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Anpal, tutta l’esperienza di noi precari

Sono un operatore precario di Anpal Servizi e vorrei replicare alla lettera a firma Mario De Florio. Il signore in questione, definendoci “miracolati del clientelismo politico” evidentemente ignora che tutti noi (e ribadisco tutti) siamo stati assunti dopo aver sostenuto cicliche prove di selezione a evidenza pubblica (dopo ogni scadenza di contratto), con prove scritte e colloqui orali. Il sottoscritto, ad esempio, in 6 anni di carriera in Italia Lavoro poi Anpal Servizi, ha sostenuto cinque selezioni.

Invito quindi il sig. De Florio a documentarsi prima di screditare dei lavoratori precari che quotidianamente cercano di offrire un servizio ai cittadini e alle istituzioni.

Entro quindi nella seconda accusa che il buon De Florio ci muove: non avremmo esperienza, nè competenze. Bene, può comodamente accedere al Curriculum Vitae di ciascuno dei 654 precari di Anpal Servizi per verificarne le competenze e muovere accuse circostanziate. Chiudo con una domanda: siamo così certi che il mancato funzionamento dei Centri per l’Impiego siano imputabili a 654 precari di Anpal Servizi?

Giovanni Fraticelli

 

Il franco coloniale strangola l’Africa nera da 50 anni

Voglio dirvi che un intellettuale africano francofono (Africa nera) ha applaudito Di Maio quando ha detto che i paesi africani francofoni sono strangolati dal franco coloniale.

Lo sono da ben 50 anni e ha aggiunto che non si può denunciare questa situazione perché si finisce in prigione (a opera dei soldati francesi) o si viene uccisi. Infine ha detto che i professionisti che hanno acquisito esperienza all’estero si offrono ai rispettivi governi per aiutarli gratuitamente a risolvere qualche problema ma sono sempre ignorati.

M. Gabriella Sborchia

 

Prima della Francia possono provare a collegare il Sud

Sono con voi sui dubbi di fattibilità del Tav. Vorrei sottolineare il fatto che in un Paese in cui la manutenzione di strade, ferrovie e ponti è un optional mi pare alquanto inopportuno spendere soldi per un’opera assurda, anche perché un collegamento con il nord esiste già ma purtroppo non esiste un collegamento decente con il sud.

Forse allora sarebbe il caso di ripensare alle priorità e magari investire in manutenzioni serie ed efficienti.

Rosanna Fiorelli

 

B. continua a considerare l’Italia un’azienda

Visto che ha definito ignoranti i 5 Stelle e fuori di testa chi li ha votati, vorrei dire a Berlusconi che solo una persona ignorante può paragonare l’Italia a un’azienda. Lo Stato non può e non deve essere organizzato come un’impresa.

La Repubblica italiana si fonda su un’organizzazione orizzontale dove non ci sono vertici, ma persone che si assumono responsabilità e dove è il semplice cittadino ad avere la sovranità.

Le aziende invece sono organizzazioni verticali dove i vertici impongono la loro volontà attraverso il rapporto gerarchico sui subalterni. Infine lo Stato italiano non persegue il profitto, ma la coesione sociale. Quindi l’ignorante e fuori di testa è lui.

Giuseppe Ostellari

 

Aperture domenicali sì, ma nel rispetto dei lavoratori

Sono sempre stato dell’idea che la concorrenza sia l’anima del commercio (tant’è che è difesa dall’antitrust) e quindi istintivamente mi verrebbe da dire che è giusto che le chiusure vengano decise dal libero mercato, e in teoria un negozio o altro esercizio dovrebbe poter stare aperto o chiuso quanto vuole.

All’interno di esercizi che fanno aperture domenicali però c’è spesso un elevato turnover del personale, e per lunghi periodi alcuni turni sono scoperti e il personale restante deve supplire con straordinari al posto vacante. Con notevole peggioramento della loro qualità della vita. Quindi dal mio punto di vista il numero di domeniche in cui si concede l’apertura dovrebbe essere il più possibile basso.

