Inter-Torino, Supercoppa Primavera, ultrà milanisti attaccano i tifosi granata

Sesto San Giovanni, stadio Breda, di fronte Inter e Torino, squadre Primavera, in palio la Supercoppa italiana. È mercoledì sera. Il match lo vincono i granata ai rigori. Tutto bene dunque. Una parte della curva Maratona del Torino in trasferta nel Milanese sta davanti a un pulmino. Si rimettono a posto gli striscioni. Poi succede l’incredibile: sul piazzale dello stadio si materializzano circa 15 persone. Sono tutte incappucciate, hanno bastoni, lanciano sassi. Il manipolo attacca. Sembra ripetersi l’incubo del 26 dicembre tra ultrà interisti e napoletani.

In realtà, accerterà la polizia, gli incappucciati sono tifosi del Milan. Hanno un obiettivo: rubare la bandiera del Torino. Nel frattempo picchiano. Quattro i feriti tra i granata. Contusioni lievi. Il pulmino viene preso a bastonate. Poi si dileguano. Solo un tifoso della curva del Milan viene fermato. Non sarà denunciato, ma per lui è già stata avviata la procedura di Daspo. Con sé aveva il cellulare. Elemento fondamentale per mettere insieme i nomi degli altri componenti del commando. Si perché allo stato, la polizia ha in mano un solo nome. Certo Sesto San Giovanni è un luogo frequentato dagli ultrà rossoneri. Qui, infatti, si trova la loro base storica dove ogni giovedì si fanno le riunioni. Un club finito anche in un’inchiesta per spaccio di droga nella quale è stato coinvolto uno dei capi storici della curva del Sud. Quel Luca Lucci che poi ha patteggiato e che nel novembre scorso, durante i la festa per i 50 anni della curva, è stato fotografato assieme al ministro dell’Interno nonché tifoso rossonero Matteo Salvini. Il ragazzo fermato è del 1993 ed è incensurato. Subito interrogato, ha spiegato che l’obiettivo era di portarsi via la bandiera. I tifosi del Torino contusi non sono di categoria A ovvero classificati ultrà, ma semplicemente appassionati della squadra che frequentano la curva Maratona. Sul fronte investigativo, ora il commissariato di Sesto San Giovanni coordinato dal dottore Daniele Barberi sta visionato i filmati delle telecamere fuori dallo stadio per avere elementi che portino all’identificazione degli altri 15 aggressori.

Fatture false e truffa al Comune. Sette arresti per il cantiere e i lavori infiniti in via Marina

Fatture false,, faccendieri e teste di legno per creare fondi neri: ora inizia ad essere più chiaro il perché dei tormenti nei lavori di rifacimento di via Marina a Napoli, il cantiere incompiuto da 20 milioni di euro che da anni sta spaccando la città tra le maledizioni degli automobilisti e degli orfani di un tram soppresso. Ieri sono finiti agli arresti domiciliari quattro imprenditori referenti dell’appaltatore dei lavori, il Consorzio Asse Costiero, e altri tre fra prestanomi e titolari di società cartiere per gonfiare i costi e i rimborsi. Sono accusati di truffa aggravata per conseguire finanziamenti europei e nazionali, si chiamano Pasquale Ferrara, Mariano Ferrara, Umberto Iannello, Vincenzo Iannello, Vincenzo Boccanfuso, Gaetano Milano e Achille Prospero. I sette, a vario titolo, avrebbero messo in piedi un sistema di fatture false – in particolare 5 fatture della Energy Exchange srl per un totale di circa 443.000 euro – che da un lato erano utili per creare liquidità “in nero” per scopi sui quali sono in corso altre indagini, e dall’altro venivano allegate alle pratiche dell’appalto attraverso un procedimento contabile, definito “di ribaltamento”: in sostanza la Energy emetteva fatture inesistenti per la vendita, mai avvenuta, di materiale edile alle imprese consorziate le quali, a loro volta, fatturavano, attraverso il consorzio, all’ente appaltante, il Comune di Napoli, che poi liquidava la società capogruppo Cesved (Consorzio Europeo per lo Sviluppo dell’Edilizia S.r.l.). L’inchiesta condotta dal nucleo tributario della Finanza, agli ordini del colonnello Domenico Napolitano, e coordinata dal procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli, nacque quasi per caso seguendo le tracce di alcune intercettazioni ambientali al Porto disposte dopo le dichiarazioni di un pentito del clan Mazzarella. L’ottavo indagato, non arrestato, è un clochard portato da un notaio con una carta d’identità falsa per firmare in cambio di 300 euro l’atto di nomina di liquidatore “fantoccio” della Energy. Anche il Consorzio Asse Costiero è stato amministrato da un prestanome, Boccanfuso, che per il disturbo riceveva 800 euro mensili.

