Sì di M5S e Lega a mozione Tav: “Va ridiscussa”

Come era prevedibile (anche perché le motivazioni, ovvero la ridiscussione totale dell’opera è esattamente quanto previsto dal contratto di governo) ieri alla Camera è stata approvata la mozione del Movimento 5 Stelle e della Lega sul Tav che di fatto concede altro tempo all’esecutivo tenendo conto anche dell’esito dell’analisi costi-benefici realizzata dalla struttura di missione del ministero e risultata fortemente negativa (fino a quasi 8 miliardi).

Il testo è passato con 261 voti a favore, 136 contrari e due astenuti e impegna il governo a “ridiscutere integralmente il progetto della linea Torino-Lione, nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia”.

Firmata dai capigruppo di M5S e Lega, Francesco D’Uva e Riccardo Molinari, era stata depositata mercoledì tra le proteste delle opposizioni. Bocciate invece, dopo il parere negativo del governo, le mozioni Fi, Pd e FdI che sollecitavano lo sblocco dei bandi di gara per la realizzazione del tunnel di base. Il voto è stato contestato dai dem che in aula hanno mostrato cartelli con la scritta “Salva Salvini, Boccia la Tav”.

Vince così la manovra per prendere tempo. Già nei giorni scorsi le polemiche dell’opposizione e dei Sì Tav si erano concentrate su un presunto scambio tra l’immunità di Salvini e l’Alta velocità. “Con il voto che ha approvato la mozione di maggioranza sulla Torino-Lione, Lega e 5Stelle pregiudicano sempre più seriamente il Tav – ha detto ieri il governatore del Piemonte, Sergio Chiamparino –. Il blocco dei lavori salva il governo e mette in un angolo il Piemonte, che vuole crescere e non essere vittima delle pantomime elettorali della maggioranza”.

La mozione ricostruisce la vicenda del Tav, descrive il progetto in dettaglio e fa riferimento all’analisi. Ricorda infatti che “il ministero delle Infrastrutture ha dato mandato alla ricostituita struttura tecnica di missione di predisporre una nuova valutazione dell’adeguamento dell’asse ferroviario Torino-Lione mediante l’uso dell’analisi costi/benefici, per consentire un’allocazione delle risorse più efficiente per supportare il procedimento decisionale, con cognizione di causa, in modo da definire se attuare o meno una proposta di investimento o se optare per eventuali alternative”.

Inoltre, si legge, la posticipazione delle gare per i lavori del tunnel di base richiesta dal ministro dei Trasporti Toninelli e dalla omologa francese, Elisabeth Borne, al soggetto attuatore Telt “persegue l’obiettivo di avere un rapporto di collaborazione e condivisione con la Francia e, contestualmente, con la Commissione europea” anche considerando che la Corte dei conti europea ritiene l’analisi costi/benefici “lo strumento analitico utilizzato per valutare una decisione di investimento, confrontando i relativi costi previsti e i benefici attesi”.

L’intreccio tra manovra bis e l’ipotesi di voto anticipato

Dietro il dibattito sulla manovra correttiva c’è quello sulla durata del governo e possibili elezioni anticipate. “Non riteniamo necessaria alcuna manovra correttiva e non intendiamo farci dettare l’agenda da ipotesi o previsioni di sorta”, dice netto il premier Giuseppe Conte in Parlamento. Il riferimento è anche al giudizio delle agenzie di rating: oggi arriva quello di Fitch che potrebbe declassare l’Italia sotto l’attuale BBB, evento già abbastanza scontato dai mercati. Poi nella lista delle pressioni esterne del governo c’è pure la Commissione europea: a Matteo Salvini che esclude ogni intervento, ha risposto ieri il presidente Jean Claude Juncker: “Salvini non è il ministro delle Finanze”. E il ministro delle Finanze vero, cioè Giovanni Tria, considera soltanto “prematuro” il dibattito sulla manovra correttiva.