Valeria Gritti

 

La tecnologia rischia di far morire la formazione

Vi sono sempre più licei scientifici che si stanno adoperando per prevedere di fianco al loro percorso tradizionale quello delle scienze applicate; un liceo in cui le ore di storia e di filosofia sono ridotte e lo studio del latino è completamente rimosso. Più un istituto tecnico dunque che, a mio avviso, in una prospettiva di lunga data andrà sempre di più ad erodere le iscrizioni del liceo scientifico. Fino a sostituirlo completamente. Cosa infatti sta succedendo a un più complessivo livello del sapere umano se non il fatto che la tecnologia si sta sostituendo in maniera sempre più esponenziale alla scienza? Che il risvolto tecnico-applicativo lascia sempre meno spazio a quello speculativo? Che gli eroi dei numeri arabi, nell’immaginario collettivo, siano sempre di più Steve Jobs e Bill Gates piuttosto che Isaac Newon e Albert Einstein? Ne risente dunque, di questo spirito del tempo, innanzitutto la formazione. La matematica diventerà sempre più un semplice alfabeto della tecnica piuttosto che il linguaggio con cui l’uomo possa imparare a pensare.

Giuseppe Cappello

No, però avrà meno chance del 2016: non è più novità

Caro Direttore, sono un po’ stupito e altrettanto dubbioso rispetto alla notizia di Bernie Sanders candidato alle prossime Presidenziali negli Stati Uniti: la sua parabola precedente mi ha colpito ed entusiasmato, ma credevo fosse una miccia, una traccia per altri più giovani di lui. Per carità, l’età non può essere una limitazione soggettiva (e in Italia lo sappiamo molto bene), ma gli 80 anni temo diventino oggettivi per quello che poi diventa il politico più importante del mondo.

Gentile lettore, mi permetta una battuta a mo’ di constatazione: se l’età non s’è rivelata – purtroppo – un ostacolo insormontabile per un populista conservatore (e spocchioso) come Donald Trump, che è stato eletto a 70 anni compiuti, divenendo il più anziano presidente a entrare per la prima volta alla Casa Bianca (Donald Reagan nel 1984 di anni ne aveva 73, ma era al secondo mandato), perché lo dovrebbe essere per un populista di sinistra (e dall’ottimismo contagioso) come Bernie Sanders?

Certo, il Nonno batterebbe il record appena stabilito da Trump di una decina di anni, ‘esordendo’ alla Casa Bianca a quasi 80 anni. E dieci anni in più d’un colpo non sono pochi, nonostante l’invecchiamento globale del nostro pianeta (e specialmente dell’Occidente).

Però, un po’ temo e un po’ penso che siano chiacchiere. Perché Nonno Bernie ha quest’anno meno chance che nel 2016: Trump non c’entra, è il campo democratico che è profondamente diverso. Nel 2016, lui, nonostante l’età e la lunghissima militanza parlamentare, oltre un quarto di secolo, era il nuovo che avanza, rispetto all’establishment di partito e istituzionale rappresentato da Hillary Rodham Clinton.

Quest’anno, anzi il prossimo, perché le primarie cominceranno solo a fine gennaio 2020, Sanders è un cavallo di ritorno, meno usurato di Joe Biden, ma più logoro, ad esempio, di Elizabeth Warren. E nella pattuglia dei quarantenni e cinquantenni aspiranti alla ‘nomination’ democratica è possibile che emerga almeno un cavallo di razza, magari un ‘sanderista’ della campagna 2016, cui il Nonno possa passare le consegne della sua ‘rivoluzione politica’, sentendosi vincitore e non sconfitto.

Una secessione lunga 25 anni

No rinunciar ai vostri soldi, no ste’ rinunciare alla vostra terra”. Nel comizio indipendentista rappresentato in Piccola patria (di Alessandro Rossetto, 2014), il film che meglio ha saputo cogliere lo spirito e le contraddizioni del Nord-est di oggi, queste parole convincono e motivano una platea apparentemente dimessa e inoffensiva: enunciano quell’identificazione tra terra e denari che una propaganda incessante martella da oltre un quarto di secolo. Merita insistere sul caso veneto perché è da qui che trae origine l’“autonomia differenziata”, punta somma di un consapevole disegno portato avanti negli anni da uno schieramento politico e intellettuale, capeggiato da accademici patavini come il ciellino Luca Antonini, ora premiato dal Parlamento con un seggio alla Consulta, o come Mario Bertolissi, già vice di Giovanni Bazoli nel Consiglio di sorveglianza di Banca Intesa e ora capo negoziatore nelle trattative tra il Veneto e lo Stato. Dopo i precedenti tentativi di varare leggi regionali autonomiste, falliti dinanzi alla Corte costituzionale, i “professori”, che Zaia non perde occasione per ringraziare, si sentono vicini alla meta.

