non hanno risposto. Silenzio dall’Albania, dalla Tunisia e dal Senegal. Mancano all’appello Paesi come la Moldova e la Russia, comunità che in Italia sono tra le più numerose.

Chi risponde sono: Ecuador, India, Marocco, Pakistan, Turchia, Egitto. Ci si chiede: almeno chi risponde darà delle certezze? Per niente. Il 18 dicembre scorso, il Comune invia una richiesta al consolato egiziano. Gli uffici rispondono lo stesso giorno. E lo fanno in modo negativo su tutti i fronti. Si legge: “Per il possesso di beni immobili nel Paese di origine questo consolato non è in grado di produrre autonomamente tale certificazione”. La frase si ripete identica per i beni mobili registrati e per eventuali redditi percepiti.

L’Ecuador, invece, sul reddito produce una certificazione. Restano negative le voci sui beni. Il consolato del Marocco spiega che “l’attestazione riguardante il possesso o non di redditi e beni registrati in Marocco si rilascia sulla base dei certificati rilasciati da parte dei servizi competenti in Marocco”. Stesso copione per la Turchia. “Questo consolato – si legge nel documento – non è in grado di sapere il reddito o la situazione patrimoniale dell’interessata in Turchia”. Il documento richiesto dal Comune di Lodi è possibile solo nel caso il cittadino turco esibisca atti originali acquisiti nel Paese di origine. Siamo così punto e a capo. Nemmeno l’alleggerimento del Comune di Lodi risolve il problema. Problema che si ripresenta su scala più ampia per il reddito di cittadinanza.

Di più: sull’emendamento firmato dal senatore Augussori si allunga un piccolo giallo. Nella prima stesura, infatti, il testo ricalcava alla lettera il regolamento di Lodi. Il testo approvato in Senato porta invece due differenze fondamentali. La prima: tutto viene fatto in deroga al decreto della Presidenza del Consiglio del 2013, quello sull’Isee. Un dato che, come spiegato dall’avvocato Alberto Guariso dell’Asgi, smaschera l’illegittimità del regolamento di Lodi. La seconda: si introduce l’obbligo della lista di quei Paesi dove è “oggettivamente” impossibile ottenere i documenti. Nella prima stesura di Augussori tutto questo mancava. Chi lo ha cambiato in corsa? La lista dei Paesi è poi un elemento dirimente. Già il Comune di Lodi aveva interpellato il ministero degli Esteri che però non aveva risposto. Ora però dovrà dare una risposta entro tre mesi. Peccato che già dal 6 marzo, partiranno le richieste per il reddito di cittadinanza.

Cristo si è fermato a San Ferdinando

L’odore di plastica bruciata ormai non si sente più. Dopo una settimana, il tanfo del ghetto lo ha sovrastato. Il fetore dell’immondizia ha fatto il resto, mescolandosi con i fumi della carne arrostita davanti ai cani che, dopo aver frugato nella spazzatura fuori dalle tende, si avvicinano, scodinzolando, alla baracca dove viene cucinata una vecchia pecora, comprata per 10 euro da uno dei pastori che, di tanto in tanto, porta il gregge nelle campagne della Piana di Gioia Tauro.

Siamo tra Rosarno e San Ferdinando. Di là, la terra spoglia, quello che resta delle vecchie baracche diventate improvvisamente illuminate con la rivolta di Rosarno del 2010; di qua, a soli 300 metri e attraversando la strada, la “nuova” tendopoli di San Ferdinando, quella fatta costruire dalla Prefettura due anni fa. Sullo sfondo, una quarantina di “nuovissime” tende blu, piantate su iniziativa del ministero dell’Interno pochi mesi fa dopo l’ennesimo rogo, dopo l’ennesimo morto. Un “paese” di quasi 2 mila abitanti, questa area delle tendopoli: una città dentro la città con le sue regole, i suoi drammi, le sue storie di uomini.

