Pochi anni fa, quando mi chiedevano come gli Stati Uniti vedevano l’Italia dal punto di vista della produzione letteraria, io rispondevo: non la vedono. Infatti, fino al 2016 il totale della letteratura mondiale tradotta in americano ammontava al 3% dei libri pubblicati, e in questa percentuale l’Italia probabilmente navigava per frazioni. Ma dal 2016 al 2018 la percentuale è cresciuta e oggi siamo al 4%. Un tasso ancora bassissimo, ma ciclopico.
C’è da farsi due domande: perché gli americani non leggono letteratura straniera e cosa è cambiato. Alla prima si può rispondere, riassumendo, così: la posizione privilegiata degli Stati Uniti genera, tra i tanti orrori, una cecità culturale che impedisce di cercare oltre i propri confini. Per di più, gli editori americani sono restii a pubblicare libri in traduzione perché ci vogliono tempo e soldi, e spesso questi editori non parlano nessuna lingua oltre l’inglese. Tutto questo è cambiato, o, perlomeno, ha subito uno slittamento.
A partire dal 2003, tre donne americane – Samantha Schnee, traduttrice, Alane Mason, editor a W.W. Norton & Company, e Dedi Feldman, editor a Oxford University Press – hanno fondato una rivista letteraria online, Words Without Borders, che per prima ha iniziato a occuparsi di letterature straniere con l’obiettivo di “creare un antidoto alla xenofobia e al nazionalismo”. Con un occhio curioso e informato sul mondo letterario internazionale e quel democratico spirito di scoperta che ancora distingue il carattere americano quando non si dimentica delle sue origini, finora Wwb ha pubblicato più di 2.000 scrittori provenienti da 134 Paesi. Poco dopo hanno aperto Archipelago Books (2003), Europa Editions (2005), Open Letter Books (2008), New Vessel Press (2012), Restless Books (2013), Deep Vellum (2013), Transit Books (2015): case editrici indipendenti specializzate in letteratura straniera che hanno tradotto Knausgård, Enard, Restrepo, Mengiste, tra gli altri. Però non basta pubblicare: bisogna sensibilizzare il lettore, organizzare una comunicazione efficace, pagare meglio il lavoro dei traduttori. Molto resta da fare, ma voglio pensare che ci siano buone prospettive. Anche grazie, per quello che riguarda l’Italia, a Elena Ferrante. Un fenomeno mastodontico, una vera e propria mania.
Mi sono chiesta spesso le ragioni di questo successo negli Stati Uniti. Un successo maggiore che in Italia, dove poi si è riverberato, creando un effetto boomerang. Credo c’entrino il gusto americano per l’Italia e per la narrazione seriale. Dato per certo il valore letterario della produzione di Ferrante, alla maggioranza degli americani – sintetizzo brutalizzando – piace l’Italia quando produce cose buone e belle, e quando conserva un’aura di provincialismo. A questo si aggiunga la passione per i serial tv e il gioco è fatto. Ferrante è infatti letteralmente esplosa negli Stati Uniti quando è stata tradotta la tetralogia (declinata in seguito nella serie andata benissimo anche qui).
Ma penso ci sia un altro fattore: il movimento #MeToo. Ho avuto conversazioni e letto articoli scritti da donne che nelle protagoniste di Ferrante hanno trovato un interesse di genere, che le ha coinvolte, emozionate, indignate. Si è prodotta, secondo me, un’identificazione importante tra personaggi, vissuti, temi, narrative. Se i libri di Ferrante avessero avuto come protagonisti degli uomini, forse sarebbe stato diverso. Oso perciò dire che c’è stato anche questo: una tempistica perfetta. Comunque sia, Ferrante ha contribuito ad aprire la pista per altri scrittori. E io a questa mania sono grata. Perché ha attirato l’attenzione internazionale sulla letteratura contemporanea italiana.
Insomma, gli Stati Uniti stanno aprendo gli occhi sull’altrove. Lo dimostra il National Book Award, il premio letterario più prestigioso d’America, che nel 2018 ha inaugurato una nuova categoria, quella della letteratura in traduzione. Tra i finalisti, Scherzetto, di Domenico Starnone. Uno scrittore che soltanto negli ultimi anni ha trovato un riconoscimento, soprattutto della critica più autorevole, che prima sfuggiva (Prima esecuzione era stato pubblicato nel 2007 e poi più nulla fino a Lacci nel 2017). Ne è dimostrazione la sua candidatura al premio così come il gran spettegolare intorno all’identità di Ferrante. E – voglio pensare in misura maggiore – decisivo è stato il lavoro di traduzione di Jhumpa Lahiri, diventata negli ultimi anni ponte naturale tra i due Paesi, sostenuto dall’influenza che Lahiri esercita negli Stati Uniti (vinse il Premio Pulitzer nel 2000 con il suo primo libro, L’interprete dei malanni). Talvolta c’è bisogno di una serie di concause per raggiungere una meta impervia e, tutto sommato, a Starnone poteva andare peggio. Anche se poi il National Book Award l’ha vinto The Emissary di Yoko Takawa.
Oltre a Ferrante e Starnone, negli Stati Uniti sono pubblicati autori quali Tabucchi, Cognetti, Ammaniti, Janeczek, Murgia, Scego, Lakhous (lodato dal New York Times), Erri De Luca (di cui ha scritto il New Yorker), Maraini, Mazzantini, Giordano, Wu Ming, Magris, Mazzucco, Lucarelli, Baricco, Saviano, Grossi. Autori che io, nei miei corsi di letteratura contemporanea e traduzione, porto in classe – spesso anche fisicamente – per farli conoscere ai miei studenti.
Nel 2017 è venuto a New York Sandro Veronesi per recitare il suo monologo Non dirlo al Cherry Lane Theater. La mia classe l’ha tradotto integralmente. Faticando parecchio: è un testo difficile, ispirato al Vangelo di Marco, pieno di riferimenti che gli studenti americani non conoscono. Da queste esperienze esco sempre incoraggiata. I ragazzi sono attratti dalla particolarità di storie che spesso marciano per temi lontani da quelli della narrativa americana. I miei studenti, poi, si appassionano alla lingua, alle identità, a una realtà che sono felici di scoprire molto più interessante e varia rispetto a ciò che dell’Italia si sa e si capisce: la moda, le campagne ondulate, il buon cibo.
Ma ci vuole uno sforzo. Bisogna voler conoscere, perlustrare, esporsi a ciò che è diverso. Un esercizio opposto a quello cui l’America è abituata (Trump ne è tragico estremo), ma il movimento c’è, si rafforza, assume fattezze sempre più certe. C’è da sperare che i lettori americani non si accontentino di uno scrittore per Paese, ma prendano il gusto dell’esplorazione e vogliano, proprio come i miei studenti, uscire dal recinto protettivo di ciò che è familiare e di immediata comprensione. A mente aperta.