Mentre la “sinistra”, quella dei leader da Veltroni a Renzi e quella degli intellettuali da Massimo Cacciari a Nicola Pellicani, faceva convegni sul federalismo alla Cattaneo, il vero obiettivo di quel disegno era il “residuo fiscale”, il surplus del gettito da trattenere in casa, un bottino imprecisato (prima 21 miliardi, poi 17, ora vedremo quanti) da destinare non già agli enti locali di prossimità (Comuni e Città metropolitane, meno controllabili e di fatto mortificati) bensì alla Regione, lesta a redistribuirli per il bene dei suoi cittadini. Al referendum lombardo-veneto del 22 ottobre 2017 il sottotesto del quesito era “volete 21 miliardi in più sul vostro territorio?”, e l’adesione entusiasta dell’intero arco politico e sociale della Regione (dal Pd al Movimento 5 Stelle, dalla Cgil a Confindustria a Coldiretti: perfino nella sinistra radicale dissentirono solo voci isolate) portò Zaia a superare con ampio margine il quorum del 50%. Chi oggi si lamenta dovrebbe ripensare a cosa diceva e cosa votava mentre veniva perseguito e legittimato il progetto autonomista.

Quando l’istruzione, per esempio, diventerà competenza interamente Regionale, sarà più agevole imporre le leggi votate dal Consiglio negli anni passati (e per lo più stoppate a Roma), come la soglia di 15 anni di residenza in Regione per accedere ai concorsi o agli asili nido, o come il “bonus libri” condizionato, per gli immigrati, alle certificazioni dei Paesi di nascita. Troverà forza di legge quel malcelato senso di fastidio per i docenti meridionali che vengono al Nord, acchiappano una cattedra e poi fanno i comodi loro creando scompiglio nelle classi (una situazione che la Buona Scuola renziana ha fatto esplodere); sdoganata ormai la rabbia verso i migranti, troverà un porto quel senso di superiorità sui terroni scansafatiche e parolai che riproduce in sedicesimo la stessa dinamica di spocchia e di esclusione che il Paese subisce a livello europeo. Del resto, ci illustra il capo-negoziatore Bertolissi riprendendo Giuseppe De Rita, “i meridionali sono portatori di una cultura giuridica che prevede il primato della forma sul contenuto” mentre al Nord è tutto concretezza, poche parole e solidità.

Quasi dieci anni fa la Regione finanziò un corso di Dialettologia presso l’Università Ca’ Foscari, strombazzato come la resurrezione della “lingua veneta”. Una lingua da insegnare anche a scuola con la legge regionale 28/2016 (poi annullata dalla Consulta) che recitava: “Al popolo veneto spettano i diritti di cui alla Convenzione europea per la protezione delle minoranze nazionali”: altro che il catalano. A ragazzi sempre più a disagio con l’italiano (per non dire dell’inglese) si forniranno appositi laboratori di scrittura, incuranti degli effetti grotteschi denunciati da un veneto doc come Goffredo Parise, per il quale il veneto esisteva come lingua parlata, “come pura fonìa e gioco verbale… invece ottusa e perfino stupida quando si pretende di scriverla”.

L’operazione “dialettologia all’università” fu intesa allora da molti benpensanti come l’opportunità di intercettare finanziamenti da usare poi per altri scopi, cavalcando il folklore dei “barbari” autonomisti. Furono in pochi a notare, allora, l’avvio di un processo di colonizzazione dell’accademia che avrebbe portato ad atenei regionalizzati. Ecco così le iniziative come quella del 10 settembre 2018 presso l’Università di Padova, in cui senza contraddittorio né dibattito il ministro agli Affari regionali Erika Stefani, Zaia e Bertolissi illustrano trionfanti la bozza sull’autonomia differenziata da portare al Consiglio dei ministri (“più soldi al Veneto”), per il giubilo dei presenti, del Rettore e della città tutta (sola dissentì la voce del costituzionalista Maurizio Malo, che oggi in un denso scritto su Libertà e giustizia fa la storia delle spinte autonomiste). Mentre qualche magnifico rettore borbotta contro l’inefficienza del ministro dell’Istruzione Bussetti, per il 2019 la distribuzione del Fondo Ordinario per l’Università – acuendo le norme dei governi precedenti – porta agli Atenei del Nord una marea di posti che non sanno come assegnare, mentre Palermo e Messina, per dire, vivacchiano a rischio chiusura.

