Matteo restituisca il tfr da 40 mila euro della “Eventi 6”

Matteo Renzi dovrebbe restituire, o meglio donare allo Stato, il Tfr percepito dalla società di famiglia e pagato dai contribuenti fiorentini. Il trattamento di fine rapporto pagato a Renzi dalla Eventi 6 (società delle sorelle e della mamma) nel 2014 quando Renzi, dopo una campagna del Fatto, si dimise dall’azienda dovrebbe ammontare a circa 40 mila euro. La vicenda è stata raccontata anche nel libro Di padre in figlio (PaperFirst). La Chil srl, fondata da Tiziano Renzi, è stata ceduta negli anni Novanta a Matteo – socio al 40 per cento – e a sua sorella Benedetta. Dal 1997 al 2003 Matteo è un semplice co.co.co, senza diritto a pensione e tfr, come le due sue sorelle, Benedetta e Matilde. Lo stipendio di Matteo è di soli 14 mila euro lordi nel 2003, fino a ottobre. Il 17 ottobre 2003 lui e Benedetta cedono le quote alla madre, Laura Bovoli. e al padre Tiziano. Il 27 ottobre 2003 la Chil di Laura e Tiziano scopre di avere bisogno di un manager e assume il suo primo e unico dirigente: Matteo Renzi. Il giorno dopo la Margherita di Firenze sceglie il giovane Renzi come candidato alla presidenza della Provincia. Il 13 giugno 2004 Renzi viene eletto e la Chil gli concede l’aspettativa.

Quindi, dal 2003 al 2009, la Provincia ha versato i contributi figurativi e dal 2009 al 2014 lo ha fatto il Comune di Firenze, quando Renzi è diventato sindaco. Questo diritto è stato talvolta usato da altri amministratori per ottenere una pensione e Tfr che altrimenti non avrebbero mai avuto. Su questa storia c’è stato un esposto di Paolo Bocedi e la Procura di Firenze (col procuratore Luca Turco, lo stesso che ora ha arrestato Tiziano e Laura) ha chiesto l’archiviazione senza iscrivere nessuno nel registro degli indagati perché “il fatto che l’assunzione della qualifica dirigenziale da parte di Renzi sia avvenuta poco tempo prima della presentazione della sua candidatura non rileva ai fini che qui interessano, dovendosi del resto segnalare come Renzi risulti aver ricoperto l’incarico lavorativo presso l’azienda di famiglia per diversi mesi prima di essere eletto”.

Nell’ordinanza di arresto per Tiziano e Laura si legge che “la societa Chil Post (poi Eventi 6) si sarebbe avvalsa del personale, formalmente assunto dalle cooperative le quali, non appena raggiunta una situazione di difficoltà economica, sono state dolosamente caricate di debiti previdenziali e fiscali, e abbandonate al fallimento”. Chil ha assunto un solo dirigente, Matteo Renzi. Nel 2010, quando la famiglia Renzi ha ceduto la Chil alla famiglia Massone che poi l’ha fatta fallire, ha salvato con la cessione di un ramo di azienda Matteo Renzi e il suo Tfr. La Chil ha ceduto l’azienda alla Eventi 6. Nel ramo c’erano due soli dipendenti: Matteo Renzi (tfr allora ammontante a 28 mila euro) e Lucia Pratellesi.

Ora scopriamo che la società che ha garantito a Renzi una pensione e un tfr da dirigente “si sarebbe avvalsa del personale, formalmente assunto dalle cooperative le quali, non appena raggiunta una situazione di difficoltà economica, sono state dolosamente caricate di debiti previdenziali e fiscali e abbandonate al fallimento”. L’ex premier non c’entra, ma la società che lo ha pagato è la stessa. Può Matteo Renzi far finta di niente?

L’eredità Marmodiv, l’ultima “bad company” dei Renzi

Ci sono 885 mila euro di debiti verso i fornitori, altri 5.800 quelli verso l’Inail e soprattutto ci sono oltre 88 mila euro di debiti verso l’Inps, sui quali pende però un contenzioso. Sono i debiti che ad oggi si ritrova a dover pagare chi ha acquisito il ramo di azienda della Marmodiv, la coop che secondo i pm è amministrata di fatto dai coniugi Renzi e che è probabilmente costata i domiciliari a Tiziano Renzi e Laura Bovoli. La società era stata costituita e guidata formalmente da persone vicine alla famiglia di Rignano, come Pier Giovanni Spiteri e poi l’avvocato della famiglia, Luca Mirco e l’amico di Tiziano, Giuseppe Mincuzzi. Poi la società passa nella gestione di Aldo Periale di Torino e il 7 dicembre del 2018 Marmodiv cede la sua azienda, cioé il complesso di beni, attivi e passivi che sono l’anima della società a un terzo. La scatola vuota con nome Marmodiv va in liquidazione. ‘Il contenuto’, con il carico dei debiti, compreso quello verso l’Inps, cioé l’azienda appunto, va a una vecchia conoscenza del padre dell’ex premier. Si tratta di Massimiliano Di Palma, genovese amministratore unico della Dmp Italia Srl, società che si occupa di servizi pubblicitari.

