Quando Rambo era giapponese: la storia dimenticata di Jiro Taniguchi

Jiro Taniguchi è venerato come il maestro manga più amato dagli occidentali soprattutto per la sua produzione della maturità, che ora, a due anni dalla sua morte, Panini Comics sta ristampando: storie raffinate, dove succede poco o pochissimo, stati d’animo riassunti in un solo segno, in una minuscola differenza tra una vignetta e l’altra. Ne L’uomo che cammina si vede, appunto, soltanto un uomo che cammina, Gourmet è una lunga successione di manicaretti (certo, oggi con Instagram non sembra una gran novità). Pare quasi impossibile che si tratti dello stesso disegnatore che nel 1985 pubblicava Enemico, una serie che solo ora arriva in Italia per Rizzoli Lizard, su testi del collettivo di sceneggiatori M.A.T. Invece di atmosfere rarefatte e vignette candide ci sono combattimenti, sparatorie, torture, inseguimenti nella foresta. Il detective privato Kenichi viene reclutato per scoprire cosa è successo al fratello Yûji, che guida la multinazionale di famiglia, Seshimo. Come accadeva allora spesso nei fumetti americani, l’ambientazione è di fantasia (lo Stato di “Nasencio”) ma dovrebbe evocare quelle situazioni di colpi di Stato, dittature militari e indicibili affari privati che erano la norma negli anni Settanta-Ottanta. Lo sviluppo della trama ha la credibilità di un film di Rambo o di uno con Charles Bronson, c’è perfino il cane da compagnia che si scopre feroce animale da combattimento e la segretaria che in realtà è una guerrigliera. Ma nell’insieme Enemigo si apprezza per due ragioni: per leggere un Taniguchi così diverso da quello più conosciuto e perché rivela quanta ibridazione ci fosse già trent’anni fa tra l’immaginario occidentale, anzi, strettamente americano, e quello orientale.

 

L’erotismo non è mai stato così charmant

Chiunque abbia letto Il fuoco di Gabriele D’Annunzio sa perché la storia d’amore con Eleonora Duse finì: il romanzo è una crudele lettera contro l’attrice in cui svela gli aspetti più intimi e penosi della relazione. Tuttavia, anche se per molto sembrò lui il carnefice, il traditore, il profittatore della fama di lei, in realtà non fu del tutto così. La Duse era emancipata, disinibita, manager di sé (produceva i suoi spettacoli), abituata a dominare sulla scena e nella vita. Quando si conoscono, ha 39 anni ed è già La Duse, Gabriele ne ha 31 ed è solo un promettente poeta: lei è capricciosa, fa scenate di gelosia, continua a stare anche con Arrigo Boito e vede come un lusso da concedersi il giovane rimatore che la rincorre e la supplica di recitare le sue pièces (accetterà e il sodalizio sarà vincente).

Non deve stupire una tale lettura dell’attrice che già il pittore Giovanni Boldini aveva colto in un suo ritratto: Giovane donna di profilo (Eleonora Duse) (1895), che possiamo ammirare all’interno dell’esposizione “Boldini e la moda” (fino al 2 giugno a Palazzo dei Diamanti di Ferrara, a cura di Barbara Guidi e Virginia Hill). La Duse è qui affabulante, in una posa di profilo che restituisce sì la bellezza malinconica ma rivela anche una certa fierezza, una superbia nei tratti del volto tirati: mentre acciuffa la manica alla Marie di una chemisette bianca di satin a fiori, sembra voltare adirata le spalle dopo un litigio.

Ma il quadro dice anche che la chiusura a fiocco sulle spalle e le maniche alla Marie sono di moda nella seconda metà del XIX secolo. In questa mostra, Boldini (che viveva a Parigi) crea infatti un raffinato catalogo dell’eleganza da Belle Époque. Accanto alla Duse, Madame Charles Max (1896) è pronta per un ballo nel suo abito di tulle bianco con le maniche basse e una spallina dorata, idea che ispirerà John Galliano per l’abito Jacqueline della collezione Dior del 2005 (esposto in mostra); e ancora La contessa Berthier de Leusse in piedi (1889) in abito verde acquamarina racconta che i colori esotici (i verdi e gli azzurri chiari) sono molto in voga insieme a uno smodato uso di merletti e perle come nella mise di La principessa Eulalia di Spagna (1898). A essere meno fantasiosi, come sempre, gli uomini: impettito in un completo marrone il conte Robert de Montesquiou (1897) e in smoking e tuba Willy, il primo marito di Colette.

