Ingresso a 45 euro. Corridoio Vasariano

Dal 2021 riaprirà al pubblico il Corridoio Vasariano, che unisce Palazzo Vecchio a Palazzo Pitti attraverso le Gallerie degli Uffizi. Progettato dal Vasari e realizzato nel 1565 per volontà di Cosimo I de’ Medici, il Corridoio fu chiuso nel 2016 per problemi di sicurezza: dopo un restauro di 10,5 milioni di euro e un nuovo allestimento, sarà di nuovo accessibile a 500 mila visitatori all’anno, in gruppi di massimo 125 persone per volta. Il biglietto – previa prenotazione – costerà 45 euro in alta stagione e 20 in bassa, mentre le scolaresche entreranno gratuitamente. Abbiamo chiesto a due firme del “Fatto” di confrontarsi sul prezzo della visita.

 

Perché sì Meglio pagare i costi coi biglietti che con le tasse

Il Corridoio Vasariano che unisce palazzo Vecchio a palazzo Pitti attraverso le Gallerie degli Uffizi a Firenze sarà riaperto, dopo 10 milioni di euro di lavori in un anno e mezzo, nel 2021. Per visitarlo il prezzo pieno del biglietto sarà poco popolare: fino a 45 euro. È tanto? È poco? Difficile dirlo in senso assoluto, qualche economista utilitarista potrebbe dire che dipende dal valore che uno spettatore attribuisce all’esperienza di attraversare il percorso realizzato da Gaetano Vasari nel 1565.

Ma usciamo da questo relativismo che poco aggiunge al dibattito. Di certo 45 euro non sono pochi per molte persone. Ma sono davvero quelle che vogliono vedere il Corridoio? Dire che l’arte dovrebbe essere gratuita o, almeno, accessibile a prezzi democratici è una nobile affermazione. Che, però, come sempre in questi casi, ha un costo. Se guardiamo il bilancio 2017 degli Uffizi, l’ultimo disponibile, scopriamo anche a quanto ammonta: nel 2016 il museo fiorentino prevedeva di incassare 19,5 milioni dalla vendita di beni e servizi (inclusi i biglietti) e 2,2 milioni dal ministero della Cultura. Che però si aggiungono ai 20,4 milioni di fondi pubblici ancora in cassa dal 2016. A fronte di queste entrate, il totale delle uscite di cassa previsto per il 2017 era di 21,9 milioni. Come si vede l’equilibrio si raggiunge anche grazie ai fondi pubblici, ma le vendite di biglietti sono una parte molto rilevante.

La domanda a cui rispondere sul Corridoio Vasariano è dunque la seguente: è più equo un biglietto a prezzo basso, cui corrisponde di sicuro una domanda maggiore, o uno più elevato che riduce il numero di visitatori potenziali? Poiché gli spazi sono limitati e l’accesso è su prenotazione, è ragionevole supporre che la domanda di visite sarà di gran lunga superiore alla capacità ricettiva dello spazio museale. Tenere il prezzo basso, quindi, non farebbe altro che aumentare la quota di domanda che non viene soddisfatta. Il numero di visitatori per gli Uffizi rimarrebbe lo stesso ma gli incassi sarebbero più bassi. Un prezzo elevato sembra più razionale: quei 45 euro possono contribuire a coprire i costi di restauro o, come fossero un sussidio incrociato, ridurre la necessità di sussidio pubblico per il museo nel complesso oppure ancora permettere di tenere prezzi più bassi nella vendita di servizi meno remunerativi.

È ragionevole supporre che la fetta di popolazione che va al museo non sia quella più povera. Da un punto di vista dell’equità fiscale è molto più giusto avere prezzi alti e bassi trasferimenti pubblici invece che prezzi bassi finanziati dalle tasse. Le imposte sono certamente progressive, ma le pagano anche tutti coloro che agli Uffizi non ci vanno. Fissare un prezzo molto diverso da quello “di mercato” potrebbe incentivare poi comportamenti opportunistici come quelli che osserviamo nel settore dei concerti con il secondary ticketing: chi riesce ad accaparrarsi un ingresso sa che può rivenderlo a qualcuno che ha un “prezzo di riserva” più alto (cioè una disponibilità a spendere maggiore).

Chi ha stabilito i prezzi d’accesso del Corridoio Vasariano ha anche considerato la rigidità dell’offerta (la capienza massima) e le variazioni della domanda. I 45 euro valgono solo in alta stagione, quando c’è più richiesta, in quella bassa il biglietto scende a 20 euro. Mentre le scolaresche in visita entrano gratis – si suppone – nei momenti in cui la domanda “di mercato” è minima.

