Nemo ora si chiama Popolo sovrano, ma continua a traballare senza troppa personalità tra inchiesta e chiacchiere. Il titolo non fa il talk-show, casomai svela una crisi d’identità che sta nello spirito del tempo: né rosso né nero, 50 sfumature di gialloverde. Inoltre, riproporre un programma con Enrico Lucci senza Enrico Lucci è come mettere in tavola una amatriciana senza guanciale. Tutto vero. Ma forse la spiegazione più profonda di un flop annunciato sta nella maledizione del giovedì sera di Rai2, il Ground Zero dell’etere. A fondarlo fu Mike Bongiorno (what else?) portandovi Il Rischiatutto; poi vi debutterà Michele Santoro con Samarcanda. Dall’ultimo quiz alla prima piazza: le Torri Gemelle del popolo televisivo. Ma quando Santoro se ne va lascia un vuoto più grande dello spazio che aveva occupato, infatti nemmeno lui riuscirà più a riempirlo. In tanti ci hanno provato, e hanno fatto naufragio. Da ultimi Nicola Porro, l’Uomo Vogue della Rai berlusconiana, cui in era renzista è subentrato l’esperimento di Nemo. Adesso è arrivato Carlo Freccero in piena sindrome Mourinho; formazione rivoluzionata, fuori la coppia Lucci-Petrini, dentro Alessandro Sortino, Eva Giovannini, Daniele Piervincenzi; ma il gioco stagna a centrocampo, e Piervincenzi continua a prendere botte. Per battere la maledizione del giovedì sera non basta indossare il gilet sovranista; a questo punto l’unico che potrebbe rompere l’incantesimo è Roberto Giacobbo, con una nuova edizione di Kazzenger.
Redditi dirigenti: la privacy vince sulla trasparenza
Tra le tante truffe organizzate ai danni dei cittadini nel corso degli ultimi decenni ce n’è una più fastidiosa delle altre: la legge sulla Privacy. La normativa, nata negli anni Novanta in nome di principi di civiltà assolutamente condivisibili, si è quasi subito trasformata in un potente strumento utilizzato da mascalzoni di ogni genere per concludere affari, spesso maleodoranti, senza che nessuno potesse metterci occhio e becco. Gli esempi si sprecano e quasi sempre riguardano chi, per professione o per elezione, è in grado di decidere come spendere i soldi dei contribuenti o chi si rapporta col pubblico per ottenere appalti e forniture.
Infatti, se è perfettamente logico e giusto che vengano coperte dalla privacy le informazioni personali dei cittadini riguardanti stato di salute, abitudini sessuali o problemi di altro tipo, come dipendenze da farmaci o alcol, non lo stesso si può dire quando il discorso cade sulle dichiarazioni dei redditi; tesi di laurea non consultabili senza il consenso dell’autore; finanziamenti a partiti o a fondazioni che fanno capo a movimenti politici; giustificativi alle note spese rimborsate con denaro dello Stato.
Va detto che negli ultimi tempi un miglioramento (leggero) è avvenuto: da qualche settimana nuove norme permettono una maggiore (ma non assoluta) trasparenza in fatto di soldi donati alla politica, mentre dalla legislatura passata il Freedom of information act (Foia) all’italiana (ovvero la legge Madia) fornisce più strumenti a chi vuole scavare tra gli atti della Pubblica amministrazione.
La situazione però, se si guarda a cosa accade nella burocrazia italiana, resta nel suo complesso scandalosa. L’ultima conferma è arrivata ieri con la sentenza numero 20 della Corte costituzionale che ha cancellato, in nome del diritto alla riservatezza, l’obbligo di pubblicare online i dati sul reddito e il patrimonio di tutti i 140 mila dirigenti pubblici italiani. Per la Consulta questo dovere, previsto dalla riforma approvata dal vecchio governo di centrosinistra, deve valere solo per i manager “apicali”, non per gli altri. Noi qui non ci permettiamo di discutere le buone ragioni giuridiche dei guardiani della Costituzione che, evidentemente, codici e Carta alla mano, non hanno ritenuto di avere altre soluzioni. Ci limitiamo solo a constatare che in un Paese corrotto come il nostro, la soluzione adottata suona come una vittoria per i tanti ladri che si nascondono tra decine di migliaia di manager pubblici onesti.
