Sulla sua pagina Facebook, non è nuovo ai video sui generis. Ma stavolta, il sottosegretario Angelo Tofalo, è andato decisamente oltre. E per criticare, diciamo così, le resistenze dei vecchi sindacati (il Cocer) alle aperture alle nuove forme di rappresentanza dei militari decise dalla ministra Elisabetta Trenta ha scelto un video in cui Hitler (nel ceebre film interpretato da Bruno Ganz), fa il verso alla vecchia guardia. Lo stesso Tofalo, va detto, dopo aver visto i commenti sui social, aveva aggiunto un post scriptum al video per dire che “girava in tutte le chat” e che “il Paese non è più abituato alla satira”. Ma evidentemente al tavolo della ministra non si sono fermate le proteste dei sindacati che si sono sentiti presi in giro. E così, dall’entourage della Trenta, è filtrata una nota in cui si dice che “è del tutto inadeguato che un sottosegretario, dunque un rappresentante dello Stato, pubblichi un video del genere sul suo profilo ufficiale. Prendiamo ovviamente le distanze da questa scelta, che viola la consueta e doverosa grammatica istituzionale”.
L’autonomia e i testi che oggi ci sono e domani no
L’autonomia regionale sarà differenziata, come da pessima riforma costituzionale del 2001. E fosse solo quello: pure il dibattito sulle richieste di Emilia Romagna, Lombardia e Veneto è differenziato; qualcuno ne sa molto, qualcuno poco, qualcuno nulla. La situazione è talmente paradossale che, a volte, questa conoscenza differenziata si concentra addirittura nella stessa persona.
È il caso della ministra per gli Affari regionali, la leghista Erika Stefani, che da luglio lavora indefessamente alle intese, seppur senza evidenze pubbliche della cosa, e ancora non ha capito se ci sono dei testi oppure no. Giovedì, per dire, audita dalla Commissione bicamerale sul federalismo, sosteneva: “I testi non ci sono perché l’intesa non c’è: i nodi da sciogliere sono numerosi. I testi che stanno circolando sono spesso errati, ci sono bozze che tali sono. La parte ambientale e quella sulla sanità non sono definite, sui beni culturali non c’è accordo, sull’istruzione c’è molto da decidere. I testi ci saranno quando ci sarà un accordo”. Riassumendo: giovedì i testi non ci sono.
Venerdì invece, cioè ieri, ricompaiono: “Il 14 febbraio ho consegnato al Consiglio dei ministri i testi delle tre bozze di intesa. I testi contengono il frutto di un lavoro serio, ponderato e pesato nei dettagli e fatto tra le regioni e tutti i ministeri competenti. I testi ci sono dunque, quello che manca per giungere alla firma dell’intesa è un accordo su importanti nodi specifici che si sono generati tra i ministeri di Infrastrutture, Salute, Ambiente e Beni culturali”. Insomma, i testi ci sono, ma non sono finiti e ora se ne occuperà una cosa detta “tavolo politico”.
No, la ministra Stefani non è confusa, semplicemente cambia musica a seconda che suoni per i media o per il Parlamento: se deve battere la grancassa i testi ci sono, se le Camere vogliono vederli e magari cambiarli non ci sono. Forse non sarà la secessione dei ricchi, però finora è quella dalla democrazia.
Scandalo al Sole, stangata Consob per Napoletano & C.
La stangata della Consob sugli ex dirigenti del Sole 24 Ore è molto severa. Multa di 240 mila euro per l’ex amministratore delegato Donatella Treu, sanzione dello stesso importo per l’ex direttore del giornale della Confindustria Roberto Napoletano, sanzioni pecuniarie inferiori ma rilevanti per i dirigenti Anna Matteo (responsabile marketing), Massimo Arioli (direttore finanziario), Alberto Biella (responsabile dell’area vendite). Per l’azienda la multa è di 140 mila euro, ma la grana maggiore per la società presieduta da Edoardo Garrone è l’obbligo di rispondere in solido anche delle sanzioni affibbiate ai suoi ex esponenti qualora non fossero in grado di fare fronte al pagamento. Un onere che potrebbe rivelarsi assai seccante per una società che al 31 dicembre scorso evidenziava una posizione finanziaria netta negativa per 5,9 milioni, in peggioramento di 12,5 rispetto a un anno prima.