L’alternativa era soltanto all’apparenza più democratica: l’ingresso gratuito – per estremizzare – sarebbe stato pagato di fatto dai normali visitatori del museo (invece che soltanto da quelli più raffinati interessati al Corridoio) o dalle tasse dei contribuenti, anche di quelli che al museo non ci vanno proprio.

Stefano Feltri

 

Perché no L’arte non può diventare solo un bene di lusso

“È finalmente tutto pronto per garantire l’apertura democratica, per i visitatori di ogni angolo del mondo, del celeberrimo Corridoio Vasariano – ha dichiarato il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt –. Per il 2021 ogni anno mezzo milione di persone potranno liberamente visitarlo. Abbiamo voluto che questo eccezionale bene culturale potesse essere accessibile davvero a tutti, in completa sicurezza, in modo da poter offrire a chiunque lo desiderasse una passeggiata nel cuore dell’arte, della storia e della memoria di Firenze. L’occasione della sua riapertura costituirà una misura chiave per il turismo di Firenze e dell’Italia: sarà ossigeno per l’intero settore e contribuirà a creare nuovi posti di lavoro nel comparto e nel suo indotto”.

È una dichiarazione assai interessante: direi, anzi, che è la perfetta espressione di ciò che ci si aspetta da un manager della cultura nell’Italia del 2019. L’impronta è ancora quella, puramente economicistica, dell’era Renzi-Franceschini in cui nasce l’autonomia dei supermusei e in cui Schimdt ascende alla posizione che occupa: d’altra parte quale sia la visione del patrimonio culturale del governo giallo-verde nessuno è ancora in grado di dirlo (e non è detto che sia un male, visto il resto).

Nell’affermazione che imporre un biglietto da 45 euro (in alta stagione) significhi proporre un’“apertura democratica” accessibile a chiunque lo desideri si coglie un’aria di famiglia con le affermazioni della Boschi sul reddito di cittadinanza che tratterrebbe gli indolenti giovani italiani sul divano. In entrambi i casi c’è una completa perdita di contatto con la realtà e un sostanziale disprezzo non solo per gli italiani sulla soglia di povertà (ormai uno su tre), ma anche per una famiglia semplicemente normale: che difficilmente potrà spendere, se di 4 persone, 180 euro per passeggiare nel Vasariano.

Ma, si dirà, ci vogliono soldi per mantenere il patrimonio. Ebbene, mai, e in nessun luogo, il patrimonio culturale si è automantenuto, né tantomeno ha generato reddito (se non in senso indiretto). Come ben sanno i direttori dei grandi musei americani (sempre citati, a sproposito, come dimostrazioni del teorema del “patrimonio petrolio d’Italia”), la rendita prodotta dalle opere d’arte non è economica, ma intellettuale e culturale. Quei musei, infatti, non incrementano, ma piuttosto “consumano”, i frutti dei grandi patrimoni finanziari e immobiliari che li sostengono: e lo fanno per produrre “cultura”, non dividendi monetizzabili. In altre, più brutali, parole mentre negli Stati Uniti si brucia denaro per creare cultura, la metafora del petrolio rivela che l’idea italiana (affermatasi negli anni Ottanta di Craxi e De Michelis) è quella di bruciare cultura per creare denaro.

D’altra parte, i cittadini mantengono già quel patrimonio attraverso la fiscalità generale: e l’obiettivo tendenziale dovrebbe essere quello di non farglielo pagare una seconda volta, abolendo i biglietti di ingresso nei musei statali. Quanto costerebbe? Esattamente quanto due giorni di spesa militare su 365, e credo che ne varrebbe la spesa.

Non pretendo tanto. Ma almeno vorrei che il Corridoio Vasariano non diventasse un bene di lusso che manifesta e celebra la diseguaglianza sociale.

Quel corridoio nasce come un segno eloquente della perdita della libertà fiorentina: Cosimo, duca colto ma anche tiranno efferato, cammina letteralmente sulla testa dei fiorentini, non più cittadini, ma sudditi. Restituirlo davvero a tutti, oggi, significherebbe rappresentare nel modo più efficace la sovranità popolare, e render chiaro qual è la missione del patrimonio culturale in un Paese che ha l’eguaglianza come bussola costituzionale. Prima, però, bisognerebbe conoscerla, quella missione.

Tomaso Montanari

Parla con i vipparoli (ma senza spoilerare)

L’ultimo capitolo della saga del Paese di Indignopoli riguarda i Ferragnez, assurti agli onori delle cronache, casomai ce ne fosse ulteriore bisogno, perché entrati nel Libro dell’anno 2018 appena pubblicato dalla Treccani. I Ferragnez sono un po’ la versione nostrana di Brangelina, appartenenti a una specie fortunata (belli e ricchi), gente che non rischia mai di essere friendzonata da nessuno e che per rimorchiare non ha bisogno di speedatare, tanto qualcuno che li sexta lo trovano sempre: se si sentono triggerati, i famosi e gli influencer al massimo rispondono con un emoticon disgustato o scatenano un esercito di troll. Il rischio maggiore è di essere stalkerati o taggatisui social network. Ma attenzione: sono loro che bannano, loro che defollowano. Si tratta in genere di vipparoli, nuovo termine recepito nell’edizione 2019 dello Zanichelli insieme a salottismo, figaggine, spoilerare, Var e triplete. C’erano una volta i tuttologi, oggi sono in buona compagnia degli antitutto.

