La scoperta geniale. Così l’America si è accorta della letteratura straniera

Pochi anni fa, quando mi chiedevano come gli Stati Uniti vedevano l’Italia dal punto di vista della produzione letteraria, io rispondevo: non la vedono. Infatti, fino al 2016 il totale della letteratura mondiale tradotta in americano ammontava al 3% dei libri pubblicati, e in questa percentuale l’Italia probabilmente navigava per frazioni. Ma dal 2016 al 2018 la percentuale è cresciuta e oggi siamo al 4%. Un tasso ancora bassissimo, ma ciclopico.

C’è da farsi due domande: perché gli americani non leggono letteratura straniera e cosa è cambiato. Alla prima si può rispondere, riassumendo, così: la posizione privilegiata degli Stati Uniti genera, tra i tanti orrori, una cecità culturale che impedisce di cercare oltre i propri confini. Per di più, gli editori americani sono restii a pubblicare libri in traduzione perché ci vogliono tempo e soldi, e spesso questi editori non parlano nessuna lingua oltre l’inglese. Tutto questo è cambiato, o, perlomeno, ha subito uno slittamento.

A partire dal 2003, tre donne americane – Samantha Schnee, traduttrice, Alane Mason, editor a W.W. Norton & Company, e Dedi Feldman, editor a Oxford University Press – hanno fondato una rivista letteraria online, Words Without Borders, che per prima ha iniziato a occuparsi di letterature straniere con l’obiettivo di “creare un antidoto alla xenofobia e al nazionalismo”. Con un occhio curioso e informato sul mondo letterario internazionale e quel democratico spirito di scoperta che ancora distingue il carattere americano quando non si dimentica delle sue origini, finora Wwb ha pubblicato più di 2.000 scrittori provenienti da 134 Paesi. Poco dopo hanno aperto Archipelago Books (2003), Europa Editions (2005), Open Letter Books (2008), New Vessel Press (2012), Restless Books (2013), Deep Vellum (2013), Transit Books (2015): case editrici indipendenti specializzate in letteratura straniera che hanno tradotto Knausgård, Enard, Restrepo, Mengiste, tra gli altri. Però non basta pubblicare: bisogna sensibilizzare il lettore, organizzare una comunicazione efficace, pagare meglio il lavoro dei traduttori. Molto resta da fare, ma voglio pensare che ci siano buone prospettive. Anche grazie, per quello che riguarda l’Italia, a Elena Ferrante. Un fenomeno mastodontico, una vera e propria mania.

Mi sono chiesta spesso le ragioni di questo successo negli Stati Uniti. Un successo maggiore che in Italia, dove poi si è riverberato, creando un effetto boomerang. Credo c’entrino il gusto americano per l’Italia e per la narrazione seriale. Dato per certo il valore letterario della produzione di Ferrante, alla maggioranza degli americani – sintetizzo brutalizzando – piace l’Italia quando produce cose buone e belle, e quando conserva un’aura di provincialismo. A questo si aggiunga la passione per i serial tv e il gioco è fatto. Ferrante è infatti letteralmente esplosa negli Stati Uniti quando è stata tradotta la tetralogia (declinata in seguito nella serie andata benissimo anche qui).

Ma penso ci sia un altro fattore: il movimento #MeToo. Ho avuto conversazioni e letto articoli scritti da donne che nelle protagoniste di Ferrante hanno trovato un interesse di genere, che le ha coinvolte, emozionate, indignate. Si è prodotta, secondo me, un’identificazione importante tra personaggi, vissuti, temi, narrative. Se i libri di Ferrante avessero avuto come protagonisti degli uomini, forse sarebbe stato diverso. Oso perciò dire che c’è stato anche questo: una tempistica perfetta. Comunque sia, Ferrante ha contribuito ad aprire la pista per altri scrittori. E io a questa mania sono grata. Perché ha attirato l’attenzione internazionale sulla letteratura contemporanea italiana.

Insomma, gli Stati Uniti stanno aprendo gli occhi sull’altrove. Lo dimostra il National Book Award, il premio letterario più prestigioso d’America, che nel 2018 ha inaugurato una nuova categoria, quella della letteratura in traduzione. Tra i finalisti, Scherzetto, di Domenico Starnone. Uno scrittore che soltanto negli ultimi anni ha trovato un riconoscimento, soprattutto della critica più autorevole, che prima sfuggiva (Prima esecuzione era stato pubblicato nel 2007 e poi più nulla fino a Lacci nel 2017). Ne è dimostrazione la sua candidatura al premio così come il gran spettegolare intorno all’identità di Ferrante. E – voglio pensare in misura maggiore – decisivo è stato il lavoro di traduzione di Jhumpa Lahiri, diventata negli ultimi anni ponte naturale tra i due Paesi, sostenuto dall’influenza che Lahiri esercita negli Stati Uniti (vinse il Premio Pulitzer nel 2000 con il suo primo libro, L’interprete dei malanni). Talvolta c’è bisogno di una serie di concause per raggiungere una meta impervia e, tutto sommato, a Starnone poteva andare peggio. Anche se poi il National Book Award l’ha vinto The Emissary di Yoko Takawa.