Esposti quadri in buona parte noti, poiché illustrano le copertine di certi classici della letteratura europea, ma che vanno indiscutibilmente rimirati dal vivo.

 

Mummie e demoni tra Roma e Milano: Simoni riesuma anche la Monaca di Monza

Meno di un anno fa, in un’intervista al Fatto ad agosto, Marcello Simoni collocò i suoi romanzi storici, definiti thriller medievali, lontano da Ken Follett e molto vicino a Emilio Salgari. Epperò lo stile dell’archeologo e bibliotecario comasco diventa sempre più originale a mano a mano che affina la sua arte di scrivere libri in grado di scalare le classifiche. Meritatamente. Anche perché a differenza dei suoi colleghi autori di best-seller, la sua vena non risente della comprensibile pressione commerciale degli editori. E la terza avventura di Girolamo Svampa, frate domenicano e inquisitore, conferma ampiamente questa sorta di immunità dalla vorace mondanità odierna.

Stavolta, Svampa nelle sue peripezie incontra pure suor Virginia de Leyva, la famosa Monaca di Monza resa immortale dai Promessi Sposi. Fedele alla sua meticolosità di storico, Simoni ricostruisce la vera storia di suor Virginia, murata viva nella Casa delle convertite di Santa Valeria, a Milano. Colpevole di un solo delitto: aver amato un uomo. Siamo alla fine del 1625. Da Roma, Svampa è arrivato nella Milano spagnola per indagare sulla scomparsa di suor Matilda, figlia del suo “bravo” Cagnolo. Ma nella Casa delle convertite – un convento di clausura dove si redimono meretrici e governato da una superiora psicopatica – il frate non s’imbatte solo in suor Virginia, ma anche nel cadavere di pietra di un’altra consorella, come mummificata. Suor Prospera era la compagna di cella di suor Matilda. Con l’aiuto della spregiudicata Margherita Basile, fra’ Girolamo dovrà separare “il certo dall’incerto” per scoprire gli aspetti reali del Male.

 

Shell va in guerra, ma troverà la sua “Regina”

La vita è una matita. La grafite, poesia. Priviamo l’una dell’altra e ci ritroveremo in mano un inutile pezzo di legno. Non potremo scrivere, né disegnare e del nostro tempo non resterà che una pagina bianca. Jean-Baptiste Andrea lo sa. Per questo ha deciso di mandare Shell a ricordarcelo. Chi è Shell? Un bambino. Ha solo dodici anni ma ha già smesso di andare a scuola. Lavora alla stazione di servizio dei suoi: “Due pompe sotto una vecchia pensilina”. Il lavoro gli piace: “Nessuno fa benzina come me”. Ma non sa scrivere (le lettere gli “si aggrovigliano in testa” e dalla penna esce solo “un nido di spaghetti”), fatica a ricordarsi le cose che contano e non sa fare previsioni.

Lo chiamano Shell per la scritta sul giubbotto dal quale non si separa mai. A lui non sembra di essere strano. Agli altri sì. Per tutti è “l’idiota del ponte delle Tuves”. Suo padre gli ha spiegato che è “un po’ come una Giulietta con il motore di una 2Cv”. Il dottore ha detto che la sua testa ha smesso di crescere. Ma lui non è d’accordo. Ed è stufo di essere considerato solo un bambino. La storia si svolge nell’estate 1965 in un anonimo angolo di Provenza e si apre con Shell che precipita in caduta libera. È successo l’inevitabile. A forza di sentirsi dire che è un bambino, ha voluto provare a tutti di essere un uomo. E gli uomini, si sa, vanno in guerra. Si sarebbe fatto valere, gli avrebbero dato delle medaglie, sarebbe tornato a casa e tutti sarebbero stati costretti ad ammettere che era un adulto. Finalmente. Shell riempie lo zaino di vestiti, imbraccia il calibro 22 con cui il padre spara ai conigli e si arrampica sulla montagna. In guerra non arriverà mai. Si fermerà su un altopiano grande come il mare. Un posto che dà le vertigini. Tornare indietro non vuole; andare avanti non lo interessa più. Il suo orizzonte, adesso, si chiama Vivianne. Tredici anni, “così esile da dare la sensazione di poter sgusciare tra due folate di vento senza che nessuno se ne accorgesse” e così bella che fa venire voglia di mettersi nei suoi panni per vedere come ci si sente a essere lei.