Se avete già il mal di mare per questa serie di parole strane, non pensate che sia solo una questione generazionale, di essere vecchi o giovani (anzi di essere millennials, altrimenti detti Echo boomers). Dipende anche da quanto siete moderni: la tecnologia è una fonte inesauribile di neologismi perché si evolve velocemente e quindi ha bisogno di raccontarsi. La videochiamata non esisteva prima dei videofonini e ovviamente non ci si poteva whatsappare prima di Whatsapp, skypare prima di Skype. E certo non si potevano photoshoppare le foto prima di Photoshop… E così postare, twittare, messaggiare (ma pure twerkare che c’entra più con la mobilità del bacino che i mobile-phone).

La politica poi, come spesso accade, è la prima a dare l’esempio (non sempre buono) con l’aiuto dei media, vecchi e nuovi. Dopo il 4 marzo (e dopo un lungo travaglio) è nato il governo Salvimaio, figlio dell’alleanza pentaleghista. Ancora prima avevamo coniato Renzusconi (ma anche Lettusconi e Veltrusconi). Leggiamo in continuazione dell’attualissima Brexit (e dell’eventuale Italexit), di Trumpismo e Macronismo; qualche anno fa i giornali erano pieni di bunga-bunga e berlusconiane olgettine, poi dell’annuncite del rottamatore Renzi. In realtà sono moltissime le parole nuove del potere: governance, devolution, meetup, esodati, ecoreati, spindoctor, euroburocrate, neocon, no global, no vax, no Tav… Le leggi normano il mondo che si trasforma e ha quindi bisogno di nuove parole: stepchild adoption, fine vita, omoaffettività. Per non dire del vizio di utilizzare psudolatinismi per nominare le leggi lettorali: Porcellum, Italicum, Rosatellum… L’economia non va meglio: austerity, voluntary disclosure, spending review. Ma anche agenzia di rating, quantitative easing, project financing.

Quasi tutte parole mutuate dall’inglese, abitudine a volte necessaria, troppo spesso abusata: perché i varchi alle stazioni si devono chiamare gate? Non succede così dappertutto. I francesi per esempio hanno adottato la soluzione più drastica: tutto, ma proprio tutto, viene tradotto. E allora perfino il computer diventa l’ordinateur e il software le logiciel (con risvolti appunto comici). L’uso o abuso di forestierismi ha un effetto collaterale molto gradito ai politici: chiamare le cose con nomi nuovi dà anche l’illusione di averle cambiate…

Ora il grammabolario (esiste!) è in continua evoluzione, perché come è noto le lingue vive si trasformano nel tempo (non parliamo lo stesso italiano di inizio Novecento per la banale ragione che la società in cui viviamo è diversa). Solo che adesso ogni volta che compare un neologismo o un nuovo modo di dire, tutti s’inalberano. Perché è un lemma indegno, o perché suscita spiacevoli invidie. Com’è successo tre anni fa quando un bambino di terza elementare si è inventato il fiore petaloso, conio commutato da una famiglia di aggettivi (verboso, peloso, ecc.). C’erano già stati comodoso e biscottoso, ma più d’uno ha alzato il ditino storcendo il naso. C’è però una novità: l’evoluzione della lingua appassiona la gente. Lo dimostra il dibattito social sui Ferragnez, ma anche l’accesa discussione suscitata qualche settimana fa da un articolo del professor Coletti sulla “legittimità” di alcuni modi di dire che rendono transitivi verbi intransitivi usati soprattutto al Sud: “Esci il cane, scendi la valigia, siedi il bambino ecc.”.

Ne è nata una polemica furiosa quanto inutile: non c’è stato nessuno sdoganamento, ma una semplice presa d’atto dell’uso frequente in àmbito domestico. E, aggiungiamo noi, alzi la mano chi – anche senza scomodare Montale – non dice abitualmente “scendere le scale”. Siamo così arrivati all’equivoco di fondo: i linguisti non sono i cani da guardia dell’ortodossia, della purezza o bellezza dell’idioma patrio. Osservano la lingua che cambia insieme a noi (cresce o invecchia, non sempre in meglio). Ci consoliamo con una considerazione: la Crusca, che fino a poco tempo fa per i più era “un aiuto per la tua regolarità”, viene improvvisamente restituita alla dignità di Accademia.