Oltre a Ferrante e Starnone, negli Stati Uniti sono pubblicati autori quali Tabucchi, Cognetti, Ammaniti, Janeczek, Murgia, Scego, Lakhous (lodato dal New York Times), Erri De Luca (di cui ha scritto il New Yorker), Maraini, Mazzantini, Giordano, Wu Ming, Magris, Mazzucco, Lucarelli, Baricco, Saviano, Grossi. Autori che io, nei miei corsi di letteratura contemporanea e traduzione, porto in classe – spesso anche fisicamente – per farli conoscere ai miei studenti.

Nel 2017 è venuto a New York Sandro Veronesi per recitare il suo monologo Non dirlo al Cherry Lane Theater. La mia classe l’ha tradotto integralmente. Faticando parecchio: è un testo difficile, ispirato al Vangelo di Marco, pieno di riferimenti che gli studenti americani non conoscono. Da queste esperienze esco sempre incoraggiata. I ragazzi sono attratti dalla particolarità di storie che spesso marciano per temi lontani da quelli della narrativa americana. I miei studenti, poi, si appassionano alla lingua, alle identità, a una realtà che sono felici di scoprire molto più interessante e varia rispetto a ciò che dell’Italia si sa e si capisce: la moda, le campagne ondulate, il buon cibo.

Ma ci vuole uno sforzo. Bisogna voler conoscere, perlustrare, esporsi a ciò che è diverso. Un esercizio opposto a quello cui l’America è abituata (Trump ne è tragico estremo), ma il movimento c’è, si rafforza, assume fattezze sempre più certe. C’è da sperare che i lettori americani non si accontentino di uno scrittore per Paese, ma prendano il gusto dell’esplorazione e vogliano, proprio come i miei studenti, uscire dal recinto protettivo di ciò che è familiare e di immediata comprensione. A mente aperta.

Violentò collaboratrice, 4 anni al dirigente

Il #metoo ha raggiunto anche l’Unione europea e non solo in senso geografico. Un tribunale di Bruxelles ha condannato Margus Rahuoja, 51 anni, estone, ex funzionario dell’Unione europea, a quattro anni di prigione. Rahuoja, ex direttore dell’aviazione e degli affari internazionali dei trasporti, è stato dichiarato, in primo grado, colpevole di stupro.

Secondo i giudici, Rahuoja nel 2015 ha violentato una sua collaboratrice proprio all’interno dei locali della Commissione Ue a Bruxelles: i suoi legali hanno un mese di tempo per presentare ricorso. “Ci sarà un appello”, ha detto il suo avvocato, Damien Holzapfel. Come spesso accade in casi simili, la difesa ha cercato di ribaltare la lettura della violenza dichiarando come “la vittima fosse consenziente”. Lo stupro si svolse durante un evento organizzato da Rahuoja per motivare i collaboratori a partecipare a un nuovo progetto professionale, e per festeggiare la nascita della figlia. La vittima, di 20 anni più giovane dell’aggressore, lavorava nello stesso dipartimento come giurista, sotto la sua responsabilità, circostanza ritenuta dal tribunale un’aggravante. Il funzionario è stato anche condannato a versare alla donna oltre 30 mila euro di risarcimento per danni morali.

Il tribunale ha inoltre emesso per il dirigente estone un divieto di esercitare i propri diritti civili per cinque anni. Rahuoja “era stato sospeso dopo che l’incidente è stato segnalato per la prima volta alla Commissione e sono state avviate procedure interne”, ha dichiarato un portavoce dell’esecutivo europeo.

La Commissione ha preso atto della decisione del tribunale ma allo stesso tempo non potrà adottare altre misure “finché non verrà emesso un giudizio definitivo”. La Commissione Ue promuove “una tolleranza zero contro ogni forma di cattiva condotta e non esiterà ad adottare tutte le misure appropriate” una volta che scadrà il termine per il ricorso o verrà emessa una sentenza definitiva. La corte ha basato il suo verdetto di colpevolezza sulle dichiarazioni della vittima, i risultati di una visita medica e le telefonate intercorse tra vittima e carnefice. Un testimone ha svelato di aver visto la donna respingere più volte le avance esplicite di Rahuoja. Il dirigente già quattro anni fa, quando partì la denuncia nei suoi confronti, si trincerò dietro il silenzio: in particolare era stato il giornale Eesti Ekspress a cercarlo per avere sue dichiarazioni, ma alle richieste rispondeva sempre una mail preconfezionata che recitava: “Grazie per il tuo messaggio ma non sono in sede”. In Estonia Margus Rahuoja è una figura politica conosciuta: era uno stretto collaboratore del vicepresidente Siim Kallas e fino al 2003 aveva contribuito a guidare i negoziati di adesione dell’Estonia all’Unione europea.

