Rete Tim, la retromarcia verso il capitalismo di Stato

La frase è trita ma adatta: rimettere il dentifricio nel tubetto. Un’operazione improba che, per sfortuna, tocca a uno dei governi più deboli del Dopoguerra. Riavvolgere il nastro delle privatizzazioni non è un capriccio del governo gialloverde: sono d’accordo tutti i partiti. C’è da salvare Alitalia, privatizzata a carissimo prezzo nel 2008 da Silvio Berlusconi e fatta fallire dai mitici privati. C’è da recuperare Condotte, gloriosa impresa di costruzioni privatizzata vent’anni fa. E c’è soprattutto il problema di Tim, la Telecom Italia privatizzata nel 1997 da Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi. Era una delle migliori compagnie al mondo, le scorrerie degli scalatori hanno lasciato all’Italia il peggior sistema di telecomunicazioni d’Europa.

Vince la mai sopita voglia della politica di allungare le sue manacce sull’economia? Un po’ sì, ma il dato prevalente è l’ennesimo fallimento del capitalismo italiano. Al crepuscolo della Prima Repubblica i liberisti a gettone orchestrati da Confindustria tuonavano contro il “panettone di Stato” e l’allora potentissimo ministro Paolo Cirino Pomicino ridacchiava: “Quando abbiamo dovuto irizzare (si diceva così, ndr) la Motta e l’Alemagna non ho visto i privati in coda per prendersele”. Infatti i privati erano interessati solo ai bocconi migliori, li hanno ottenuti, hanno mangiato e sputato l’osso, hanno fatto il ruttino e hanno protestato: “Era un po’ pesante”.

Al posto dell’Iri adesso c’è la Cassa depositi e prestiti (Cdp) che, con molta audacia, scommette il risparmio postale degli italiani sul rilancio delle imprese cosiddette strategiche. Domani l’amministratore delegato Luigi Gubitosi di Tim presenterà un piano industriale di auspici. Il principale sarà il ritorno alla rete telefonica unica, operazione complessa che richiede l’accordo di tutte le parti in campo: Tim, Cdp, Open Fiber (rete telefonica di Cdp e Enel), governo, Agcom (autorità delle comunicazioni). Se uno solo non ci sta salta tutto.

La privatizzazione di Telecom Italia fu accompagnata dalla liberalizzazione. La rete telefonica è un servizio come un altro, in concorrenza. Tim non ha fatto gli investimenti necessari e oggi le connessioni Internet fanno rimpiangere il telegrafo. Matteo Renzi ebbe un’idea assurda, ma era potente e tutti gli esperti si complimentarono: chiese all’amministratore delegato dell’Enel Francesco Starace, appena nominato, di costruire una nuova rete in fibra ottica per fare concorrenza a Tim e metterla nell’angolo. Starace, in società con Cdp, ha investito sulla nuova rete 4,5 miliardi che non si sa se e quando frutteranno qualcosa.

Tim nel frattempo fatica, la sua rete è vecchia e carica di personale, oltre 20 mila persone, e il debito ereditato dagli scalatori impedisce di fare investimenti. Solo quando Renzi si è spiaccicato sul referendum gli esperti hanno scoperto che investire su due reti telefoniche era demenziale. La strategia l’ha impostata il governo Gentiloni: Tim scorpora la sua rete e la fonde con Open Fiber, la nuova società esce dal perimetro di Tim e va sotto l’ombrello statale di Cdp. A una rete non controllata da uno degli operatori telefonici l’Agcom potrà concedere tariffe fissate su base Rab (regulatory asset base), in modo da remunerare gli investimenti, come già accade con Terna.

Le difficoltà da superare sono molteplici. Scorporare la rete telefonica da Tim potrebbe richiedere anche due anni per la fissazione del perimetro: bisognerà stabilire quasi cavo per cavo dove finisce la rete dell’operatore telefonico e dove inizia quella della nuova società. Poi ci saranno da fissare i valori: la rete Tim è stimata da 10 a 15 miliardi, quella di Open Fiber da zero a 1,5 miliardi. Quella dei valori di concambio sarà una battaglia durissima. E poi, quanti dipendenti e quanti debiti la rete Tim si porterà dietro?