Berlino e le industrie minacciate dal Dragone

La Germania cambia direzione e decide per la prima volta in modo programmatico di intervenire con investimenti pubblici per proteggere i grandi gruppi industriali strategici del Paese – i “campioni nazionali” – dalle mire delle aziende extra-europee. Un ritorno alla politica industriale con la ‘P’ maiuscola e stavolta non con interventi ad hoc per salvare singole aziende – come è successo in passato – ma con l’obiettivo di proteggere e sostenere in modo pianificato le aziende in difficoltà per un tempo determinato. Globalizzazione incontrollata, fine del multilateralismo, guerra commerciale con gli Usa, innovazione: sono questi gli spettri che aleggiano sull’economia tedesca per il ministro tedesco dell’Economia, Peter Altmaier, ed è per far fronte a questo che ha presentato il piano nazionale di politica industriale 2030 due settimane fa. La paura è che “la Germania da attore diventi spettatore passivo e da laboratorio di ricerca si trasformi in banco di lavoro” ha detto il politico della Cdu. L’obiettivo però non è meramente protezionistico, è più ambizioso. Il fine è creare dei futuri “campioni europei” in grado di reggere il passo con la concorrenza cinese e americana in modo da riportare al centro della scena mondiale l’industria europea.

Per raggiungere questo secondo obiettivo, due giorni fa è stato presentato a Berlino il “Manifesto franco-tedesco di politica industriale europea” dai due ministri dell’economia d’oltralpe, il francese Bruno Le Maire e Altmaier a Berlino. “Se l’Europa vuole ancora essere una potenza manifatturiera nel 2030, abbiamo bisogno di una vera politica industriale europea”, si legge nel documento presentato ieri alla stampa. Per farlo bisogna riunire gli investimenti dei diversi Stati in modo da aumentare la capacità di competere e quindi di reggere la concorrenza globale. Per Francia e Germania la strategia è condivisa. “Fronteggiare con successo le nuove sfide globali e i suoi sviluppi è nell’interesse immediato della Germania e degli Stati membri dell’Unione europea” ha scritto Altmaier nella sua introduzione al documento tedesco. Tradotto significa: la barca affonda, uniamoci prima che sia troppo tardi. “Noi vorremmo che altri paesi come Spagna, Italia e Polonia si unissero a questa iniziativa” ha aggiunto Le Maire. Anche la cancelliera Angela Merkel ha dato il suo placet: “Dobbiamo trovare delle possibilità ragionevoli per congiungere la forza degli investimenti privati con gli incentivi statali”. Ma l’accoglienza del mondo economico tedesco al piano di Altmaier è tutt’altro che entusiasta. Il ritorno a un ruolo da protagonista dello Stato in economia sa troppo di socialdemocrazia. Uno dei cinque consiglieri economici del governo, Lars Feld, dice di “trovare totalmente sbagliata l’impostazione di una nuova politica industriale di Stato”. Di segno opposto è invece la posizione di un’altro consigliere economico del governo, Peter Bofinger, che – sentito al telefono dal Fatto – si spinge un passo più avanti: “La politica industriale non deve più essere pensata al livello nazionale ma al livello europeo – se vogliamo sostenere la mobilità elettrica, dobbiamo farlo con un approccio europeo, non possiamo fermare le colonnine per la ricarica delle batterie ai confini dei diversi paesi, bisogna metterle a tappeto in tutta Europa”. Questo è il vantaggio dei cinesi, l’economia di scala sulla quale potrebbe contare anche l’Europa se sfruttasse i suoi vantaggi, ha proseguito.

“Eliseo indulgente su Benalla”: il Senato accusa

Il rapporto della commissione d’inchiesta del Senato sul Benallagate è disponibile sul sito da ieri, un documento di 160 pagine, risultato di sei mesi di indagini. Il fatto all’origine della vicenda è noto: le violenze commesse da Alexandre Benalla, l’ex consigliere per la sicurezza di Emmanuel Macron, a Parigi, durante la manifestazione del primo maggio. Ma quella era solo “la punta emersa di un iceberg”, ha detto ieri il senatore Philippe Bas, presidente della commissione.

I senatori non esitano a puntare il dito contro i vertici dello Stato e i “gravi malfunzionamenti” interni che “hanno minato la sicurezza” del presidente. Denunciano anche “l’incomprensibile indulgenza” dell’Eliseo nei confronti di Benalla, un “collaboratore senza esperienza” a cui “è stata data fiducia” anche dopo i fatti del primo maggio. E anche le tante “contraddizioni” emerse dalle testimonianze di collaboratori vicini a Macron, tra cui Alexis Kohler, Patrick Strzoda, segretario generale e capo di gabinetto dell’Eliseo e il generale Lionel Lavergne.

