Dopo la forzatura normativa della nomina di Mario Nava a presidente della Consob (indicato per un mandato settennale nonostante fosse solo in distacco triennale “nell’interesse” della Commissione Ue) che ne ha causato le dimissioni a settembre, ora il governo gialloverde pare essersi messo sulla stessa pericolosa strada indicando alla presidenza l’82enne Paolo Savona, ministro degli Affari Ue, che ha più di un problema di incompatibilità formale e/o sostanziale con la direzione della Commissione di controllo sulla Borsa.
La procedura di nomina dell’economista – indicato dall’esecutivo il 5 febbraio dopo un tira e molla durato mesi sul candidato ufficiale Marcello Minenna, dirigente della stessa Consob accantonato per motivi mai spiegati – pare però avviata a concludersi senza particolari scossoni, almeno a stare all’audizione di ieri in commissione Finanze del Senato: le perplessità anche di pezzi della maggioranza sono state silenziate.
Anche l’interessato, a ragione, non pare preoccuparsi troppo: “Non entro nel merito delle incompatibilità sollevate dai senatori di opposizione, perché ritengo che il governo che mi ha proposto e il Parlamento che mi sta ascoltando abbiano entrambi legali capaci di dare una risposta. Se mai la nomina non fosse legittima, come invece mi è stato assicurato, non brigherò per mantenere l’incarico”.
Difficile, pure fosse illegittima, che lo dirà qualcuno: non il governo, che lo ha proposto, e nemmeno il Parlamento. L’iter di nomina prevede, infatti, che le commissioni competenti votino la proposta del governo, seppure quel voto non sia vincolante: quasi impossibile, però, ci siano sorprese visto che la maggioranza è stata completamente militarizzata. Se n’è avuta una plastica dimostrazione ieri in Senato tra dichiarazioni esplicite e altrettanto eloquenti silenzi.
Anche dalla Camera c’è poco da sperare: è tanto vero che pure il presidente Roberto Fico (per ora) s’è inchinato alla ragion di governo vietando alla commissione Finanze – che pure gliele aveva chieste – le audizioni dell’Autorità Anticorruzione, della Corte dei Conti e di alcuni giuristi, oltre a quella dell’interessato.
Il motivo formale del niet, messo nero su bianco, è che le audizioni sono previste sugli atti normativi e non sulle proposte di nomina governativa: bizzarro che nella lettera di diniego si citi un parere della Giunta per il Regolamento della Camera che, nel giugno 2013, stabilì che i pareri parlamentari sulle nomine devono riguardare, in sostanza, la verifica dei requisiti soggettivi del nominato e, quindi, possono prevedere la sua audizione. Per gli stessi motivi, si può ben dire, dovrebbero prevedere il contributo di esperti. La scelta di Fico, insomma, serve a blindare il processo di nomina e finisce per silenziare i problemi e le forzature innescate dall’esecutivo con l’indicazione di Savona che quelle audizioni avrebbero sottolineato e che in futuro – troppo facile previsione – innescheranno l’ennesimo ciclo di pericolosi ricorsi giudiziari.
Quali sono i problemi di quella nomina? Parecchi, a partire dalla “indiscussa indipendenza” prevista dalla legge istitutiva per il presidente Consob e, eufemizzando, messa in discussione da un passaggio diretto dal governo all’Autorità: il precedente del viceministro Giuseppe Vegas, d’altra parte, non pare un bel biglietto da visita. Oltre alle ragioni di opportunità, però, dal 2013 ce ne sono anche di legali a sconsigliare la cosa: il decreto legislativo 39/2013 (quello che attua la “legge Severino”) amplia la normativa in materia di conflitto di interessi e prevede che i membri del governo (come Savona) non possano “ricoprire cariche o uffici o svolgere altre funzioni comunque denominate in enti di diritto pubblico, anche economici” e che l’incompatibilità “perdura per dodici mesi dal termine della carica”. La Consob, che ha “personalità giuridica di diritto pubblico”, opera per di più in almeno un campo che è ancor oggi competenza del Savona ministro (le agenzie europee di regolazione).
Su questo punto il parere di Anac, Corte dei Conti e giuristi avrebbe potuto essere imbarazzante, come su un’altra possibile incompatibilità dell’economista, quella che deriva dalla cosiddetta “legge Madia” che vieta alle amministrazioni pubbliche “nonché alle autorità indipendenti ivi inclusa la Consob” di conferire “incarichi dirigenziali o direttivi” a “soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza”, cioè in pensione (come, appunto, il nostro). Una piccola eccezione viene fatta se l’incarico è gratuito, ma non può essere comunque superiore a un anno: la presidenza Consob a cui è stato indicato l’82enne Savona dura sette anni (“sull’età – s’è schermito lui – posso dire che mi sento di assumere l’incarico e per il resto faccio i debiti scongiuri”).
Infine c’è il Savona, diciamo così, manager e “finanziere”. Il ministro, com’è noto, oltre a essere stato ai vertici di parecchie società quotate nel passato, è stato presidente del fondo di investimento londinese Euklid fino al 21 maggio (ma la registrazione della cessazione alla Companies House di Londra è solo del 13 ottobre, giorno in cui quella carica e il relativo conflitto di interessi divenne oggetto di un pezzo del Corriere della Sera). Il rapporto tra Savona e Euklid – i cui prodotti finanziari sono commercializzati in Italia e che potrebbe detenere azioni di società quotate a Milano – pone due tipi di problemi.
Il primo è ancora la “Severino”, che vieta di assumere l’incarico di “amministratore di ente pubblico di livello nazionale” a chi nel biennio precedente abbia ricoperto cariche in società “regolate dall’amministrazione o ente che conferisce l’incarico”. Il secondo problema, tanto più che Savona risulta ancora azionista di Euklid con una piccola quota, riguarda proprio “l’imparzialità” richiestagli per legge.
Nessun problema, sostiene il ministro: il fondo opera dall’agosto del 2018 utilizzando un algoritmo – non essendo, questa è la teoria, influenzabile – e comunque “ho sempre pensato che chi ricopre un incarico pubblico debba procedere come nei paesi più avanzati e cedere la gestione del proprio portafoglio a un blind trust: mi domando perché in Italia non si debba riprendere questo tipo di normativa”. E anche qui non è chiaro se darà in gestione il suo portafoglio a un trust o aspetterà che glielo imponga la legge. In generale, sostiene Savona, il suo unico pensiero è “l’interesse generale del Paese” e, in ogni caso, “nella commissione ci sono altri 4 membri e non potrei mai far passare una delibera da solo: il mio voto conterebbe il 20%”. Alla fine c’è sempre il romanissimo famo a fidasse.