Provaci ancora Bernie: il sogno di un presidente “di sinistra”

Bernie Sanders ci riprova: a 77 anni compiuti (e ne avrà 79 nell’Election Day, il 3 novembre 2020), il senatore socialista e indipendente del Vermont, che nel 2016 impegnò Hillary Clinton in un testa a testa nelle primarie democratiche, prova di nuovo a ottenere la nomination per la Casa Bianca.

Questa volta, non parte da outsider, ma da nonno: non gode dell’effetto sorpresa e non ha neppure il fattore novità; anzi, rischia di subire il logoramento del ‘già visto’. Alcuni dei suoi sanderisti della campagna 2016 corrono per conto loro, come la senatrice delle Hawaii Tulsi Gabbard; altri, più giovani, gli saranno magari accanto, ma si sono ormai messi a fare politica in proprio, come l’ambiziosa deputata di New York Alexandria Ocasio-Cortez.

Sanders annuncia d’essere di nuovo in corsa con una mail ai suoi sostenitori: “La nostra campagna non è solo per sconfiggere Donald Trump”, sostiene il senatore progressista; “La nostra campagna è per trasformare il nostro Paese e per creare un governo basato sui principi della giustizia economica, sociale, razziale e ambientale”. Dell’attuale presidente, dice che è “un imbarazzo per il Paese”, “un bugiardo patologico”, “un razzista”.

Parole diffuse mentre l’Unione è in fermento per la decisione del presidente di proclamare lo stato d’emergenza nazionale, così da potere stornare voci di spesa e usarle per costruire il muro anti-migranti al confine con il Messico. Un gruppo di 16 Stati, fra cui i due più popolosi, la California e lo Stato di New York, ha presentato ricorso davanti a una corte federale a San Francisco, sostenendo che il presidente non ha il potere di deviare somme da un capitolo di spesa all’altro, perché questa è una prerogativa costituzionale del Congresso. Il fermento politico diventa giuridico sul fronte del Russiagate, dove c’è la sensazione che il procuratore speciale Robert Mueller possa dare presto battere un colpo.

La notizia della candidatura di Sanders conferma come, in questa campagna, s’affrontino due generazioni di democratici: i ‘veterani’ come la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren, o l’ex vicepresidente di Barack Obama, Joe Biden, che deve ancora dichiarare le sue intenzioni e una squadretta, ancora in formazione, di quarantenni e cinquantenni: i più quotati sono i senatori della California Kamara Harris, 54 anni, e del New Jersey Cory Booker, 49 anni, in attesa che decida se candidarsi l’ex deputato del Texas Beto O’Rourke, 46 anni. In lista d’attesa outsiders e miliardari, come l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg.

Nato e cresciuto a Brooklyn, animatore negli anni dell’Università a Chicago –prima del ’68- di lotte contro la discriminazione razziale e per i diritti civili, Sanders si diede alla politica fin da quando s’insediò nel Vermont: prima senza successo, poi nel 1981 divenendo sindaco di Burlington, la città più popolosa dello Stato, con un margine di appena dieci voti. Sindaco per tre mandati, arrivò sul Campidoglio di Washington nel 1991: otto mandati alla Camera, due al Senato e un terzo ottenuto senza avversari nel voto di midterm del 6 novembre 2018 e appena cominciato. Socialista e indipendente, ha quasi sempre votato con il partito democratico ed è spesso stato decisivo per assicurare ai democratici la maggioranza in scrutini in bilico. Sconosciuto al grande pubblico, conquistò popolarità nelle presidenziali del 2016: partito ad aprile del 2015 – questa volta, parte prima – tra lo scetticismo di chi pensava a una passeggiata di Hillary, vinse le primarie in 23 Stati e si aggiudicò il 43% dei delegati.

Il giornalista investigativo: “Attenti al clan del presidente”

Alek Boyd è un giornalista investigativo venezuelano espatriato a Londra. Documenta la corruzione nel suo paese sul sito infodio.com e indaga sui boligarchi dal 2002.

Lei scrive di “corruzione monumentale”. Di che somme parliamo e qual è l’impatto sulla società venezuelana?

Stimo che dal 1999, anno dell’ascesa di Chavez, il Venezuela abbia prodotto ricchezza per circa 1.5 trilioni di dollari. Oggi ne ha 10 miliardi in riserve internazionali, 180 miliardi i debiti, una contrazione dell’economia del 50%.

Quanto di questo è stato rubato dai boligarchi?

Impossibile saperlo con certezza ma la mia stima è di decine di miliardi. E non un solo affare sarebbe stato possibile senza la connivenza di funzionari statali. E poi ci sono i costi umani, con la crisi umanitaria peggiore di tutto il Sudamerica, tre milioni costretti a espatriare, carenza di cibo e servizi essenziali.

Maduro è implicato?

Con la moglie Cilia Flores è al vertice del clan criminale più potente. Il Chavismo non è ormai che un agglomerato di fazioni criminali in lotta per il potere. Come Cosa Nostra, ma con un livello di potere che fa impallidire la mafia. La coppia presidenziale esercita il controllo su pezzi cruciali dell’economia venezuelana e decide quale oligarca favorire nell’aggiudicare contratti milionari, la fonte più diretta di corruzione.