È proprio da Di Palma che dipendono ora le sorti dei debiti della Marmodiv, la cooperativa attraverso la quale, secondo la Procura di Firenze, sono state emesse una serie di fatture per operazioni inesistenti. Il pm Luca Turco ha chiesto il fallimento di Marmodiv il 4 dicembre del 2018 e tra un mese ci sarà l’udienza in sede civile. I Renzi sono spettatori terzi di questa vicenda. Il fallimento non li riguarda. Non avevano nulla a che fare da tempo con l’azienda, anche per i pm che li hanno arrestati. Però il fallimento della società che in passato avevano – sempre secondo i pm – amministrato di fatto, potrebbe avere conseguenze sulla posizione dei Renzi.

Secondo la Procura, Tiziano Renzi e Laura Bovoli sono stati amministratori di fatto della cooperativa. “Vi sono indizi – è scritto nell’ordinanza di misura cautelare – per ritenere che Renzi Tiziano e Bovoli Laura siano stati i promotori della cooperativa e si siano intromessi nell’amministrazione della stessa fintanto che non l’hanno ceduta a Periale Aldo e Goglio Daniele”. Periale diventa amministratore unico della cooperativa a marzo 2018.

Per dimostrare il peso dei Renzi nella Marmodiv i pm allegano mail e telefonate. Come quella del 24 maggio 2018 in cui Daniele Goglio (non indagato) viene intercettato con un’altra persona. “Ieri sono andato su dal mio amico, proprio lui (Renzi Tiziano, ndr) (…) È stato gentilissimo perchè mi fa: ‘Ti ringrazio, ti sei preso un onere grandissimo, mi stai facendo un grande’… (…) Mi fa: ‘Guarda io so che li c’è un grosso buco, ti giuro io ti prego di fidarmi. Io non lo sapevo prima’. Perchè hai fatto pena, perchè un po’ l’età, un po’ che sai per la moglie, un po’ per lui sono tutti un po’ sai un pochettino di nervosismo. Mi fa: ‘Ti chiedo solo per favore. So che sei esperto e tutto, che non combini casini perchè se mi viene fuori un casino anche lì ti lascio immaginare come puo andare a finire per me e per mia moglie’. Comunque mi fa: ‘Non ti fare nessun problema, chiama direttamente in ufficio da noi, a me basta solo che quando hai bisogno… mi dici un numero e io ti faccio un bonifico”.

La conversazione prosegue con Giglio che continua a riportare le parole di Tiziano Renzi, il quale gli avrebbe detto: “Se vuoi ti faccio subito un bonifico, cosa ti serve? 100.000? 200?”.

Qualche giorno dopo però sembra che i toni tra i due siano cambiati. Il 18 giugno 2018, infatti Goglio – sempre intercettato – “precisa che tale situazione debitoria sarebbe da attribuire, per una quota parte di 300 mila euro circa, alla gestione di Mincuzzi Giuseppe, definite come ‘l’uomo’ di Renzi Tiziano”, è scritto nell’ordinanza di misura cautelare.

Dice Goglio intercettato: “Il mio amico di Firenze pensa di essere furbo. (…) Non mi ha fatto ancora niente, però non ha un atteggiamento propositivo, visto che qualcuno gli sta togliendo le patate bollenti dai coglioni. (…): Gli ho detto: ‘Tiziano, c’è da pagare i fornitori. C’è un buco da 300 mila euro di fornitori. (…) Però non è che pensi che io sono arrivato e 300 mila li metto io?. Ma allora io chiamo anche Mincuzzi, l’uomo tuo’. Dopo poco la conversazione continua: “Gli ho detto: ‘Intanto vedi di risolvere i problemi piu sostanziali perchè senno è inutile che io stia qua, ti lascio le chiavi qua della Marmodiv e me ne ritorno a Torino’”.