“Lasciateci fare quello che sappiamo fare, perché noi siamo virtuosi”: che detto da Galan, da Chisso e dalla cricca del Mose, dagli oculati gestori di Popolare Vicenza e di Veneto Banca, farebbe anche un po’ ridere. Certo, gli ospedali di Padova, Treviso, Verona sono tra le migliori strutture pubbliche del Paese; ma cosa accade nei presidi sanitari del Polesine, del Lido di Venezia o delle zone montane? E come mai nel giro di pochi mesi si è diffuso il panico prima per un’epidemia del virus West Nile, e poi per la cupa storia del batterio Chimaera, che non fa dormire centinaia di pazienti operati a cuore aperto negli ospedali del Veneto? In fretta, in fretta: dateci più soldi, assumeremo di più e costruiremo di più (e alle brutte andremo nelle cliniche private, nelle scuole private, come già fa chi può permetterselo). E costruiremo tanto e bene, perché la terra è i soldi, non il territorio strangolato dal progresso scorsoio, non la piccola patria violentata dagli ipermercati e dai centri commerciali, dalla cementificazione delle gronde, dalle mastodontiche paratoie del Mose, dai pesticidi nella lucrosa monocoltura del Prosecco, dai rifiuti tossici intombati nel sottosuolo, dai costosissimi cantieri dell’inutile Pedemontana. Dateci mano libera, questa è la terra del fare: basta con le Valutazioni di impatto ambientale e i Tar, ora faremo da noi. E gliela faremo vedere, all’incauta cittadina dolomitica di Sappada, che un anno fa è passata al Friuli fiduciosa nei fondi dello statuto speciale: rimpiangerà ben presto il tradimento, e non la imiteranno Cortina, fresca di Olimpiadi, né i Comuni dell’altopiano di Asiago (dove morirono italiani d’ogni regione, ma tanto, troppo tempo fa).

Giovane detenuto muore in cella: era arrivato da poche ore

Un ragazzo di 22 anni, italiano, detenuto nel carcere di Marassi a Genova, è stato trovato morto ieri mattina in cella. Lo rende noto il sindacato di polizia penitenziaria Sappe. Secondo la ricostruzione, il giovane – che era arrivato in carcere solo poche ore prima nel pomeriggio di martedì – ieri è stato trovato senza vita nel suo letto.

“È l’ennesima tragedia nel carcere di Marassi – sottolinea Michele Lorenzo, segretario ligure del Sappe – Oltre al dolore per l’ennesima giovane vita stroncata dietro le sbarre questa morte getta inquietanti interrogativi sul come sia possibile che un ragazzo così giovane possa morire poche ore dopo l’ingresso in una struttura pubblica come il carcere. Alla Procura il compito di fare luce su queste misteriose morti mentre l’Amministrazione penitenziaria assiste impassibile ed inerme collezionando l’ennesima sconfitta”. Il sindacato denuncia ancora l’allarme personale: “La polizia penitenziaria in Liguria è carente di 300 unità e in un carcere come Marassi, con 750 detenuti su 548 posti, è impossibile da continuare a gestire la situazione”.