A dicembre il governo ha previsto una crescita del Pil dell’1 per cento nel 2019 e intorno a quella ha costruito le sue misure. Nel migliore dei casi sarà tra lo 0,2 e lo 0,5, anche se ci fosse una (improbabile) ripresa nella seconda metà dell’anno. In tv i ministri dicono di attendere gli effetti di reddito di cittadinanza e quota 100, ma quelli sono già compresi in quell’1 per cento che ora si è dimezzato. Questo implica che quasi certamente scatteranno i 2 miliardi di tagli alla spesa automatici inseriti dal governo per ottenere il via libera da Bruxelles sulla legge di Bilancio 2019. Tagli che avranno l’inevitabile effetto di peggiorare la recessione.

Ma i problemi veri si porranno con la legge di Bilancio 2020. Come ha ricordato ieri al Sole 24 Ore Giuseppe Pisauro, presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, ci sono clausole di salvaguardia da 23 miliardi sull’anno prossimo: o sale l’Iva, magari rivedendo le aliquote agevolate, o si fa nuovo deficit, ma allora l’Italia finisce sotto procedura d’infrazione perché sfora il tetto del 3 per cento in rapporto al Pil, oppure ci vogliono nuove tasse o tagli equivalenti che avranno comunque un impatto pesante sull’economia. Un incubo per i partiti al governo.

Per questo gli investitori internazionali che comprano i titoli di Stato si chiedono come farà questa litigiosa coalizione a gestire una congiuntura così esplosiva. Molti, sul mercato, si interrogano sulla possibilità di elezioni anticipate. Che però sono difficili in ogni scenario: si potrebbe votare a giugno, subito dopo le Europee, con la prospettiva di avere poi un governo Salvini tutto di centrodestra. Che però dovrebbe esordire con una legge di Bilancio lacrime e sangue. Oppure i partiti potrebbero far cadere il governo in autunno per andare alle elezioni in primavera: il bilancio sarebbe approvato da un Parlamento ormai morente, con molti parlamentari che non verrebbero rieletti e dunque, magari con il giusto stimolo da parte del Quirinale, disposti a immolarsi con un voto impopolare. Ma potrebbe anche succedere che, anche dopo le Europee, non si vedano alternative all’attuale maggioranza gialloverde: e allora Lega e M5S avrebbero tutto l’interesse a restare uniti abbastanza da far dimenticare agli elettori l’inevitabile legge di Bilancio 2020.

Difficile fare previsioni ora, per questo i fondi di investimento cercano indizi. E il primo arriverà il 10 aprile con il Documento di economia e finanza che apre il semestre di negoziati con la Commissione Ue: con la presentazione dei primi numeri sui saldi di bilancio dell’anno prossimo si capirà qualcosa delle intenzioni del governo e dei partiti. Sarà quello il momento in cui il dibattito su una correzione dei saldi in corso d’anno – la manovra correttiva – smetterà di essere teorico e diventerà questione concreta. In quel frangente basterà sbagliare una mossa per offrire agli investitori (e speculatori) il segnale che è arrivato il momento di fare un po’ di soldi scommettendo al ribasso. E il solito spread – che misura la differenza di costo tra debito italiano e tedesco – tornerà a correre. In questi giorni resta su livelli non altissimi ma comunque dannosi per l’economia, cioè intorno ai 270 punti.

Consob, dubbi legali su Savona: il governo blinda la nomina

Dopo la forzatura normativa della nomina di Mario Nava a presidente della Consob (indicato per un mandato settennale nonostante fosse solo in distacco triennale “nell’interesse” della Commissione Ue) che ne ha causato le dimissioni a settembre, ora il governo gialloverde pare essersi messo sulla stessa pericolosa strada indicando alla presidenza l’82enne Paolo Savona, ministro degli Affari Ue, che ha più di un problema di incompatibilità formale e/o sostanziale con la direzione della Commissione di controllo sulla Borsa.

La procedura di nomina dell’economista – indicato dall’esecutivo il 5 febbraio dopo un tira e molla durato mesi sul candidato ufficiale Marcello Minenna, dirigente della stessa Consob accantonato per motivi mai spiegati – pare però avviata a concludersi senza particolari scossoni, almeno a stare all’audizione di ieri in commissione Finanze del Senato: le perplessità anche di pezzi della maggioranza sono state silenziate.

Anche l’interessato, a ragione, non pare preoccuparsi troppo: “Non entro nel merito delle incompatibilità sollevate dai senatori di opposizione, perché ritengo che il governo che mi ha proposto e il Parlamento che mi sta ascoltando abbiano entrambi legali capaci di dare una risposta. Se mai la nomina non fosse legittima, come invece mi è stato assicurato, non brigherò per mantenere l’incarico”.