Alla fine l’eredità della Marmodiv, cioé i 300 mila euro di debiti verso i fornitori di cui parla Goglio, è finita nelle mani della Dmp di Massimiliano di Palma. Un nome che è citato nelle cause intentate da due nigeriani che distribuivano i giornali a Genova Evans Omoigui e Monday Alari. Quest’ultimo ha intentato una causa civile alla Dmp Servizi Pubblicitari Srl, alla Eukos e alla Arturo srl, una delle società nella galassia di Tiziano Renzi. Ai giudici Monday dice di aver lavorato “continuativamente dal 14 novembre 2005 al 12 aprile 2007 senza alcuna regolamentazione ai fini contributivi e previdenziali con mansioni di consegna porta a porta del quotidiano Il Secolo XIX la notte alle dipendenze delle società Eukos, Dmp e Arturo che si sono via succedute nell’esecuzione dell’appalto commissionato dalla predetta testata giornalistica e di essere stato verbalmente licenziato”. Dalla sentenza di primo grado – che ha condannato Arturo e Eukos, contumaci nel procedimento, mentre ha respinto il ricorso contro la Dmp – emerge che Dmp ha preso in subappalto il servizi di distribuzione dei giornali agli abbonati “da maggio a settembre del 2006”, da un’altra società. Quale? La Chil Post dei Renzi, ceduta prima del fallimento.

Fs verso un piano di investimenti da 58 miliardi in 5 anni

“Il piano che andremo a presentare sarà caratterizzato da un grandissimo sviluppo. Solo quest’anno investiremo 9 miliardi, con un impatto sull’occupazione di 4mila persone solo nel gruppo mentre l’impatto sul Pil, nei prossimi cinque anni, avrà un’incidenza fra lo 0,7% e lo 0,9%”. In questi termini l’amministratore delegato di Fs, Gianfranco Battisti, ha descritto ieri il prossimo piano su cui Ferrovie sta lavorando e che contiene anche l’impegno per Alitalia, su cui Battisti ha però preferito non fornire, per il momento, ulteriori particolari. Battisti ha parlato nel corso della presentazione a Milano del piano di investimenti che Fs e Rfi, la controllata dei binari, hanno messo in campo per l’ammodernamento di reti e stazioni in Lombardia entro il 2025. Un piano da 14,6 miliardi che prevede una serie di potenziamenti infrastrutturali e tecnologici, la soppressione di 110 passaggi a livello, il restyling delle stazioni e uno sviluppo del piano manutenzione. Il piano complessivo a cui lavora Ferrovie punta a a programmare investimenti complessivi per 58 miliardi nei prossimi 5 anni. Sarà presentato solo dopo marzo, quando verrà chiuso il dossier Alitalia.

Stangata miliardaria per il colosso Ubs

Ubs, banca svizzera specializzata nella gestione di patrimoni, da 5 anni pubblica un rapporto sulle grandi ricchezze. L’ultimo (2018) racconta che la fortuna degli oltre 2 mila miliardari in dollari ha avuto la maggior crescita di sempre, +19%, cui avrà contribuito anche la spregiudicatezza con cui Ubs amministra i fondi dei clienti. Ieri un tribunale di Parigi, dopo 7 anni d’indagini, ha multato per frode fiscale la banca per 3,7 miliardi di euro, cui vanno aggiunti 800 milioni di risarcimenti da pagare allo Stato francese, per un totale di 4,5 miliardi. La maggiore multa mai comminata a una banca.

L’accusa agli amministratori, “perfettamente consapevoli di infrangere la legge” è di aver aiutato e sollecitato facoltosi clienti francesi a nascondere fondi in conti svizzeri non dichiarati e di aver fornito servizi bancari per riciclarne i proventi. Per la Corte francese, Ubs non avrebbe esitato a organizzare spedizioni di propri emissari oltre il confine per cercare clienti facoltosi cui offrire conti segreti e anche di riciclare i fondi non dichiarati.

Ma Ubs ha subito annunciato che ricorrerà in appello contestando tutte le accuse per reati “non dimostrati” e respingendo un verdetto che “mina la sovranità della legge svizzera e pone questioni significative di territorialità”. L’istituto svizzero contesta in particolare “le accuse di riciclaggio dei proventi di frodi fiscali” dal momento che “il reato preliminare di una frode fiscale dei contribuenti francesi non è stato dimostrato”. Così come “non è stata fornita alcuna prova che un cliente francese sia stato sollecitato in territorio francese da un consulente di Ubs per aprire un conto in Svizzera”, si difende Ubs.