La passione che li travolgerà comincia con un dialogo mozzafiato. “Che ci fai qui? Vado in guerra. Quale guerra? Quella in tivù. Perché? Perché gli uomini fanno la guerra. Perché vuoi essere un uomo?”. Shell non sa cosa rispondere. “Ti odio. Io di più”.

L’eternità è una parola: le basta una parola per annunciarsi. Vivianne inventa storie così vere che non puoi non crederci; basta che spieghi e, all’improvviso, sembra tutto facile. Dove c’è lei “non può esserci il buio” e Shell può obbedirle senza paura di sentirsi un bambino. E, così, quando lei dice “sono la regina dell’altopiano e delle montagne. Vuoi servirmi?”.

Lui accetta senza esitare. Il resto è da non perdere. Poesia, incanto, stupore, meraviglia. Una magia raccontata con la leggerezza della profondità, parole così concrete da sembrare immateriali e il battere e levare del respiro dell’infinito. Protagonisti: un bambino, la sua regina, un pastore che tutti credono muto ma che ho solo smesso di parlare e una natura sconfinata, immersa in se stessa e protetta dalla voce del silenzio. L’unica che possa testimoniare che l’infinito esiste davvero.

 

Con “Alice” nella tana del Bianconiglio: Pendleton e i Momix ripartono da Roma

Moses Pendleton, fondatore e direttore artistico dei Momix, con il nuovo spettacolo Alice si è voluto spingere oltre: ha mandato il suo corpo di ballo giù per la tana del Bianconiglio per raccontare la storia fuori dall’ordinario della protagonista dei racconti di Lewis Carroll Alice nel Paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio. Il coreografo statunitense non ha semplicemente portato sulla scena la trama della fiaba, ma l’ha presa come “un invito a inventare, a fantasticare, a sovvertire la nostra percezione del mondo, ad aprirsi all’impossibile. Il palcoscenico è il mio narghilè, il mio fungo, la mia tana del coniglio”.

L’Alice dei Momix, che ha debuttato mercoledì in anteprima mondiale al Teatro Olimpico di Roma (durante il Festival internazionale della danza in collaborazione con l’Accademia filarmonica romana), è un gioco di danze e acrobazie, immagini, musiche e un caleidoscopio di luci: sul palco, le peripezie della bambina in un mondo magico dove la realtà cambia di continuo e sfugge alla logica.

Alice si ritrova nel Paese delle meraviglie dove prima rimpicciolisce, diventando minuscola, poi cresce a dismisura: sul cammino incontra personaggi stravaganti e folli come il Gatto del Chesire dal ghigno enigmatico (meglio noto come Stregatto, dal nome che aveva nel film della Disney), la Lepre marzolina e il Cappellaio matto con i loro discorsi nonsense e gli indovinelli senza soluzione, l’iraconda e capricciosa Regina di cuori che ordina condanne a morte e usa fenicotteri come mazze da croquet, le rose bianche dipinte per apparire rosse.

Oltre allo spettacolo, il foyer ospita la mostra Gesti senza fine, dedicata a un altro grande protagonista del teatro-danza, l’artista britannico Lindsay Kemp scomparso a fine agosto 2018: anch’egli, infatti, aveva firmato un’Alice nel Paese delle meraviglie proprio all’Olimpico.

 

 

Che bel pazzo fatto a pezzi

Questa sera “si recita con Pirandello e anche contro Pirandello”. Soprattutto contro Pirandello, e per fortuna: ci voleva Carlo Cecchi per scrostare l’Enrico IV dal melodramma, dalla psicoanalisi e da altri perniciosi vezzi otto-novecenteschi.

Prodotto dalle Marche e in chiusura di tour in questi mesi, l’Enrico IV adattato, diretto e interpretato da Cecchi trasforma la tragedia in farsa, rispettandone la natura di “fiction”, pur senza farne una “gratuita e arbitraria attualizzazione”: protagonista non è tanto il nobile impazzito che si crede imperatore quanto il teatro, la recita, l’arte per brevità chiamata drammatica.