Difficile, pure fosse illegittima, che lo dirà qualcuno: non il governo, che lo ha proposto, e nemmeno il Parlamento. L’iter di nomina prevede, infatti, che le commissioni competenti votino la proposta del governo, seppure quel voto non sia vincolante: quasi impossibile, però, ci siano sorprese visto che la maggioranza è stata completamente militarizzata. Se n’è avuta una plastica dimostrazione ieri in Senato tra dichiarazioni esplicite e altrettanto eloquenti silenzi.

Anche dalla Camera c’è poco da sperare: è tanto vero che pure il presidente Roberto Fico (per ora) s’è inchinato alla ragion di governo vietando alla commissione Finanze – che pure gliele aveva chieste – le audizioni dell’Autorità Anticorruzione, della Corte dei Conti e di alcuni giuristi, oltre a quella dell’interessato.

Il motivo formale del niet, messo nero su bianco, è che le audizioni sono previste sugli atti normativi e non sulle proposte di nomina governativa: bizzarro che nella lettera di diniego si citi un parere della Giunta per il Regolamento della Camera che, nel giugno 2013, stabilì che i pareri parlamentari sulle nomine devono riguardare, in sostanza, la verifica dei requisiti soggettivi del nominato e, quindi, possono prevedere la sua audizione. Per gli stessi motivi, si può ben dire, dovrebbero prevedere il contributo di esperti. La scelta di Fico, insomma, serve a blindare il processo di nomina e finisce per silenziare i problemi e le forzature innescate dall’esecutivo con l’indicazione di Savona che quelle audizioni avrebbero sottolineato e che in futuro – troppo facile previsione – innescheranno l’ennesimo ciclo di pericolosi ricorsi giudiziari.

Quali sono i problemi di quella nomina? Parecchi, a partire dalla “indiscussa indipendenza” prevista dalla legge istitutiva per il presidente Consob e, eufemizzando, messa in discussione da un passaggio diretto dal governo all’Autorità: il precedente del viceministro Giuseppe Vegas, d’altra parte, non pare un bel biglietto da visita. Oltre alle ragioni di opportunità, però, dal 2013 ce ne sono anche di legali a sconsigliare la cosa: il decreto legislativo 39/2013 (quello che attua la “legge Severino”) amplia la normativa in materia di conflitto di interessi e prevede che i membri del governo (come Savona) non possano “ricoprire cariche o uffici o svolgere altre funzioni comunque denominate in enti di diritto pubblico, anche economici” e che l’incompatibilità “perdura per dodici mesi dal termine della carica”. La Consob, che ha “personalità giuridica di diritto pubblico”, opera per di più in almeno un campo che è ancor oggi competenza del Savona ministro (le agenzie europee di regolazione).

Su questo punto il parere di Anac, Corte dei Conti e giuristi avrebbe potuto essere imbarazzante, come su un’altra possibile incompatibilità dell’economista, quella che deriva dalla cosiddetta “legge Madia” che vieta alle amministrazioni pubbliche “nonché alle autorità indipendenti ivi inclusa la Consob” di conferire “incarichi dirigenziali o direttivi” a “soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza”, cioè in pensione (come, appunto, il nostro). Una piccola eccezione viene fatta se l’incarico è gratuito, ma non può essere comunque superiore a un anno: la presidenza Consob a cui è stato indicato l’82enne Savona dura sette anni (“sull’età – s’è schermito lui – posso dire che mi sento di assumere l’incarico e per il resto faccio i debiti scongiuri”).

Infine c’è il Savona, diciamo così, manager e “finanziere”. Il ministro, com’è noto, oltre a essere stato ai vertici di parecchie società quotate nel passato, è stato presidente del fondo di investimento londinese Euklid fino al 21 maggio (ma la registrazione della cessazione alla Companies House di Londra è solo del 13 ottobre, giorno in cui quella carica e il relativo conflitto di interessi divenne oggetto di un pezzo del Corriere della Sera). Il rapporto tra Savona e Euklid – i cui prodotti finanziari sono commercializzati in Italia e che potrebbe detenere azioni di società quotate a Milano – pone due tipi di problemi.