La lista delle malefatte in cui è implicata Ubs è lunga. Solo per citare casi recenti: nel 2009 ha pagato negli Stati Uniti 780 milioni di euro per un’altra accusa di frode fiscale transnazionale. Nel 2012 si è trattato invece del Libor il tasso d’interesse interbancario, che era manipolato da alcuni dei maggiori istituti; scandalo per il quale Ubs, ha dovuto sborsare 1,5 miliardi. Nel 2014 un altra sanzione per evasione fiscale, con 300 milioni pagati in Germania. Nel 2016 è comparsa nei cosiddetti Panama papers, i documenti divulgati da un gruppo di giornalisti sulle società di comodo create nei paradisi fiscali per nascondere patrimoni. Nel gennaio scorso infine, la Commissione europea ha accusato otto banche, di cui non ha fatto il nome, ma tra cui si sospetta ci sia anche Ubs, di aver fatto cartello tra il 2007 e il 2012 nel trading di titoli di stato della zona euro, tramite chat room dedicate, in cui si scambiavano informazioni e si coordinavano le compravendite. Se riconosciute colpevoli, le banche potrebbero essere multate per importi fino al 10% del giro d’affari annuo.

Bonus per spremere i clienti: le banche e l’affare diamanti

Regali, commissioni per centinaia di milioni, pressioni incrociate tra banche e i broker dei diamanti Idb e Dpi che hanno piazzato ai clienti bancari pietre per almeno 2 miliardi, sopravvalutandole anche tre volte rispetto al loro valore effettivo in base a listini autoprodotti spacciati per rilevazioni di mercato. Tra le centinaia di migliaia di vittime ci sono risparmiatori comuni e anche molti vip: il solo Vasco Rossi ne ha comprate per 2 milioni e mezzo; l’imprenditrice Diana Bracco; la conduttrice tv Federica Panicucci (29 mila euro) e la ex showgirl Simona Tagli (54 mila euro). È quanto emerge dalle 83 pagine del decreto di sequestro di 700 milioni che la Procura della Repubblica di Milano ha disposto a carico di Idb e Dpi, Banco Bpm, Banca Aletti, UniCredit, Mps e Intesa Sanpaolo.

Nel solo biennio 2015-17 il business ha fruttato a Banco Bpm e alla controllata Aletti 47,9 milioni, 11,5 a UniCredit, 32,7 a Mps e alla controllata Widiba 32,7 e 11,1 a Intesa Sanpaolo. Le commissioni pagate dai broker al Banco Bpm nel 2016 valevano il 24,5% del valore totale delle pietre vendute, per Mps il 18% nel 2017, in UniCredit toccavano il 18% e in Intesa Sanpaolo il 12%. Il 20 settembre 2017 l’Antitrust aveva sanzionato le modalità di offerta dei diamanti “gravemente ingannevoli e omissive”: 9,35 milioni al canale Idb (2 milioni al broker, 4 a UniCredit e 3,35 a Banco Bpm), 6 milioni all’altro broker Dpi e al suo canale (un milione alla società, 3 a Intesa Sanpaolo, 2 a Mps).

Ma le commissioni non erano l’unico pagamento dei broker ai funzionari delle banche. C’erano regali ai vertici, anche di natura “archeologica”, donazioni a onlus di manager, “concorsi a premi” che Dpi riservava ai dipendenti di Mps: nel 2016 i bancari che avessero trovato cinque clienti per il broker avrebbero ricevuto diamanti del valore di 250 euro, di 800 euro nel caso di 10 clienti e di 900 euro per 15 clienti.

Ecco perché non solo gli amministratori di Idb e Dpi e i top manager bancari sono finiti tra la settantina di indagati per varie ipotesi di reato tra cui truffa aggravata, riciclaggio, autoriciclaggio e ostacolo alla vigilanza. Anche le banche sono indagate per la legge sulla responsabilità amministrativa. Nelle indagini sono coinvolti anche decine di funzionari, addetti agli sportelli e direttori di filiale. Alcuni dei quali si sono sentiti “scaricati” dalle banche che, finite sotto indagine, li hanno demansionati. Agli atti ci sono intercettazioni di bancari che lamentavano di aver visto stroncata la loro carriera mentre chi firmava gli accordi commerciali con i broker stava ancora ai vertici.