Rogo Thyssen: dei 4 italiani condannati due già liberi, gli altri lo saranno presto

I tedeschi condannati sono ancora liberi. Non hanno passato neanche una notte in carcere. Due italiani su quattro, invece, hanno già lasciato le celle in cui erano entrati sabato 14 maggio 2016, all’indomani della sentenza della Cassazione sul caso ThyssenKrupp che li condannò per la morte di sette operai dopo il rogo del 6 dicembre 2007 a Torino.

Soltanto due restano ancora in carcere, ma potranno uscire nei prossimi mesi. Prima il Tribunale di Sorveglianza di Spoleto e poi quello di Torino hanno stabilito che due ex manager dello stabilimento torinese meritavano di uscire di prigione per ottenere l’affidamento in prova, una pena alternativa che si può ottenere in alcuni casi particolari.

Il primo a uscire è stato Marco Pucci, ex membro del Cda della ThyssenKrupp Acciai Speciali che aveva ottenuto dalla Corte d’assise d’appello di Torino (poi confermata dalla Cassazione) una pena a sei anni e dieci mesi, la stessa pena di Gerald Priegnitz, uno dei due tedeschi ancora in libertà su cui si aspetta la decisione della Corte distrettuale di Essen. Dal giugno 2017 Pucci poteva lavorare fuori dal carcere di Terni e aveva l’obbligo di rientrare in cella ogni sera. A settembre, quando gli restavano circa quattro anni, il suo avvocato Ezio Audisio si è rivolto al Tribunale del Riesame di Spoleto che ai primi di ottobre ha stabilito la fine della detenzione in carcere e l’affidamento in prova ai servizi sociali: libero, ma con degli obblighi e delle restrizioni su spostamenti, orari e frequentazioni. Paradossalmente se Priegnitz si fosse subito consegnato alla giustizia italiana, a quest’ora potrebbe già essere fuori.

A dicembre è stata la volta di Cosimo Cafueri, responsabile della sicurezza condannato a sei anni e otto mesi. Tramite il suo avvocato, il professore Francesco Dassano, ha chiesto di poter pagare il suo debito con la giustizia fuori dalle Vallette (il carcere di Torino). Il Tribunale di Sorveglianza ha ritenuto che “il soggetto non è socialmente pericoloso” e ha tenuto conto “della condotta mantenuta in carcere e in libertà, dei precedenti penali e di sorveglianza”. Adesso fa il volontario della Croce Rossa, una misura “idonea a contrastare il pericolo di sua recidiva e a sostenerne il suo percorso di reinserimento sociale”.Nei prossimi mesi anche gli altri due manager italiani ancora in carcere potrebbero uscire. Raffaele Salerno, direttore dello stabilimento condannato a 7 anni e 2 mesi e Daniele Moroni, condannato a 7 anni e 6 mesi, che esce dal carcere di Terni per andare a lavorare come consulente di uno studio di ingegneria industriale, è iscritto a un master e rientra in cella la sera: “Ad aprile chiederemo l’affidamento in prova”, annuncia l’avvocato di quest’ultimo, Attilio Biancifiori. I tedeschi, il consigliere Priegnitz e l’amministratore delegato Harald Espenhahn (condannato a 9 anni e 7 mesi), in Germania potrebbero scontare cinque anni pieni, pena massima prevista per l’omicidio colposo plurimo.

B. straparla: “La Cedu mi assolverà”. Ma il ricorso è ritirato

“Lei mi inviteràa questo tavolo dopo la sentenza di Strasburgo, gliene canterò delle belle”. Un Silvio Berlusconi spavaldo si pronuncia così a Otto e mezzo nella puntata di mercoledì 20 Gennaio. Il Cavaliere si riferiva evidentemente al ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) contro la sentenza per frode fiscale che l’ha condannato “incredibilmente, solo perchè ho suggerito a una mia azienda come risparmiare 10 milioni”. La tesi sostenuta dal leader di Forza Italia, e da nessuno dei presenti (Lilly Gruber e Massimo Giannini) contestata, è infatti che l’Europa riconoscerà la sua condanna come “una grande mascalzonata”. Berlusconi è così occupato ad attaccare i magistrati, ovvero “il plotone di esecuzione messo insieme dalla sinistra”, che si dimentica che il ricorso è stato archiviato dalla Corte europea a novembre. E su richiesta dei suoi legali. I quali affermavano, in una lettera del 27 luglio scorso, che l’ex premier non era più interessato al pronunciamento della Corte, in quanto “non avrebbe prodotto alcun effetto positivo” su di lui.