Il primo è ancora la “Severino”, che vieta di assumere l’incarico di “amministratore di ente pubblico di livello nazionale” a chi nel biennio precedente abbia ricoperto cariche in società “regolate dall’amministrazione o ente che conferisce l’incarico”. Il secondo problema, tanto più che Savona risulta ancora azionista di Euklid con una piccola quota, riguarda proprio “l’imparzialità” richiestagli per legge.

Nessun problema, sostiene il ministro: il fondo opera dall’agosto del 2018 utilizzando un algoritmo – non essendo, questa è la teoria, influenzabile – e comunque “ho sempre pensato che chi ricopre un incarico pubblico debba procedere come nei paesi più avanzati e cedere la gestione del proprio portafoglio a un blind trust: mi domando perché in Italia non si debba riprendere questo tipo di normativa”. E anche qui non è chiaro se darà in gestione il suo portafoglio a un trust o aspetterà che glielo imponga la legge. In generale, sostiene Savona, il suo unico pensiero è “l’interesse generale del Paese” e, in ogni caso, “nella commissione ci sono altri 4 membri e non potrei mai far passare una delibera da solo: il mio voto conterebbe il 20%”. Alla fine c’è sempre il romanissimo famo a fidasse.

Impresentabili: guai con la giustizia per otto candidati

Anche alle regionali sarde di domenica, c’è l’immancabile squadra di impresentabili. Che ieri ha ricevuto la “bollinatura” della commissione Antimafia presieduta dal M5S Nicola Morra. Secondo il codice di autoregolamentazione dell’organo parlamentare, sono 5 i candidati che non rispettano i requisiti richiesti e che hanno procedimenti in corso: “Gianfranco Ganau (Pd-Sardegna Zedda presidente) imputato per tentata concussione in concorso; Valerio Meloni (Pd- Sardegna Zedda presidente) imputato di tentata concussione in concorso; Antonello Peru (FI-Berlusconi per la Sardegna) imputato di concussione aggravata; Giovanni Satta (Solinas Presidente, nella foto) imputato per riciclaggio e associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti “aggravata dall’ingente quantitativo e dall’essere reato transnazionale”. E ancora: “Marco Carlo Marra (Partito dei Sardi-Facciamo lo Stato) imputato per corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio”. Inoltre ci sono tre condannati in 1º grado, per i quali l’elezione comporterebbe la sospensione per la legge Severino: Maurizio Porcelli (Solinas presidente), Alberto Randazzo e Oscar Cherchi (Fi- Berlusconi per la Sardegna).

Il governo litiga pure qui: la Lega vuole la zona franca, Tria no

“Sono qui in veste di rappresentante del Governo, e dico che in Sardegna la zona franca integrale si farà”. A guastare la marcia trionfale di Matteo Salvini verso il podio delle Regionali sarde non è solo il mancato raggiungimento dell’accordo coi pastori. Nella giornata che vede nuovamente riunita a Cagliari la triade di centrodestra con Meloni e Berlusconi accanto al candidato sardo-leghista Solinas, arriva il duro botta e risposta fra il vice premier Salvini ed il ministro dell’Economia Giovanni Tria, che proprio l’altro ieri aveva negato l’estensione della zona franca doganale per tutta l’isola. “Impossibile realizzarla”, aveva detto il ministro nel question time alla Camera. “Sono già state individuate delle aree”. Ma da qui a “legittimare la perimetrazione dell’intero territorio regionale” ce ne passa, aveva spiegato il ministro, sparando un’inconsapevole bordata sul cavallo di battaglia del centrodestra alle Regionali 2019.

E non è l’unico conflitto interno ai gialloverdi nell’isola: poco prima di arrivare nella piazza cagliaritana infatti Salvini, con l’immancabile felpa dei “Quattro Mori” aveva lanciato anche un altro avvertimento agli alleati di governo, ribadendo di voler realizzare la dorsale sarda del metano. Oggi in Sardegna è il turno di Luigi di Maio, che insieme al candidato presidente Francesco Desogus aveva già spiegato di privilegiare un modello di approvvigionamento energetico “leggero”, coi rigassificatori sulla costa e con un mix di energie green. Più o meno la stessa linea del candidato di centrosinistra Massimo Zedda, che ha scelto per la sua chiusura la Fiera Campionaria di Cagliari. “Solinas è l’uomo invisibile”, ha attaccato il sindaco, alludendo alla strabordante compresenza del leader leghista accanto al candidato del centrodestra in queste elezioni regionali.