Nel caso del Banco Popolare, secondo i magistrati le intercettazioni hanno evidenziato “con la massima chiarezza il consapevole coinvolgimento del management”. Tra gli indagati figura anche il dg di Banco Bpm, Maurizio Faroni. Nel decreto di sequestro si fa riferimento a due circolari interne ai bancari, la prima emessa nel 2003 dalla Popolare di Verona e Novara (poi confluita in Banco Bpm) e la seconda del 2004 da Banca Aletti, “recanti l’esplicita direttiva ai dipendenti di proporre diamanti non come gioielli ma come investimento, trattandosi di un prodotto redditizio” capace di creare “plusvalenze medie annuali del 7-8%” con “rendimenti garantiti”, che “da oltre 20 anni non conosce ribassi”. Circolari “con scritto dentro cose allucinanti”, come afferma un dirigente dell’istituto in una conversazione intercettata. Secondo lo stesso manager, come si evince in un’altra intercettazione, “quella roba lì (le circolari del 2003-04, rivedute nel 2011, ndr) ce la ficca su per il c… totalmente!”.

Ma i rapporti tra broker e banche erano anche altri. “Abbiamo deciso più o meno volontariamente di aderire massicciamente all’aumento di capitale del Banco Popolare… sono arrivati con una calibro 9, me l’hanno puntata alla tempia, m’hanno detto ‘firma qui’”. È uno stralcio di una telefonata intercettata a giugno 2016 da Claudio Giacobazzi, presidente e amministratore delegato di Idb (commissariata lo scorso anno e fallita nelle scorse settimane), trovato morto il 14 maggio 2018 in un hotel a Reggio Emilia.

I magistrati scrivono che “la decisione di aderire all’aumento di capitale è stata imposta dalla banca come condizione per stipulare il futuro accordo con la banca”. Da qui l’accusa di corruzione tra privati. Secondo i magistrati Idb ha sottoscritto gli aumenti di capitale di UniCredit del 2012 per 7 milioni e del 2014 e 2016 del Banco Popolare per oltre 950 mila euro.

Tridico va all’Inps, ma sarà un presidente debole

Al termine di un duro scontro di potere all’interno della maggioranza gialloverde, l’Inps – ufficialmente senza guida da sabato – trova finalmente i suoi nuovi vertici. Un accordo tra Lega e Movimento 5 Stelle dovrebbe essere formalizzato oggi in Consiglio dei ministri e prevede la nomina a commissario dell’ente previdenziale di Pasquale Tridico, economista e consulente di Luigi Di Maio al ministero del Lavoro, e di Francesco Verbaro, dirigente dello stesso ministero, a subcommissario, in attesa di diventare rispettivamente presidente e vicepresidente, quando sarà stata modificata la governance dell’Inps e dell’Inail (l’ente che assicura i lavoratori) come previsto dal cosiddetto “decretone” su reddito di cittadinanza e quota 100.

Tridico è stato fin da subito il nome sostenuto dai grillini: scelta logica visto che l’economista di Roma Tre è stato il principale artefice del reddito di cittadinanza e gran parte della gestione della nuova misura spetterà proprio all’Inps. Alla fine, dopo settimane di contrasti con la Lega, l’ha spuntata Di Maio, ma l’accordo non è indolore e prevede un nuovo intervento legislativo per introdurre tanto all’ente pensionistico che all’Inail la figura di un vicepresidente, al momento non prevista.

Andiamo con ordine. I due istituti sono, attualmente, guidati da un presidente monocratico e da anni e in tre diverse legislature il Parlamento s’era schierato per il ritorno al consiglio d’amministrazione: “Basta con l’uomo solo al comando”, diceva ancora ieri Claudio Durigon, sottosegretario leghista al Lavoro. Dall’uomo solo al comando fino al sistema cervellotico che si profila, però, ci passano le acrobazie del potere declinato in poltrone: di fatto, in perfetto chiasmo, Lega e M5S si spartiranno presidenti e vice di Inps e Inail in modo da marcarsi a vicenda. Il problema è che, facendolo, invece di rendere plurale la governance come volevano tutti, la si complica.

La cosa ha un particolare rilievo nel caso dell’Inps non solo per la grandezza dell’istituto, ma anche per il nome scelto per guidarlo. Tridico è un Boeri senza amici nei grandi media: nel senso che è un presidente che viene da fuori, con nessuna idea di come funziona una macchina burocratica infernale come l’Inps col suo bilancio da centinaia di miliardi e, almeno da curriculum, pare anche poco preparato al modello “notte dei lunghi coltelli” che scorre nel cuore del potere romano.