Gli onorevoli pellegrini dell’Arca di Noè

Il cambiamento va bene, ma la tradizione è tradizione. E pare resistere a qualunque cosa. E così anche quest’anno, nonostante l’aria che tira, i parlamentari italiani andranno in pellegrinaggio: entro domani si saprà quanti tra deputati e senatori avranno risposto all’invito di Maurizio Lupi che da anni organizza con il Cappellano di Montecitorio un viaggio nei luoghi più sacri per il Cristianesimo. Stavolta la meta scelta è l’Armenia, ma negli anni le tappe sono state le più varie: da Lourdes a San Pietroburgo. E poi Fatima, la Siria e la Giordania, Santiago di Compostela, il Monte Athos, la Turchia sulle orme dell’apostolo Paolo, ma pure Londra sui luoghi della vita e del martirio di Tommaso Moro. Sempre un successone. Ma è rimasto negli annali il pellegrinaggio del 2011 in Terra Santa quando a causa dell’enorme numero di adesioni scoppiò la polemica: il Codacons si mobilitò contro il rischio che i lavori della Camera dovessero essere rinviati proprio per le assenze in aula. Tirando in ballo addirittura il Papa perché si opponesse al viaggio degli onorevoli pellegrini. Stavolta il calendario di Montecitorio e di Palazzo Madama, comunque, non dovrebbe risentirne più di tanto: la partenza è prevista per il 4 aprile, un giovedì. Con rientro il 9 mattina, di martedì. “Abbiamo scelto la nazione caucasica sia per il fascino di un territorio molto suggestivo, sia per le note vicissitudini che hanno martoriato questo popolo: diaspora, persecuzioni, guerre. Ma innanzitutto perché nella storia è stata la prima nazione che nel 301 ha adottato il cristianesimo come religione capace di realizzare l’unità del proprio popolo”, scrivono Lupi insieme alla senatrice Binetti e a una serie di altri parlamentari promotori, tra cui il tesoriere della Lega Giulio Centemero.

Che hanno fatto recapitare una lettera a tutti i colleghi dei due rami del Parlamento che, in viaggio, potranno portare anche le famiglie. Volo, trasporti, guide, ingressi, assicurazione, pranzi e cene e persino una bottiglia d’acqua fanno un quota pro capite di 1.190 euro. Sempre che si alloggi in camera doppia: diventano 1.450 per una singola al Grand Hotel nel cuore del centro storico della città che, come recita il depliant sul web “racchiude in sé l’essenza del lusso discreto e dell’antica storia della cultura armena”.

Il pellegrinaggio sarà anche occasione per socializzare. Che non è poco, data la litigiosità che riserva la cronaca politica. Tentar non nuoce, come sa bene Monsignor Ruzza che da Cappellano della Camera probabilmente ne ha viste e soprattutto ne ha sentite tante. Certo mai quante Rino Fisichella, storico confessore ma anche un po’ coach della politica italiana, che prima di lui ha avuto quel ruolo. “Con alcuni di voi abbiamo condiviso l’idea di continuare nella bella tradizione dei pellegrinaggi. Mi sembra un’occasione importantissima per una crescita nella fede e – ritengo – per la conoscenza reciproca” scrive Ruzza ai parlamentari. E chissà che tra un monastero con vista sul biblico monte Ararat, una gita in altissima quota e una visita al Memoriale dell’eccidio armeno, gli animi non si plachino. Almeno fino al rientro a Roma.

Il Csm ha deciso: De Simone nuovo aggiunto alla Dna

Via dalla Dna il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli. Ieri, il plenum del Csm, a maggioranza, ha deciso di ottemperare alla sentenza del Consiglio di Stato, che per ben due volte ha dato ragione a Maria Vittoria De Simone, pm della stessa Direzione nazionale antimafia, che aveva fatto ricorso. Ora sarà lei uno dei vice di Federico Cafiero de Raho. L’hanno votata in 14: i togati di Unicost e di Magistratura Indipendente, i laici di Lega, Gigliotti di M5S e Cerabona di FI. Gli altri laici, Filippo Donati e Alberto Maria Benedetti, M5S, hanno votato per Romanelli così come i quattro togati di Area e i due di Autonomia e Indipendenza. Astenuti Alessio Lanzi (FI) e il presidente della Cassazione Giovanni Mammone. Per il presidente della quinta commissione Gianluigi Morlini “il doveroso rispetto del giudicato” del Consiglio di Stato “impone la nomina di De Simone”. Non in questo caso, per il relatore di minoranza Piercamillo Davigo: “Il Cds è stato tratto in inganno dalle precedenti delibere del Csm perché” in realtà la normativa dice “che devono essere comparate sia le esperienze antimafia sia quelle antiterrorismo e Romanelli è l’unico che le ha entrambe”.

Zingaretti & C. rifiutano il “complotto”, ma tutti sono “vicini” a Matteo

“Non ho mai creduto nella mia vita alla teoria del complotto della magistratura e non cambio opinione. Così, però, come sono sempre stato garantista”. Nicola Zingaretti, martedì sera, nello studio di Giovanni Floris è visibilmente in difficoltà. Tra 10 giorni ci sono le primarie, sta battendo l’Italia in lungo e in largo per cercare di dare un’immagine di Pd nuovo e diverso, ed è largamente in vantaggio in tutti i sondaggi.