Negli Stati Uniti e in molte altre nazioni europee, la trasparenza dei patrimoni di tutti i dirigenti pagati col denaro delle tasse è la regola. E serve come deterrente per chi intasca tangenti: occultare quello che si riceve è difficile e l’esperienza insegna che spesso, quando viene arrestato un corrotto, subito dopo si scopre che lui e la sua famiglia avevano un altissimo tenore di vita, incompatibile con il reddito dichiarato. Per questo, in attesa di analizzare la sentenza e dopo una prima sommaria lettura del comunicato della Corte, continuiamo a non capire perché un’anagrafe patrimoniale online da cui, come era previsto dalla legge, sarebbero stati espunti gli indirizzi degli immobili posseduti, ma non il valore e la natura, potesse costituire un danno per qualcuno o una violazione del principio di proporzionalità tra i diritto alla privacy e quello dei cittadini di sapere. Ma, probabilmente, lo ammettiamo, è un nostro limite. E non quello di uno Stato come il nostro che, notoriamente, è patria del diritto. E, in fatto di mazzette, pure del rovescio.
Arrendetevi: il calcio è pure da donne
Povera Eva. Cacciata dal Paradiso Terrestre non per aver rubato una mela, ma un pallone. E aver provato a giocarci, a parlarne. È quel che succede oggi nel Sacro Tempio di Eupalla (cit. Gianni Brera) di un paese chiamato Italia. Dove le donne sono ammesse a corte a patto di portare bellezza, sempre gradita all’utilizzatore finale, ma cacciate se la pretesa diventa altro: portare competenza, ad esempio. Nei giornali e in tv, ho lavorato nel mondo del calcio e dell’informazione calcistica per più di 40 anni. A Mediaset, negli anni di Controcampo condotto da Sandro Piccinini, scoprimmo un giorno la grande passione per il calcio di Natalia Estrada, l’ex moglie di Giorgio Mastrota, donna di spettacolo, spagnola. Era tifosa del Milan ma di calcio sapeva tutto; più di Vittorio Feltri e di Giampiero Mughini e non meno di Enrico Vanzina, i tre opinionisti della nostra prima stagione. Negli anni precedenti, quand’ero al Giorno ed ero sempre negli stadi, conobbi Licia Granello, giornalista di Repubblica, che sapeva di calcio (e non solo) più di molti inviati maschi che troneggiavano nelle tribune stampa. Scriveva benissimo, ma era una donna: un errore, per tutti.
A Italia 1, per molti anni, a condurre gli studi post partita, con un piglio e una competenza che molti maschi si sognano, è stata Mikaela Calcagno: che se si fosse limitata a mostrarsi bella com’è, e a fare le boccucce alla Diletta Leotta, sarebbe ancora al suo posto. Invece Mikaela ha sempre voluto fare la giornalista. Una volta chiese a Mihajlovic perché aveva sostituito Bacca e non Honda (il Milan stava perdendo) e si sentì irridere: “Perché io sono allenatore e lei presentatrice”; una volta chiese ad Allegri che cosa non andasse nella Juve (che era 14ª) e si sentì dileggiare: “Secondo lei cosa manca? Basta vedere la classifica, mancano i punti”, che è esattamente il motivo che rendeva pertinente la domanda. Poi arrivò Mancini. E poi Mikaela Calcagno praticamente sparì. “Cazzo guardi! Vai a cucinare!”, si sentì dire in diretta da Ibrahimovic Vera Spadini, l’inviata di Sky che gli aveva chiesto di un suo presunto scontro con Allegri dopo il ko del Milan contro l’Arsenal. Oggi Vera Spadini lavora nel MotoGP. Titti Improta, giornalista della tv Canale 21 e figlia di Gianni Improta, mezzala del Napoli anni 70, un anno fa chiese a Maurizio Sarri: “Sono troppo dura se dico che questa sera lo scudetto è compromesso?”. “Sei una donna, sei carina – le rispose Sarri – e non ti mando a fare in culo proprio per questi motivi”. Il tutto in un boato di risate da caserma degno di un film di Pierino. “Quando sento una donna parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco” (Fulvio Collovati, Rai). “Se mia moglie avesse detto le cose che ha detto Wanda Nara, l’avrei cacciata di casa” (Billy Costacurta, Sky). Per la cronaca, Costacurta è l’ex sub-commissario Figc che tentò di far eleggere presidente del calcio femminile la moglie Martina Colombari, che conosce il calcio come Costacurta la letteratura medievale; Collovati è sposato con Caterina Cimmino che da 30 anni bazzica in una miriade di talk calcistici: chissà quanto Maalox, povero Fulvio.