Il futuro presidente avrà come contraltare non solo un consiglio con altri 4 membri e il direttore generale (tradizionalmente in conflitto col presidente) ma pure un vicepresidente a cui bisognerà dare qualche delega per giustificare il nome, deleghe sottratte al presidente e forse al dg. Siccome il vicepresidente Verbaro è in quota Lega e anche la direttrice generale Gabriella Di Michele (scade nel 2022 e sarà confermata) ha più rapporti coi “verdi” che coi “gialli”, il rischio per l’inesperto Tridico è che, mentre implementa il reddito di cittadinanza, l’Inps venga gestito a sua insaputa.

L’effetto del reddito: la discriminazione adesso diventa legale

Grazie a un emendamento approvato ieri in Senato per molti poveri di origine straniera sarà impossibile ottenere il reddito di cittadinanza: Lega e Cinque Stelle hanno stabilito che per gli stranieri extracomunitari non basterà l’Isee (l’indicatore della situazione economica) a dimostrare lo stato di bisogno, ma servirà anche una certificazione di reddito e patrimonio del nucleo familiare rilasciata dallo Stato di appartenenza, tradotta in italiano e “legalizzata dall’autorità consolare italiana”. Sono esentati i rifugiati politici e chi proviene da Paesi dai quali non si può ottenere la certificazione, ma per gli altri questa modifica alla legge sul reddito introduce una barriera che rischia di essere insormontabile. E che può avere conseguenze serie su tutto il welfare che ricevono gli immigrati in Italia.

Nell’autunno scorso ha suscitato grande scandalo il caso del Comune di Lodi. Nell’estate del 2017 la sindaca della Lega Sara Casanova ha emanato una delibera per modificare i requisiti per accedere alle tariffe agevolate per le mense scolastiche e i bus: ai genitori extracomunitari veniva richiesto di presentare, oltre all’Isee, anche una documentazione che attestasse la condizione economica nel Paese di origine, per verificare che fossero davvero bisognosi anche in patria. Circa 200 famiglie straniere non sono riuscite a presentare i documenti e i loro figli sono stati esclusi dai benefici. Due associazioni di tutela dei diritti dei migranti, Naga e Asgi, hanno portato in tribunale a Milano il Comune di Lodi. Il giudice Nicola Di Plotti si è pronunciato, ha stabilito che c’era una “discriminazione diretta” nei confronti delle famiglie con genitori extracomunitari. Ma la motivazione di quella sentenza potrebbe essere ora superata dagli eventi: “Non esistono principi ricavabili da norme di rango primario che consentano al Comune di introdurre, attraverso lo strumento del Regolamento, diverse modalità di accesso alle prestazioni sociali agevolate, con particolare riferimento alla previsione di specifiche e più gravose procedure poste a carico dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea”.

Adesso però una norma di rango superiore al regolamento comunale che offra una base giuridica alla discriminazione degli immigrati c’è: la legge sul reddito di cittadinanza, nella versione votata ieri in Commissione (può ancora essere modificata). Morale: se la sindaca di Lodi Casanova ora volesse tornare a escludere i bambini figli di genitori extracomunitari dalla mensa, potrebbe farlo invocando la legge sul reddito di cittadinanza.

Non è il solo paradosso: l’incidenza della povertà assoluta, secondo l’Istat, è massima proprio tra le famiglie di soli stranieri: una su tre è sotto la soglia. Eppure saranno poche quelle che beneficeranno del sussidio anti-povertà voluto dal M5S. Già la prima versione della legge istitutiva riduceva da 241.000 famiglie rispondenti ai criteri a 154.000 quelle con diritto al reddito di cittadinanza. Secondo le simulazioni dell’Istat quelle che avrebbero davvero beneficiato della misura erano in realtà soltanto 95.000. Adesso, con la muraglia di burocrazia eretta dall’emendamento approvato ieri, saranno molte di meno.

Nel suo primo passaggio parlamentare il reddito di cittadinanza ha rischiato di essere stravolto. Non per l’assalto delle opposizioni, ma della Lega che ha tentato di metterne in discussione alcuni punti fondanti come la durata: oggi è sulla carta illimitata, con un mese di pausa dopo ogni ciclo di diciotto mesi. La Lega voleva che ci fosse un ciclo solo.

I Cinque Stelle hanno evitato modifiche sostanziali, ma hanno dovuto accettare qualche compromesso che ha reso ancora più complessa la burocrazia connessa al sussidio. Per esempio le ore di lavoro volontario richieste al beneficiario della misura possono salire dalle otto originarie a sedici. Quasi nessun Comune è attrezzato per mettere all’opera schiere di disoccupati senza qualifiche particolari. Ma se un sindaco introduce un programma di lavoro gratuito con l’orario massimo e qualche disoccupato che riceve il sussidio non lo rispetta, avrà un argomento in più per restringere la platea. A fronte di una presunta emergenza di cambi di residenza (i single prendono più soldi che i membri di una coppia), Lega e M5S hanno poi voluto un’altra zeppa burocratica: se una coppia si è separata dopo settembre 2018, servirà un verbale della polizia municipale per certificare che i due vivono davvero in case diverse.