Ma ancora una volta Matteo Renzi si è impossessato del dibattito, l’ha polarizzato intorno alla sua persona. Dopo i domiciliari ai suoi genitori, c’è un Pd (il suo) che evoca colpi di stato, giustizia a orologeria, complotti. Che arriva a minacciare la manifestazione dei parlamentari dell’allora Pdl davanti al Tribunale di Milano per Silvio Berlusconi. Una sorta di trasformazione finale in un partito contro la magistratura. E così i candidati, a partire dal favorito Zingaretti, temono un effetto devastante sull’affluenza alle primarie del 3 marzo, un congresso depotenziato, un segretario a metà.

Il governatore del Lazio prova a essere chiaro, anche se la sua voglia di essere ecumenico e unitario gli fa perdere incisività, non tanto nelle parole, quanto nell’assenza di una presa di posizione netta, di una condanna di un atteggiamento. In questo contesto, non mancano neanche le parole di solidarietà per Renzi: “Rispetto al rischio di una lapidazione politica e mediatica vanno dette delle cose con molta chiarezza: Matteo Renzi non c’entra nulla con questa inchiesta e non ha nessuna accusa. C’è un’accusa nei confronti dei suoi familiari e l’accusa in questo Paese, fino a prova contraria, non è una condanna”.

È l’ennesimo momento difficile per un partito che stenta a trovare una sua direzione e soprattutto una sua radicalità. Le parole le pesano tutti con molta circospezione. A partire da Andrea Orlando (schierato con Zingaretti), che da ex ministro della Giustizia, fa una considerazione apparentemente controcorrente: “Le sentenze e le decisioni dei pm si contestano. Fa parte dello Stato di diritto”. Dunque, i Renzi boys hanno ragione? Niente affatto. Perché “evocare il complotto delegittima il sistema”.

Tutti cercano un equilibrio in una situazione che ormai di equilibrato ha poco. In attesa di vedere cosa deciderà il gip, come finirà il processo. Esporsi può essere pericoloso. E dunque neanche il Guardasigilli vuole “pompare” più di tanto il suo ragionamento articolato. Anche Gianni Cuperlo (con Zingaretti pure lui) mantiene i toni bassi.

Eppure ha le idee chiare. E così ci tiene tantissimo a esprimere “piena vicinanza umana a Renzi”: “Capisco il dolore e il turbamento di questi giorni”. E sugli attacchi alla magistratura: “Si è garantisti sempre, non a giorni alterni”. Però: “Credo anche che si debba lasciare la teoria dei complotti, ai professionisti della materia che non stanno dove stiamo noi”. Parole che suonano ben diverse da quelle di Matteo Orfini, che all’Huffington post parla di “arresti allucinanti” e “magistrati che vanno difesi anche da loro stessi” a proposito dell’Anm che definisce “inammissibile parlare di giustizia a orologeria”. Non poco da parte di uno che è tuttora il presidente del Pd. Francesco Boccia commenta, con una mezza battuta: “C’è sempre un giudice a cui spetta la decisione”. E poi sibillino: “Il 3 marzo ci sono le primarie”. Come dire: cambierà tutto. Sarà davvero così? Graziano Delrio, capogruppo dei deputati dem, non commenta, non affonda. Ormai minoritario nella mozione Martina e da molti considerato vicino a Zingaretti, ha tra i suoi compiti quello di gestire un gruppo parlamentare frastagliato. Fu Renzi a fare le liste per il 4 marzo 2018. E per questo molti nel Pd hanno letto la frase di Zingaretti che parla di urne (“elezioni nel caso di crisi di governo”, ha detto) come una sua precisa volontà: perché come fa un segretario a governare un partito se poi non controlla deputati e senatori?

In linea con il fatto che una parte del partito si berlusconizza, ci sono le voci che si rincorrono. E parlano di una maggioranza di centrodestra appoggiata da un gruppo di Cinque Stelle fuoriusciti e da un gruppo formato da renziani, con lo specifico intento di fare da gamba centrista. Niente di nuovo come rumors. D’altra parte, il libro dell’ex premier si chiama Un’altra strada. Ma c’è un elemento in più. Renzi va dicendo a tutti che lui e Matteo Salvini si sentono spesso. In casa Lega non confermano. Ma neanche smentiscono.