La decisione della commissione che vigila sui mercati finanziari punisce una fattispecie di manipolazione del mercato. Per farsi un’idea della severità della decisione presa ieri dalla Consob basti pensare che, poco più di un anno fa, 15 amministratori e dirigenti della Carichieti, accusati di una violazione simile, per non aver dato informazioni corrette “alla clientela che ha concluso operazioni aventi ad oggetto obbligazioni subordinate”, sono stati multati complessivamente per 220 mila euro.
Gli avvocati dei sanzionati avevano chiesto, come previsto dalla legge, la segretazione della delibera, ma la commissione presieduta ad interim dal commissario anziano Anna Genovese ha respinto la richiesta decidendo per la pubblicazione del corposo dispositivo di 150 pagine.
Treu e Napoletano sono stati puniti, insieme agli altri dirigenti, per aver truccato per anni i dati di diffusione del quotidiano, gonfiandoli, come anticipato da Lettera43, attraverso “un significativo intervento manuale”, di cui era “a conoscenza un limitato numero di persone”. Il Sole 24 Ore, secondo la Consob, avrebbe avuto come sponda per gonfiare i risultati, varie società esterne come Edifreepress, Johnsons e l’inglese Di Source.
La sanzione amministrativa della Consob ricalca i risultati dell’inchiesta penale della Procura della Repubblica di Milano, che vede tra gli indagati anche l’ex presidente Benito Benedini, e in cui Napoletano è coinvolto perché ritenuto dai pm Fabio De Pasquale e Gaetano Ruta amministratore di fatto della società. Il 16 novembre scorso è stato emesso l’avviso di conclusione delle indagini: Napoletano, Treu e Benedini sono accusati di false comunicazioni sociali e aggiotaggio informativo, sempre con riferimento ai dati di vendita gonfiati. I magistrati milanesi non hanno ancora fatto le loro richieste (di rinvio a giudizio o di archiviazione) al giudice dell’udienza preliminare. L’inchiesta è partita nell’autunno del 2016 e ha portato nel marzo 2017 alle dimissioni di Napoletano in seguito a una spettacolare perquisizione nella sede milanese del giornale.
Quando fu quotato in Borsa, nel dicembre 2007, Il Sole 24 Ore valeva 750 milioni. Oggi ne vale 34. Nell’ultimo mese la quotazione del titolo è cresciuta di circa il 50 per cento, verosimilmente sulla base delle voci secondo cui la Confindustria (azionista di controllo con il 61 per cento del capitale) sarebbe intenzionata a proporre ai soci di minoranza il cosiddetto delisting, cioè il ritiro della società dalla Borsa attraverso l’acquisto di tutte le azioni.
Graziati dall’agenzia Fitch: per ora niente taglio al rating
Il giudizio tanto atteso è più clemente del previsto: l’agenzia di rating Fitch lascia invariato il livello di rischio del debito italiano. Nessun declassamento, resta BBB, sempre con oulook negativo, cioè con la possibilità che alla prossima revisione ci sia un taglio. I fondamentali del Paese restano solidi, a parte il peso del debito pubblico, scrive Fitch che per il 2019 prevede una crescita del Pil soltanto dello 0,3 per cento (il governo dell’1). Oltre alla recessione pesa la politica: “Le tensioni nella coalizione di governo e la possibilità di elezioni anticipate si sommano alle incertezze sulla politica economica e fiscale”.