Le donne non sanno di calcio, dice. Di certo Carolina Morace, ex calciatrice, non ha mai detto in tv, come l’ex calciatore Massimo Mauro, che Lemina è meglio di Modric e che guardare una partita dell’Inter è peggio della dialisi; Emanuela Audisio, prima firma di Repubblica, non ha mai scritto, come ha fatto Mario Sconcerti sul Corriere della Sera, che “CR7 nella Juve farebbe il tornante o la riserva” e che “Sturaro da terzino vale i grandi d’Europa”. E Federica Lodi, che su Sky conduce Premier Show, non ha mai raccontato di un abbraccio fra Rashford e George Best, a differenza di Sandro Sabatini (Mediaset) che due anni fa, dopo Real-Bayern 4-2, descrisse un abbraccio tra CR7 e Alfredo Di Stefano, che era morto da tre anni. Ma così è, anche se non vi pare. Amen.
Provate a spiegarle cos’è il fuorigioco…
AQuelli che il calcio, condotto da due comici, Paolo e Luca, Fulvio Collovati, ex stopper dell’Inter e della Nazionale, ha affermato: “Quando sento una donna, anche la moglie di un calciatore, ma questa è una mia opinione, parlare di tattica… mancano gli ‘esterni’… mi si rivolta lo stomaco”. Per questa affermazione l’ad Rai Fabrizio Salini ha sospeso per due settimane l’ex calciatore non solo da Quelli che il calcio di cui era un ospite fisso, ma da qualsiasi programma della tv pubblica.
Sono assolutamente d’accordo con Collovati. Provate a spiegare a una donna il fuorigioco e poi mi direte. Il calcio, anche se ormai sconciato dall’irrompere sul campo della tecnologia, la televisione e il Var su tutto (si veda il grottesco episodio di Spal-Fiorentina di domenica scorsa dove dopo un fallo in area della Spal, non rilevato dall’arbitro, gli spallini in contropiede vanno in rete, esultanza, stop, fermi tutti, interviene il Var, il gol della Spal viene annullato e accordato il rigore alla Fiorentina, quattro, cinque minuti di sospensione con tanti saluti alla magia del gioco) è rimasto l’ultimo luogo del sacro in un Occidente totalmente materialista. Come ogni rito vuole una concentrazione assoluta. Non sono mai andato allo stadio con una donna. Perché non si può guardare una partita e nello stesso tempo sbaciucchiarsi. O l’uno o l’altra. Inoltre il calcio è un rito omosessuale, maschile, nel senso che permette di esprimere, sublimandola, l’omosessualità che è in ciascuno di noi senza incorrere nel rimbrotto sociale.
Questa naturalmente è una mia personalissima opinione come lo era, e molto più autorevole in questo settore, quella di Collovati. Ma la questione è molto più ampia e trascende il mondo del calcio anche se nel calcio spesso ritorna perché il mondo del pallone è uno specchio della società. Rimanendo per il momento in questo settore si è fatta una gran polemica perché mercoledì in Atletico Madrid-Juventus, al secondo gol dell’Atletico il suo allenatore, Simeone, ha fatto un gesto che alludeva a quelli che ipocritamente si chiamano “attributi”, cioè le palle, volendo significare che i suoi ce le avevano. Nel dopopartita si è parlato molto di più di questo gesto che del fatto sostanziale, cioè che la Juventus aveva fornito una prova incolore, mentre Godìn, Koke, Giménez e gli altri ci avevano messo tutto il loro ardore agonistico.
