“Siamo innocenti” “Io, mio padre e mia madre non c’entriamo assolutamente nulla”. Così Marco Mottola, indagato da anni per l’omicidio di Serena Mollicone, insieme al padre e alla madre, parla al Tg1. “Conoscevo Serena, ma non benissimo”, aggiunge. “Abbiamo fatto analizzare le nostre auto ed è stato tutto negativo, non è vero che il Dna trovato su di lei è compatibile col mio e poi chi lo dice che era negli alloggi della caserma”, ha detto Marco per poi ripetere “non c’entriamo nulla”.
È convinto radicalmente dell’innocenza della famiglia Mottola, il loro avvocato Francesco Germani. “È vergognoso che tre cittadini, incensurati e innocenti fino a prova contraria, vivano nella gogna mediatica. Sono stati iscritti nel registro degli indagati a marzo 2011, sono passati otto anni: una persona in nessun paese civile, dopo otto anni, non sa ancora se deve essere processata o se la sua posizione deve essere archiviata. Ci difenderemo con tutte le armi a disposizione sia del diritto penale che del diritto di procedura penale”.
“Mia figlia: fu omicidio di Stato anche peggio di Stefano Cucchi”
Siamo in dirittura d’arrivo. Ho l’animo sollevato, non vedo più ostacoli alla verità”. Guglielmo Mollicone è il padre di Serena, uccisa nel 2001 a soli 19 anni.
La sua ricerca della verità dura da più di 17 anni?
L’ultima perizia consegnata dai carabinieri alla Procura di Cassino conferma che Serena morì dopo essere entrata nella caserma dei Carabinieri.
Lei ha detto: ‘Morta in caserma come Cucchi’.
Con la differenza che Serena era andata lì per denunciare un traffico di droga, e salvaguardare la propria vita e quella degli altri. E invece fu ammazzata. Ma il suo corpo ha parlato.
In che senso?
Non aveva solo i segni del colpo alla testa (compatibile per la famiglia con la lesione riscontrata sulla porta in caserma, ndr), ma anche di calci, pugni. Lei era a terra e hanno infierito: hanno infierito sul corpo di una ragazzina.
Per la nuova perizia è stata riesumata la salma.
Sì. Prima non volevo ‘disturbare’ il corpo di Serena, già martoriato dall’autopsia. Però poi mi sono detto: il suo corpo ha segreti da rivelare. Ora so che ho fatto bene.
Se si guarda indietro, qual è il momento che più l’ha segnata in questi 17 anni?
Il giorno dei funerali di Serena. Fui prelevato in chiesa e portato in caserma. Rimasi lì per oltre tre ore, mi fecero sedere su uno sgabello, lo stesso su cui si era seduta qualche giorno prima Serena. Una violenza inaudita, un atto privo di umanità: tenermi lontano dal feretro della mia bambina.
Ad Arce, 6mila abitanti…
Ho insegnato lì per 40 anni, le persone ci conoscono, conoscevano Serena, suonava il clarinetto nella banda di paese. I ragazzi cadevano per overdose come foglie d’autunno. Dalla scomparsa di mia figlia, questa scia di sangue si è interrotta.
In paese l’hanno sostenuta?
Sempre. Nessuno ha mai creduto al tentativo di farmi passare da colpevole… Ma le bugie e i depistaggi sono stati tanti, enormi.
Cosa l’ha colpita di più?
Penso all’arresto del carrozziere, inizialmente accusato dell’omicidio (Carmine Belli, poi assolto,ndr). Aveva in officina un biglietto scritto da Serena, con l’orario dell’appuntamento con il dentista. Volevano un colpevole, non il vero colpevole.
A chiusura delle indagini, si ridisegnerebbero ora i fatti: sua figlia sarebbe stata uccisa durante una discussione con Marco Mottola, figlio dell’ex maresciallo di Arce, all’interno della caserma dei carabinieri.
Oggi i Mottola sono indagati: marito, moglie e figlio, quel figlio che Serena voleva denunciare per lo spaccio, perché vendeva droga ai suoi amici. Il giovane potrà avere anche avuto uno scatto d’ira, ma la mia bambina poteva essere salvata e, invece, è morta soffocata, dopo aver perso tanto sangue. È morta dopo 4 o 5 ore e, non per il colpo ricevuto, ma per il sacchetto in testa che non le permetteva di respirare. Per me la colpevolezza è anche dei genitori. L’ho sempre detto.