Il rapporto ha fatto reagire il governo. Il testo è pieno di “contro-verità”, ha detto il portavoce del governo, Benjamin Griveaux. La ministra della Giustizia, Nicole Belloubet, ha sollevato il problema della divisione dei poteri: la commissione è di fatto composta soprattutto da senatori della destra dei Républicains. I commissari rilevano le tante “falsità” dette da Benalla, che è stato convocato da loro due volte negli ultimi mesi. L’ex collaboratore del presidente avrebbe mentito su più punti. Primo: sulle sue reali funzioni all’Eliseo, non solo “logistiche”. “Benalla – scrivono – svolgeva un ruolo nella protezione ravvicinata del capo dello Stato”. Secondo: sull’uso dei passaporti diplomatici. Benalla aveva dichiarato di averli lasciati nel suo ufficio dell’Eliseo dopo il suo allontanamento. In realtà, come rivelato da Mediapart li ha continuati a usare una ventina di volte per viaggi in Africa. Terzo: sulla vicenda del contratto per la fornitura di servizi di sicurezza a un oligarca russo di dubbia reputazione. Ai senatori Benalla aveva dichiarato di esserne estraneo. Anche questa volta Mediapart ha dimostrato il contrario: Benalla avrebbe svolto anzi un ruolo attivo nel contratto tra l’oligarca e la società Mars, che fa capo a Vincent Crase, ex responsabile della sicurezza del partito La République en Marche e anche lui indagato per le violenze del primo maggio. Oltre che per quelle violenze, Benalla è già indagato per usurpazione di funzione pubblica e uso abusivo dei passaporti diplomatici.

Una nuova inchiesta è stata aperta di recente per stabilire se ci sono stati tentativi di “occultare delle prove”, dopo la scomparsa di alcuni sms dal cellulare di Benalla e di una cassaforte dal suo appartamento di Issy-les-Moulineaux.

Due giorni fa, l’ex consigliere di Macron ha dormito nella prigione della Santé di Parigi per aver violato i vincoli del controllo giudiziario: avrebbe incontrato Crase il 26 luglio, cioè dopo la rispettiva iscrizione al registro degli indagati, che vietava loro ogni contatto, come emerso dalla registrazione dell’incontro clandestino, pubblicata da Mediapart. Ora la commissione senatoriale intende avviare una nuova azione per “falsa testimonianza”. Per questo Philippe Bas ha fatto appello al presidente del Senato, Gérard Larcher, e a un decreto del 1958 che autorizza le assemblee a procedere contro chi dichiara il falso in commissione parlamentare.

Un reato punito con 5 anni di detenzione e 75.000 euro di multa.

Premiata ditta Rapimenti & C.

Si chiama Karla Quintana, ha 40 anni, è dottore di ricerca in diritto, un master a Harvard e un altro in studi di genere all’Università di Barcellona. Su proposta di 35 associazioni, 146 esperti e 14 organizzazioni della società messicana è stata appena nominata a capo della Commissione nazionale di ricerca dei desaparecidos creata dal presidente del Messico Andrés López Obrador subito dopo l’insediamento. Sarà lei a dover ritrovare – dopo anni di omertà – i corpi con o senza vita degli scomparsi per traffico di droga, evitando così alle famiglie il triste compito di cercare a mani nude i propri cari.

Appena arrivata, la Commissaria si è già trovata di fronte a 49 fosse comuni contenenti 69 corpi sepolti sotto le palme e il sole di un piccolissimo villaggio della regione di Colima, Jalisco, la meno popolata del paese. “Una macelleria”, ha sintetizzato un contadino del posto. Immagine che rende bene l’idea della situazione che da anni patisce il Messico: più di 40 mila dispersi e 26 mila cadaveri ancora non identificati nelle cosiddette “narcofosse”, quelle scavate dai narcotrafficanti per le proprie vittime. Oltre alle 156 vite risucchiate nel 2018 dalla metro della capitale, Città del Messico, su cui si è fatta appena luce. Così Colima, o meglio la zona di Tecomán, nello Stato di Jalisco dove l’equipe di Karla ha rinvenuto le fosse, si è trasformata nelle ultime ore in un caso simbolo. Scoperta casualmente indagando sul rapimento di una donna e di sua figlia di appena quattro mesi, quella che doveva essere l’ultimo luogo dove era passata la madre, la casa di campagna si è rivelata in realtà un cimitero: 11 fosse comuni e 19 corpi.