Riprendendo gli episodi che riguardano Collovati e Simeone vorrei sottolineare come ormai in questa società molto democratica sia di fatto proibito esprimere, con parole o gesti, le proprie opinioni o le proprie emozioni senza incorrere non solo nella sanzione sociale ma anche, come nel caso di Collovati, in quella professionale. Collovati ha detto una sciocchezza? Può darsi. Ma ha il pieno diritto di dirla se vale ancora nel nostro Paese il principio della libertà di espressione garantito dall’art. 21 della Costituzione. Invece tutto ciò che esce dal luogo comune è proibito. Forse anche questo articolo. Particolarmente feroce è la repressione democratica nei confronti dei nostalgici del fascismo. Non si può fare il ‘saluto romano’ senza rischio di galera, non si può avere fra i propri simboli il fascio littorio e così via. Ancora peggio va per chi voglia fare ricerca sull’Olocausto. Mi sono sempre domandato: ma è giusto incarcerare per tre anni uno storico come l’inglese David Irving arrestato in Austria per aver scritto un poderoso tomo in cui ridimensionava le cifre dell’Olocausto? È sufficiente sostenere una tesi aberrante senza torcere un capello a nessuno per finire in gattabuia? Le tesi assurde di alcuni storici andrebbero contrastate con più cultura e più controinformazione, non con le manette. Eppure, se ricordiamo Galileo e la giusta difesa che ne facciamo da secoli, il diritto alla ricerca è uno dei cardini di una società democratica. Il ‘revisionismo storico’ è proibito. Eppure è stato il liberale Benedetto Croce, che non può essere certamente sospettato di simpatie per il fascismo, ad affermare che “la Storia è il passato visto con gli occhi del presente”. E quindi non è affatto obbligatorio che il presente veda le cose con gli stessi occhi del passato. Anche perché la Storia del passato, nell’immediatezza dei fatti, è sempre la Storia vista dai vincitori. Poi c’è la ‘legge Mancino’ che con l’ipocrita dicitura “istigazione al” vieta l’odio razziale e, più genericamente, ogni tipo di odio. Come ho già scritto è la prima volta che si certa di mettere le manette ai sentimenti. Anche i peggiori regimi totalitari, se hanno vietato azioni, idee, ideologie, non hanno vietato l’odio. Perché l’odio è un sentimento, come lo è la gelosia o l’ira, e come tale non è né contenibile né punibile in quanto tale. Va da sé che se tocco anche solo un capello a una persona che odio devo finire in gattabuia. Questa dovrebbe essere la sola regola valida in un regime che si definisce democratico. Invece non possiamo più dire né fare nulla. Nemmeno toccarci i coglioni.
Mail box
L’educazione civica a scuola e il pessimo esempio televisivo
Si vuole introdurre “di nuovo” l’educazione civica nelle scuole e nel contempo si fanno tenere lectio magistralis sulla legalità a personaggi inquisiti e condannati in primo grado per il loro ruolo svolto nella trattativa Stato-mafia. Si permette a un giornalista di promuovere l’ennesimo libro in compagnia di quel nefasto figuro, che ha ridotto l’Italia a suo terreno di caccia. Che ha amici attualmente in carcere per mafia. Che per oltre un ventennio ha corrotto e “comprato” quei ronzini politici senza vincolo di mandato, si, ma soprattutto senza dignità che si fregiano del titolo di “onorevole” e invece disonorano le istituzioni alle quali hanno giurato fedeltà e tradendo quei cittadini che un giorno li avevano votati.