Serena va nella caserma dove lavorava il padre del ragazzo.
Ha 18 anni, i suoi ideali, era abituata a discutere di tutti i problemi, senza timore. È stata dipinta come una ragazza dalla doppia personalità: l’hanno associata perfino alle messe nere, al satanismo, partendo dalla presenza di un 666 sul suo telefono. Lo stesso cellulare che era sparito e che poi ho ritrovato a casa… Pensare che sia stato manomesso è il minimo.
Non potrà mai sapere cosa è accaduto in caserma…
Il carabiniere che aveva registrato il nome di Serena all’ingresso, Santino Tuzi, si è suicidato nel 2008. Un ‘suicidio’ con molti elementi che non tornano. Anche la figlia di Tuzi dovrebbe far riesumare il corpo di suo padre, fu sepolto secondo me troppo in fretta.
È stato un delitto di Stato?
Sì. È accaduto in una caserma, una zona militare. La mia bambina era andata in un luogo dove si deve essere protetti, non uccisi.
Cosa chiede adesso?
Che siano arrestati i colpevoli. Arrestarono il carrozziere, al tempo, con molti meno indizi.
Ha avuto appoggio da parte delle forze dell’ordine?
Sempre. La maggior parte dell’Arma onora la divisa che indossa, non la sfrutta per rimanere impunito.
Quanta forza ci vuole per affrontare tutto questo?
Mia moglie è morta di tumore, poi mia figlia: non ho mai smesso, però, di sentire la loro forza. In questi anni sarei potuto impazzire. Serena era la mia vita, era il futuro: stavamo aspettando che scegliesse tra veterinaria o giornalismo.
Ha mai pensato di mollare?
No. Ma è arrivato il momento della stanchezza fisica. Ho 70 anni, per fortuna non li dimostro (ride). La mia vita è cambiata: ho lasciato la casa in cui abitavo, ho acceso un mutuo per una nuova. Tra quelle mura non avrei trovato il coraggio.
Ora si andrà finalmente a processo.
Non sconfessaranno il lavoro certosino fatto dai Carabinieri e dalla Procura.
Certo, ci sono voluti 18 anni…
Non ho mai capito perché. Forse c’erano coperture, interessi, giochi di potere. Le indagini sono state riaperte per tre volte, nonostante nelle ultime si fosse arrivati alle stesse conclusioni.
Stavolta cosa è cambiato?
La volontà dell’Arma e della Procura di arrivare alla verità.
Lei ha fatto spesso riferimento a un eventuale ruolo della Camorra…
Poco dopo la morte di Serena, venne sequestrata la villa di un boss degli Scissionisti. Arce è a metà strada tra Roma e Napoli: la piazza di spaccio c’era, la droga anche. Ricordo anche che il boss si affacciò alla veglia per la morte di Serena.
Lei crede?
In una entità superiore uguale per tutti che ha creato la perfezione di un mondo basato su causa e conseguenze. Ci credeva anche Serena. E ora credo nella giustizia. Di nuovo.
Migranti, al minimo dal 2012 gli arrivi dal Mediterraneo
Nel 2018 il numero degli arrivi illegali di migranti nella Ue è calato di oltre il 25% rispetto al 2017, fermandosi a quota 150mila. Lo ha spiegato il direttore di Frontex, Fabrice Leggeri. Il calo è l’effetto combinato del crollo di circa l’80% degli arrivi sulla rotta del Mediterraneo Centrale (verso l’Italia), a 23.276, e dell’aumento di quelli nel Mediterraneo Occidentale (+157% via mare, a 55.307) e nel Mediterraneo Orientale (circa 56mila, +32%). La pressione sulla Spagna nel 2018 è decisamente cresciuta e il numero di arrivi è stato il doppio del 2017. Le partenze dal Marocco sono aumentate di cinque volte e la maggior parte dei migranti che ha intrapreso questa via proveniva da Paesi subsahariani. Sulla rotta dei Balcani Occidentali gli attraversamenti sono invece calati a 5.451 (-55%), dall’Albania a 4.327 (-30%). Mentre nel 2018 la rotta del Mediterraneo centrale verso l’Italia ha visto il numero più basso di migranti arrivati dal 2012. Il numero di partenze dalla Libia è diminuito dell’87% rispetto al 2017, e quello dall’Algeria di circa la metà. Con un avvertimento: “L’esodo dalla Siria potrebbe provocare un’ondata migratoria incontrollabile” nell’Unione europea”.