Le due facce del Venezuela: fame nera e miliardi offshore

La corsa disperata per recuperare medicine di base ormai introvabili e troppo care e l’appartamento di lusso a New York. La fame e i miliardi offshore. Al polo opposto della crisi venezuelana, fra il Paese in ginocchio e il rischio di guerra civile, c’è l’élite cresciuta all’ombra di Hugo Chavez prima e Nicolas Maduro poi.

Li chiamano boligarchi, gli oligarchi della Rivoluzione bolivariana. Sono divisi in due gruppi: membri del vecchio sistema e “uomini nuovi”, abili e spregiudicati, capaci di creare e mantenere le connessioni politiche giuste senza disturbare il manovratore. Diventati ricchissimi e potentissimi in pochi anni quando Chavez si rende conto, dopo essersi liberato del vecchio ordine, che anche il suo socialismo ha bisogno di una élite. La grande corsa all’oro inizia nel 2003, quando Chavez impone un cambio fisso fra la valuta nazionale, il bolivar, e il dollaro Usa, per evitare che il timore dell’instabilità politica sotto la sua guida determini una fuga di capitali.

Il tasso fisso resta solo nominale: il bolivar si svaluta in termini reali, e chiunque possa comprare dollari al tasso ufficiale e venderli al mercato nero fa profitti immensi. È il caso dei banchieri, specie quelli in buoni rapporti con il governo. Nel cuore del socialismo sudamericano nascono fortune paragonabili, per ordine di grandezza ed opacità, a quelle degli oligarchi russi.

E come per gli oligarchi russi, i soldi non restano nel paese di origine. Per oltre 15 anni vengono spostati all’estero, diventano proprietà di lusso. Panama è fra i luoghi preferiti. Qui il boom edilizio inizia nel 2005, con capitali colombiani e poi venezuelani. Operazioni di riciclaggio, con costosi appartamenti acquistati e poi lasciati vuoti. Come a New York, Miami, Spagna: la fuga di capitali che Chavez voleva impedire avviene e continua sotto il suo successore Maduro.

Ma nel frattempo aumentano le pressioni statunitensi contro il governo di Caracas. Il 15 gennaio 2016 Maduro dichiara lo stato di emergenza economica. Poco dopo il presidente americano Obama conferma le sanzioni economiche e il paese precipita nella spirale di inflazione, crollo del prezzo del petrolio, crisi politica e sociale in cui è ancora sprofondato. Le autorità di alcune delle nazioni che hanno accolto le ricchezze dei oligarchi cominciano a fare verifiche sulla loro provenienza.

Secondo fonti panamensi sentite dal Guardian, fin dall’inizio del 2017 il FinCen, il network statunitense di indagine sui crimini finanziari, lavora con le autorità canadesi e quelle di 12 paesi sudamericani raccolti nel Lima Group per identificare i beni offshore riconducibili a collaboratori del governo Maduro. A contribuire al cambio di passo, specie nel caso di Panama, sarebbe stata la pubblicazione da parte dell’International Consortium of Investigative Journalists, nell’aprile del 2016, dei Panama Papers, il database di 11 milioni di documenti riservati dello studio legale panamense Mossack Fonseca che custodiva i segreti delle operazioni offshore di migliaia di clienti in tutto il mondo. Dulcidio De la Guardia, ministro delle Finanze panamensi dal 2014 al 2018, ha dichiarato al Guardian: “L’ambiente è cambiato molto. Panama ha lavorato per introdurre un quadro normativo antiriciclaggio che renda più difficile l’apertura di conti bancari”. Lo scorso novembre un tribunale di Miami ha condannato a 10 anni di carcere per riciclaggio Alejandro Andrade, ufficiale a fianco di Chavez durante la rivoluzione, poi sua guardia del corpo, segretario personale e ministro del Tesoro. Ha ammesso di aver ricevuto un miliardo di dollari da Raul Gorrin, patron della televisione di stato GloboVIsion, in cambio di accesso facilitato a transazioni in valuta estera. Fra i dettagli della sua vita dorata, 17 cavalli da corsa, 35 orologi di lusso, 12 automobilisti, 6 proprietà in Florida. Gorrin è a sua volta indagato negli Stati Uniti per riciclaggio e corruzione. Poi c’è il caso di Claudia Patricia Diaz Guillen, infermiera personale di Chavez poi promossa a capo del Tesoro nel 2011, e del marito Adrian Velasquez, ex guardia del corpo del defunto presidente. Sono stati arrestati nell’ottobre 2018 a Madrid con l’accusa di aver intascato 4 miliardi di dollari tramite un sistema di società registrate alle Seychelles. Rischiano l’estradizione negli Stati Uniti.