E chissà quanti nuovi paletti arriveranno col passaggio in aula e poi alla Camera.

Pittella in lacrime: “Mi ritiro dalla corsa per la Basilicata”

Alla fine Marcello Pittella rinuncia: non sarà lui il candidato governatore del centrosinistra alle elezioni in Basilicata del 24 marzo. L’ex presidente della Regione ha annunciato il suo ritiro per “unire il centrosinistra: “Temo che la sua divisione avvantaggi il populismo e la secessione silente che è in atto a danno della Basilicata e del Mezzogiorno”. Pittella ha guidato la Regione fino allo scorso luglio, quando è stato coinvolto in un’inchiesta sulla sanità che l’ha portato prima agli arresti domiciliari, poi alla sospensione in applicazione alla legge Severino e infine alle dimissioni. L’ex governatore ha rievocato alcuni aspetti della vicenda processuale in conferenza stampa, senza riuscire a trattenere le lacrime: “Me ne vado a testa alta. Credo che non si fermi una Regione in questo modo, che non si fermi un uomo in questo modo”. Poi ha annunciato il nome del prossimo candidato del centrosinistra: sarà il farmacista potentino Ercole Trerotola. Sul suo nome ci sarebbe anche la convergenza di Mdp, sarebbe garantita quindi l’unità del centrosinistra.

Le urne domenica

Come in Abruzzo, anche in Sardegna i tre leader del centrodestra – Giorgia Meloni, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini – si incontrano oggi pomeriggio a Cagliari per una conferenza stampa congiunta e una photo opportunity insieme. Per il resto, la campagna elettorale e gli ultimi comizi dei tre capi di partito proseguiranno su strade separate

Alla fine anche Luigi Di Maio, grande assente della campagna elettorale, dovrebbe farsi vedere in Sardegna domani sera, per il comizio conclusivo del candidato dei Cinque Stelle Francesco Desogus. Il capo politico del Movimento si è già definito piuttosto rassegnato sull’esito finale: “Sono anni che nelle Amministrative andiamo male, è un déjà vu”, ha dichiarato durante la trasmissione DiMartedì di Giovanni Floris

Ad agitare la vigilia del voto è ancora la protesta dei pastori per il prezzo del latte. Malgrado la “tregua” e la bozza di accordo trovata con il ministro dell’Agricoltura Gian Marco Cantinaio, la questione è tutt’altro che risolta e la tensione ancora alta. Oggi si cercherà la soluzione definitiva in un nuovo tavolo alla presenza del premier Conte. Se l’esito dovesse essere negativo, i pastori minacciano di ostacolare il voto di domenica. Ieri un ordigno inesploso è stato ritrovato su un davanzale del Comune di Torpè (Nuoro), mentre in provincia di Olbia sono comparse scritte: “No al voto per i pastori”

In Sardegna è gara a perdere: il favorito è sempre Salvini

Sembra una gara a perdere, ma il grande favorito è sempre lo stesso, Matteo Salvini. Non solo per i sondaggi, ma per una sensazione che si respira in ogni angolo della Sardegna. Salvini la gira a ritmi forsennati da una settimana, riempiendo le piazze di una Regione dove cinque anni fa la Lega non esisteva. Non si era nemmeno presentata, come in Abruzzo.

Sembra una gara a perdere, dicevamo. Perché il Carroccio isolano – come abbiamo raccontato martedì – è un’accozzaglia improvvisata e litigiosa di notabili riciclati, dirigenti con guai giudiziari, massoni più o meno conclamati e neofiti senza esperienze politiche. Poco importa: le beghe leghiste non le conosce nessuno, in questo momento l’aura di Salvini può oscurare anche disastri del genere.