Meloni: gruppo Ue e “veto” sovranista

Riparte dopo qualche intoppo il cantiere dell’alleanza tra i sovranisti, ora sparsi in due o tre gruppi al Parlamento europeo, in vista dell’appuntamento elettorale di fine maggio. Dopo la porta sbattuta in faccia a Salvini dagli esponenti del partito di governo polacco Diritto e Giustizia, si riunisce oggi a Roma l’assemblea dei Conservatori e Riformisti. Un incontro per sancire un’alleanza fortemente voluta dalla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. Per almeno due buoni motivi.

Il primo è che il partito della ex ministra della Gioventù si accasa definitivamente in una delle famiglie politiche dei sovranisti europei, oltretutto quella sulla carta meno radicale. Il gruppo dei Conservatori e Riformisti al Parlamento europeo – attualmente il terzo in termini numerici dopo popolari e socialisti – nasce da una scissione a destra del Partito Popolare (quello di Angela Merkel, per intenderci), quando a Londra era ancora premier David Cameron. Con Brexit e l’uscita dei Toriesdal gruppo, l’azionista di maggioranza rimane l’ultraconservatore polacco Diritto e Giustizia (Pis) guidato da Jaroslav Kaczynsky. In ogni caso, un polo ben saldo a livello europeo e destinato a crescere.

Se poi Meloni dovesse portare in dote a Ecr 4 europarlamentari (come prevede il primo sondaggio ufficiale del Parlamento europeo pubblicato lunedì), e comunque anche per il solo fatto di essere affiliata a questa famiglia, può giocare una carta importante nei confronti del suo interlocutore e competitor sovranista Matteo Salvini. Per statuto, i membri di ogni aggregazione europea possono porre il veto sull’ingresso di una nuova forza nel loro Paese di appartenenza. Ruolo che in Italia spetta proprio a FdI, socio unico dei Conservatori, dopo che l’ex forzista Raffaele Fitto – in Ecr fin dal 2015 a seguito della rottura con Berlusconi – ha aderito al progetto di Giorgia Meloni lo scorso autunno. Dunque il pallino della decisione formale rispetto a un eventuale ingresso di Salvini, sarebbe proprio nelle mani della leader FdI.

Ma cosa fa pensare che Salvini, potrebbe essere interessato a entrare in Ecr, dato che al momento i leghisti a Strasburgo aderiscono a Enf, il gruppo di Marine Le Pen? Il vicepremier aveva aperto il 2019 volando a Varsavia alla ricerca di una possibile grande alleanza sovranista. L’ipotetico ingresso nel gruppo creato dai conservatori inglesi avrebbe dato al leader leghista un maggior margine di manovra per guidare i sovranisti nella trattativa con i popolari in vista di una nuova maggioranza in Europa.

Dai polacchi Salvini aveva però ricevuto un secco no. A pesare, soprattutto la divergenza di vedute sulle sanzioni Ue nei confronti della Russia di Putin, leader con cui il vicepremier italiano si è sempre mostrato in sintonia ma che non riscuote invece lo stesso successo presso i sovranisti del Pis. Ora anche Meloni mette le cose in chiaro. In vista dell’incontro di Roma ha twittato: “Vogliamo salvare l’Europa dai burocrati, dai socialisti e dagli ipocriti alla Macron, costruendo un’alleanza tra popolari e populisti”. Direzione convergente, nonostante la sproporzione di forze con la Lega. E un avviso a Salvini: nella destra europea dovrai fare i conti con noi.

Un’altra strana laurea per il “Trota sardo”

Christian Solinas, candidato presidente delle destre in Sardegna, non ha un buon rapporto con l’università. Qualcuno lo chiama il “Trota sardo” perché – come il figlio di Bossi – avrebbe ottenuto un diploma farlocco in una fantomatica università di Santa Fè, nel New Mexico (Usa).