La corruzione dilagante nel nostro Paese, che la nuova legge appena nata si propone di sconfiggere, è stata contestata dalla parte politica che ha paura della legalità, compreso i supersiti del Pd che oramai sparano ad alzo zero su tutto quello che fa il governo tout court. L’educazione civica e alla legalità a scuola a nulla sortisce se poi, appena fuori dal cancello, le nuove leve hanno questi (e molti altri) degradanti esempi quotidiani.
Enrico Mantovani. Insegnante.
Il vittimismo in politica paga e Renzi lo sa bene
Ma visto che il vittimismo giudiziario paga (vedi Salvini), l’ex premier sta facendo di tutto per mettersi in mezzo alla questione, come il disturbatore televisivo Paolini, che entrava a forza nelle inquadrature dei giornalisti. Nessuno gli ha rimproverato niente, ma Renzi insiste ad affacciarsi sul caso dichiarando che “colpiscono loro per colpire me”. Guai a scansarlo dicendogli che la misura cautelare è normale se c’è rischio di reiterazione del reato, come per i suoi genitori. Ma lui impalla la vicenda e “non si sposta di un millimetro”.
Così dopo il tramonto politico e il flop come documentarista, Renzi ha trovato finalmente la sua vocazione: l’imbucato mediatico, unendosi alla schiera che lo vede insieme a Paolini, il ragazzo con i capelli rossi e il tizio che si morde la penna. Costringendo così la scienza a decretare che il presenzialismo è un’ossessione incurabile.
Massimo Marnetto
DIRITTO DI REPLICA
In merito all’articolo “Trasporti, il caso di un’autonomia che è già fallita” pubblicato sul Fatto del 17 febbraio, mi preme precisare quanto segue. La società CAV-Concessioni Autostradali Venete S.p.A., che rappresento, diversamente da altre citate nell’articolo, è una mera concessionaria di gestione e si occupa esclusivamente dei tratti autostradali A4 Venezia-Padova, Passante di Mestre e A57-Tangenziale di Mestre, non intrattenendo alcun rapporto, tantomeno in qualità di concedente, con la Superstrada Pedemontana Veneta. Tolto dunque l’inesatto riferimento alle tratte gestite, risulta del tutto ingiustificato indicare CAV quale personificazione di quel “mostro burocratico e poco trasparente” citato nell’articolo.
CAV, tra l’altro, è una concessionaria interamente pubblica, poiché partecipata pariteticamente da ANAS e dalla Regione Veneto e prevede, per Statuto, l’integrale reinvestimento degli utili in opere infrastrutturali sul territorio regionale, su decisione della Regione e d’intesa con il Mit. Il tutto senza alcuna distribuzione di dividendi tra i soci e risultando, in tal senso, un fulgido esempio di federalismo applicato e non certo di “autonomia fallita”.
La società potrebbe costituire un laboratorio per quegli “innovativi e responsabili contratti di servizio tra Regioni e Ministero” auspicati dall’articolista e già operativi proprio in Veneto, terra che da tempo reclama, con ragionevolezza, almeno quella parte di autonomia che si è già guadagnata sul campo.
Luisa Serato, Presidente CAV-Concessioni Autostradali Venete S.p.A
“Lo spezzatino di reti autostradali e la creazione di organismi con poteri concedenti rischia di avere lo stesso risultato che si è già visto in Lombardia e Veneto”, In realtà il riferimento al CAV (Concessioni Autostradali Venete) era solo allo spezzatino autostradale tanto da rendere ridondante, per lo scrivente, la creazione di una nuova concessionaria pubblica partecipata dall’ex concedente ANAS e dalla Regione Veneto per gestire solo 58 km di rete in nome del federalismo. Con il risultato di avere ben 24 concessionari autostradali in Italia per gestire 5.700 km di autostrade. Quindi nel mostro burocratico e poco trasparente si voleva indicare solo il CAL Lombardo. Resta il fatto che 24 consigli di amministrazione, 24 collegi dei sindaci e altrettante strutture operative rendono diseconomiche le gestioni anche se sostenute da statuti che reinvestono gli utili in opere sul territorio veneto. Per il resto l’autonomia differenziata rischia di essere intesa solo come proliferazione di enti gestionali.