Consiglio di Stato, nuovi guai per lo 007 “spione”

“Abusando dei propri poteri di funzionario dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna sottraeva temporaneamente gli originali, li fotocopiava e carpiva le copie, detenendo presso la sua abitazione atti e documenti classificati riservati concernenti la sicurezza dello Stato”. Il terremoto giudiziario scaturito dalle parole degli avvocati arrestati lo scorso febbraio, Pietro Amara e Giuseppe Calafiore, si abbatte anche su uno 007, dopo aver già coinvolto giudici del Consiglio di Stato, sindaci e faccendieri vari. Ieri infatti i finanzieri del Gico, su richiesta del Gip di Roma, hanno notificato una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere per Francesco Sarcina.

Il maresciallo dei carabinieri, in servizio all’Aisi, era già detenuto a Regina Coeli a causa dell’inchiesta sulla corruzione in atti giudiziari relativa alle sentenze pilotate al Consiglio di Stato. Ed è proprio nell’ambito di quell’indagine che il 27 luglio scorso venne perquisita la sua abitazione. Furono trovati un passaporto falso e uno scatolone contenente numerosi atti. Tra questi c’erano anche tre documenti “riservati della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Aisi”: “Regolamento Interno di Sicurezza”, “Corso di formazione, avente ad oggetto: strumenti informatici e applicazioni”, “Dpcm 26 ottobre 2012”.

Secondo gli inquirenti sono l’ennesima prova del ruolo del “signor Franco”, che “mediante relazioni instaurate con ufficiali di Polizia Giudiziaria e con il responsabile della sicurezza Sti, costituisce un punto di riferimento per veicolare informazioni riservate coperte da segreto di Stato e segreto investigativo”. Del resto è proprio da Sarcina che Amara e Calafiore, all’interno di un convento romano e dopo aver pagato 30 mila euro, avevano ricevuto atti e informazioni relative alle indagini che li riguardavano.

Ermini e i pasdaran Pd. La rimpatriata a pranzo

A fine giornata David Ermini è scuro in viso. E forse penserà che è il caso di farsene una ragione: la tessera evidentemente non gli porta bene. Appena eletto vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura furono molti, rovinandogli la giornata, a rinfacciargli il fatto di avere ancora in tasca quella del Pd. Lui, responsabile giustizia dem spedito a Palazzo dei Marescialli, dove di li a poco si sarebbero dovuti affrontare gli strascichi del caso Consip, il disciplinare a carico di Michele Emiliano, il ricollocamento in servizio di Anna Finocchiaro, come lui ex parlamentare dem.

Ma ieri bel altra tessera gli è stata fatale: quella del club degli interisti di Montecitorio. Che è andato a ritirare di persona alla Camera dove ha incontrato tanti ex colleghi, compresa Maria Elena Boschi, tutti intenti in queste ore a fare cerchio attorno al leader Matteo Renzi colpito negli affetti più cari con l’arresto dei due genitori.

Tra i parlamentari del Nazareno, specie tra quelli di stretta osservanza renziana, è scattata la parola d’ordine: resistere, resistere, resistere. Ma alla giustizia ad orologeria. Un lessico che ha trovato una sponda naturale in Forza Italia, tornata molto tempestivamente alla carica in queste ore sulla riforma delle carriere dei magistrati.

“L’aria è cambiata” si sente dire nel Palazzo tra chi ha ancora un conto, politico, da regolare con le toghe. Ora in questo clima rovente, neppure si fosse tornati allo scontro al calor bianco tra politica e giustizia come ai bei vecchi tempi del ventennio berlusconiano, che ti fa Ermini? Nonostante il ruolo e il momento decisamente non ottimale, si è attovagliato a pranzo proprio a Montecitorio con quelli che il puntuto cronista di Huffpost definisce i pasdaran renziani. Ossia l’amazzone Alessia Morani, che nel Pd si occupa di giustizia, il giovane avvocato siciliano Carmelo Miceli. E Stefano Ceccanti che minimizza: “Ma quale sgrammaticatura istituzionale. Ermini viene qui almeno una volta ogni due settimane. A tavola peraltro non c’era nessun big del Pd” si schermisce.