Venezuela, M5S insiste: “Il governo eviti la crisi”
Un appello al premier Conte e a Enzo Moavero per temperare le posizioni della Lega sul Venezuela. Lontani dagli anatemi di Matteo Salvini – che ha definito Nicolas Maduro “un delinquente” e si è schierato dalla parte di Juan Guaidò – i senatori M5S della Commissione Affari Esteri del Senato chiedono che il governo intervenga per evitare l’aggravarsi della crisi politica in Venezuela, “che rischierebbe di scatenare una guerra pericolosissima”. Il riferimento è all’ultimatum di Donald Trump, che secondo i 5 Stelle starebbe nascondendo dietro all’ingresso degli aiuti umanitari la volontà di un intervento militare contro Caracas: “L’ingresso forzato di convogli umanitari Usa, pianificata da Guaidò per sabato e contrastata dal regime di Maduro, rischia di provocare incidenti e dinamiche imprevedibili”. E così i senatori M5S citano persino Federica Mogherini (che ha condannato ogni azione militare) e si rivolgono a Palazzo Chigi e alla Farnesina, mediatori in politica estera rispetto alle animosità leghiste, dicendosi “certi che il governo eviterà un’escalation militare”. Con buona pace degli alleati.
Roma e la melina tedesca: “Arrestate i capi Thyssen”
Sale la tensione tra Italia e Germania. Roma vuole sapere qualcosa di sul ricorso con cui gli avvocati di Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz hanno chiesto alla Corte distrettuale di Essen di non eseguire la sentenza italiana, quella che il 13 maggio 2016 condannava definitivamente l’ex amministratore delegato della ThyssenKrupp Acciai Speciali a 9 anni 8 mesi di carcere e il dirigente a 6 anni e 10 mesi. Erano stati ritenuti responsabili di omicidio colposo plurimo per la morte dei sette operai nel rogo dell’acciaieria di Torino avvenuto il 6 dicembre 2007. L’Italia chiede da quasi tre anni di eseguire la sentenza, la Procura di Essen ha comunicato a Roma di averla richiesta al Tribunale ma intanto si susseguono richieste tedesche di chiarimenti e di nuova documentazione. Una sorta di melina, tanto che il ministero della Giustizia italiano ha inviato lo scorso gennaio l’ennesimo sollecito.
Martedì è andato in onda un servizio delle Iene che hanno intervistato il giudice Johannes Hidding, contitolare del caso al Tribunale di Essen, dove la Thyssen ha la sua sede principale. Il magistrato ha spiegato che i difensori dei due manager hanno chiesto di non procedere perché la sentenza non sarebbe eseguibile in Italia a causa di “imperfezioni del processo”. Così ieri il ministero della Giustizia ha inviato una lettera alla Procura generale di Essen per saperne di più. “Si chiede di voler comunicare a questo ministero eventuali aggiornamenti in merito al procedimento per il riconoscimento ed esecuzione della sentenza della Corte d’assise d’appello di Torino nei confronti dei cittadini tedeschi Gerald Priegnitz e Harald Espenhahn”, è scritto nella lettera. Da Roma vogliono avere una “conferma delle conclusioni, già avanzate dalla Procura di Essen, con le quali si è chiesto il riconoscimento e l’esecuzione della sentenza”.
Nei minuti finali del servizio di martedì il giudice Hidding, definito dalle Iene come uno che “questo caso lo conosce perfettamente”, dichiara al reporter che “l’altro giudice che si sta occupando del caso non è qui”. E spiega che, prima dello scorso Natale, i difensori di uno dei due manager hanno chiesto l’archiviazione sostenendo che la sentenza italiana non può essere eseguita perché, a loro giudizio, il processo celebrato a Torino non avrebbe seguito procedure compatibili con il diritto tedesco. “Le Iene” riferiscono che la Procura tedesca avrebbe accolto la richiesta, ma questa informazione è errata. Il 14 novembre scorso il sottosegretario Guido Guidesi ha confermato alla senatrice Pd Anna Rossomando che a settembre la Procura tedesca aveva chiesto la carcerazione per cinque anni, la pena massima prevista in Germania per l’omicidio colposo.