Due gli indizi: terra smossa e odore di morte. Da lì, dopo altre perlustrazioni, la polizia ha trova altre 39 fosse e 50 cadaveri. “Alcune buche contenevano soltanto un corpo, altre più cadaveri impilati l’uno sull’altro”, scrive il cronista del quotidiano El Pais. “Cadaveri apparentemente freschi, anche se la temperatura di 30 gradi deve averne accelerato la decomposizione, e altri, sotterrati da almeno cinque anni, ormai ridotti a sole ossa. Intorno, il silenzio. O peggio, l’omertà. “Ognuno di noi conosce qualcuno che ha ucciso o rapito qualcun altro”, confessa un giovane del posto ai giornali locali. La verità è che Tecomán è stata rasa al suolo dalla violenza. Enclave strategica e di passaggio di droga e armi, contesa tra i cartelli della droga di Sinaloa, Jalisco Nueva Generación e Nueva Familia Michoacán, la zona – che in tutto fa 130 mila abitanti – ha visto solo l’anno scorso succedersi 191 omicidi, tra purghe interne ai gruppi e violenza generalizzata, che come nel resto del paese inizia a lasciare dietro di sé un numero spaventoso di cadaveri e dispersi. Da Tecomán è partita anche la campagna della Commissione per la raccolta e la comparazione dei Dna degli scomparsi, che verranno registrati nel nuovo database nazionale che servirà per i riconoscimenti. Con il paese diviso in due limbi: quello di chi spera che in quelle fosse ci sia un familiare scomparso da anni e mai ritrovato e chi teme di scoprire che colui o colei che pensa scomparso sia in realtà in fondo a qualche buca improvvisata nei campi di Jalisco.

Ma c’è anche chi dall’Inferno degli spariti è ritornato sulle proprie gambe. Si tratta dei cosiddetti schiavi a cui i cartelli hanno offerto un lavoro con l’inganno per poi trattenerli con la forza. Un esercito entrato a far parte come sicari di quello organizzato del crimine messicano della droga. Uno di loro ha raccontato a El Pais di essere stato attirato con un annuncio di lavoro sui social network: l’offerta parlava di 4 mila pesos a settimana come guardia di sicurezza. Peccato che il giorno della prova insieme ad altri 15 giovani che avevano abboccato su Whatsapp venne portato su una montagna per essere istruito a lavorare con il cartello, in questo caso Jalisco Nueva generacion. Luis (nome di fantasia) ha visto morire almeno altri 17 ragazzi come lui nel tentativo di scappare dagli accampamenti dei narcotrafficanti e con la sua testimonianza ne ha fatti tornare a casa tre, oltreché aver dato notizia del modo in cui il cartello rapisce e annette forzatamente manodopera da macello.

Nel 2017 nella stessa zona, le montagne di Jalisco, le denunce di scomparsa di giovani da parte delle madri furono più di una decina. Il comun denominatore è la disoccupazione. Tutti gli scomparsi, non a caso, avevano ricevuto un’offerta di lavoro come guardia di sicurezza per 4 mila pesos a settimana. Ma la storia dei desaparecidos dei cartelli risale almeno al 2012 e le famiglie in cerca dei propri ragazzi sono già una sessantina. Giovani di cui si disconosce il destino come i loro 43 coetanei studenti di Ayotzinapa, nello Stato di Guerrero, di cui da 4 anni e mezzo non si hanno notizie.

Morandi, giù la pila 7 Per abbattere la 8 servirà la dinamite

Ha toccato terra alle 18.45 di ieri pomeriggio, dunque all’incirca nei tempi (“almeno 7 ore”) previsti dai tecnici, la seconda trave di quel che resta del ponte Morandi: l’operazione di ieri ha dunque “liberato” la “pila” 7, che ora resta in piedi da sola. Al termine della messa in sicurezza partiranno subito i lavori sulla trave tampone tra le “pile” 5 e la 6, quelle più vicine alla collina. A essere rimossa è stata appunto la “Gerber” (dal nome dell’ingegnere tedesco che ha ideato la tecnica di costruzione) compresa tra la “pila” 6 e la 7, la seconda delle 6 complessive che saranno portate a terra, mentre, in parallelo, inizierà la demolizione delle torri. Intanto, è stata confermata la scelta dell’esplosivo detonante per la demolizione della pila 8 del “moncone” ovest del ponte Morandi.

Ma ieri è stato anche il giorno delle proteste: è molto probabile che i negozianti della zona possano mettere in atto una protesta di piazza per chiedere aiuti concreti: “La pazienza, e anche la capacità di sopravvivenza, stanno per finire” che “per alcuni sono già finite” e che “i commercianti di via Fillak e via Rolando sono molto arrabbiati”.