Dario Balotta
In riferimento al titolo di prima pagina di ieri “Morra e gli altri ‘talebani’: ‘Non siamo più dei signorsì’” si precisa che il virgolettato attribuito al senatore Nicola Morra, presidente della commissione Antimafia, è falso e destituito di ogni fondamento.
Sorprende come il virgolettato, ripetiamo completamente falso, appaia in prima pagina, per darne il più ampio risalto, ma non compaia assolutamente nell’articolo a firma della giornalista Zanca. Sconcerta questa invenzione giornalistica, data con ampio risalto.
Comunicazione M5S Senato
Alitalia. “Criticate chi l’ha gestita male, ma dovete rispettare noi lavoratori”
Egregio dott. Feltri, sono un pilota e lavoro per Alitalia. Ci lavoro da 20 anni. Ho subìto, fortunatamente quasi indenne e non per meriti personali, le conseguenze di ogni scempio pseudo-industriale e mediatico perpetrato da oltre un ventennio nei confronti di questa compagnia. È stata una lunghissima sequenza di ricatti, furti, violenze, bugie… da parte dello “Stato” che ha abusato come voleva di cassa e personale per fini prevalentemente politici. Da parte dei privati, finti imprenditori che hanno fallito in ogni loro missione, facendo anche peggio dei manager statali. Lo sport preferito di quasi la totalità dei media, è sempre stato di denigrare, abbattere con poche righe, il lavoro onesto di migliaia di lavoratori e da parte dei manager, di vanificare ogni sforzo o sacrificio richiesto ai dipendenti. Senza parlare del ridicolo e complice contributo del 99% di sindacati e associazioni professionali al risultato dello stato delle cose oggi. Privata o no, non ha funzionato… privata o no, lo Stato ha comunque messo soldi… prestiti ponte, ricapitalizzazioni, cassa integrazione… ma quanti ne ha guadagnati? A quanti Alitalia ha fatto rimpolpare le casse da quando esiste, con i suoi passeggeri migranti, gli industriali, gli operatori turistici? Si può fare un calcolo? No, e neanche mi interessa. Quello che interessa a me, ma credo a tutti i 12.000 diretti dipendenti, quelli che fanno i turni, quelli che in ufficio fanno salti mortali con i limitati mezzi a disposizione, è che non ci si prenda in giro. A me interessa che non si leggano articoli che richiamano la prima pagina di un giornale berlusconiano a caso, che dieci anni fa titolava: “L’Alitalia è morta, seppellitela”. Pubblica o privata, a me interessa che i soldi si usino per investire, non sprecarli per tagliare… E che i giornalisti si ricordino che dietro cinque righe che riassumono come l’Alitalia perda 1,5 milioni al giorno ci sono persone che si svegliano alle 4 del mattino, lavorano per 12 ore, per portare a destinazione in giro per il mondo in sicurezza e puntualmente, aerei che qualcuno non vuole provvedere a riempire. E un piccolo contributo a tutto questo, credo che lo dia anche chi, col potere di una tastiera, non fa che aumentare l’antipatia sociale che subiamo impotenti.
Alessandro B.
Gentile Alessandro, come dice lei la storia di Alitalia è ben nota. Ma si ripete: dopo il fallimento di fatto dell’azienda privatizzata ora sta per tornare in mano pubblica. Quante volte dobbiamo pagare per Alitalia? Ed è davvero ancora strategica per il Paese? I numeri dicono di no. I dipendenti della compagnia meritano lo stesso rispetto che si deve a ogni lavoratore. Niente di meno, ma neanche niente di più.
Stefano Feltri
Lavoro, è record di stabilizzazioni. A dicembre: +68 mila
Nell’ultimo mese del 2018 c’è stato il record annuale di stabilizzazioni di contratti precari. I dati Inps dicono che a dicembre 68 mila rapporti di lavoro a termine sono stati trasformati in permanenti; mai così tanti da inizio anno. Stesso discorso considerando il bimestre tra il primo novembre e il 31 dicembre, nel quale le conversioni sono state 114 mila, cifra mai raggiunta nei cinque bimestri precedenti. La stretta sui contratti precari voluta dal governo con il decreto Dignità – entrato in vigore a pieno regime proprio a novembre – sembra quindi avere ulteriormente accelerato la crescita delle stabilizzazioni che ha caratterizzato tutto il 2018.