Quando ci sono perdite l’azienda torna pubblica

Provate a spiegare a un marziano cosa sta succedendo ad Alitalia: dopo aver bruciato miliardi di euro pubblici, finalmente lo Stato se ne libera, prima se ne fanno carico i “capitani coraggiosi” guidati da Roberto Colaninno, poi gli arabi di Etihad che riescono a riportarla in condizioni fallimentari. A quel punto il governo la commissaria – ormai due anni fa – e Alitalia torna di fatto pubblica, nel senso che resta in vita solo grazie a 900 milioni di euro di un prestito “ponte” concesso dal governo. Ponte verso cosa? Verso un altro salvataggio, di nuovo a spese dello Stato che non solo ormai si prepara a rinunciare a quei 900 milioni che diventeranno capitale azionario. Lo Stato entrerà nel capitale con il ministero del Tesoro e con le Ferrovie. Però ci sono i partner industriali: l’americana Delta e la britannica EasyJet che avranno il 40 per cento in cambio di 50-100 milioni. “Abbiamo ribadito che a questo stadio non c’è alcuna garanzia che la transazione si concluderà”, ha scritto il management EasyJet in una lettera interna ai dipendenti.

Delta è interessata ai voli a lungo raggio, EasyJet a quelli a corto. Il risultato di tutta questa operazione, se mai si concluderà, sarà che lo Stato torna azionista soltanto per appaltare le strategie di Alitalia a quelli che oggi sono due suoi concorrenti (tre, se includiamo i treni delle Fs sulla tratta Roma-Milano). E stiamo parlando di un’azienda che a oggi, secondo le stime dell’economista Andrea Giuricin, ha perso 700 milioni tra 2018 e 2019 e continua a volare in perdita. Bilanci ufficiali non ce ne sono perché è commissariata.

A quale scopo tutto questo? Ormai gli argomenti tradizionali, quelli in base a cui una compagnia full service (voli a corto e lungo raggio) tutta italiana è al servizio degli interessi del Paese, non reggono più. Secondo i dati Enac, la quota di mercato nel 2017 di Alitalia era del 15,1 per cento in Italia, sui voli internazionali è soltanto dell’8,5 per cento. Qualunque disegno strategico ha ben poco respiro se si appoggia una compagnia aerea che non è marginale ma di certo non ha più alcuna possibilità di essere protagonista. Il salvataggio di Alitalia con denaro pubblico è ormai soltanto un riflesso condizionato della politica italiana. Nessuno vuole prendersi la responsabilità di abbandonarla al suo destino.

“Lo Stato deve attirare capitali esteri, non fare il tappabuchi”

La recente scelta della Cassa depositi e prestiti di stringere la presa su Tim è irrazionale. L’ennesimo intervento politico spot con cui si avalla il ruolo di tappabuchi della cassaforte dei risparmi postali. Su questo non ha dubbi Luigi Zingales, professore di Economia all’Università di Chicago, ex consigliere Tim.

Professor Zingales, Cdp va verso il raddoppio su Telecom, che succederà?

In Telecom ho imparato una cosa: non fare previsioni. A Cernobbio, l’anno scorso, ho dibattuto con Davide Serra sulla questione e lui, da grande investitore diceva che Cdp faceva bene a investire su Tim. Ora vorrei un nuovo confronto, dato che l’investimento non ha fatto granché bene. Non alla Cassa e neanche alla collettività: abbiamo buttato oltre 100 milioni.

Eppure Cdp ha rilanciato.

Non si capisce esattamente quale sia la funzione di questo investimento, se non di ostacolare Vivendi. Ora, secondo me, se questo è in funzione antifrancese, è un grosso errore. Se è in funzione anti Bolloré, perché pensiamo che Bollorè possa danneggiare la società, non è in questo modo che un governo si protegge. Magari può nominare delle persone alla Consob che facciano il proprio dovere.

Che senso ha che Cdp investa in una società proprietaria di una rete obsoleta, indebitata e sotto contenzioso, proprio mentre sta creando una sua azienda per la fibra?

Prima di tutto dobbiamo domandarci che obiettivi ha la Cassa, perché da impresa che faceva prestiti alla pubblica amministrazione è diventata un po’ la banca d’investimento dei vari governi: dal governo Renzi a quello Conte passando per Gentiloni e prima ancora per Tremonti, c’era questa idea che la Cdp dovesse finanziare tutta l’Italia. Si può anche pensare che in certe situazioni ci possa essere un intervento dello Stato. Però deve essere circoscritto, spiegato, giustificato. Mi sembra che invece qui siamo all’intervento politico spot senza una strategia di lungo periodo.

Cdp non può investire in società decotte ma Tim, pur non decotta, ha margini di manovra molto stretti.

Più che una scelta azzardata la trovo non spiegata. Uno può anche prendere dei rischi se fa ciò parte di una strategia razionale. A me pare che non ci sia una strategia se non quella di difendere la proprietà italiana. Non mi sembra una ragione legittima per impegnare così tanti soldi e quindi mi pare una scelta irrazionale prima ancora che avventata. L’idea di creare una società della rete separata dalla società di servizi della telefonia può avere una sua logica. Non mi pare sia questo il modo di farla.

Se Cdp sbaglia, che cosa rischia lo Stato?