Dell’ateneo che gli ha rilasciato il diploma – il Leibniz Business Institute – si sa davvero poco. Il Miur non lo riconosce: in Italia il pezzo di carta infilato nei vecchi curricula di Solinas non ha valore. In compenso nel suo più recente cv alla voce “Titolo di studio” c’è una novità: una laurea in Giurisprudenza “vecchio ordinamento”.

Scavando un po’ nella carriera universitaria di Solinas si scoprono una serie di anomalie difficilmente spiegabili.

Il segretario del Partito sardo d’azione, eletto al Senato lo scorso 4 marzo grazie al patto con la Lega, si è laureato il 12 dicembre 2018 all’Università di Sassari. La sua carriera – come si apprende grazie ai documenti visionati dal Fatto Quotidiano – si era arenata nel 2008, l’anno accademico in cui Solinas si è trasferito dall’ateneo di Cagliari a quello di Sassari. In quel passaggio gli sono stati riconosciuti 13 esami già effettuati nella prima parte della sua esperienza universitaria. Fin qui nulla di male. Poi iniziano le irregolarità.

Sul suo libretto sassarese risultano ben 4 esami sostenuti nel lontano 2008 che vengono verbalizzati (in blocco) addirittura 10 anni più tardi. Si tratta di Diritto penale, Diritto romano, Diritto amministrativo e Diritto civile: Solinas li ha superati il 2 aprile 2008, ma la data di verbalizzazione è il 30 novembre 2018.

Non si tratta solo di una stranezza, ma di una chiara irregolarità. Basta leggere quanto previsto dal regolamento dell’Università di Sassari: “La firma del verbale deve avvenire contestualmente o immediatamente dopo l’inserimento degli esiti degli studenti iscritti all’appello, e comunque entro quindici giorni dalla data di fine appello”. Tutti gli esami registrati il 30 novembre 2018 sono quindi formalmente irregolari.

Non è l’unica anomalia dello studente Solinas. Ci sono altri due esami che riportano la solita data di verbalizzazione: il 30 novembre 2018. Queste due ulteriori prove però sono state sostenute il 27 febbraio 2017 (Diritto Penale II) e il 10 aprile 2017 (Diritto Civile II). C’è una doppia irregolarità: non solo gli esami vengono verbalizzati a mesi di distanza dalla discussione, ma quando li ha sostenuti Solinas non poteva nemmeno essere iscritto all’ateneo.

Il senatore infatti ha pagato le tasse universitarie per il triennio 2015-2018 in un’unica soluzione solo nell’ottobre 2018: nel febbraio e nell’aprile dell’anno precedente quindi non era in regola e non avrebbe potuto dare esami.

Il senso comune peraltro induce a un ulteriore ragionamento: dopo 10 anni di inattività universitaria quasi completa (a parte tre esami superati nel biennio 2013-2014), il segretario del Psd’az decide di tornare sui libri proprio pochi mesi dopo essere stato eletto al Senato (il 4 marzo 2018).

Da quel giorno non solo Solinas si fa verbalizzare un gran numero di esami risalenti al 2008 (e due del 2017), ma riesce anche a coniugare l’attività parlamentare con il superamento delle ultime due prove che gli mancano: Procedura Penale e Diritto Commerciale (non due esami qualsiasi per gli studenti di giurisprudenza). Oltra a scrivere e discutere la tesi.

Il grande giorno, per Solinas, è il 12 dicembre 2018, quasi sotto Natale. A Palazzo Madama si discute una delle leggi più importanti di questo primo scorcio di legislatura, la cosiddetta “Spazza corrotti”, ma quel giorno il senatore sardo risulta in congedo: è di fronte alla commissione di laurea.

L’uomo a cui Matteo Salvini affida il suo destino in Sardegna è finito in un’altra storia da “Trota”. Sarebbe bene chiarisse. Il rettore dell’università di Sassari Massimo Carpinelli – contattato dal Fatto – non ha voluto farlo.