Silvio Berlusconi, ieri sera a Otto e mezzo, chiude il cerchio: “Salvini e Renzi si sono dichiarati vittime della giustizia, ma in confronto a me sono dei dilettanti”. Poi annuncia di aver chiamato Renzi: “Ha preso atto della mia vicinanza umana”.

I magistrati contro il Pd: “Attacchi inaccettabili”

Per le accuse di complotto ai magistrati di Napoli che hanno indagato su Consip era rimasta in silenzio ma ieri, invece, l’Associazione nazionale magistrati è intervenuta con un comunicato durissimo contro Matteo Renzi e chi, come lui, ha accusato le toghe fiorentine di aver messo agli arresti domiciliari i genitori dell’ex premier per colpire lui. E pure per oscurare il criticato voto online dei M5S sull’autorizzazione a procedere per Salvini.

“Riteniamo sia inammissibile – ha scritto l’Anm – parlare di ‘giustizia a orologeria’: l’azione della magistratura non si arresta mai e non è mai rivolta a una contingenza politica o a favorire o danneggiare una parte politica. Non è accettabile parlare di interventi orientati, mediaticamente pilotati o con finalità politiche”. Proprio Matteo Renzi lunedì sera, quando si è saputo dei domiciliari per i genitori, aveva evocato il complotto giudiziario a orologeria di berlusconiana e pure salviniana memoria: “Se io non avessi fatto politica – aveva detto – la mia famiglia non sarebbe stata sommersa dal fango, i miei oggi sarebbero tranquillamente in pensione. Arriveranno le sentenze e vedremo se questi due cittadini settantenni incensurati sono davvero i pericolosi criminali che meritano, oggi, casualmente proprio oggi, questo provvedimento”.

In realtà, gli risponde a distanza l’Anm, “i provvedimenti della magistratura hanno sempre un unico obiettivo, la tutela dei diritti dei cittadini, senza distinzioni. Non possiamo dire che le decisioni sono giuste quando trovano il nostro gradimento o che sono politiche quando non ci piacciono, i magistrati applicano rigorosamente le leggi dello Stato”. E l’Anm fa un parallelo con i tempi berlusconiani: “È giusto fare chiarezza su questo perché vogliamo evitare dannosi tuffi in un passato che non vogliamo più rivivere e interrompere un refrain che rende un cattivo servizio ai cittadini”.

Contro la reazione scomposta di Matteo Renzi hanno preso posizione anche i quattro consiglieri del Csm che fanno parte di Area, la corrente progressista accusata, a torto o a ragione, da diversi magistrati di base, di essere stata filogovernativa proprio quando Renzi era premier: “Siamo convinti – scrivono i consiglieri Cascini, Dal Moro, Suriano e Zaccaro –, che i provvedimenti giudiziari possano e debbano essere anche criticati. Non è accettabile però che, come spesso capita, vengano strumentalizzati nel dibattito politico. Per questo siamo preoccupati per taluni commenti che suggeriscono come i domiciliari siano stati un capolavoro mediatico (Matteo Renzi, ndr) o siano dovuti all’impegno politico del figlio. Spesso – concludono i consiglieri –, la magistratura è stata accusata di interferire nel dibattito politico, per prevenire questo rischio converrebbe evitare che le vicende giudiziarie vengano colorate di finalità politica”.

Il babbo su Facebook: “I giornali scrivono un sacco di balle”