Il rifiuto di eseguire una sentenza di un Paese membro dell’Ue è possibile solo di fronte a una gravissima violazione del diritto alla difesa: se la persona sotto accusa non fosse a conoscenza del processo, non avesse possibilità di capire cosa gli viene contestato, se fosse contumace o senza un difensore allora potrebbe evitare l’esecuzione del verdetto. Nel caso della ThyssenKrupp non è successo niente di tutto questo e le autorità tedesche hanno ottenuto ampia documentazione. Anzi a Roma si meravigliano che non abbiano inviato le memorie dei difensori dei due manager.
Mentre i due tedeschi sono tuttora liberi di farsi riprendere e inseguire dalle Iene mentre fanno jogging, i manager italiani che si sono consegnati alla giustizia dopo la sentenza della Cassazione hanno scontato parte della pena e ottenuto i benefici di legge. Marco Pucci, condannato a sei anni e tre mesi, ha ottenuto l’affidamento ai servizi sociali e ha lasciato il carcere di Terni. Per Pucci, all’epoca dei fatti responsabile commerciale dell’area marketing e dopo amministratore delegato dell’Ast di Terni, la misura alternativa alla detenzione è stata disposta dal Tribunale di sorveglianza di Spoleto all’inizio dell’autunno. Nel giugno 2017 l’ex manager aveva già ottenuto la possibilità di svolgere un lavoro esterno con obbligo di rientro in cella.
“Incredibile – commenta Rosina Platì, mamma dell’operaio Giuseppe Demasi, morto nel rogo –. Quella della Thyssen doveva essere una sentenza epocale, un monito per tutti gli imprenditori, e invece si è trasformata in una farsa nell’indifferenza generale”. Resta ancora in carcere l’altro manager ternano coinvolto nello stesso processo, Daniele Moroni, condannato a sette anni e sei mesi, ma può lavorare e rientrare in cella alle 22. A Torino invece il Tribunale di Sorveglianza ha negato le misure alternative ai due manager detenuti nel capoluogo piemontese.
La figlia dell’ambasciatore “riportata” da Kim: “Rapita”
Guerra di spie, trame di agenti segreti, diplomatici che scompaiono e una ragazza (forse) rapita. È l’ultima spy story che unisce Roma a Pyongyang, la capitale della Corea del Nord e dell’ultimo dittatore da film, Kim Jong-un. Ora è emersa la notizia che è svanita nel nulla una liceale diciassettenne, figlia dell’ambasciatore nordcoreano a Roma. Suo padre, Jo Song-gil, 48 anni, era scomparso dalla capitale a fine novembre. Tenta di spiegare la doppia sparizione uno che se ne intende, Thae Yong-ho, l’ex numero due dell’ambasciata nordcoreana a Londra che nel 2016 fuggì con moglie e figli e ora vive a Seul, in Corea del Sud: “Le mie fonti hanno confermato che la ragazza è stata costretta a tornare a Pyongyang subito dopo la defezione del padre”, dice Thae.
“Il livello di punizione per i familiari dei disertori varia in Nord Corea a seconda del Paese scelto per la fuga: Sud Corea, Usa o altre nazioni”. Ad agire a Roma sarebbe stata una squadretta di agenti speciali mandata in Italia da Kim Jong-un per rapire la ragazza e avere un modo per ricattarlo. Niente affatto, reagisce a Un giorno da pecora l’ex senatore Antonio Razzi, che si dice grande amico del dittatore nordcoreano: “Macché rapimento. La madre e il papà di questa ragazza sono scappati e hanno lasciato la figlia in ambasciata, perché è disabile. Vista la situazione, i responsabili dell’ambasciata l’hanno accompagnata all’aeroporto per rimandarla dai nonni. Lei era felicissima. A me lo hanno detto i servizi segreti”.