Nelle mani astute del regista/dramaturg il cortocircuito tra sanità e follia, verità e menzogna non si traduce (solo) in facile gioco metateatrale, in ennesima riflessione sulla rappresentazione, in frusto svelamento della maschera dietro la maschera o nell’irrilevante dilemma: “Sarà realtà? Sarà finzione? E altre stupidaggini drammaturgiche”. Qui si vuole “andare oltre l’asfittico dibattito ‘vita/forma’, verso un gioco di specchi in alcuni casi vertiginoso”, e in molti casi riuscito.

Epurati lo psicologismo, la patologia psichiatrica e la “commozione cerebrale”, al protagonista non resta che la recita, cui aderisce volutamente, ostinatamente, preferendola alla realtà: corrotta, manipolata, contraffatta più di qualsivoglia spettacolino. Enrico, insomma, sceglie di vivere nel teatro piuttosto che in prigione (metaforica e non); sceglie di circondarsi di comparse piuttosto che di amici truffaldini e rapaci; sceglie di essere pazzo piuttosto che essere fatto a pezzi.

Comunque, bando agli intellettualismi: lo spettacolo funziona proprio perché Pirandello, trattato come un giocattolone, viene smontato e rimontato con gusto e divertimento dagli interpreti. Angelica Ippolito, Gigio Morra, Roberto Trifirò, Chiara Mancuso, Remo Stella, Vincenzo Ferrera, Dario Caccuri, Edoardo Coen, Davide Giordano: ottimo è l’ensemble – anche nei siparietti improvvisati – concertato da Cecchi, un maestro dispotico quanto autoironico (“Enrico IV sono io, lo sono stato per tante repliche”), che ricorda il suo memorabile Hamm beckettiano, soprattutto quando si rivolge alla platea con invidiabile crudeltà e sprezzo.

Dopo L’Uomo, la bestia e la virtù (1976) e Sei personaggi in cerca d’autore (2001) questo è il terzo canovaccio pirandelliano per il regista, che non lesina neanche qui la sua intelligentissima cattiveria: “Il doppio gioco prende Pirandello molto sul serio, e lo affronta criticamente… Il tema è il teatro, quello di oggi: specchio frantumato che riflette la vita della nostra epoca che è (citando Baudelaire) ‘un deserto di noia’ con ‘oasi d’orrore’”. Niente paura: il finale è allegro, o meglio, felicissimo.

 

 

È arrivato Jack dello squartatore Von Trier

Ci sono alcuni film da vedere, sparuti da vivere, pochissimi da cui farsi vivere: La casa di Jack è uno di questi ultimi. Non è solo un’esperienza cinematografica, ma un’esperienza tout court: ti prende, sbatte, squassa, sì, ti cambia. Lo fa provando ad annichilirti, ma riservandosi uguale destino: il regista Lars von Trier cerca di distruggere se stesso, ovvero dannare il protagonista, il serial killer Jack incarnato da Matt Dillon.

Mania di controllo, compulsione e ossessività, Lars von Trier è, ipse dixit, un ingegnere che si pretende architetto, The House that Jack Built un film aspirazionale che però finisce agli inferi, tra Computer-generated imagery da b-movie e retaggi danteschi. In mezzo, il pluriomicida Jack e le sue vittime, il criminale che continua a colpire, il misantropo che vuole farsi beccare.

La disperazione si taglia col coltello, è il caso di dirlo: sadico, macabro, misogino, perfino immorale, ma con sentimento, convinzione e necessità. La casa di Jack è insieme il film di uno a cui non frega un cazzo di niente, l’opera di un artista totale, la confessione di un uomo, ehm, problematico e, ovvio, la coazione a ripetere di un provocatore nato. Tra un’esecuzione e una tortura – a farne le spese sono Uma Thurman, Siobhan Fallon Hogan, Sofie Gråbøl, Riley Keough – le citazioni, le eccitazioni e le divagazioni si sprecano: la quercia di Goethe attorno alla quale venne costruito il campo di sterminio di Buchenwald, la tiger tiger burning bright di Blake, il Glenn Gould “raggricciato” – suonava dal basso verso l’alto, e il sommo Thomas Bernhard così icasticamente lo descrisse ne Il soccombente – al piano, di fronte al cui genio von Trier denuncia tutta la propria inadeguatezza.

Lo fa da cineasta qual è, addossando al suo sicario alter-ego teoria e pratica della settima arte: recidere seni, mutilare e riassemblare bambini, seviziare e congelare corpi e immagini, prima del montaggio finale, ineluttabilmente cadaverico.