Altro effetto del decreto è il netto calo delle nuove assunzioni a tempo determinato e in somministrazione, colpite dalle nuove norme più severe (il tetto massimo di utilizzazione è passato da 36 a 24 mesi).
Il 2018 si è confermato un anno positivo per i rapporti a tempo indeterminato, aumentati di 200 mila rispetto al 2017. La salita di quelli a termine, invece, si è fermata a più 52 mila contratti.
Carige, la battaglia sui crediti malati per fare affari d’oro
Crediti malati valutati il 30% in meno. È scritto in un file interno di Carige di cui il Fatto è entrato in possesso: i periti esterni, una società di recupero sofferenze, assegnarono un valore di recupero più basso di un terzo rispetto a quanto la piattaforma interna della banca fosse già riuscita a realizzare. Sono stati gli stessi analisti della banca a predisporre la memoria che segnala l’anomalia individuando i punti critici: “Molti terreni a garanzia sono stati valutati come agricoli anziché industriali o edificabili”. Ancora: “Manca una ponderazione delle garanzie personali o consortili”. Il documento, relativo alle passate cessioni di sofferenze, è in mano agli inquirenti genovesi che lo stanno valutando. Mentre l’inchiesta su Carige condotta dal pm Francesco Pinto procede. Si ramifica. Cerca di capire se in questi anni qualcuno abbia approfittato della crisi della banca genovese per fare affari d’oro.
Intanto si prepara un’altra cessione di sofferenze. In pole position Sga e Credito Fondiario. Due soggetti che Carige la conoscono bene. Sia la Sga, la società pubblica in mano al Tesoro, che Credito Fondiario erano azionisti della banca. Entrati con il difficile aumento di capitale del 2017. La Sga mise sul piatto 30 milioni di euro per comprarsi il 5,4% del capitale. Stesso copione per il Credito Fondiario. Anche il fondo inglese Chenavari partecipò comprando il 6,7% del capitale. Tutti azionisti stabili? Tutt’altro. Lo scambio secondo qualcuno era: io ti compro le azioni in una fase molto difficile di mercato; e tu banca ti impegni con me in un affare. Un affare come vedremo forse per loro, meno per Carige. Sga con quella puntata voleva accreditarsi come futuro acquirente degli Utp, gli incagli della banca, costretta a dismetterli. Il Credito Fondiario, posseduto al 18% dalla Tages di Panfilo Tarantelli e all’82% dal fondo Elliott, l’affare l’aveva già fatto portando a casa, poche settimane prima della ricapitalizzazione, il contratto d’acquisto di 1,2 miliardi di sofferenze lorde, pagando 265 milioni, il 22,1% del valore nominale. Non solo, Credito Fondiario si è aggiudicata per 31 milioni la piattaforma di gestione interna. E tra le clausole del contratto ecco spuntare altri 3 milioni di commissioni per i “servizi delegati” di migrazione che il Credito Fondiario ha incassato da Carige. E infine Chenavari, un altro compratore di asset di Carige che si era aggiudicato da poco l’esclusiva per l’acquisto di Creditis, la società di credito al consumo della banca capace di fare 16 milioni di utili l’anno e valorizzata a Chenavari per 80 milioni a fronte dell’80% del capitale. L’operazione si portava dietro anche un accordo distributivo e altri definiti “ancillari”. Un’intesa che i neo commissari Innocenzi e Modiano di recente hanno definita “pessima” per la banca. Nessun accordo di lock up (divieto di vendita per un certo lasso di tempo) fu stabilito come prassi e così Chenavari appena poté vendette subito le azioni Carige. Lo stesso fecero sia il Credito Fondiario che la Sga. Di qui il dubbio che l’acquisto di azioni fosse soprattutto una merce di scambio. Fatto l’affare, molti si sono dileguati. La Sga pubblica ha resistito fino a settembre del 2018 quando scese dal 5,4% all’1,8% riuscendo a limitare le perdite, dato che subito dopo il titolo crollò a picco.