Razzi non deve aver convinto i 5stelle, visto che più d’un esponente di governo del Movimento ha chiesto chiarimenti al ministro dell’Interno “alleato” Matteo Salvini e a quello degli Esteri Enzo Moavero Milanesi. Manlio Di Stefano, cinquestelle e sottosegretario alla Farnesina, ha addirittura evocato il caso Shalabayeva, lo scandalo della moglie di un dissidente kazako che fu arrestata a Roma nel 2013 e rispedita in patria. Moavero in prima battuta assicura: “Stiamo facendo le verifiche necessarie”. La Farnesina fornisce poi una scarna ricostruzione, da cui sembra esser filato tutto liscio come l’olio: il 20 novembre 2018 viene data dai sudcoreani la notizia dell’assunzione delle funzioni di Incaricato d’Affari a Roma da parte del Signor Kim Chon; il 5 dicembre si informa che l’ex Incaricato d’Affari Jo Song Gil e la moglie avevano lasciato l’Ambasciata il 10 novembre e che la figlia, avendo richiesto di rientrare nel suo Paese dai nonni, vi aveva fatto rientro, il 14 novembre 2018.
Apparentemente nessun rilievo alle comunicazioni di Pyongyang. La Nordcorea ovviamente tace. Non una parola sulla fuga di Jo, di fatto il numero uno della sede diplomatica in mancanza dell’ambasciatore, espulso da Roma nel 2017, al culmine della crisi missilistica scatenata da Kim Jong-un. Più loquaci gli 007 di Seul, che hanno diffuso notizie secondo cui, dopo la fuga di Jo Song-gil dall’Italia, al ministero degli Esteri nordcoreano sarebbe partita una purga per punire i funzionari colpevoli di non aver impedito la diserzione. Ma dov’è finito Jo? Aveva cercato di ottenere asilo politico negli Usa, ma aveva decisamente sbagliato i tempi, visto che il presidente Donald Trump ha avviato il dialogo con Kim Jong-un.
Dopo il duro braccio di ferro tra i due in cui sembrava che si fosse alla vigilia di una guerra nucleare, tra il presidente Usa e il dittatore nordcoreano è scoppiato l’amore e i due si sono dati un nuovo appuntamento a Hanoi il 27 e 28 febbraio. Fonti non confermate raccontano che Jo Song-gil sarebbe fuggito in Svizzera o in Francia, ma c’è anche chi ipotizza che potrebbe essere ancora in Italia, sotto la protezione dell’Aise, il servizio segreto italiano per l’estero, in attesa di una sua “collocazione” definitiva. In questo caso, però, perché la figlia diciassettenne sarebbe stata lasciata da sola? Ed è stata costretta al rimpatrio o ha deciso davvero da sola di tornare dai nonni? Come in ogni spy story che si rispetti, queste domande non hanno per ora una risposta certa.
Mercantilismo tedesco, deflazione e altri recenti scoop
Sì, ecco, magari sono un po’ lenti, però tempo qualche lustro e arrivano: “Quel che conta è (…) la miopia che sta diventando evidente nella strategia europea di questi anni. Nella massima sintesi essa è spesso una brutta copia di quella della nazione guida: come la Germania tutti i Paesi dell’euro (va detto, meno la Francia) hanno cercato di creare crescita e lavoro quasi solo tramite l’export, i surplus commerciali e quindi sfruttando la voglia di spendere del resto del mondo. La Cina siamo diventati noi europei. Siamo noi la principale fonte di squilibri al mondo: vendiamo all’estero molto più di quanto compriamo e spesso lo facciamo grazie al lavoro a basso costo… La quota di lavoratori dipendenti in condizioni di povertà è esplosa ben sopra quota 9%”. Trattasi di prestigioso editoriale del Corriere della Sera: a via Solferino, scoperto ieri che la politica ufficiale dell’eurozona è il mercantilismo tedesco con relativa deflazione salariale, immantinente l’hanno fatto sapere ai lettori. Seguirà pezzo in cui si spiega che i singoli governi, specie l’Italia, non possono cambiare politiche se non lo fa prima Berlino o almeno non possono senza finire come nel 2011 (in crisi di bilancia dei pagamenti). Bene, ora prendete le vostre forbici e ritagliate l’articolo del Corsera. Fatto? Bravi. Adesso con la colla spalmate il retro del foglio e appiccicatelo in una zona ben visibile. Fatto? Bravissimi. Ora sedetevi e aspettate il prossimo editoriale sulle riforme strutturali, la manovra correttiva, lo Stato è come una famiglia e ce lo chiede l’Europa.