Per adesso si tenta di parlarne. Da una ventina di giorni i tecnici di Tim e di Open Fiber hanno istituito un tavolo dove si scambiano dati per dare ai capi azienda una base di discussione comune. L’amministratore delegato di Cdp Fabrizio Palermo vuole la fusione delle due reti perché teme che Open Fiber (di cui ha il 50 per cento) sia un bagno di sangue. Starace, che ha l’altro 50 per cento, fa resistenza, i maligni sospettano che non voglia riconoscere di aver fatto un investimento sbagliato. Sull’altro fronte Palermo è anche azionista di Tim con il 5 per cento, comprato ad aprile 2018 dal suo predecessore per aiutare il fondo Elliott (favorevole allo scorporo della rete) a scalzare i francesi di Vivendi, contrari alla perdita di controllo dei cavi. All’assemblea del 29 marzo gli uomini di Vincent Bollorè tenteranno il controribaltone, e Palermo per dare manforte a Gubitosi ha annunciato l’acquisto di un altro 5 per cento, con il quale l’investimento di risparmio postale in azioni Tim salirà a 1,3 miliardi, di cui 300 milioni sono stati già persi.

Dopo l’assemblea ci si potrà mettere seriamente all’opera con l’obiettivo di farcela in un paio d’anni di lavoro serrato. Naturalmente a patto che ci sia ancora un governo in grado di dare direttive.

Mail Box

 

Io sono io grazie ai 5Stelle, ma loro oggi sono un’altra cosa

Io non rinnego nulla di quanto detto o fatto per il Movimento, non rinnego le mie parole spese per loro. Non sminuisco le sue tante battaglie. Non gli toglierò mai il merito di aver scardinato un sistema, averlo penetrato e cambiato, costringendolo, a modo loro – sconclusionati e irruenti – a modificarne gli usi e costumi che ormai erano parte integrante nel nostro sistema. Grazie al movimento, gli altri partiti sono stati costretti a richiedere ai propri eletti quel minimo sindacale che ogni politico dovrebbe avere: fedina penale pulita e trasparenza. È grazie a loro se i politici sono stati costretti spontaneamente a rinunciare a quei propri privilegi che ormai risultavano inopportuni agli occhi dell’elettorato. Ed è grazie a loro se la politica è stata messa a nudo, risultando accessibile a chiunque e comprensibile a tutti. Sono caduti tanti tabù, smascherate supercazzole e scoperte piccole scorrettezze commesse alle nostre spalle. Grazie al Movimento è venuto alla luce quel tacito accordo che ha legato per 20 anni la sinistra a Berlusconi. Senza il M5S non avremo leggi sacrosante che aspettavamo da anni: reddito di cittadinanza e riforma del reato di corruzione. Ma è anche grazie a loro se so qual è il minimo sindacale che devo pretendere da un eletto. E senza di loro io non sarei la persona che sono, e non avrei le idee così chiare per distinguere il Movimento oggi, da quello di ieri.

E loro oggi, sono un’altra cosa.

Valentina Felici

 

Diciotti, d’ora in poi al massimo saranno il meno peggio

Carissimo Marco Travaglio, grazie per il suo editoriale di oggi. È finita. Non voterò più per il M5S che ha definitivamente perso la sua anima. Che tristezza infinita.

Laura Bellandi

 

Cara Laura, potevano aspirare a diventare il meglio. Finiranno forse, salvo colpi di reni, per restare il meno peggio.

M. Trav.

 

Criticando tutto, non è che fate il gioco di quelli di prima?

Abbonandomi al vostro quotidiano, ho dimostrato di apprezzare la trasparenza e la correttezza delle vostre informazioni. Purtroppo però sono in difficoltà a condividere la posizione ostile nei confronti dei 5Stelle per l’esito del referendum. È apprezzabile criticare tutto ciò che non si ritiene giusto nell’operato del governo, ma sollevare un polverone inducendo l’elettorato a rivedere la sua scelta politica, significa riportare in auge e rendere credibili quanti (vedi Renzi & C.) sono stati messi all’angolo.

Claudia Chiostri

 

Cara Claudia, noi restiamo fedeli e coerenti ai nostri principi. Il rischio che l’elettorato torni a credere in Renzi mi pare piuttosto remoto, visto che Renzi e famiglia si incaricano ogni giorno di rammentare a tutti chi sono. Non crede?