Cesare Battisti chiede un cambio di pena, la Procura dice no

Cesare Battistisi appella a un accordo risalente al 2017 tra Italia e Brasile per chiedere che l’ergastolo gli venga commutato in 30 anni di carcere. L’ex terrorista dei Pac è stato arrestato a gennaio in Bolivia dopo decenni di latitanza prima in Francia, protetto dalla dottrina Mitterrand, e in America del Sud prima di essere estradato in Italia per espiare i quattro omicidi che risalgono alla fine degli anni 70. Il dell’ex latitante Davide Steccanella, ha depositato alla Corte d’Assise d’Appello di Milano l’istanza con richiede, tramite un incidente di esecuzione, che si applichino gli accordi di estradizione Italia-Brasile che prevedevano una pena di 30 anni perché nel paese sudamericano non è prevista la pena dell’ergastolo. Anche perché è l’unico accordo valido secondo l’avvocato, perché Battisti è stato riportato in Italia con una consegna senza rispettare procedura di espulsione e non ci sarebbero documenti attestanti l’estradizione dalla Bolivia all’Italia. Il sostituto procuratore generale Antonio Lamanna, titolare del fascicolo, ha dato parere negativo all’istanza del difensore di Battisti.

Dio, Pirellone e yacht: la parabola del Celeste che voleva la Formula 1

La Madonna non ha fatto il miracolo. L’avevano invocata e pregata, sabato scorso, gli amici di Roberto Formigoni in attesa della sentenza definitiva, quella della Cassazione, che ora gli apre le porte del carcere. Si erano riuniti nel Santuario mariano di Caravaggio, per la recita del rosario e la partecipazione alla messa delle 16. La Madonna ha disposto diversamente, perché ieri alle 20 la sentenza è arrivata ed è stata di conferma della condanna, pur con pena ridotta da 7 anni e mezzo a 5 anni e 10 mesi.

La Madonna ha forse ascoltato il prorettore del Santuario, don Cesare Nisoli, che aveva risposto picche agli amici di Formigoni che chiedevano che a celebrare la messa fosse monsignor Luigi Negri, vescovo emerito di Ferrara e ciellino: “L’iniziativa non è stata concordata con la direzione del Santuario”, aveva risposto don Nisoli, “io non posso permettere che la preghiera diventi uno strumento politico per Formigoni: la messa delle 16 è e resta la messa festiva della comunità cristiana che si riunisce in Santuario, senza particolari connotazioni e intenzioni”. Così, con uno screzio con il Santuario (che ha pubblicato sul suo sito un duro comunicato) si conclude la storia politica e giudiziaria dell’uomo che è stato per 18 anni, dal 1995 al 2013, presidente della Regione Lombardia e ora dovrà scontare la sua pena: è stato definitivamente ritenuto colpevole di corruzione, per aver incassato negli anni almeno 6 milioni di euro da Pierangelo Daccò e Antonio Simone, lobbisti della sanità privata e rappresentanti della Fondazione Maugeri e del San Raffaele. Non tangenti, ma “benefit”: viaggi, vacanze, yacht, cene, regali, uno sconto sull’acquisto di una villa in Sardegna… Un “imponente baratto corruttivo”, secondo l’accusa. Ringraziamenti per aiuti alla sanità privata del valore di almeno 60 milioni di denaro pubblico.

Formigoni, 71 anni, ha iniziato la sua corsa nel 1975, quando fonda il Movimento popolare, braccio politico di Comunione e liberazione dentro la Democrazia cristiana. Tramontata la Prima Repubblica, i voti di Cl vanno in dote a Forza Italia. Ma Formigoni, con il suo tesoretto di consensi ciellini, è sempre al vertice di un centro di potere autonomo, che si afferma soprattutto nel settore della sanità. Il Modello Formigoni equipara, in Lombardia, la sanità privata e quella pubblica, facendo crescere enormemente la prima, sempre a spese del pubblico. Così le foto estive sugli yacht forniti da Pierangelo Daccò, il lobbista della Maugeri, entrano a far parte dell’album dei ricordi della Seconda Repubblica, come le sue giacche arancioni o le sue magliette vistose. Ha voluto costruire anche la sua piramide a imperitura memoria della sua gloria: il nuovo grattacielo della Regione, che subito qualcuno ha ribattezzato il “Formigone”. Al trentacinquesimo piano il suo splendido ufficio, che il Celeste si vantava di illuminare con diversi colori, dal rosso al verde al blu, a seconda del suo umore. Ma le piramidi non portano bene: una volta concluso, l’ha dovuto abbandonare, travolto dall’ennesimo scandalo, quello di un suo assessore che aveva comprato i voti dalla ’ndrangheta. Negli anni precedenti era stato indagato più volte. Sempre prosciolto, fino al caso Maugeri. Eppure l’inchiesta “Oil for food”, sulle forniture petrolifere concesse dall’Iraq di Saddam a imprese vicine a Cl, rivela una fitta rete di società e di conti all’estero riferibili agli uomini a lui vicini. E sfiora una misteriosa fondazione lussemburghese, Memalfa, che è la cassaforte dei Memores Domini, il gruppo dei laici consacrati di Cl a cui appartiene e in cui si entra con i voti di povertà, castità e obbedienza. Che le foto sugli yacht stonassero con quei voti è ormai acqua passata.