Mafia, tutti i luoghi comuni sfatati da Umberto Santino
È arrivato fino a Milano, all’Università Statale, Umberto Santino, a presentare il suo ultimo lavoro: La mafia dimenticata (Melampo editore), un volumone che racconta la criminalità organizzata in Sicilia dall’Unità d’Italia ai primi del Novecento e che ha il merito, tra gli altri, di fare cadere molti pregiudizi. Santino è uno degli studiosi più importanti e lucidi delle organizzazioni criminali e, nel contempo, un militante antimafia. A lui si deve la nascita del Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, che con Anna Puglisi ha fatto sorgere nel 1977, quando Impastato non era ancora un’icona della legalità, un eroe dell’antimafia, il protagonista del film I cento passi, l’antagonista di don Tano Badalamenti, ma era quasi per tutti un militante di sinistra che, nelle stesse ore in cui a Roma veniva ritrovato il corpo senza vita del presidente Aldo Moro, era morto a Cinisi mentre metteva dell’esplosivo sui binari della ferrovia.
Umberto Santino fu il primo a indicare Badalamenti e Cosa nostra come mandanti dell’assassinio e a iniziare un più che quarantennale lavoro di documentazione e studio, non sempre riconosciuto dall’antimafia chic di Palermo, Roma o Milano. Ora Milano lo accoglie e lui racconta le sue ricerche e il suo ultimo libro, applaudito dagli studenti di Scienze politiche.
Non fatevi ingannare: La mafia dimenticata non è un libro accademico, storico, freddo. Sarà utile all’accademia, ai ricercatori, agli studenti, ma anche al lettore comune, al cittadino curioso, al giornalista che non vuole restare preda della superficialità e dei luoghi comuni. Il volume dà conto, per esempio, del delitto Notarbartolo e del processo che ne seguì; e mette a disposizione le straordinarie relazioni sulla mafia siciliana vergate a fine Ottocento dal questore di Palermo Ermanno Sangiorgi. Fanno crollare il più micidiale dei luoghi comuni del giornalismo italiano, quello secondo cui ogni cosa scritta è sempre “la prima volta”. La prima volta che si scoprono gli strettissimi legami della mafia che spara con il potere politico ed economico. La prima volta che la mafia tratta con lo Stato. La prima volta che un pentito racconta dall’interno i segreti dell’organizzazione criminale. La prima volta che qualcuno infrange l’omertà. La prima volta che la mafia diventa imprenditrice e monopolista.
La prima volta che un investigatore racconta l’associazione criminale… Sangiorgi l’ha raccontata nei suoi 31 rapporti, 485 pagine manoscritte, già tra il novembre 1898 e il febbraio 1900. Il processo Notarbartolo già nel 1899 rivela il sistema di poteri che intreccia mafia, politica e Banco di Sicilia. Il capo dei capi Francesco Siino già nel 1899 si fa “pentito” e, per non soccombere al boss rivale, rivela a Sangiorgi i segreti delle cosche. Già allora il questore scopre la struttura centralizzata della mafia organizzata in otto mandamenti. Già nell’America del primo Novecento la mafia siciliana diventa monopolista (ben prima dell’eroina), dell’import-export degli agrumi, dell’entertainment e del gioco d’azzardo e poi, negli anni del proibizionismo, degli alcolici.
Santino parlava di “borghesia mafiosa” ben prima che il termine diventasse, negli ultimi anni, di moda. Mostra come il pentitismo non sia un evento eccezionale e recente, ma uno strumento “normale” per regolare i conflitti interni all’organizzazione e non soccombere. Spiega che la mafia non è “industria della protezione”, ma al contrario agenzia di produzione dell’insicurezza. Un sostegno al “No Mafia Memorial”, il memoriale-laboratorio appena aperto da Santino a Palermo, è allora il migliore dei modi per riconoscere i suoi quarant’anni d’impegno e per aiutare noi stessi a capire e a ricordare.
Oltre ai migranti Matteo Salvini sequestra il m5S
Il voto sulla piattaforma Rousseau dello scorso lunedì si sta rivestendo di ulteriori significati, che evidentemente lo stesso Movimento 5 Stelle non aveva previsto. Il valore che Matteo Salvini attribuisce, o finge di attribuire (ma questo ha poca importanza), alla scelta degli attivisti di metterlo in salvo dal processo ha una portata ben più ampia della risposta all’improbabile quesito creato ad arte dal M5S per risparmiare il processo al partner di governo. “Il ritardo dello sbarco della nave Diciotti, per redistribuire i migranti nei vari Paesi europei, è avvenuto per la tutela di un interesse dello Stato?”, domandava la piattaforma Rousseau, mirando a ottenere un sì che volesse dir che no, nessun processo sarebbe toccato al fido (si fa per dire) alleato: e proprio nel valore affermativo di quel ‘sì’ si nasconderebbe l’insidia interpretativa sul senso profondo di questo voto.