Svastica contro famiglia di Bakary La madre: “Salvini ora condanni”

Bakary Dandioe la sua famiglia adottiva di Melegnano, in provincia di Milano, per la seconda volta in pochi giorni sono state vittime di intolleranza e razzismo. Dopo le scritte “Pagate per questi negri di m…” apparse nell’androne del loro palazzo – con tanto di freccia a indicare la loro porta di casa – lo scorso 13 febbraio e cancellate sabato 16, lunedì mattina i coniugi Paolo Pozzi e Angela Bedoni ne hanno trovate altre, decorate pure con una svastica (disegnata al rovescio): “Ammazza al negar”. Dove il “negar” sarebbe il loro figlio adottivo, un ragazzo di 22 anni di origine senegalese, in Italia da cinque anni e da due entrato in casa dai Pozzi, che appena lo scorso ottobre avevano ufficializzato l’adozione. Un ragazzo integrato, che studia e con la passione per l’atletica leggera, infatti è tesserato con la società sportiva locale. “Non era mai successo prima, il clima di oggi è un clima diverso, in cui c’è a volte addirittura la caccia allo straniero amplificato anche da politici come Salvini. Perché Salvini è stato eletto, non è che è andato su da solo, ha saputo navigare in mezzo a queste cose.” Ha commentato così la madre di Bakary. Per la donna, educatrice, si è creato un problema che non esiste e “il decreto sicurezza oggi mette in difficoltà molte persone. Dobbiamo costruire ponti, non chiudere i porti”. Il ministro dell’Interno esprime la sua solidarietà ma aggiunge: “Rispetto il dolore di mamma e abbraccio il figlio. E la signora rispetti la richiesta di sicurezza e legalità che arriva dagli Italiani, che io attuo in concreto da ministro”. A condurre le indagini, carabinieri della Compagnia di S. Donato Milanese e della Procura della Repubblica di Lodi. Intanto a Melegnano ci si interroga di dove sia l’autore delle scritte, visto che non sono in un dialetto che non è quello locale.

Muore un neonato di 20 giorni: “È rinite, fategli un aerosol” Ma era polmonite fulminante

Per l’autopsiapotrebbe essere stata una polmonite fulminante dovuta a un virus a uccidere il 2 febbraio scorso un neonato di appena 20 giorni, Giacinto. Ma per maggiori dettagli si dovranno attenderei risultati di ulteriori esami, anche per capire se sono state adeguate le cure prescritte dai medici dopo la prima visita in ospedale. La Procura di Torino ha aperto un fascicolo d’inchiesta per omicidio colposo a carico di ignoti. A fine gennaio il piccolo ha cominciato a stare male: rifiutava il latte, vomitava, tossiva in continuazione e dormiva per molte ore. Così i genitori – un marocchino di 40 anni e la moglie italo-marocchina di 28, con altri due figli di tre e sei anni – lo hanno portato dal pediatra per una visita. Lo specialista “ci ha dato delle gocce e ci ha detto che, se la situazione non fosse migliorata, saremmo dovuti andare in ospedale”. Di fronte a colpi di tosse molto forti e a continui svenimenti, alle 3:30 di notte del primo febbraio i genitori lo hanno portato al pronto soccorso dell’ospedale Maria Vittoria di Torino. La coppia racconta: “Una visita durata non più di un quarto d’ora, poi l’hanno dimesso per una rinite e gli hanno prescritto l’aerosol. Abbiamo cercato la più vicina farmacia di turno, avremmo fatto qualunque cosa per nostro figlio”. La mattina del 2 febbraio i genitori hanno trovato il bimbo privo di sensi, prima di portarlo al pronto soccorso chiamano il 118 e gli operatori provano per un’ora a rianimare il piccolo. Non dando segni di ripresa, il bimbo viene portato al presidio sanitario dove è morto poco dopo. “Continuiamo a guardare le sue foto: è tutto ciò che ci rimane” dichiarano i genitori, nell’attesa di sapere perché il loro neonato di poche settimane è morto e di chi sono le eventuali responsabilità, “vogliamo solo giustizia”. Sui social la zia del piccolo Giacinto ha scritto un post addolorato: “Questa cosa non deve succedere mai più, non deve succedere a nessun bambino”.

Piccoli lupi del ring crescono. La manifestazione neonazi con il patrocinio della Regione