In un’intervista del 1997, confessa: “Da piccolo volevo fare il pilota di Formula 1 o il collaudatore di vacanze: andare in giro in posti bellissimi ed essere pagato per questo”. Sogno realizzato, a giudicare dalla sentenza: l’ha fatto, il “collaudatore di vacanze”, andando “in posti bellissimi” senza scucire un euro per quasi un decennio.

Caso Maugeri, Formigoni corrotto: 5 anni e 10 mesi

Roberto Formigoni, “Il Celeste”, è colpevole di corruzione. Ieri sera è stato condannato definitivamente dalla Cassazione a 5 anni e 10 mesi e già oggi per lui si potrebbero aprire le porte del carcere.

L’ex potentissimo presidente della Regione Lombardia ed ex senatore è stato condannatoper il processo Maugeri-San Raffaele. A Milano era stato condannato dalla Corte d’Appello a 7 anni e 6 mesi, ma ieri la Suprema Corte ha dichiarato la prescrizione per il filone San Raffaele e, dunque, la pena è leggermente diminuita.

Oggi, da Roma partirà un fax con il dispositivo della sentenza per la procura generale di Milano, competente a emettere l’ordine di esecuzione della pena. Formigoni non ha diritto a chiedere pene alternative al carcere perché la condanna è superiore a 4 anni. L’ex governatore, però, può chiedere per motivi di età , avendo già superato i 70 anni, gli arresti domiciliari, su cui deve decidere il tribunale di Sorveglianza Ma, comunque, dovrebbe esserci un passaggio in carcere. Così accadde a Cesare Previti che finì in cella per cinque giorni e poi, per età, ottenne i domiciliari. Non è escluso, però, che l’ex senatore si costituisca. Nell’udienza di ieri, il sostituto pg Luigi Birritteri aveva chiesto la conferma della pena a 7 anni e sei mesi. C’è stato un “imponente baratto corruttivo” attorno al sistema di finanziamento pubblico della clinica Maugeri e dell’ospedale San Raffaele, attraverso delibere della Regione Lombardia guidata da Formigoni per vent’anni. Da parte di Formigoni, aveva proseguito Birritteri, c’è stato un “sistematico asservimento della funzione pubblica agli interessi della Maugeri, un baratto della funzione”. I numeri della corruzione sono impressionanti: 61 milioni di euro di cui circa 6 milioni sono arrivati “in vari flussi e forme” a Formigoni: viaggi, vacanze in barche e hotel di lusso. “Tenuto conto del suo ruolo e con riferimento alla mole della corruzione – aveva concluso il pg – non può avere una pena attenuata”, bisogna evitare, “che la legge possa essere calpestata con grida manzoniane”. A difendere Formigoni il professor Franco Coppi che aveva chiesto l’assoluzione o in alternativa l’annullamento della condanna per prescrizione. La Cassazione, però, ha ritenuto prescritto il reato solo in parte. Per i pm milanesi Laura Pedio, Antonio Pastore e Gaetano Ruta, l’ex governatore avrebbe favorito con 15 delibere del Pirellone la Maugeri in cambio di benefit e “utilità” per milioni di euro, come rivelato dal Fatto nel luglio 2012. Tra le utilità fu indicato un maxi sconto praticato dall’imprenditore Pierangelo Daccò (che ha patteggiato) ad Alberto Perego, amico di Formigoni e Memores Domini di Comunione Liberazione come lui, per l’acquisto di una villa in Sardegna.