Dell’incendio in cui è morto una settimana fa il senegalese Moussa Ba nella tendopoli è rimasto solo qualche pezzo di legno annerito. Potrà forse servire per costruire un’altra capanna, o almeno come palo a cui attaccare le biciclette con cui ogni mattina, all’alba, i migranti vanno nei campi a raccogliere arance. Qui nessuno ha creduto al tweet del ministro dell’Interno Matteo Salvini in cui ha annunciato che “sgombereremo la baraccopoli di San Ferdinando: l’avevamo promesso e lo faremo”. Ma cosa succede nella realtà? “Se smantelliamo tutto e non abbiamo dove metterli, questi tornano entro pochi giorni”, trapela dagli ambienti istituzionali qui nella Piana. Tant’è che, dal Viminale, l’input dello sgombero non è mai arrivato a Reggio Calabria.

“Per gli extracomunitari di San Ferdinando con protezione internazionale, avevamo messo a disposizione 133 posti nei progetti Sprar”, proseguiva l’annuncio social del ministro. “Hanno aderito solo in otto (otto!), tutti del Mali. E anche gli altri immigrati, che pure potevano accedere ai Cara o ai Cas, hanno preferito rimanere nella baraccopoli. Basta abusi e illegalità”, ha tuonato Salvini. Ma la prefettura, che ha iniziato a procedere con i trasferimenti volontari negli Sprar e nei Cas, ha disegnato un quadro più complesso: dei 1.592 migranti che risulterebbero presenti nell’area (per sindacati e associazioni sarebbero molti di più), i migranti che possono essere trasferiti dallo Stato, perché entrati nel circuito dell’accoglienza, sarebbero 749. A questo numero si arriva sommando gli 80 migranti aventi diritto al Siproimi-ex Sprar (di questi solo 15, e non 8, a oggi hanno accettato) ai 669 richiedenti asilo (di cui solo 366 possono essere già collocati nei Cas; tra quelli già contattati, 180, in 73 stranieri si sono detti disponibili a essere trasferiti). La tendopoli si dimezzerebbe, ma gli altri 843 migranti? C’è chi è irregolare, e senza diritto a entrare nel circuito dell’accoglienza, ma c’è anche chi è già titolare di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, e in quanto tale non può essere trasferito o “ricollocato” (per i sindacati sarebbero la maggioranza dei presenti).

In 8 su 10 hanno già ottenuto la protezione internazionale

Stando al rapporto di Medici per i diritti umani, quasi tutti i migranti non vogliono lasciare le baracche per paura di perdere il lavoro nelle campagne attorno a Rosarno. Qui, tra arance e clementine, si arriva a raccogliere e produrre la metà dell’intero dato nazionale. “Non voglio andarmene perché il mio padrone deve pagarmi le ultime giornate di lavoro. Se venissi trasferito in uno Sprar, mi darebbero un letto, ma come farei a lavorare se sono lontano da Rosarno?”. A 17 anni Diedy è partito dalla Guinea e ha raggiunto da solo la Libia. Da lì con un barcone ha attraversato il Mediterraneo. Adesso, a 19 anni, è uscito dal circuito dei minori non accompagnati e quest’inferno è diventato la sua casa. C’è anche chi è partito e ritornato. Come Mahamman, Niger. Cerno andrebbe via, invece. Non ce la fa più a rischiare la vita e sperare che non sia la sua la prossima tenda a prendere fuoco: “Ci hanno preso con il furgone e ci hanno portati al commissariato, ma lì ci hanno detto che non posso andare in uno Sprar perché ho un permesso per ragioni umanitarie. E mi hanno riaccompagnato qui”.

“Quando i migranti accettano di andare negli Sprar – spiega Abdel Ilah El Afia, sindacalista Flia-Cgil – la questura fa le verifiche e si accorge che quelli che godono di un permesso di protezione umanitaria sono l’80%: non possono più avere una seconda accoglienza, e quindi li rimandano indietro”.