La Cdp deve onorare i depositi che le sono affidati. Se ci sono grosse perdite, lo Stato rischia di doverle ripianare, perché c’è una garanzia dello Stato su quei depositi. È una situazione a rischio. La Cdp è partita con un enorme vantaggio perché, in pochi lo sanno, quando è stata creata le hanno messo in pancia una serie di titoli di Stato italiani a valore nominale ma di titoli emessi negli Anni 90 con tassi molto elevati. Inizialmente la redditività della Cassa è stata ottenuta con questo trucco. Legale, ma un trucco. Adesso questi titoli stanno venendo a scadenza o sono scaduti, per cui è più difficile ottenere una buona redditività.

Quale può essere la funzione adeguata di Cdp?

Non può che essere residuale. Bisognerebbe innanzitutto fare in modo che i capitali stranieri e quelli italiani possano essere investiti in Italia con sicurezza. Dopodiché se ci sono dei settori in cui ci sono chiari fallimenti di mercato (ovvero dove il mercato non riesce a fornire le risorse sufficienti), ma c’è un beneficio collettivo, allora potremmo anche utilizzare la Cdp. Però dopo che si è fatto tutto il resto, invece qui mi sembra che si utilizzi la Cdp come il tappabuchi senza una logica coerente e senza aver attirato i capitali e fatto tutto il resto.

Come valuta il ritorno dello Stato imprenditore?

Lo Stato italiano ha enormi difficoltà anche a fare cose più semplici. Che si metta a fare l’imprenditore mi sembra una cosa molto rischiosa. Su Alitalia: sono sufficientemente vecchio per ricordare il principio di Salvarani che quando stava fallendo, assumeva perché in questo modo si garantiva che l’impresa non sarebbe mai stata liquidata.

I soldi pubblici a rischio solo per aiutare le banche

Alla fine il Cavaliere bianco che deve provare a rilanciare il marchio Trussardi si è palesato. Ma dietro al fondo QuattroR, che con un aumento di capitale da 50 milioni si ritroverà a governare la società della moda con una quota del 60%, c’è la manina pubblica. Una manona: la Cassa Depositi e Prestiti è azionista con il 40% di QuattroR. Perché proprio Trussardi e non marchi più blasonati e in minore tensione finanziaria?

La scelta finisce sul groppone del nuovo ad di Cdp Fabrizio Palermo, che si è ritrovato quella partecipazione di minoranza della Cassa come eredità delle passate gestioni. La Trussardi Spa è reduce da un biennio di perdite. Ben 30 milioni di rosso nel 2017 su ricavi di soli 24 milioni e 7,4 milioni di passivo nel 2016. Ad affondare i conti della Spa la svalutazione per 31 milioni nel 2017 delle partecipazioni, in particolare della Trs Evolution, la controllata al 100% da Trussardi Spa che a sua volta attraversa un periodo più che difficile.

La Trs evolution, basata a Modena e reduce da anni di cassa integrazione, ha visto i ricavi flettere nel 2017 a 139 milioni da 173 milioni del 2016. Trs evolution ha perso 14 milioni nel 2017 e altri 9,7 milioni nel 2016. Crisi di vendite accompagnata da una posizione finanziaria tutt’altro che brillante. A marzo 2018 il gruppo ha dovuto ricontrattare il debito con le banche: un nuovo finanziamento da 51 milioni concesso da 6 banche (Bnl, UniCredit, Intesa, Ubi, Mps e Banco Popolare) che però è servito, spiega il bilancio, a rimborsare crediti a breve, sempre bancari, per 48 milioni. La banca più esposta con 25 milioni era Bnl che avrebbe potuto chiedere il rientro immediato dato che il gruppo Trussardi aveva sforato i covenant finanziari. Le banche, vista la situazione, hanno alleggerito la loro esposizione e da lì è partita la caccia a un investitore che mettesse capitali. In Trs chiudono in perdita e con patrimonio negativo quasi tutte le consociate estere: dalla Francia, alla Spagna, alla Russia, alla Cina. L’unico sforzo chiesto alla famiglia è stato un aumento di capitale da soli 5 milioni che la Finos, la finanziaria in cima alla catena societaria, si è impegnata a versare a tranche entro il 2019.

Anche le partecipate estere sono state svalutate di 9 milioni a fine del 2017. Ora fonti vicine al fondo QuattroR danno per il 2018 appena chiuso un fatturato complessivo a quota 150 milioni. In ripresa sul 2017 ma ancora lontano dagli oltre 170 milioni di vendite archiviate nel 2016. Il fondo QuattroR che ha raccolto capitali per 711 milioni per operazioni su imprese in difficoltà finanziaria anche da investitori istituzionali come Inarcassa, Cassa Forense e Inail agisce come un ristrutturatore. Tappa i buchi e lavora a un rilancio industriale. Lo farà su Trussardi ma anche per Fagioli e Ceramiche Ricchetti, i tre investimenti a oggi.