Inutile chiedergli di più sul pasto della discordia. “Pranzo è una parola grossa, più che altro abbiamo mangiato un boccone al volo. Io ho visto un posto libero e mi sono seduto. Poi sicché mi tocca occuparmi di riforme costituzionali a Ermini ho raccontato come stava andando in aula qui a Montecitorio. Insomma abbiamo fatto quattro chiacchiere, niente di che”. Sarà ma dentro e fuori il Palazzo intanto infuria ancora una volta, la polemica sulla giustizia.

Insomma, è un momentaccio. Sicuramente da ieri pure per Ermini che al Fatto Quotidiano dice: “Sono stupefatto: da quando sono vicepresidente del Csm sono andato tante altre volte alla Camera. Anche oggi in Transatlantico ho incontrato salutato e parlato con giornalisti e parlamentari di maggioranza e opposizione. Sono stato invitato a mangiare e ho pranzato accanto a tantissime persone”. E le polemiche che in queste ore hanno di nuovo toccato i livelli di guardia? “Le mie posizioni a tutela della magistratura sono note, basta rileggere i miei recenti interventi. Non permetto a nessuno di tirare il Csm all’interno di polemiche soprattutto se alimentate da illazioni e ricostruzioni di pura fantasia”.

Già il Csm. Perché Ermini guida l’organo di autogoverno dei magistrati facendo le veci del Capo dello Stato Sergio Mattarella. E le toghe si sentono sotto assedio più che mai per gli attacchi ricevuti in queste settimane anche su web dopo che il Tribunale dei ministri di Catania ha chiesto, inutilmente, al Parlamento di poter processare il ministro dell’Interno Matteo Salvini.

A Palazzo dei Marescialli non è passata la linea dei togati che chiedevano che si aprisse una pratica a tutela dei magistrati finiti nel mirino delle polemiche da tifoseria politica. Ma poi c’è stata la storiaccia di Laura Bovoli e Tiziano Renzi finiti ai domiciliari proprio nel giorno in cui la Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato, grazie ai voti di Lega, Forza Italia e Movimento 5 Stelle ha evitato il processo al capo della Lega Salvini. Una tempistica ritenuta sospetta, specie dal Pd, il partito da cui Ermini proviene. Per questo a più di un osservatore non è sfuggita l’inopportunità della rimpatriata di ieri .

Ci vorrebbe Bartali al Tour

In zona Pd, è noto, l’affaire della famiglia Renzi non lo stanno prendendo benissimo. E se Maria Elena Boschi, intervistata da Il Foglio, solidarizza (“Io lo so cos’è la gogna”), c’è chi evoca ben altro affaire. È il caso dell’ex presidente Rai Claudio Petruccioli che twitta preoccupato: “Non mi sembra una esagerazione cominciare a fare un parallelo fra #affaireDreyfus e quello che si può ormai definire #AffareRenzi E forse si può sperare che ci sia anche oggi un #EmileZola che scriva un #Jaccuse”. Il parallelo è tra la (falsa) accusa di tradimento e intelligenza con la Germania mossa tra il 1894 e il 1906 al capitano dell’esercito francese di origine ebraica Alfred Dreyfus e al celebre atto d’accusa in suo sostegno dello scrittore pubblicato nel 1898 sul quotidiano socialista L’Aurore. La palma del più allarmato, tuttavia, va al giornalista Mario Lavia, secondo cui ”Renzi dovrebbe dire ai suoi le parole di Togliatti dopo l’attentato: ‘Non perdete la testa’”, alludendo all’appello alla calma che il segretario del Pci lanciò dopo essere stato ferito in un attentato nel 1948 per placare le folle pronte alla rivoluzione. In effetti è pieno di renziani che in questi giorni stanno dissotterrando armi. Disgraziatamente, però, non ci sarà Gino Bartali a calmare definitivamente le acque vincendo il Tour de France.