Coincidenza fortunata o fortunosa? Sga all’assemblea del 22 dicembre 2018 si ritrova con l’1,26% del capitale. Se non ha venduto nei giorni terribili tra Natale e il commissariamento ha una minusvalenza di almeno 6 milioni, ma molto più contenuta se non avesse passato la mano prima del crollo. Poca roba a fronte dell’affare che la società pubblica, presieduta da Alessandro Rivera direttore generale del Tesoro e guidata da Marina Natale, ex manager di UniCredit come l’ex ad di Carige Fiorentino e l’attuale commissario Pietro Modiano, può realizzare dalla cessione forzosa degli incagli che Carige dovrà effettuare. Già il prezzo sarà fondamentale per capire se l’affare lo farà la Sga (che ha promesso un margine lordo sui ricavi al 35% al 2023) o la banca.
Finora pare che la partita delle sofferenze e degli incagli l’abbiano vinta i compratori. Del resto è dal 2014 che Carige aveva mostrato il fianco della sua debolezza. Dimezzare forzosamente oltre 7 miliardi di crediti malati ha messo il coltello nelle mani dei compratori. Un vulnus per la banca, divenuto vantaggioso per altri. Accadrà di nuovo ora con la nuova cessione da quasi 2 miliardi di incagli?
Reddito: “La norma sugli stranieri è anticostituzionale”
L’emendamento leghista alla legge sul reddito di cittadinanza riporta sul tavolo il problema discriminatorio. Pare, infatti, che con la richiesta agli stranieri di documentazione originale di non possesso di beni si stia riproducendo il caso Lodi. “In realtà – sostiene l’avvocato dell’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) Alberto Guariso che ha patrocinato la causa contro la sindaca leghista Sara Casanova – si chiede una deroga al decreto della Presidenza del consiglio del 2013. In questo modo si dimostra nei fatti che il regolamento di Lodi era fuorilegge. E comunque sia la legge sul reddito vale solo per il reddito non per altro”. Secondo l’Asgi poi “l’emendamento, evidentemente finalizzato a scoraggiare ulteriormente gli stranieri dall’accesso al reddito di cittadinanza, appare in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione perché prevede modalità di accertamento della ricchezza diversi per italiani e stranieri”. L’emendamento è poi di chiara matrice leghista visto che è stato proposto dal senatore del Carroccio Luigi Augussori che è anche consigliere comunale a Lodi.
Inps, Tridico è il nuovo commissario Verbaro il suo vice
Al termine di un duro scontro di potere all’interno della maggioranza, l’Inps trova i suoi vertici con lo stop all’uomo solo al comando: inizia l’era di Pasquale Tridico. Dopo l’addio del bocconiano Tito Boeri, sarà ora compito del 43enne docente di Politica economica all’Università di Roma Tre gestire l’istituto di previdenza, pronto a cambiare pelle in una fase delicata. In attesa della riforma della governance con il ritorno al cda, il ministro del Lavoro Luigi Di Maio ha firmato il decreto ministeriale che nomina Tridico commissario, mentre il subcommissario è Francesco Verbaro. Dopo un periodo tecnico di circa 45 giorni, i due assumeranno poi la carica rispettivamente di presidente e vicepresidente dell’Inps. Tridico è consigliere economico di Di Maio ed era stato designato come ministro del Lavoro in un ipotetico governo M5S: sostenitore della reintroduzione dell’articolo 18, è considerato il papà del reddito di cittadinanza. Verbaro invece è stato segretario generale del ministero del Lavoro e poi consigliere giuridico dell’allora ministro Maurizio Sacconi. Niente Inps quindi per l’ex dg Mauro Nori, su cui aveva puntato la Lega.