L’intelligenza traccia il percorso, le buone intenzioni lastricano la direzione infernale, con i guilty pleasure del regista danese a far da tappe: Hitler e il suo architetto Albert Speer, l’uva disidratata, ammuffita e congelata per trarne vino, le cattedrali gotiche, i suoi stessi film che – è notizia degli ultimi giorni – ora Lars sta trasformando in diamanti.

Dichiarato, per uno “scherzo” filonazista non riuscito, persona non grata al festival francese nel 2011, ha ritrovato spazio all’ultima Cannes con questo lucido, lancinante e smodato atto penitenziale: fuori concorso, laddove avrebbe meritato la Palma d’Oro per manifesta superiorità. È possibile trovarci di tutto, da Buster Keaton, cui Dillon rimanda inconfutabilmente, al Grillo Parlante (Verge, ossia Limite, ovvero il compianto Bruno Ganz), fino a David Bowie che canta “Fame, it’s not your brain, it’s just the flame That burns your change to keep you insane”. Film come nessun altro, in sala dal 28 febbraio: imperdibile.

 

Fascistissime TANGENTI. L’“Italietta” littoria tra pizzo, affari e corruzione dei giudici

Fruscianti mazzette per “ungere le ruote”, malaffare eretto a sistema, dossieraggio compulsivo contro gli avversari politici, compravendita di sentenze, cene eleganti, banche decotte, speculazioni edilizie in spregio ai piani regolatori, mancanza di senso dello Stato e anti-meritocrazia dilagante. È l’Italia dei giorni nostri? No, è l’Italia littoria (1922-43).

La leggenda del fascismo quale regime sì dittatoriale, ma dalle “mani pulite”, ha spesso fatto breccia non soltanto fra i nostalgici del duce. Eppure, come osserva Paul Corner in un interessante volume collettaneo che offre un primo bilancio storiografico sul tema, “il fascismo fu caratterizzato da un alto livello di corruzione, da un affarismo sfacciato e da un clientelismo e nepotismo senza precedenti” (Il fascismo dalle mani sporche. Dittatura, corruzione, affarismo, a cura di Paolo Giovannini e Marco Palla, Laterza).

Certo, a parole Mussolini era sceso in campo per correggere i mali dell’“Italietta” liberale e corrotta. In fondo, cosa c’era di più purificante dell’olio di ricino e del manganello, per creare le basi di uno “Stato nuovo” rigenerato e senza più “ministri della malavita”? Ma poi dalla poesia della “rivoluzione” si passò velocemente alla prosa dell’ordinaria amministrazione. E, all’ombra del nuovo regime, antichi e recenti malfattori crearono tanti piccoli e grandi feudi impermeabili alla legge, in simbiosi con una classe dirigente improvvisata e arruffona. Benito era consapevole del marcio che si diffondeva a macchia d’olio, ma guardava sempre dall’altra parte.

Il partito unico fascista – scrive Corner – era “un reticolo di rapporti clientelari in cui ciò che contava non era la correttezza dei comportamenti, ma la fedeltà a un particolare capo”. L’estorsione legalizzata si ammantava del nobile nome di “contributo volontario alla causa del fascismo”. Era il pedaggio che tanti ras locali imponevano a imprenditori e commercianti. Chi si rifiutava di pagare il “pizzo” in salsa littoria rischiava la perdita di un appalto o il ritiro della licenza, se non addirittura una spedizione punitiva.

Molti dirigenti rubavano non solo per il partito, ma anche per se stessi, trattenendo una fetta rilevante dei contributi estorti. Cosicché già alla fine degli anni Venti una nuova “casta” di amministratori di umili origini si trovò a vivere in un lusso difficilmente spiegabile alla luce dei loro stipendi. Per non parlare della “razza padrona” dei grandi gerarchi, sempre al centro della ragnatela di interessi privati fioriti intorno alla gestione pubblica dell’economia.