Ma quale complotto, Scafarto fu approssimativo

Ma quale complotto contro Matteo Renzi, di nuovo evocato dall’ex premier nel suo ultimo libro. Sul punto la Cassazione è chiara: gli errori, indiscutibili, commessi dal maggiore dei carabinieri del Noe, Gianpaolo Scafarto, nelle indagini Consip e nella stesura dell’informativa del 9 gennaio 2017 alle Procure di Napoli e Roma, e in particolare l’attribuzione di una frase su un avvenuto incontro con Tiziano Renzi all’imprenditore Alfredo Romeo e non all’ex parlamentare Italo Bocchino, nonostante i militari del suo gruppo di lavoro gli avessero segnalato in chat che la voce era quella di Bocchino, non furono il frutto di una volontà dolosa. Furono invece il risultato di investigazioni di “un ufficiale dei carabinieri (Scafarto, ndr) che, sostanzialmente per sua stessa ammissione, svolge il proprio lavoro con imbarazzante approssimazione”. Lo scrive la Quinta Sezione Penale della Cassazione in uno dei passaggi chiave delle motivazioni del provvedimento con il quale a giugno è stato rigettato il ricorso della Procura di Roma contro la decisione del Riesame che ha annullato l’interdizione di Scafarto dall’Arma. Le 29 pagine di argomentazioni dei magistrati del Palazzaccio dispensano bacchettate ai pm e all’indagato. E danno dignità al memoriale di Scafarto in cui si sostiene che quell’errore dipese dalla cattiva abitudine di non effettuare salvataggi regolari del file dell’informativa, così quando il pc esaurì la batteria e fu riacceso, il maggiore ne aprì una versione priva della correzione. “Non spetta al giudice di legittimità” si legge “indagare il grado di verosimiglianza dell’ipotesi prospettata (…) che comunque avrebbe dovuto essere vagliata e confutata dal pm giacché (…) costituisce pur sempre un’alternativa plausibile a quella di un dolo unitario”. Un dolo unitario prospettato dal pm secondo cui nelle condotte di Scafarto “Tiziano Renzi e Matteo Renzi si rivelano un unico obiettivo da colpire”, ma che per la Cassazione non regge in piedi. Per questa ragione, scrivono: fu Scafarto a far notare al maresciallo Chiaravalle, “che la persona identificata in Marco Carrai (in un incontro con l’Ad di Consip Marroni, ndr) era in realtà Marco Canale”. Carrai è un fedelissimo di Renzi e il maggiore che corregge il punto “smentisce la tesi dell’accusa in ordine alla volontà dell’indagato di voler coinvolgere nella vicenda Consip, anche mediante la commissione di reati di falso, l’allora presidente del Consiglio”. Intanto i pm di Napoli Woodcock e Carrano hanno chiuso l’indagine sul ‘sistema Romeo’ negli appalti pubblici: 56 indagati. L’immobiliarista è accusato anche di associazione a delinquere coi suoi stretti collaboratori, tra cui Bocchino.

“Evasione fiscale, via le soglie vergogna del governo Renzi”

Sulla Diciotti si era detto “combattutissimo”, senza svelare il suo voto. Ma ora assicura che “era giusto negare l’autorizzazione a procedere per Matteo Salvini”. Però il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha soprattutto altro da dire: “Proporrò al governo di ritoccare verso il basso le soglie di punibilità per varie fattispecie di evasione fiscale. Il governo Renzi ha varato norme che sembravano consigli su come evadere, come scrissi in un mio post del 2015. E io vorrei che si tornasse alle soglie precedenti il suo esecutivo”.

Partiamo dalla Diciotti. Quel 41 per cento che ha votato a favore dell’autorizzazione a procedere a diversi, come il deputato Luigi Gallo, pare la base numerica di una minoranza interna.

La maggioranza e la minoranza sono fisiologiche quando c’è una consultazione. E sulle questioni più dibattute c’è maggiore equilibrio tra le opinioni.

Quel 41 per cento magari vi chiede di cambiare, innanzitutto nel rapporto con la Lega, no?

Non sono d’accordo. Il M5S ha una linea politica molto chiara, che consiste nell’andare avanti con questo governo, e su una questione nuova come quella della Diciotti ha consultato gli iscritti. Ma non si possono utilizzare le votazioni per valutazioni interne al Movimento.

Avete scoperto improvvisamente il garantismo, per salvare Salvini e il governo.