Mohammed, del Niger, ha 42 anni mal portati. Nella baraccopoli è tra gli “anziani”. È nel “limbo” dal 2006, da quando di anni ne aveva 30. Ha visto la rivolta di Rosarno, il primo sgombero, la prima tendopoli, il secondo sgombero e la seconda baraccopoli. “Venite a visitarci solo quando c’è il morto. Per lo Stato italiano noi dobbiamo restare qui per sempre. In Libia i nostri fratelli sono torturati. Quando arrivano qui la situazione non cambia di molto. È vero: siamo liberi di uscire, ma siamo condannati a vivere in questo ghetto. Lo Stato fa la voce grossa, ma si dimentica di noi sfruttati nei campi per due soldi.”.

L’altra illegalità: a Reggio, solo 10 imprese agricole “regolari”

“Umanamente mi dispiace ma non ci posso fare nulla. A dirla tutta non sono affari miei”. A patto di restare anonimo, un agricoltore di Rosarno racconta che anche lui ogni tanto va alla tendopoli per trovare qualcuno che raccolga le arance: “Non posso fare altrimenti che farli lavorare a nero. Se li dovessi registrare tanto vale non fare la raccolta. Ho votato Salvini ma da queste parti, o fai lavorare a nero i migranti o ci rimetti”. In tutta la provincia di Reggio Calabria, secondo l’Inps sono solo 10le imprese agricole che risultano iscritte allaRete del Lavoro agricolo di qualità, ovvero le imprese che fanno regolari contratti di lavoro, pagano in base alle tabelle ufficiali e fanno lavorare i loro dipendenti solo per le ore consentite.

Teodoro De Maria, proprietario di diversi ettari di terreno ed ex assessore di Rosarno punta il dito verso uno dei suoi alberi: “Le vedi le clementine? Anche se me le dovessero raccogliere gratis direi di no perché non avrei a chi venderle. È vero che c’è chi li sfrutta, ma il ghetto di San Ferdinando non conviene a nessuno. La questione è culturale. Alcuni di loro potrebbero affittare una casa come fanno i romeni e i bulgari. Non lo fanno perché è il loro modo di vivere”.

“Vogliono una lamiera per stare come i cani”. Mico Cananzi è proprietario di 7 ettari alcuni dei quali proprio accanto alla tendopoli: “Ho votato Salvini perché ha detto che mi toglie i migranti. Utilizzano i miei campi come se fossero bagni. Sono maiali. Tra un po’ di giorni li puoi vedere nudi che si lavano. Non lo dico per razzismo ma come facciamo ad aiutarli?”. L’agricoltore si agita. “Sono dei lordazzi. Quando arriva ‘sto Salvini con le ruspe? Lo abbiamo votato perché ci ha promesso di togliere questo marciume. Se non lo fa, la Lega qui è finita”. Alle elezioni politiche il partito del ministro dell’Interno ha rastrellato il 13% dei voti in uno dei territori a più alta densità mafiosa. “Ma quale ‘ndrangheta?”, risponde seccato Cananzi. “Il primo problema sono loro! Sono loro che portano la droga qui”.

Mentre parla, un migrante in bicicletta gli passa accanto. Indossa abiti “taroccati”, comprati con pochi euro in uno dei tanti mercatini di roba usata all’interno della tendopoli: “Lo vedi quel nero come è vestito? Viene qui a raccogliere le arance con le scarpe Paciotti. Dove prendono i soldi? Adesso vogliono dargli metà delle case popolari che hanno costruito a Rosarno. Qualcuno li butterà giù quei palazzi, altro che. Devono cacciarli dalla baraccopoli e basta. Se Salvini non lo fa, siamo pronti a sgomberarli noi”.

Le nuove baracche piano piano si mangeranno quel poco di nero rimasto a terra dai resti dell’incendio di sabato scorso. Quando anche sull’ultimo metro quadrato ci sarà una tenda, nessuno parlerà più di Moussa Ba, senegalese ucciso dalle fiamme. Come è già successo per Surawa, e prima ancora di lui, per Becky, morti carbonizzati. Continuerà la raccolta delle arance. Ma finiranno le passerelle dei politici e dei giornalisti. Almeno fino al prossimo rogo. Almeno fino al prossimo sangue.