Un caso esemplare dell’intreccio tra affari e politica negli anni del nascente regime fu la vicenda – qui ricostruita da Matteo Mazzoni – del porticciolo Nazario Sauro di Livorno. L’opera – ultimata nel 1927 e intitolata a Costanzo Ciano, dominus della città – fu realizzata su richiesta della sezione cittadina della Lega Navale, nonostante gli uffici tecnici del ministero dei Lavori Pubblici avessero dichiarato che non fosse di pubblica utilità per Livorno. Al termine dei lavori, le spese raggiunsero una cifra 13 volte superiore rispetto a quella iniziale (in proporzione, ben peggio del Mose di Venezia). Fu grazie a questi maneggi che Ciano – soprannominato “ganascia” anche in virtù della sua bulimia affaristica – diventò un nababbo.

Pure nelle colonie d’oltremare, “la corruzione era un fenomeno assai diffuso, quanto e probabilmente più che nella madrepatria”, osserva Emanuele Ertola nel suo contributo sui “predatori fascisti dell’Impero”. Con buona pace del mito farlocco di un colonialismo italiano “diverso” (non rapace, bensì votato esclusivamente al duro lavoro), la pioggia di denaro pubblico piovuta sull’Etiopia alimentò una colossale “mangiatoia” per funzionari e gerarchi. Tanto che uno dei giochi di parole più diffusi fra i coloni era quello di sciogliere l’acronimo AOI (Africa Orientale Italiana) in Affari Onesti Impossibili.

Scenari che non riguardano soltanto un’epoca lontana, in cui l’assenza di ogni contrappeso democratico accresceva il senso d’impunità dei governanti. Sotto il giogo del fascismo, il malaffare prosperò anche grazie a due condizioni che ancor oggi incombono persino sull’Europa democratica. Innanzitutto, non v’erano giudici indipendenti in cui potessero confidare i cittadini onesti. Come scriverà il grande giurista Arturo Carlo Jemolo, la magistratura si sforzò di “interpretare sempre meglio non la legge, ma l’indirizzo desiderato dal governo”. Cosicché un gerarca “forchettone” poteva cadere in disgrazia perché silurato dai suoi invidiosi colleghi, non certo in seguito alle indagini autonome di qualche toga. In secondo luogo, non esisteva notoriamente una libera informazione. Come dichiarò nel ’28 l’ex giornalista Mussolini, “la stampa più libera del mondo intero è la stampa italiana. Il giornalismo italiano è libero perché serve soltanto una causa e un regime”. Una definizione che molti odierni politici sottoscriverebbero a occhi chiusi.

Governo replica alle accuse del Senato: “Gioco politico”

Ci sono “motivazioni politiche” alla base del rapporto al vetriolo della commissione d’inchiesta senatoriale sul Benallagate, ha detto ieri il premier Edouard Philippe. Il braccio di ferro tra Governo e Senato è iniziato. Dopo sei mesi di indagine sullo scandalo che imbarazza Emmanuel Macron dall’estate scorsa, i senatori hanno stilato una lista di accuse contro i vertici dello Stato e chiesto procedimenti per “falsa testimonianza” contro l’ex responsabile della sicurezza di Macron, Alexandre Benalla (nella foto), e tre collaboratori vicini al presidente. Un testo di 160 pagine, che non risparmia nulla all’Eliseo, denunciando “malfunzionamenti interni” e una “ingiustificata indulgenza” nei confronti di Benalla, allontanato solo dopo che le violenze del primo maggio erano state rivelate dalla stampa. Philippe trova “incomprensibili e ingiuste” le raccomandazioni dei senatori: “Tradizionalmente – ha scritto il premier in un tweet – il Parlamento non si immischia nell’organizzazione interna della presidenza della Repubblica”. Come la ministra della Giustizia, Nicole Belloubet, il premier ha fatto appello “al principio di separazione dei poteri”.

Diversi esponenti del partito di Macron, la République en Marche, hanno accusato la commissione, composta soprattutto da figure del partito di destra Les Républicains, di aver “orientato politicamente” i risultati dell’inchiesta. Per Marc Fesneau, ministro delle Relazioni col Parlamento, i senatori “hanno fatto ipotesi senza apportare prove. Stabilire i fatti – ha detto – è compito della giustizia”. Il portavoce del governo, Benjamin Griveaux, ha promesso “risposte fattuali”. Ma i senatori si difendono: “Abbiamo solo esercitato la nostra missione di controllo dell’esecutivo”, ha detto François Grosdidier, membro della commissione.