Ieri lo spread è salito ancora, a quota 275. Lontano dai picchi ma in una zona preoccupante, indica che le imprese italiane pagano il credito molto più delle concorrenti europee. E questo è un pessimo viatico per una fase di recessione o di stagnazione in cui le banche tenderanno a concedere meno credito, a maturare nuove sofferenze e a rischiare esse stesse problemi.
Il presidente della Bce Mario Draghi ha ribadito la solidità della costruzione europea, ma ha anche avvertito: “Un paese perde sovranità quando il livello del debito è tale che qualunque decisione passa al vaglio del mercato”. Un monito che sembra diretto soprattutto all’Italia.
Francia e Germania ieri hanno perfezionato la loro proposta di un budget apposito per l’eurozona che si aggiunga a quello già esistente dell’Unione europea. Questi fondi – che non sostituiscono quelli attuali erogati ma si aggiungono – devono servire a finanziare “riforme strutturali” che favoriscano la “convergenza” delle economie della zona euro. Poiché la concessione di queste risorse viene presentata come parallela alla valutazione annuale dei progetti di bilanciod a parte della Commissione europea, la sintesi è che i Paesi della zona euro con i conti in regola e i bilanci approvati da Bruxelles potranno ottenere anche questi soldi extra. Gli altri no.
Questo progetto dovrà poi essere discusso nelle sedi ufficiali, Eurogruppo, Consiglio europeo, Eurosummit (i capi di governo della zona euro). Ma da mesi Angela Merkel ed Emmanuel Macron cercano di dare il segnale che il motore franco-tedesco dell’integrazione europea si è rimesso in modo, anche se per ora senza grandi risultati (anche il trattato bilaterale di Aquisgrana, poche settimane fa, era soprattutto un’iniziativa di immagine). L’obiettivo è avere qualche risultato da presentare agli elettori che a maggio andranno a votare per il Parlamento europeo.
Espulso il leghista che ha insultato Emma Marrone
Scrive ”faresti meglio ad aprire le cosce, facendoti pagare per esempio” rivolto a Emma Marrone su Facebook e il partito lo espelle. Una frase sessista e volgare tra i commenti di un post dell’articolo del Giornale sull’ “Aprite i porti!” – il messaggio umanitario lanciato dall’artista toscana durante un concerto a Eboli lo scorso 19 febbraio – costa al consigliere comunale leghista di Amelia, in provincia di Terni, Massimiliano Galli la cacciata dal Carroccio. “Sono dichiarazioni inaccettabili, chi usa questo linguaggio non ci può rappresentare. Abbiamo preso la decisione irrevocabile di espellerlo” è l’esplicita condanna espressa dal deputato e segretario regionale della Lega Umbria Virginio Caparvi. Inoltre Galli non è nuovo a sortite sopra le righe che gli costano il posto: nel 2017, quando era assessore ad Amelia, si era dovuto dimettere dalla giunta di centrodestra per un post antislamico sulla guerra in Siria in cui attaccava i musulmani chiamandoli “musulmerde” e sosteneva che “si dovrebbero ammazzare tutti fino all’ultimo individuo siriano”.
“Solinas mi ha chiesto aiuto, ma poi è sparito”
Negli Usa ha lavorato per Richard Nixon e ha vinto sette premi Clio, gli Oscar della pubblicità. In Italia ha firmato campagne rimaste nell’immaginario collettivo come Mulino Bianco, Giovanni Rana e pasta Barilla. In Sardegna, la sua terra d’origine, ha curato la campagna elettorale di Renato Soru nel 2004 e quella di Ugo Cappellacci nel 2009, entrambi vincenti.
Gavino Sanna è il creativo italiano più famoso nel mondo, una carriera costellata di successi e soddisfazioni. Eppure il suo curriculum non è bastato a Christian Solinas, il candidato sardo della Lega che dopo avergli chiesto di ideare la sua campagna ha bocciato le proposte considerate: “Troppo semplici, banali, già viste”, pare si sia sentito dire, incredulo. “Deluso? Direi profondamente amareggiato. Ma almeno questa volta non dovrò chiedere scusa ai sardi per aver fatto eleggere un candidato deludente, come ho fatto a suo tempo con Soru e Cappellacci”.