M. Trav.

 

Non è colpa dei precari Anpal se i centri impiego non vanno

In risposta alla lettera firmata da Mario De Florio, preme precisare che presso i Centri per l’Impiego non ci sono 654 dipendenti precari “miracolati dal clientelismo politico” assunti dall’Anpal. Se il lettore è poco informato sui fatti non è un problema dei lavoratori stessi e sarebbe meglio che lo facesse, per risparmiarsi 654 querele. Presso Anpal Servizi SpA, cosa diversa dall’ente Anpal, ci sono 654 lavoratori precari di cui circa 200 che aiutano i dipendenti nei Centri per l’Impiego nella erogazione di interventi di reinserimento nel mondo del lavoro e nella gestione di crisi aziendali. Gli altri danno supporto agli istituti scolastici nell’attivazione di percorsi di alternanza scuola-lavoro. Altri ancora lavorano nella sede centrale per la costruzione di iniziative tra i vari soggetti pubblici, privati, nazionali e territoriali coinvolti nel “mercato del lavoro”. Tutti i lavoratori hanno svolto da sempre regolari selezioni interne pubblicizzate secondo i principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità, superando prove scritte, orali e dimostrando nel loro curriculum un’esperienza lavorativa nel settore tra i due e i sette anni. Questi lavoratori hanno sostenuto più volte nella loro vita le medesime rigorose selezioni, anche a cadenza biennale, e ora chiedono che vengano loro riconosciute le proprie competenze e venga garantita una futura stabilizzazione dopo anni di precariato, anche di 20 anni in alcuni casi. Sul malfunzionamento dei Centri per l’Impiego e degli Enti di Formazione, di cui Anpal Servizi non fa di certo parte, la colpa non può certamente ricadere sui lavoratori, ma piuttosto su chi negli ultimi 25 anni non ha voluto destinare risorse economiche, tecnologie e forza lavoro sufficiente a creare un mercato del lavoro con servizi funzionanti ai livelli degli altri paesi europei.

Stefania Saba, Rsa Uilca Uil Anpal Servizi Spa

 

I NOSTRI ERRORI

Nel giornale di ieri, a corredo dell’articolo “Antitrust: il leghista Galli fa il viceministro, ma è incompatibile”, per errore è stata pubblicata una foto che non riguarda il protagonista della vicenda, bensì l’attuale assessore all’Autonomia e Cultura di Regione Lombardia, Stefano Bruno Galli. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

FQ

Patrimonio. Nelle zone del sisma il vero problema è la carenza di personale

 

Rispondiamo a numerosi articoli comparsi sulla stampa in merito al patrimonio culturale danneggiato dal terremoto del 2016, e in particolare a quello a firma di T. Montanari comparso sul Fatto del 4 febbraio relativo al sanzionamento di un amministratore locale-storico dell’arte introdottosi, senza autorizzazione e a lavori in corso, nel cantiere di messa in sicurezza della chiesa di S. Maria in Castellare di Nocelleto. L’ingresso non autorizzato in un cantiere, qualsiasi sia la motivazione a suo sostegno, mette a rischio l’incolumità di chi entra, chiamando in causa responsabilità di altri (Direttore dei lavori in primis, coordinatore per la sicurezza e proprietà). La questione quindi si riduce soltanto al rispetto del lavoro altrui, dei ruoli e delle norme, che qualunque Primo cittadino conosce. Dietro la dimostrata difesa del patrimonio culturale marchigiano devastato dal terremoto c’è il lavoro continuo e instancabile di tante istituzioni e operatori che credono nella ricostruzione e nella rinascita di queste identità sociali e culturali. Certamente non ultima la Soprintendenza che viceversa, forse erroneamente troppo in silenzio, da quasi tre anni è costantemente e ostinatamente sul campo, pur se in condizioni difficilissime, causa la sempre maggiore carenza di personale tecnico, non controvertita neppure dalla straordinarietà del sisma. Sperando di avere fatto chiarezza su fatti e vicende troppo spesso mistificati ad “arte”, ci si perdoni dunque per questo garbato sussulto di orgoglio di appartenenza.

dott. arch. Carlo Birrozzi, Soprintendente archeologia, belle arti e paesaggio delle Marche; funzionario – arch. Simona Guida, Direttore dei lavori del cantiere

 

Caro Carlo, gentile architetta Guida, capisco che non sia facile lavorare nelle vostre condizioni (e io personalmente, insieme a moltissimi italiani, vi siamo profondamente grati per il vostro impegno), ma credo che prima di denunciare un collega che, in buona fede, condivide i vostri stessi fini, sarebbe stato meglio riflettere. Detto questo, sollevate nella vostra lettera il punto centrale: l’assoluta carenza di personale della tutela, che l’entrata in vigore della quota 100 aggraverà ancora. La domanda al ministro Alberto Bonisoli è: potrà onorare la sua solenne promessa di massicce assunzioni (ne servirebbero almeno 7500)? E, se sì, in che misura ed entro che data?