Chi vince al gioco delle poltrone con la politica sempre più debole

L’ultimo grido in fatto di poltrone è la candidatura di Paolo Simioni alla guida di Fincantieri. L’amministratore delegato dell’Atac, la disastrata azienda tramviaria di Roma, è fortemente sostenuto dagli ambienti M5S più vicini alla sindaca Virginia Raggi. La richiesta di fargli posto silurando Giuseppe Bono, di cui è allievo, l’amministratore delegato di Cdp Fabrizio Palermo l’ha ricevuta (dicono in Cdp) da Stefano Buffagni, sottosegretario agli Affari regionali con ampia delega di Luigi Di Maio per le nomine. Anche Palermo deve a Buffagni la sua scelta, imposta al ministro dell’Economia Giovanni Tria che avrebbe preferito il profilo più prestigioso del vicepresidente della Bei Dario Scannapieco.

È solo l’ultimo spaccato di come funziona il suk delle poltrone distribuite dallo Stato padrone nella Terza Repubblica. Svaniti i poteri forti e deboli anche i ministri, imperversano le trattative private, si misurano le relazioni personali, si intrecciano messaggi, promesse e minacce di cui i destinatari faticano a capire la genuinità della provenienza. Sarà un segno dei tempi, ma si nota una crescente somiglianza con il calciomercato, dove presidenti e allenatori assistono impotenti alla girandola di giocatori orchestrata da mediatori e procuratori.

La Cdp ha centinaia di poltrone da assegnare, basti pensare che oltre a Fincantieri controlla Eni, Poste, Terna, Snam, Italgas e Saipem, solo tra le quotate, più il gigante delle assicurazioni per il commercio estero Sace e altre decine di società più o meno interessanti. Il 6 marzo prossimo Palermo dovrà portare al cda la designazione per Fincantieri e per altre società.

Oltre a Buffagni, protagonista del mercato manageriale è Claudia Bugno, consigliere di Tria, instancabile telefonatrice di richieste, suggerimenti e sponsorizzazioni a nome del ministro. Il suo curriculum sarebbe stato impreziosito dal posto nel cda di Banca Etruria se non l’avesse omesso: per questo conflitto d’interessi non dichiarato il ministro Flavio Zanonato cercò (invano) di cacciarla dal ministero dello Sviluppo economico. Quando Etruria fu commissariata Matteo Renzi la proiettò al vertice del comitato Roma 2024, al fianco di Luca di Montezemolo e Giovanni Malagò. Poi un posto da dirigente in Alitalia fino al marzo 2018: saltata l’Alitalia, tocca a Tria salvarla, e gli sono preziosi i consigli di Bugno che, come si evince dal curriculum, porta bene, quantomeno a quelli che segnala e sostiene.

Supefacente il caso di Andrea Pellegrini, merchant banker di lungo corso e amicissimo di Palermo che l’ha voluto al suo fianco come senior advisor per le partecipate. In realtà l’obiettivo di Pellegrini è la presidenza della Sace, soluzione che risolverebbe a Palermo la grana dei giganteschi conflitti d’interesse del suo amico e consulente.

Pellegrini è consigliere d’amministrazione con importanti incarichi della Maire Tecnimont, principale concorrente nell’impiantistica petrolifera della Saipem, controllata da Cdp per la quale lo stesso Pellegrini è advisor. Il consulente di Palermo è anche vicepresidente della catena alberghiera Ihc, e consiglia Cdp sulle due catene alberghiere di cui è azionista, Th Resorts e Rocco Forte Hotels. Pellegrini è anche consigliere dalla Sias, la grande concessionaria autostradale del gruppo Gavio. Ma non gli manca un posto nel cda della IDeA Capital Funds Sgr, il fondo di private equity del gruppo De Agostini, concorrente diretto dei fondi di private equity di Cdp.

Pellegrini ha dunque una visibilità ampia sui business per i quali è advisor di Cdp, e a sua volta offre all’opinione pubblica una visibilità ampia sui mostri generati dal sonno della politica.

Troppo piccoli per resistere. Cdp vuole la fusione dei Big

Sembra un film già visto, solo che stavolta una soluzione definitiva va trovata e la politica è più debole che mai. A trent’anni dal tramonto dell’Italstat, per la seconda volta l’Italia è alle prese con il disastro dei colossi delle costruzioni. Nell’ultima operazione “di sistema” – che ha come perno la pubblica Cassa Depositi e Prestiti e il solito campione nazionale – vengono al pettine i nodi di un capitalismo senza capitali, con famiglie imprenditoriali litigiose e logiche aziendali obsolete, ormai al tramonto.

La parte visibile è nota. I colossi del mattone sono in ginocchio. Il numero due italiano, Astaldi (3 miliardi di fatturato), ha chiesto il concordato preventivo; Condotte (496 milioni) è in amministrazione straordinaria; Trevi (855 milioni) è alle prese con una difficile ristrutturazione; Grandi Lavori Fincosit (201 milioni) è in concordato; Tecnis (300 milioni) è commissariata; e il gruppo cooperativo Cmc Ravenna (1,1 miliardi) ha chiesto il concordato preventivo. In ballo ci sono commesse per 37 miliardi, 28 mila dipendenti e un fatturato di 6,5 miliardi, a fronte di debiti lordi, tra banche e obbligazioni, di 7 miliardi.