Infatti colui che la volontà popolare scelse di salvare sceglie accuratamente le parole con cui ringraziare: ‘Ringrazio ancora il Movimento per la fiducia che mi ha accordato col referendum, anche i loro elettori hanno capito che stiamo governando bene e che andremo avanti a lungo’. Sì, dunque, vuol dire sì a Matteo Salvini, sì alla sua azione di governo, sì alla sua capacità di trainare l’alleato spesso troppo ponderato e riflessivo. Ed ecco che d’improvviso la litania dell’“Andremo avanti cinque anni, sono stanco di ripeterlo, io sono un uomo di parola” assume un significato inedito: da excusatio non petita che corrobora il dubbio di una fine prossima della stagione gialloverde si trasforma in dichiarazione d’intenti. Intenti che appaiono chiari nella gentile offerta di Claudio Borghi agli “amici del M5S, di convergere in quel fortissimo gruppo eurocritico che dopo le Europee si aggregherà attorno alla Lega”, rafforzata dall’iniezione di entusiasmo del Capitano appena scampato al naufragio giudiziario: “Bello, mi piace. Io sono d’accordo. Se loro vogliono venire sono ben accetti. Insieme saremo più forti”. Poco importano le reazioni ritrose di alcuni esponenti pentastellati, seguite dalle smentite ufficiali.
L’esternazione di questa suadente proposta di futuro condiviso combinata con l’esegesi salviniana del referendum, letto come un endorsment pro Capitano, sembra palesare finalmente il vero disegno del leader leghista: inglobare i Cinque Stelle. Ingoiarli, tutti interi, così come sono, come fece la balena con Pinocchio e Geppetto. O più precisamente ingoiare il 59% di Pinocchio e Geppetto, quel 59% che lui ritiene gli abbia già detto ufficiosamente di sì. Gli altri, quelli che restano, se ne vadano pure altrove, come non manca di suggerire loro, con il candore di sempre, la sottosegretaria Castelli “perchè io non me la sentirei di rimanere a lungo in una forza politica dove troppo spesso finisco in minoranza”. Les jeux sont faits, rien ne va plus.
Ed ecco che allora l’ansia di fare i conti con le percentuali dei sondaggi, per vedere a quanto starebbe oggi il centrodestra unito, rischia di perdere completamente di senso: Salvini non ha alcuna intenzione di tornare con Berlusconi, è un’opzione che non prende nemmeno in considerazione; così come non ha affatto in programma di rompere con i Cinque Stelle. Lui, i Cinque Stelle, se li vuole mangiare. E, come la sua intensissima attività social non manca di documentare, il ragazzo è una buona forchetta. Il paradosso è che negando l’autorizzazione a procedere ai giudici, la base pentastellata ha sancito, probabilmente senza nemmeno rendersene conto, che Salvini non ha sequestrato i 177 migranti a cui ha impedito lo sbarco dalla Diciotti, ma ha invece sequestrato un intero gruppo politico, i suoi principi fondativi e la sua autonomia di pensiero. A questo punto, nel caso in cui i Cinque Stelle si trovassero bene nella parte della pietanza, non resta che augurare a Salvini buon appetito.
L’analisi sul Tav difende i vostri soldi
È trascorsa poco più di una settimana dalla pubblicazione della analisi costi-benefici più letta di sempre. Ora in Italia non abbiamo più soltanto 60 milioni di allenatori di calcio, ma altrettanti esperti di analisi costi-benefici.