Il tasto dolente in quel caso fu il contenzioso sulle parcelle: “Le campagne vanno benissimo, poi però scappano tutti”. Con Solinas non c’è stato neanche il tempo di formalizzare l’accordo: “Mi sono accontentato di una stretta di mano, come faccio sempre. E ci sono ricascato”. Chi gliel’ha fatto fare? “Sono appassionato del mio lavoro e mi attira la possibilità di parlare con la gente comune, come fa ogni buon pubblicitario. E poi sono sardo. Avevo voglia di raccontare i luoghi, i paesi, i volti, il carattere della nostra isola. Non sono mai stato sardista, non ho mai votato né in America né in Italia”, precisa Sanna. “Avevo un ricordo affettuoso del leader sardista Mario Melis che tanti anni fa venne a Milano per portarmi una medaglietta antichissima col simbolo dei Quattro Mori e da allora ho vissuto quel simbolo come il simbolo della Sardegna. Per questo quando sono stato contattato da Solinas ho accettato l’incarico con entusiasmo. Volevo raccontare un’idea di Sardegna e di sardità che ho sempre custodito nel cuore”.
È andata così: “Solinas è venuto a trovarmi con un accompagnatore nella mia casa di Alghero. Mi ha chiesto se fossi disposto a costruire una campagna su di lui, sul senso di essere sardista. ‘Benissimo’, ho detto”. C’ è poi un secondo incontro a Milano: “Solinas era sempre accompagnato dal suo accompagnatore, un grillo parlante, loquacissimo. Abbiamo stretto il nostro accordo e nel giro di due settimane ho realizzato una campagna chiavi in mano: 27 tavole formato poster, più 5 in formato 6×3 . Un lavorone, un po’ come quello che feci per Soru”.
Ma a quel punto qualcosa va storto: “Ricevo una telefonata in cui mi chiedono di mandargli qualcosa subito perché si doveva pianificare l’acquisto delle sponsorizzazioni mobili sulle vele. Io mando tutto. La sera dopo mi telefona il grillo parlante dicendomi che avevano presentato la campagna alla segreteria del partito e che questa l’aveva bocciata. Sono rimasto di stucco”. Da quel momento in poi, spariscono tutti: neanche una telefonata di cortesia dal candidato presidente, solo generiche prese di tempo da parte dello staff di Solinas, che fa muro. “Non avrei mai detto che dopo aver lavorato per i più grandi nel mondo, sarei stato bocciato da Christian Solinas. Come se io dovessi passare gli esami da pubblicitario”.
Fra i maligni, c’è chi mormora che l’incertezza sull’esito della campagna, su cui pesa il voto disgiunto, abbia indotto il partito a stringere i cordoni della borsa. Sanna è già oltre, dice che con questa classe politica “la Sardegna forse non si salverà”. Forse. A meno che “non arrivi finalmente un giorno una donna, pronta a prendere le redini della nostra regione. Per lei farei subito un’altra campagna”.
Addio vincoli: sarà obbligatorio accettare solo lavori ben pagati
Il reddito di cittadinanza uscirà dal passaggio al Senato molto diverso da come ci è entrato: un emendamento approvato ieri rende praticamente inutili tutti i vincoli introdotti nella versione originaria, con il decreto legge, per costringere i beneficiari del sussidio ad accettare le offerte di lavoro proposte. Una modifica proposta dal M5S e approvata in Commissione lavoro prevede che sia “congrua” un’offerta che prevede un salario “superiore di almeno il 10 per cento del beneficio massimo fruibile da un solo individuo, inclusivo della componente a integrazione del reddito dei nuclei residenti in abitazioni in locazione”. E poiché quel beneficio è, nella somma delle due componenti, pari a 780 euro a persona, questo significa che sono congrue soltanto le offerte di lavoro con salari di almeno 858 euro al mese.