È falso. Noi non abbiamo mai fatto eccezioni per nessuno, e io ho firmato l’autorizzazione a procedere per vilipendio nei confronti proprio di Salvini. Ma la legalità è il rispetto di tutte le leggi, e tra queste c’è anche la norma costituzionale, che imponeva ai senatori di rispondere a una domanda, ossia se il ministro dell’Interno avesse agito per un interesse preminente dello Stato. E se avessero detto il contrario, avrebbero detto il falso.

Lei però ha ammesso di essere molto combattuto. Quindi non era così automatico, no?

No, la certezza assoluta non poteva averla nessuno. Ma alla fine ho scelto il criterio della verità.

Che ha prevalso su quello della vostra identità…

La nostra identità corrisponde al rispettare il criterio della verità.

Ora vi volete strutturare. Avete capito che il M5S leggero non funziona più.

Serve una struttura che faccia da garante delle qualità delle persone che si avvicinano al M5S.

Ha voglia di far parte della nuova segreteria politica?

(Sorride, ndr). La parola segreteria non mi piace. E io non mi sono mai offerto per incarichi.

Invece sul piano politico cosa offre? La lotta all’evasione fiscale è scomparsa dall’agenda del governo. Eppure voi 5Stelle avevate promesso “manette per gli evasori”.

Le manette agli evasori, cioè l’inasprimento delle pene, sono legate al varo di un sistema fiscale più equo, così come prevede il contratto di governo. Però ci sono stati alcuni interventi vergognosi del governo Renzi sull’evasione fiscale, per esempio l’aumento delle soglie di punibilità per alcune fattispecie di reato. E per questo proporrò all’esecutivo di abbassarle.

Faccia qualche esempio.

Renzi triplicò la soglia di punibilità per la dichiarazione infedele da 50 mila a 150 euro. Ecco, io voglio riportarla a 50 mila. E in generale, voglio ripristinare per alcune soglie il livello precedente.

Come pensa di intervenire, e quando?

Con un disegno di legge. E proporrò le modifiche molto presto.

Sarà. Ma il governo dell’ex segretario del Pd rivendicava risultati record nella lotta all’evasione, invece avete varato condoni e “saldi e stralci”.

Su quei temi abbiamo trovati soluzioni in linea con il contratto. Detto questo, il maggior recupero di risorse dall’evasione deriva dagli strumenti sempre più efficaci di cui dispongono la Guardia di Finanza e le altre autorità. Invece il Pd ha varato norme che secondo me favorivano gli evasori.

La Lega non le permetterà mai di intervenire su questo, ministro.

Io propongo di cancellare alcune soglie vergogna. E non posso pensare che nel governo qualcuno possa apprezzare quelle norme fatte da Renzi.

Ve ne andate o no?

In un Paese serio, il presidente della Repubblica e del Csm Sergio Mattarella convocherebbe il vicepresidente del Csm David Ermini e gli chiederebbe le dimissioni. A meno che non riesca a smentire le notizie pubblicate ieri dall’Huffington Post sul suo pellegrinaggio mattutino alla Camera (dov’è stato eletto un anno fa in quota Renzi) per confabulare con gli ayatollah renziani, impegnati a fucilare i giudici di Firenze che hanno osato arrestare i genitori del loro capo. Gli stessi giudici che Ermini dovrebbe difendere dagli attacchi, come si usava quando l’attaccante era B. e ancora si usa quando lo è Salvini. Invece Ermini tace e anzi acconsente, incontrando gli aggressori. Secondo l’Huffington, ha fatto “due chiacchiere con Maria Elena Boschi”, che ieri sul Foglio tuonava contro “l’uso politico della giustizia”. Poi, a pranzo, si è “attovagliato con Alessia Morani, Stefano Ceccanti e Carmelo Miceli, avvocato siciliano di granitico garantismo”. Garantismo si fa per dire, visto il forsennato giustizialismo della combriccola contro le toghe fiorentine, già condannate per leso Tiziano. Quale imparzialità potrà avere d’ora in poi questo Ermini nel tutelare, come sarebbe suo dovere, i magistrati aggrediti dai politici suoi amici? Già ne aveva poca prima, viste le sue sparate contro altri pm sgraditi a Renzi, quelli di Consip. Ma da ieri la sua terzietà è pari a zero. E mai come oggi il Csm ha bisogno di un vertice al di sopra delle parti e dei sospetti.