Il candidato delle destre è Christian Solinas, segretario del Partito sardo d’azione. Con lui “il Capitano” ha siglato un patto di ferro: candidatura in Senato a marzo e subito dopo scalata alla Regione. Solinas non è un gigante, ma conosce la politica isolana. Ex democristiano di rito cossighiano, è cresciuto all’ombra di uno dei padri della Dc locale, l’eterno Mariolino Floris. Fa politica da quando era ragazzo, poco tempo per lo studio: si porta appresso il poco lusinghiero soprannome di “Trota sardo” (nel senso di Renzo Bossi) per colpa di una famigerata laurea farlocca rilasciata dal Leibniz Business Institute, università non riconosciuta dal Miur. Due mesi fa comunque ha rimediato con una tesi in giurisprudenza a Sassari, ma dell’argomento non parla volentieri. Poco conta: sul camioncino elettorale della Lega, sotto la scritta “Solinas presidente”, c’è il faccione di Salvini. Il marchio è “il Capitano”. Le alternative invece?

La più credibile è Massimo Zedda. Il sindaco di Cagliari è il candidato più conosciuto, dopo 8 anni (e due elezioni) alla guida del capoluogo. I sondaggi lo danno in rimonta, ma la sua corsa è legata al nome e al simbolo del Pd, nel momento peggiore della storia del partito.

I Cinque Stelle, da consolidata tradizione, non sono competitivi nel voto locale. Il candidato si chiama Francesco Desogus. “È una brava persona”, ripetono tutti, “proprio una brava persona”. Studi da agronomo e carriera da impiegato pubblico, si è fatto apprezzare per il sudore versato da attivista nei meetup locali. Ma non sembra avere (eufemismo) il carisma del leader politico. Intanto ci mette la faccia e il nome, visto che il Movimento l’ha lasciato praticamente da solo: Luigi Di Maio non s’è visto, Alessandro Di Battista mai pervenuto. I due partner della campagna abruzzese erano attesi per il weekend della scorsa settimana, ma sono rimasti a Roma per sopraggiunti impegni. Il capo politico si concederà in extremis: domani sarà a Cagliari per l’ultimo comizio.

Desogus è troppo mite per le polemiche: “Se qualcuno viene sono contento, altrimenti vado avanti lo stesso”, ha detto al Fatto qualche giorno fa. La candidatura gli è piovuta un po’ in testa: il designato era il sindaco di Assemini Mario Puddu, costretto al ritiro da una condanna in primo grado per abuso d’ufficio. Le nuove primarie online hanno premiato Desogus per una manciata di voti, 450 in tutto. “Se scriverò un libro – dice lui – lo chiamerò ‘28 clic’, quelli che mi hanno fatto vincere la sfida”. E l’hanno fatto finire in questa missione improbabile.

Il Movimento qui il 4 marzo era volato sopra al 40%. Uno standard impossibile: domenica sera saranno comunque dolori. “Nella migliore delle ipotesi quei voti saranno dimezzati”. A parlare è Ornella Piredda. Il suo nome è legato a un grande atto di coraggio: è stata la funzionaria pubblica che ha denunciato lo scandalo della Rimborsopoli sarda. Un’inchiesta in tre filoni che ha coinvolto 120 tra consiglieri e dipendenti regionali. La medaglia di Ornella è stata l’isolamento: “Ero una 5Stelle, ma non sono stata considerata una risorsa. Veleni e gelosie mi hanno costretto a cambiare aria. Sono candidata con una lista autonomista, Autodeterminatzione”.

Somma beffa, due dei condannati per le spese pazze sono ancora in lista, pronti a un’altra consiliatura nella stessa Regione in cui hanno compiuto il reato. Entrambi corrono per Forza Italia: Oscar Cherchi e Alberto Randazzo (rispettivamente 4 e 3 anni per peculato). Non sono gli unici casi imbarazzanti nel centrodestra. Con il Partito sardo d’azione di Solinas c’è persino un uomo a processo per traffico internazionale di droga: è l’ex sindaco di Buddusò (Sassari) Giovanni Satta. A Salvini è costato una figura di palta: a novembre il ministro dell’Interno in visita a Cagliari si è vantato delle “liste pulite” della coalizione. Mentre lo diceva, Satta era proprio alle sue spalle. Altri eventuali “impresentabili” saranno resi noti oggi pomeriggio dalla commissione antimafia presieduta dal Cinque Stelle Nicola Morra.

I numeri delle elezioni di domenica sono folli: 7 aspiranti alla presidenza, 24 liste e oltre 1.400 candidati. Con Zedda ci sono ben 8 sigle, in supporto a Solinas addirittura 11. Un vantaggio per il centrodestra, ma forse l’unica incognita per Salvini, che nel voto clientelare drenato di tutte queste liste rischia di perdere percentuali preziose per la sua Lega. Quelle che a meno di sorprese, a partire da lunedì gli serviranno per rivendicare l’ennesima prova schiacciante della sua egemonia.