Il primo problema è quello che l’ex presidente Inps, Tito Boeri, aveva definito, in una audizione, “spiazzamento”. Secondo i dati Inps, infatti, “quasi il 45 per cento dei dipendenti privati nel Mezzogiorno ha redditi di lavoro netti inferiori a quelli garantiti dal reddito di cittadinanza a un individuo che dichiari di avere un reddito pari a zero”. Tradotto: conviene vivere di sussidio invece che di lavoro. Però c’erano i vincoli previsti dalla legge: non si possono rifiutare più di tre offerte congrue. Ed è congrua nei primi 12 mesi di beneficio una offerta “congrua” se entro i cento chilometri dalla residenza del beneficiario, una entro i 250 chilometri se è la seconda, ovunque nel territorio nazionale se è la terza. E dopo il primo ciclo di 18 mesi non si può rifiutare nessuna offerta, pena la perdita del beneficio. Ma se per essere congruo un lavoro deve essere anche ben pagato, allora il vincolo territoriale diventa irrilevante.
Salta anche uno dei principi fondanti del reddito: il sussidio e le politiche attive connesse devono spingere chi è completamente fuori dal mercato a riattivarsi. Per chi non lavora da anni, un part time da 300 euro al mese può essere comunque importante perché permette di tornare a fare qualcosa, a sviluppare capacità, a rientrare nella comunità dei lavoratori. E infatti nella versione finale in alcuni casi si può cumulare parte del reddito da lavoro con il sussidio proprio per stimolare l’attivazione. Ma con il vincolo del salario a 858 euro tutto questo schema salta. E il reddito di cittadinanza diventa sempre più simile a un normale sussidio di disoccupazione: si prende finché non si trova un vero lavoro, ammesso che questo prima o poi arrivi.
Anche la riforma delle pensioni “quota 100” si sta rivelando diversa negli esiti da quanto annunciato dalla Lega, che l’ha voluta. Su 63.000 domande ricevute dall’Inps, 22.000 arrivano da lavoratori dipendenti, 21.700 dalla Pubblica amministrazione. Questo implica che di nuovi posti di lavoro per i giovani ce ne saranno ben pochi (lo Stato assume con un turnover molto limitato) e che in vari comparti del pubblico ci saranno problemi di organico. Dal settore scuola, per esempio, sono arrivate 8.525 domande di pensionamento, ma tra insegnanti, presidi e amministrativi a settembre andranno via 40-45 mila persone che non è semplice sostituire in tempo. Nel settore della giustizia serviranno almeno 1.300 assunzioni già a luglio altrimenti gli uffici si svuoteranno.
Il peso degli statali nel totale dei richiedenti “quota 100” sbilancia gli effetti della misura verso Sud: a fronte delle 2.357 domande a Milano ce ne sono 2.854 a Napoli e ben 4.583 a Roma. Resta da vedere se questo per la Lega, sponsor di “quota 100” è un problema o un’opportunità: gli elettori del Nord ricevono poco, quelli di territori in cui Matteo Salvini cerca nuovi consensi ottengono molto di più.
Di Maio fa la pace con la Francia e riceve l’ambasciatore
Dalla guerra a Macron alla tregua, che suona come un dietrofront. Ieri il vicepremier e capo politico del M5S Luigi Di Maio ha incontrato a Roma l’ambasciatore francese Christian Masset, rientrato in città la settimana scorsa dopo che era stato richiamato in patria dal governo francese, furibondo per gli attacchi del Movimento e per il suo dialogo con i Gilet gialli. Ma il Quirinale e di conseguenza il presidente del Consiglio Conte volevano che scoppiasse la pace. E alla fine, dopo aver dovuto dire addio al Gilet Chalencon, quello che in un fuorionda di Piazzapulita straparlava di “corpi paramilitari” e “colpi di Stato”, Di Maio ha cercato di riaggiustare tutto. E ieri ha invitato a Palazzo Chigi l’ambasciatore, per il primo incontro con il governo dopo lo “strappo”. E sono stati sorrisi e note celebrative, dove si assicura: “È stata ribadita la volontà di lavorare su tutte le tematiche nel quadro del rispetto reciproco e della volontà di cooperare. Ed è stato anche affrontato il tema delle cooperazioni industriali in corso, specie in materia d’innovazione”.