La prima critica che viene mossa agli estensori del rapporto riguarda tasse e pedaggi. Come potete considerare come “costi” gli effetti diretti di un cambiamento che tutti sanno essere cosa buona e giusta? Non ci avete sempre raccontato che meno camion e più treni è la direzione da seguire? In effetti, moltissimi, quasi tutti, lo hanno sempre fatto. Tra le poche voci fuori dal coro, da più di qualche anno, vi sono gli autori della valutazione sulla Torino-Lione e di altre “Grandi opere”. Che non tifano certo per un’aria più inquinata o perché vi siano più incidenti ma sono convinti che non tutti gli interventi a favore dell’ambiente e della sicurezza siano auspicabili. Se così fosse, si dovrebbe trarre la conclusione che la scelta ottimale per la società sarebbe ridurre al minimo da domani ogni forma di mobilità, non solo quella stradale ma anche quella su ferro che, seppur in misura più limitata, ha impatti negativi. Ma ogni scelta va ponderata guardando, oltre ai benefici, i costi. Se una terapia ha complicanze indesiderate più pesanti dell’effetto curativo, meglio non praticarla. Torniamo alle accise: se un automobilista trasferisce alla collettività tasse per un ammontare superiore al danno arrecato non vi è interesse pubblico a ostacolare con divieti o altre forme di regolazione il suo comportamento né a investire soldi pubblici per indurlo a cambiarlo.
Inoltre, le minori accise o pedaggi incassati da Stati e concessionari hanno un identico corrispettivo, di segno opposto, per coloro che cambiano “modo” di trasporto. Il problema è che questo secondo effetto è nascosto agli occhi dei lettori essendo inglobato nella stima dei benefici per gli utenti. Nascosto ma presente. Un po’ più complesso è il discorso per coloro che oggi vanno a trovare la fidanzata a Lione solo una volta ogni due settimane ma che, una volta realizzato il tunnel di base, si recherebbero Oltralpe ogni fine settimana. I lettori ci perdoneranno se su questo secondo aspetto non sveliamo tutti i dettagli.
E veniamo alla seconda obiezione sollevata. Non avete agito “in nome del popolo italiano”. È così. Ammettiamo senza difficoltà la nostra colpevolezza. Abbiamo considerato, come implicito nella “lettera” dell’analisi costi-benefici e, incidentalmente, in modo aderente allo “spirito” di chi l’ha redatta, tutti i costi e tutti i benefici per gli europei. L’analisi costi-benefici è, per così dire, daltonica. Non riconosce il colore dei soldi. I 50 euro con i quali dovrà contribuire al tunnel l’operaio di Vilnius – città dove non pare si siano registrate nelle scorse settimane oceaniche manifestazioni di madamin e di monsù – valgono tanto quanto quelli del pescatore di Pantelleria.
L’analisi costi-benefici serve, prima di tutto, per dire se i soldi degli (involontari) investitori – ossia tutti i contribuenti europei – siano spesi bene oppure no. Non fa alcuna differenza se vengono male impiegate le tasse di un portoghese o quelle di un polacco. L’analisi costi-benefici non si presta ai giochetti di prestigio trasmessi ancora ieri a reti quasi unificate con il lieto annuncio: “Costi dimezzati per il Tav”. Nessun costo dimezzato, in verità ma, semmai, una riduzione di circa 800 milioni della quota parte a carico dell’Italia e un identico aumento (proprio come per le accise e i pedaggi) per i contribuenti europei tra i quali, giova ricordarlo, vi sono anche quelli tricolori. Questo gioco delle tre carte non cambia di un euro la valutazione del progetto in termini di efficienza. Sette miliardi si perdevano prima e sette miliardi si perdono dopo. L’unica differenza è che la eventuale decisione di scaricare sui contribuenti europei una quota maggiore del costo renderebbe la scelta ancor più iniqua sotto il profilo distributivo. Dal “privatizzare i profitti e socializzare le perdite” al “nazionalizzare i benefici ed europeizzare i costi”.
Un classico della spesa pubblica facile: ripartire gli oneri sul numero più grande possibile di persone (che avranno un piccolissimo interesse a opporsi alla decisione) e concentrare i benefici su pochi fortunati che avranno ottime ragioni per alzare la voce in difesa dei propri interessi. Nulla di nuovo sotto il sole. Tutto previsto già nel lontano 1886 da Vilfredo Pareto: “In queste circostanze, l’esito è fuori di dubbio: gli sfruttatori avranno una vittoria schiacciante”. L’analisi costi-benefici si siede, per così dire, dalla parte degli sfruttati.
* membro della commissione di esperti al ministero dei Trasporti che ha valutato il Tav Torino-Lione