Il patrimonio culturale del cratere è in punto di morte: o si agisce ora, o ci si assume una responsabilità enorme, e drammatica.

Tomaso Montanari

L’Europa e le sue belle tradizioni: a febbraio si minaccia Atene

Se settembre, com’è noto, è tempo di migrare, febbraio è quello dello strozzinaggio alla Grecia. Una simpatica consuetudine europea che prosegue anche in questo pazzo 2019. Lunedì, infatti, Reuters ha pubblicato il consueto pizzino di un anonimo funzionario della Commissione Ue che sostiene che la Grecia potrebbe non ricevere l’assegno da 750 milioni che le dovrebbe arrivare a marzo sulla base dell’ultimo accordo di salvataggio (sic!), quello di giugno 2018: in pratica il sistema Ue si impegna a restituire ad Atene i guadagni realizzati sul suo debito e un po’ degli interessi sui prestiti per un totale di 4,8 miliardi in tranche semestrali fino al 2022; Tsipras in cambio continuerà a fare austerità. Non tutti gli ordini europei però, ci informa Reuters, sono stati rispettati: il 27 febbraio verrà diffuso un report in cui Bruxelles dirà che 16 “riforme” non sono state completate. La più importante? “La legge sull’insolvenza, in cui è necessario un equilibrio tra protezione dei proprietari di case a basso reddito e le banche”. Tradotto: la Ue vuole espropri facili per tutti quelli che non pagano il mutuo, il governo greco vorrebbe “salvare” i poveri. E dove siamo? A Cuba?

Nota finale. I crediti deteriorati in Grecia sono circa 88 miliardi, oltre il 45% del totale dei prestiti (l’Italia è sotto al 10, la media Ue vicina al 3,5%): se però non si possono espropriare le garanzie reali, il fondo avvoltoio non gode e il giochino del mercato degli Npl non funziona. Ci pensa la Ue allora a ricordare ai greci le superiori ragioni del mercato: e mica siamo a Cuba?

Paraculi contro vittime: ma quanto è antica la neo-lingua del potere

Per il suicidio assistito non hanno nemmeno dovuto andare in Svizzera, lo hanno fatto da casa, cliccando sul salvacondotto per Salvini Matteo, imputato per sequestro di persona. In pratica trentamila italiani, hanno detto alla magistratura in puro stile Antonio Razzi: “Amico mio, fatti li cazzi tua”, una notevole riforma della Costituzione. Nello stesso istante il presunto sequestratore offriva il petto al plotone di esecuzione sapendo che i fucili sono caricati a salve. Riesce così a scappare da un processo e al tempo stesso a mangiarsi i suoi alleati che hanno preso a picconate i loro sacri (?) principi. Gioco, partita, incontro: un caro pensiero al movimento dell’uno-vale-uno che ci saluta da lassù.

Nelle stesse ore, quasi negli stessi minuti, finivano ai domiciliari i coniugi Renzi, genitori di cotanto figlio, che subito ci spiega che lui voleva cambiare il Paese e per questo gli arrestano mamma e papà. A leggere i social l’altra sera (hasthag #SiamotuttiMatteoRenzi, risposta #colcazzo) sembrava che avessero arrestato i genitori di Gramsci per cospirazione e non due persone per bancarotta e fatture false. Un divertente ritorno al passato, dove non risuona la formula “giustizia a orologeria” solo perché nessuno vuole pagare la Siae a Silvio.

Ora, lascerò ad esperti e dietrologi le superbe analisi sui due casi incrociati, i complottismi, gli sfottò da tifoserie in lutto e/o visibilio e dirò due parole sulle parole. Sì, le parole, per dirlo.

Eravamo abituati a una neolingua smart e anglofona, dove il furto di diritti si chiamava rotondamente Jobs act e il condono per gli esportatori di valuta Voluntary disclosure. Roba al passo coi tempi, tecnica, da consiglio di amministrazione. Ora l’inglese non va più di moda e tornano i vecchi cari azzeccagarbugli manzoniani, un po’ come se la neolingua tornasse a casa, dall’empireo del global business a materia per avvocaticchi. Un “sequestro di persona” che diventa “ritardo nello sbarco” (nel quesito per firmare online il salvacondotto a Salvini) fa abbastanza ridere, è come dire che un omicidio è “interruzione indotta dell’attività cardiaca”. E siccome la neolingua non riguarda solo le parole nuove, ma anche quelle vecchie che non si devono usare più, ecco che nel referendum sull’immunità a Salvini la parola “immunità” non compare mai, per essere una neolingua suona abbastanza old-paracula.