Come sempre, nei disastri italiani, nessuno degli attori spiega le ragioni della disfatta. Il settore non è mai uscito dalle logiche spartitorie degli anni 80, quando all’Iri sedeva Romano Prodi e sotto di lui c’era l’Italstat di Ettore Bernabei, vero ministro dei Lavori pubblici. Funzionava così: lo Stato affidava i lavori all’Italstat, che poi li subappaltava a colossi pubblici (Italstrade, Condotte) e privati (Lodigiani, Girola, Cogefar etc.) riuniti in consorzi per non pestarsi i piedi. Uno schema illuminato dalle inchieste giudiziarie. Il braccio destro di Bernabei, Mario Zamorani racconterà al pm veneziano Carlo Nordio che indagava sugli appalti del consorzio Venezia Nuova del Mose, che le quote erano precise: 20% dei lavori alle aziende Iri, 60% a quelle private, 20% alle coop rosse. La spartizione era studiata per prevenire l’opposizione alle grandi opere.

Dopo 30 anni, il sistema è lo stesso e le quote pure. Quando all’inizio degli anni 90 le inchieste di Mani Pulite travolgono i signori delle costruzioni, il mercato dei grandi appalti crolla. Lodigiani, Girola e la Impresit-Cogefar della Fiat danno vita a Impregilo (Condotte sarà privatizzata nel ‘97). Per evitare il collasso la politica escogita l’ennesima soluzione ecumenica, lo stesso meccanismo di spartizione a monte tra le imprese (con retrocessione alla politica degli extra-costi) si trasferisce sull’Alta velocità. Nel ’91 il gran capo delle ferrovie Lorenzo Necci lo codifica nei consorzi ferroviari: i Cepav, gli Iricav, i Cavet si dividono le tratte. Dentro ci sono tutti con le solite quote. Necci promise che il 60% dei costi sarebbe stato dei privati. Nel ’94 erano già lievitati del 30%. Ivan Cicconi la definì nel Libro nero dell’Alta velocità “la grande abbuffata”. Lo Stato si accollerà costi per 90 miliardi.

Trent’anni dopo si torna alla casella iniziale. I grandi contractor hanno sprecato il bonus dell’Alta velocità senza modernizzarsi. Nessuno di quelli in crisi compare tra i top 25 costruttori europei (dati Guamari). Insieme non fanno il 20% del fatturato della sola francese Vinci. Lavorano con commesse spesso in perdita e grandi debiti con le banche che li tengono in vita. A marzo 2018 Astaldi aveva debiti lordi per 2,3 miliardi, 1,6 netti, a fronte di ricavi per 3 miliardi.

Il margine industriale viene risucchiato dagli oneri finanziari. Schiacciati da 6,5 miliardi di debiti lordi (2,7 netti), i gruppi in crisi lavorano con un patrimonio netto di soli 1,7 miliardi. I ritardi nei pagamenti della Pubblica amministrazione hanno pesato nel disastro, ma nei bilanci spesso vengono indicati come causa anche i contenziosi lievitati per le varianti (i “lavori aggiuntivi non contrattualizzati”), rese più difficili dal nuovo Codice degli appalti. Così i gruppi si sono buttati all’estero (che vale in media il 58% dei ricavi), spesso in Paesi “difficili”, senza avere l’organizzazione manageriale necessaria. Il risultato è un bagno di sangue che minaccia le banche creditrici (da Unicredit a Intesa, da Bpm a Bnl). C’è poi il nodo obbligazioni. Astaldi, per dire, ne ha per 800 milioni (scadenza 2020), un terzo finite a piccoli risparmiatori. Cmc per 500 milioni.

Oggi i protagonisti del mercato vedono un’unica soluzione: la fusione dei colossi in crisi con iniezioni di denaro pubblico. Servono una regia e un aggregatore. La prima è in mano alla Cassa depositi e prestiti guidata da Fabrizio Palermo, al secondo ruolo punta Salini-Impregilo. Il gruppo guidato da Pietro Salini, primo costruttore italiano, è il meno malato, nonostante un debito netto finanziario di 1,1 miliardi. Nei giorni scorsi ha presentato una proposta per salvare Astaldi che lo porterà ad avere il 65% del gruppo, con il 28% che finirebbe alle banche dopo la conversione di parte dei crediti e la famiglia Astaldi diluita al 6,5%. Salini pretende anche l’ingresso di Cdp. Palermo, però, si muoverà solo in un’operazione di sistema che coinvolga tutti i colossi malati, a partire da Condotte. Cdp punta a creare una public company con una gestione manageriale moderna senza il fardello delle vecchie famiglie proprietarie, dagli Astaldi ai Bruno (Condotte).

Al momento l’ostacolo più grande è però proprio Salini, che non ne vuol sapere di farsi da parte dopo aver fatto il federatore. Dall’esito dello scontro dipende il futuro di un pezzo enorme dell’economia italiana. Che da 30 anni attende una svolta.