Sfogo su facebook di Tiziano Renzi a due giorni dagli arresti domiciliari insieme alla moglie Laura. Dopo aver ringraziato tutte le persone che gli sono vicino, dice di non augurare a nessuno, “nemmeno al mio peggiore nemico, di vivere mai ciò che la Lalla e io stiamo vivendo. Tuttavia ci prepariamo a una lunga vicenda giudiziaria consapevoli di un fatto: la verità prima o poi verrà fuori”. E attacca: “Voglio che sia chiara una cosa, i giornali sono pieni solo delle ricostruzioni dell’accusa. Io affermo qui (e purtroppo per il momento posso solo qui) che queste ricostruzioni sono false. Come erano false le vicende del passato dalle quali siamo sempre usciti assolti. A tutti chiedo solo una cosa: aspettate i processi. Aspettate e vedremo chi ha ragione”. In conclusione, si paragona a un perseguitato: “Il massacro mediatico di questi giorni è incredibile. Ed è un incubo non potersi difendere. Vorrei urlare il mio sdegno e invece sono chiuso in casa come un criminale. Posso solo dire questo: aspettate il processo. E vedrete. Qualcuno – prosegue Tiziano Renzi – vuole fare il processo sui media. Io affronterò il processo nelle aule dei tribunali. Affronterò il processo da cittadino massacrato preventivamente sui media ma da cittadino incensurato che rivendica con forza la propria innocenza. Non abbiamo fatto mai fatture false, non siamo amministratori di fatto, non abbiamo mai fatto bancarotta, non abbiamo lavoratori in nero. Noi non stiamo scappando: chiediamo solo di essere giudicati. Quando arriveremo a sentenza, vedremo quali titoloni ci saranno sui giornali. L’avviso di garanzia apre i giornali per settimane, la notizia di archiviazione va nei trafiletti: ci sono già passato più volte”. Tiziano Renzi promette che questo è l’unico messaggio via social, fino a quando sarà ai domiciliari. Lo ha potuto scrivere perché nel provvedimento il gip non ha posto altre restrizioni e neppure per la moglie Laura Bovoli perché, spiega il giudice, non le avevano chieste i pm, condizione per imporle, come ha stabilito la Cassazione. Invece, per Mariano Massone, loro coindagato, c’è il divieto di comunicare “con persone diverse dai familiari”.

“Sì, ho comprato io quella loro società, me ne hanno parlato alcuni conoscenti”

Incrocio le dita. Non sono proprio sereno.

Massimiliano Di Palma (51 anni, genovese) risulta che lei abbia appena acquistato la cooperativa Marmodiv. Quando l’ha vista citata nell’inchiesta di Firenze sui Renzi ha avuto un brivido?

Sospendo ogni giudizio.

I pm parlano di un rosario di cooperative imbottite di debiti e poi fallite. Perché lei ha comprato la Marmodiv (che risulta in liquidazione)?

Non so… opero nello stesso settore… la pubblicità, la distribuzione dei giornali. Me ne hanno parlato persone che conoscevo.

I Renzi? Lei conosce Tiziano e Laura Bovoli?

Tiziano sì, l’ho conosciuto in questa occasione. Sua moglie l’ho vista una volta. Matteo mai.

Ricorda il processo genovese per il fallimento della Chil? Una vicenda simile. Mariano Massone, arrestato oggi con Renzi sr, ha patteggiato. Tiziano ottenne l’archiviazione. Lei all’epoca era in affari con loro?

No.

Ma nel 2006 lei non subentrò in un appalto della Chil?

Non avevo rapporti con loro.

Al Tribunale di Genova c’è una causa di lavoro intentata da uno strillone che aveva lavorato per voi dal 2005 al 2007. La sua società (Dmp) fu assolta, ma il giudice disse che Dmp e società dei Renzi “si erano succedute nell’appalto”. Il querelante la definì “amico di Tiziano”?

Spiegammo di non avere commistioni con loro. Il giudice ci diede ragione.

Lei in passato è stato coinvolto in un’inchiesta su contributi destinati a una onlus per i bambini africani…

Ho patteggiato. Una questione di fatture. Ma è un capitolo chiuso della mia vita.

Lei è un imprenditore “variegato”. Si occupa anche di acquari… Dai pesci rossi alla pubblicità?

Ho fatto anche quello. C’era una mia compagna… vabbé, è finito anche quello.

Ma perché hanno cercato proprio lei per vendere la Marmodiv?

Senta, adesso me la cavo. La mia società va benino, abbiamo tanti dipendenti. Siamo stimati dai nostri clienti.

Ha svoltato?

Non basta mai. In Italia appena raggiungi una certa dimensione ti chiedono mille cose, mille adempimenti. È dura.

E proprio adesso le capita sul groppone la Marmodiv…

Eh sì.

L’accusa parla di 900 mila euro di debiti e di un’istanza di fallimento. Chi gliel’ha fatto fare?

Ora non ci voglio pensare. È andata così. Perché? Me l’ha chiesto anche la Finanza. Non lo so nemmeno io. Speriamo.