Anche perché finalmente sta per chiudere l’inaudito processo disciplinare contro i pm napoletani Woodcock e Carrano, rei di avere scoperchiato la fogna Consip. Chi gridava al complotto (Ermini compreso) sosteneva che l’inchiesta era mirata a infangare il Giglio Magico tramite quel giglio di campo di Tiziano, ora agli arresti, con “prove false” taroccate dal capitano Scafarto. L’ufficiale del Noe fu indagato, perquisito e financo destituito dalla Procura e dal gip di Roma. Ma, come dice Renzi, “il tempo è galantuomo e basta solo aspettare”. Infatti Scafarto fu scagionato e reintegrato nell’Arma dal Tribunale del Riesame, che attestò la buona fede dei suoi errori (per i quali i pm di Roma vogliono pervicacemente processarlo, dopo aver chiesto l’archiviazione di babbo Tiziano). La Procura ricorse in Cassazione e fu respinta con perdite: rigettati tutti i suoi ricorsi. Ieri sono uscite le motivazioni: nessun reato di falso per incastrare Tiziano e screditare Matteo, solo errori involontari. Il punto centrale dell’accusa è la famosa telefonata in cui Italo Bocchino, ex deputato di Fli e consulente di Alfredo Romeo, diceva di aver “incontrato Renzi”.

Nell’informativa Scafarto attribuiva erroneamente quella frase a Romeo e individuava quel “Renzi” non in Matteo, ma in Tiziano (a riprova di un incontro fra i due sempre negato da entrambi, ma ora ritenuto probabilissimo dagli stessi pm). Anche la Cassazione smentisce la Procura, ritenendo quell’errore una svista e non una congiura con prove false per incastrare i Renzis. Per tre motivi. 1) Tiziano era già coinvolto nell’affaire Consip da ben altri e più solidi indizi e non c’era bisogno di inventarne di nuovi: “Dalle intercettazioni e dai primi riscontri… risultava che Romeo stesse stipulando con il Russo, che affermava di parlare anche a nome di Tiziano Renzi…, un ‘accordo quadro’, che prevedeva il versamento periodico di denaro da parte sua al Russo ed al Renzi in cambio di un intervento di quest’ultimo sull’Ad di Consip Luigi Marroni”. E, appena partirono le indagini babbo Renzi fu avvisato da una fuga di notizie che lo indusse a non parlare più al telefono. 2) Se davvero Scafarto voleva screditare i Renzi, “non si comprende perché (come risulta dalle chat, ndr) chiese a tutti i suoi collaboratori un riscontro di verifica diretta” sulla telefonata Bocchino-Romeo, sollecitandoli a “riascoltarla” e a controllare meglio chi diceva cosa e poi “a controllare che la sua informativa non contenesse inesattezze”. 3) “Scafarto – aggiunge la Cassazione confermando il Riesame – invitò il maresciallo Chiaravalle a controllare meglio un’intercettazione e soprattutto l’identificazione di uno dei soggetti che si era incontrato con Marroni in Marco Carrai. Chiaravalle ha dichiarato che fu Scafarto a fargli notare che la persona identificata in Carrai, in realtà, era Marco Canale, presidente di Manutencoop. La vicenda è decisamente rilevante perché smentisce la volontà dell’indagato (Scafarto) di voler coinvolgere nella vicenda Consip, anche mediante la commissione di reati di falso, l’allora presidente del Consiglio. Carrai infatti è un imprenditore molto vicino a Matteo Renzi”. Anche in quella occasione, insomma, per i giudici di Cassazione ha ragione il Riesame: Scafarto “perseguì l’accertamento della verità”, anche se scomoda per l’accusa. Senza preconcetti né complotti.

Ora che del golpe Consip non resta più nulla, nemmeno la cenere, e nessuna persona sana di mente si beve la storia del golpe contro papà Tiziano e mamma Lalla, è paradossale che il renzismo sopravviva proprio ai vertici del Csm. E pure del Pd alla vigilia del congresso. Lì le sole voci udibili sono quelle contro i giudici, mentre chi dovrebbe difenderli tace. L’on. avv. berlusconiano Francesco Paolo Sisto annuncia di aver appena “presentato un ddl sulla separazione delle carriere dei magistrati. A parte i 5Stelle, il clima non è ostile, neanche dal Pd. Perché non è un provvedimento in quota opposizione, ma in quota Costituzione”. Per la verità, è sempre stato in quota P2. Ora è nel programma della mozione Martina (“Il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale”) e nelle interviste di Giachetti. Molto più comodo separare i giudici dai pm che i politici dai delinquenti.