Piccoli pugili crescono, a destra ovviamente, anzi, estrema destra, ancora di più: sponda neonazista. E crescono sotto l’ombrello protettivo da un lato di Lealtà e azione e dall’altro della Regione Lombardia. Il Pirellone governato dal leghista Attilio Fontana patrocina, infatti, la manifestazione del gruppo neofascista Lealtà e azione, volto “pulito” del movimento Hammerskin, network internazionale neonazista nato a metà Anni Ottanta negli Stati Uniti da una costola del Ku Klux Klan. L’iniziativa è organizzata dal gruppo “Wolf of the ring” e si chiama, appunto, “Kids of the ring”. Si svolgerà il prossimo 17 marzo nella palestra Lottatori Milano di Pessano con Bornago. Il logo della Regione sta sul manifesto messo in alto a destra. Mentre l’intero incasso andrà a Bran.co onlus, sempre riconducibile a Lealtà e azione attiva nella distribuzione di pacchi alimentari alle famiglie italiane, lasciando fuori i nuclei stranieri. La denuncia dell’evento patrocinato dalla Regione arriva da Rifondazione comunista. Mentre sul proprio sito il gruppo Wolf of the ring spiega: “Sarà una giornata di beneficenza e sport in favore della tutela dell’infanzia. Stiamo lavorando per organizzare performance Kids con giovanissimi che arrivano dall’Europa per i nostri piccoli fighters italiani”. Non è finita. Solo poche settimane fa la Regione ha messo a bilancio circa 50 mila euro per ricordare nelle scuole il neofascista Sergio Ramelli, ucciso da un gruppo di estrema sinistra il 29 aprile 1975 a Milano. I soldi sono stati stanziati grazie a un emendamento al bilancio di Fratelli d’Italia. Sempre Fdi aveva proposto il finanziamento con una mozione approvata dal consiglio regionale. Insomma, l’estrema destra a Milano ottiene sempre più spazi di manovra anche grazie ai legami con al Lega. Non a caso un consigliere regionale del Carroccio, Max Bastoni, alle ultime elezioni ha ottenuto il supporto di Lealtà e azione. Lo stesso Bastoni che frequenta la curva dell’Inter e dove, circa un anno fa, è stato fotografato assieme a due degli indagati per gli scontri di Inter-Napoli. Entrambi legati a Lealtà e azione.

Il Tesoro salva CasaPound dallo sgombero: “Stabile in buone condizioni, altre priorità”

Lo sgombero dell’immobile occupato da 15 anni da CasaPound a Roma non è una priorità per il governo. A certificarlo è il ministero dell’Economia e delle Finanze con una risposta al Campidoglio che ha gelato la richiesta ufficiale avanzata nelle scorse settimane da Virginia Raggi di avviare le procedure perché il Demanio (ente vigilato dal Mef) rientri in possesso dello stabile. Prima della struttura che ospita il movimento di estrema destra, secondo i tecnici delle Finanze, a Roma ci sono da liberare decine di altri palazzi occupati, che fanno parte di una lista stilata dalla Prefettura, secondo il criterio di pericolosità statica degli edifici. Si tratta di stabili che ospitano parte delle 10 mila persone in emergenza alloggiativa che vivono in città. Il pronunciamento del Mef sottolinea ancora una volta la bolla normativa che circonda l’edificio di via Napoleone III, occupato nel dicembre 2003 e attualmente abitato da circa 20 famiglie, in buona parte riconducibili ai leader del movimento dei “fascisti del Terzo millennio”.

Quando è stato occupato lo stabile era di competenza del Miur ma l’anno successivo il ministero lo ha restituito per cessate esigenze al Demanio, che però non ha mai potuto disporne in quanto occupato. Un rimpallo di competenze che si trascina da 15 anni durante i quali l’organizzazione di estrema desta ha messo radici nel panorama politico italiano.

“A questo punto l’effettuazione dello sgombero dovrà essere valutata dal prefetto di Roma, che non lo ritiene prioritario in forza dei criteri stabiliti ad hoc”, sottolinea via XX settembre. Una soluzione tecnica che, di fatto, allinea il Tesoro sulla posizione del vice premier Matteo Salvini, che nei mesi scorsi aveva ribadito: “Io parto dagli edifici pericolanti”. Dunque niente ‘ruspa’ sugli occupanti in questo caso per il leader della Lega, che negli scorsi anni ha intessuto un dialogo con i leader di CasaPound. Non a caso ieri è tornata a circolare sulla rete una foto del 2015 che ritrae il titolare del Viminale a cena con il vertice del movimento al gran completo.

Delusa la sindaca Raggi, imbrigliata dal ruolo di governo del M5S per poter contestare apertamente la scelta del dicastero guidato da Giovanni Tria. Nell’ottobre scorso la sindaca aveva sottolineato che lo sgombero dell’edificio sarebbe stato “un bel segnale per la città”. Mentre è di poche settimane fa la mozione approvata dell’Assemblea Capitolina, presentata dal Pd e sostenuta dai voti del M5S, che chiede alla sindaca di attivarsi per lo sgombero immediato dello stabile.

In serata la parziale retromarcia del Mef: “Il ministro dell’Economia Giovanni Tria non ha mai scritto nessuna lettera a proposito dello sgombero di Casa Pound pur essendo perfettamente informato dei reiterati passi e dei necessari adempimenti svolti dal direttore dell’Agenzia del Demanio per ottenere dal Prefetto di Roma la disponibilità dell’immobile occupato di Via Napoleone III”. È quanto ha precisato il ministro in una nota.