Lupi Neri, Combat 18: com’è triste la Francia antisemita

Chi ha profanato le tombe del cimitero ebraico di Quatzenheim, in Alsazia, ricoprendole di svastiche, ha lasciato su una tomba una scritta blu in alsaziano: “Elsassisches Schwarzen Wolfe”, i Lupi neri alsaziani. È il nome di un gruppo autonomista radicale che fu molto attivo nella regione tra il 1976 e il 1981. La maggior parte dei suoi membri sono stati condannati o sono morti. Una delle loro azioni risale al maggio 1976, quando i “Lupi” saccheggiarono il museo del campo di concentramento di Struthof, il solo campo nazista in Francia, presso Strasburgo. I cimeli dei deportati erano andati distrutti. “Il gruppo non è più davvero attivo da tempo, ma ha lasciato delle tracce nella regione”, ha spiegato a Le Parisien lo storico Yves Camus. Martedì Emmanuel Macron era arrivato a Quatzenheim, indossando la kippa. La sera migliaia di persone hanno manifestato contro l’antisemitismo, che sta crescendo: +74% di atti antisemiti in Francia nel 2018.

Gli episodi si moltiplicano: gli insulti al filosofo Alain Finkielkraut, la svastica sul ritratto di Simone Veil, la scritta “Juden” sulla vetrina di un negozio kosher e “Shoah blabla” su una stele di un cimitero vicino a Lione. E appena ieri, nuove svastiche sui muri del quartiere di Plaisance, a Parigi. Davanti al Crif, il Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia, Macron ha promesso “misure forti” per lottare contro l’odio anti-ebrei che raggiunge un livello “senza precedenti dalla seconda guerra mondiale”. “Ho chiesto al ministro dell’Interno di avviare le procedure necessarie a sciogliere associazioni e gruppi che con il loro comportamento nutrono l’odio, promuovono la discriminazione e appellano all’azione violenta”. Ne ha citati tre: Bastion social, Blood and Honour Hexagone e Combat 18. Blood and Honour Hexagone è l’ala francese, fondata nel 2011, di un gruppo neonazista britannico nato nel 1987. Il nome, “Sangue e onore”, ricorda il motto della gioventù hitleriana. Combat 18 (o C18) si considera il “braccio armato” di Hexagone. I loro militanti ruotano intorno agli ambienti razzisti skinhead e della musica RAC (“Rock against communism”). Ma negli ultimi anni hanno fatto parlare poco di loro. Più attivo e violento è Bastion social, creato a Lione nel 2017 da ex membri dell’organizzazione studentesca Groupe union défense (Gud), sulla base delle teorie negazioniste del teorico del nazionalismo rivoluzionario François Duprat.

Un gruppo “fascista, violento e ostile agli ebrei che accusa di guidare il complotto mondiale immigrazionista”, ha detto lo storico Nicolas Lebourg a France Soir. Nel frattempo la formazione ha aperto sedi a Marsiglia, Aix-en-Provence, Angers e si è radicato a Strasburgo. Ma il quartier generale resta nel centro di Lione, sulle sponde del fiume Saona. Lo scorso maggio i suoi militanti hanno occupato un edificio comunale vuoto per darlo “agli indigenti di razza bianca” contro i “clandestini extraeuropei”. Ad agosto, l’ex leader, Steven Bissuel, è stato condannato per l’ennesima “provocazione all’odio razziale”. Nel giorno del 70° anniversario della liberazione del campo di Auschwitz aveva scritto sui social: “Buon compleanno Auschwitz. 70 anni di business”. “Lione è storicamente una città dove l’estrema destra è fortemente radicata”, ha spiegato a Le Point, Joël Gombin, membro dell’Osservatorio delle radicalità. Una presenza che non si traduce nelle urne: il suo sindaco è l’ex socialista e ex ministro di Macron, Gérard Collomb. Ma è all’università di Lione che negli anni ‘90 si era costituito un gruppetto di storici che fomentava le tesi negazioniste. Ed è sempre a Lione che Marion Maréchal, nipote di Jean-Marie Le Pen, il fondatore del Front National (oggi Rassemblement National), ha aperto il suo Istituto di scienze sociali, economiche e politiche. I membri di Bastion social starebbero infiltrando da mesi il movimento dei Gilet gialli. Due di loro sono stati condannati per violenze a margine delle manifestazioni parigine e per il saccheggio dell’arco di Trionfo. Per Mediapart, al ministero dell’Interno già dal dicembre scorso stanno pensando a scioglierlo perché “inciterebbe alla costituzione di un gruppo armato”.