“Saremo noi il perno del Parlamento Ue: spezziamo l’alleanza popolari-socialisti”
Ryszard Legutko, volto del partito ultraconservatore Diritto e Giustizia (Pis) polacco è co-presidente dei Conservatori e Riformisti (Ecr) al Parlamento europeo, il terzo contenitore politico più grande a Strasburgo dopo popolari e socialisti. Abbiamo incontrato Legutko a Roma, in occasione del congresso ospitato dalla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni – che ha appena aderito alla famiglia Ecr – per capire come si muoveranno i conservatori alle prossime elezioni europee.
Ritiene possibile un grande raggruppamento di tutti i sovranisti e nazionalisti europei?
Innanzitutto vorrei chiarire che da quando è nato il gruppo Ecr e da quando noi vi abbiamo aderito, i nostri membri non hanno smesso di lavorare all’interno delle istituzioni europee per realizzare il cambiamento di cui l’Ue ha bisogno. Etichettare come populista o sovranista chiunque osi criticare ciò che Bruxelles ha promesso e non è riuscito a portare a termine, è una prova ulteriore di come alcuni si rifiutano di ascoltare la voce degli elettori, che stanno premiando sempre più spesso formazioni conservatrici in tutto Europa. Il voto di maggio ci darà ragione.
Qual è il vostro progetto?
Quello di un’Unione che faccia meno, ma meglio. Ciò significa concentrarsi solo su settori dove l’Ue può realmente aiutare gli Stati membri: la crisi migratoria, la competitività, la sicurezza.
Salvini è venuto da voi di Diritto e Giustizia, che con l’uscita causa Brexit dei Tory di Theresa May, rimarrete il partito centrale in Ecr. Ha chiesto di entrare nei Conservatori? È stata la sua simpatia per Putin – che voi non amate – a far andare male l’incontro?
Non c’è stata nessuna richiesta di adesione. Ci sono contatti, con Salvini come con altre forze. Ma noi siamo impegnati nel nostro percorso di rafforzamento di Ecr, e saremo centrali per ogni nuova maggioranza.
Dopo il voto cercherete un accordo con i popolari, presentandovi come perno di un inedito centro/estrema destra a Bruxelles? E se sì, su quali basi, visto che molti esponenti popolari guardano piuttosto verso liberali e sinistra?
La nostra priorità è interrompere l’accordo tra popolari e socialisti che ha portato l’Ue ai tanti errori di questi anni. Un’alternativa si può costruire e crediamo interessi anche al Ppe: l’alleanza innaturale con la sinistra ha indebolito anche loro. Dopo il voto ragioneremo con chi vuole davvero cambiare questa Europa.
5Stelle a Strasburgo: ecologisti e lontani dagli euroscettici
Euroscettici? Neanche per sogno. All’opposizione dura? Nemmeno. Il Movimento 5 Stelle nell’Europarlamento ha avuto un comportamento del tutto diverso dall’immagine che se ne ha in Italia. Più in sintonia con i partiti progressisti, in particolare i Verdi, ma anche con i Socialisti e Democratici, molto distante dalle posizioni più isolazioniste. A cominciare dai “compagni di strada” dell’Ukip, il partito indipendentista britannico di Nigel Farage con cui i 5Stelle hanno fatto asse al momento di formare un gruppo parlamentare.