Un’altra neolingua che viene dritta dal passato ce la regalano i renzisti della rete, quell’esercito di ultras speculare e contrario che scava nella sua memoria vocaboli per dire l’ingiustizia, e trova solo le vecchie parole di Silvio buonanima. Unanime evocazione del pensiero del capo: “Perché proprio oggi?”. “Cercano di fermarlo”. “Lo attaccano sulla vita privata”. Un focherello di grida al complotto (ma la parola “complotto” è vietata in quanto precocemente usurata) avviato da Renzi in persona: “Se io non avessi cercato di cambiare questo paese i miei oggi sarebbero tranquillamente in pensione”. Tradotto in italiano: me la fanno pagare.

Il vertice della neo-vecchia-lingua berlusconiana lo tocca l’onorevole Pd Luciano Nobili che dice: “Prima un vero e proprio colpo di stato per farlo fuori da Palazzo Chigi. Ora, addirittura, vengono arrestati i suoi genitori”. Quindi, a rafforzare l’idea che Matteo Renzi sia vittima di un complotto arriva anche un certo revisionismo storico: fu cacciato da Palazzo Chigi con un “golpe” (cfr. “Berlusconi: golpe contro di me”, novembre 2013 e stessa solfa per anni). Ma siccome il bello della rete è il “tempo reale”, accade che le due neolingue (paraculismo burocratico e vittimismo di matrice arcoriana) si mischino, si intreccino e si sovrappongano. Parole spiegazzate, stirate male, furbizie parallele eppure convergenti: le parole di un potere (di qui e di là) non all’altezza. Nemmeno delle parole.

Anche musica italiana: in radio come al cinema

La Lega, pur avendo apparentemente maggiori preoccupazioni, si è affezionata assai a Sanremo. “Auspichiamo – dice l’onorevole Paolo Tiramani, capogruppo in commissione di Vigilanza Rai – che la conduzione artistica del prossimo Festival non ricada per la terza volta su Claudio Baglioni. Ma anche che il Festival diventi veramente la kermesse della musica italiana, un programma del popolo e non di una élite di artisti selezionati probabilmente da un ristrettissimo numero di persone”. Ora noi non sappiamo bene, forse per mancanza di sufficiente creatività, cosa sia la “conduzione artistica” (e come “ricada” su chicchessia), nemmeno capiamo cosa sia un “programma del popolo”, ma ci sentiamo di affermare serenamente che quello firmato da Claudio Baglioni è stato certamente un festival della musica italiana: un numero spropositato di telespettatori ha ascoltato canzoni ininterrottamente per cinque sere. Ed erano tutte italiane. A Tiramani fa eco il collega Alessandro Morelli, presidente della commissione Trasporti e telecomunicazioni della Camera ed ex direttore di Radio Padania: “La vittoria di Mahmood all’Ariston dimostra che grandi lobby e interessi politici hanno la meglio rispetto alla musica”. E qui, anche sforzandosi, è impossibile dire dove risieda la logica e come sia dimostrabile che la vittoria del cantante più scaricato sulle piattaforme digitali sia una vittoria delle lobby. Quanto agli interessi politici Morelli ha certamente chiaro che Mahmood di nome si chiama Alessandro ed è “italiano al cento per cento”.

Ribadito tutto ciò, Morelli è anche il primo firmatario di una proposta di legge in cui si prevede che le emittenti radiofoniche riservino “almeno un terzo della loro programmazione giornaliera alla produzione musicale italiana, opera di autori e di artisti italiani e incisa e prodotta in Italia, distribuita in maniera omogenea durante le 24 ore di programmazione”. E ancora, una quota “pari almeno al 10 per cento della programmazione giornaliera della produzione musicale italiana è riservata alle produzioni degli artisti emergenti”. Secondo Morelli nelle dieci emittenti radiofoniche più ascoltate nel nostro Paese la quota media di repertorio italiano è inferiore al 23 per cento, con alcuni casi limite in cui si arriva al 10 per cento. Si deve sapere che esistono già norme simili in altri Paesi europei. Oltralpe per esempio, dal 1994, le radio sono obbligate a trasmettere musica francese per una quota pari al 40 per cento della programmazione giornaliera. E qui da noi: la legge sul cinema (decreto Franceschini, 2017) prevede che da quest’anno aumenti gradualmente la quota minima giornaliera di programmazione dedicata a “film, fiction e programmi” di produzione europea: dovrà raggiungere il 55 per cento, nel 2020 il 60 per cento. Di questi programmi europei, almeno un terzo deve essere italiano; per la Rai, invece, dovrà esserlo almeno la metà. Nella prima serata, tra le 18 e le 23, tutte le reti dovranno trasmettere almeno una volta a settimana un film, una fiction, un documentario o un film di animazione italiani.