Il comportamento sul campo conferma che quell’alleanza fu davvero solo “tecnica” perché complessivamente le due formazioni hanno votato allo stesso modo solo nel 20% dei casi. Gli stessi comportamenti confermano, invece, che non era del tutto improvvisata la decisione di aderire al gruppo dei liberali, Alde, con cui il M5S ha votato allo stesso modo nel 68% dei casi. Incredibile che proprio dall’Alde e dal suo leader, Guy Verhofstadt, sia venuto l’attacco più duro, e anche scomposto, al presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, con quel “burattino” scagliato tra i banchi del Parlamento europeo.
L’analisi che fotografa questa situazione è opera dell’Istituto Cattaneo (Una relazione paradossale: il M5S nel Parlamento europeo), titolo confortato da una serie di dati e tabelle che, in effetti, offrono un quadro paradossale.
Pur facendone parte, il partito di Luigi Di Maio ha contribuito a rendere scarsamente omogeneo il voto del proprio gruppo, l’Europe of Freedom and Direct Democracy (Efdd) “votando solo il 51% delle volte in accordo alla linea politica del gruppo”. Occorre dire che all’epoca Beppe Grillo aveva garantito la tecnicità dell’alleanza con Farage, utile a garantirsi risorse, incarichi in commissione, tempi parlamentari che in assenza di un gruppo europeo verrebbero meno. Solo che nei suoi voti il M5S non ha espresso una politica euroscettica. Analizzando un campione di circa millecinquecento roll call votes (ossia quei voti in cui viene “registrato” il voto espresso da ogni singolo deputato) tra il 2014 e il 2019, il M5S ha votato solo nel 20% dei casi insieme all’Ukip, nel 36% insieme al Front National di Marine Le Pen e nel 43% insieme alla Lega Nord. Osservando il comportamento di voto sul tema sensibile dell’immigrazione i risultati sono ancora più netti: solo il 7,5% di coincidenza con “l’alleato” Ukip, l’8% con il Front National e il 28% con la Lega Nord
Colpisce il dato che indica la percentuale di voti in cui il M5S ha condiviso la linea politica con i principali gruppi del Parlamento europeo. L’affinità maggiore è con i Verdi con cui ha condiviso il 74% dei voti, seguono i Socialisti e Democratici (nemici giurati in Italia) con il 71%, poi i liberali dell’Alde con il 68% di poco avanti alla sinistra radicale del Gue con il 67%. Le coincidenze minori sono, oltreché con il gruppo di appartenenza, l’Efdd, anche con quello partecipato da Lega Nord e Front National, l’Efn con cui ha votato insieme solo il 43% dei casi. Si consideri che i voti al Parlamento europeo sono generalmente voti a larga maggioranza per cui le coincidenze tra i vari gruppi sono numerose e frequenti.
In ogni caso, l’Istituto Cattaneo nota “che l’approccio del M5S all’interno delle istituzioni europee è stato più che altro improntato alla cooperazione legislativa con i gruppi mainstream, piuttosto che al conflitto aperto”. Soprattutto, colpisce la contiguità con i gruppi progressisti come se la pattuglia di deputati europei avesse mantenuto “una certa congruenza con le posizioni originarie del Movimento, ossia di una certa sensibilità per le tematiche del mondo della sinistra ambientalista e post-materialista”. Con i Verdi, in particolare, il tasso di coesione raggiunge il 93% per le “uguaglianza di genere”, l’88% per “le libertà civili, l’84% per “l’ambiente e la salute”.
L’approccio istituzionale, invece, è reso evidente dal numero di votazioni in cui il M5S è stato parte di una maggioranza “vincente”: 69%. Se ai primissimi posti si trovano Pd e Forza Italia (95 e 92%), membri dei due gruppi che formano la maggioranza dell’Europarlamento, il Ppe e S&D, gli alleati di governo della Lega hanno fatto parte di un voto vincente solo nel 32% dei casi, mentre l’Ukip nel 5%. In Europa ci si muove forse più liberamente oppure i parlamentari a Strasburgo sono stati meno contagiati dalle politiche italiane. In ogni caso, questa analisi mostra una particolare natura del M5S che forse i suoi stessi dirigenti dovrebbero guardare con più attenzione.