Prima di gridare allo scandalo sovran-protezionista (e nonostante una certa naïveté dei protagonisti) pensiamoci bene: più che “prima la musica italiana” sembra “anche la musica italiana” (o il cinema). Ci resta solo un dubbio: non è chiaro in quale quota staranno Buona sera del grande Luis Prima o Una vipera sarò di Giuni Russo…

Renzi e quelli che “è un colpo di Stato”

Il via lo dà lui in persona, con un lungo post a social unificati in cui, com’è ormai consuetudine, allude, sparacchia, insinua, e soprattutto contesta i tempi: “Sulla vicenda che oggi, casualmente oggi, ha colpito i miei genitori”. Forse intende “oggi che si votava su Rousseau”, nel qual caso l’allusione sarebbe alla precisa volontà della magistratura di minimizzare i bug della piattaforma della Casaleggio Associati con l’uscita a sera di una notizia bomba sui congiunti di Renzi, tenuta appositamente in serbo per casi come questi.

Oppure quel “casualmente” significa “oggi che presentavo il libro a Torino”, evento che infatti è stato cancellato (sarebbe stato stridente ripetere lo show di Milano in cui Renzi minacciava di querela chiunque abbia osato nominare invano la santissima Trinità). Forse, nella sua particolare idea di democrazia, per notificare l’arresto ai domiciliari dei genitori i pm avrebbero dovuto aspettare che finisse il tour promozionale, e magari, ecco, avere la delicatezza di concordare l’agenda con l’ufficio stampa della casa editrice, se non proprio aspettare di vedere se al successo di Un’altra strada, di cui abbiamo rivelato il potenziale rivoluzionario, corrisponderà un rilancio del Renzi-leader, anche se non si sa ancora di cosa. Del resto, in merito a ogni indagine a carico di babbo Tiziano la reazione sulla “tempistica perfetta” è stata la stessa: pur “credendo nella giustizia”, formuletta di circostanza infatti subito dopo smentita da un “ma”, di quella stessa giustizia, come il Berlusconi dei tempi d’oro, Renzi ha sempre disapprovato la scelta del “momento” in cui palesarsi. Ma: se prima non si poteva perché era segretario, prima ancora premier, domani potrebbe esser candidato, quale sarebbe il momento giusto? A pensarci bene, i magistrati potrebbero voler tappare la bocca al Renzi conferenziere di successo, scrittore visionario, documentarista scomodo, insomma manca poco e siamo nella Russia di Putin.

A sciame, i renziani offrono solidarietà al perseguitato politico, preso di mira nel pieno della sua ascesa, mentre sta cercando di cambiare l’Italia. Fa niente se lo spazio-tempo contesta questa interpretazione: come nella Turchia post-golpe di Erdogan, la libertà è sempre in pericolo. Viene coniato un hasthag, #SiamoTuttiMatteoRenzi, come se la famiglia fosse stata crivellata dall’Isis.

La deputata di Bolzano Boschi scrive un tweet sulla cui decodifica si stanno esercitando linguisti, filologi, neurologi e egittologi: “Continuo a credere nella giustizia, nonostante tutto. Ma credo ancora più di prima che questo Paese abbia bisogno del coraggio di Matteo Renzi. Noi continueremo la nostra battaglia, sempre dalla stessa parte #siamotuttiMatteoRenzi”. Inutile segnalare che quel “ma”, nella sua particolare posizione, mette anche visivamente in contrapposizione la giustizia e Renzi; queste sono finezze che quando hai la polizia segreta alle calcagna non hai tempo di valutare (e questi sono quelli che volevano cambiare la Costituzione).

Scalfarotto guarda il fattaccio alla luce dell’eternità: “Gli storici scriveranno brutte cose sul nostro presente”. Il più misurato è Luciano Nobili (non chiedeteci che incarico abbia): “Prima un vero e proprio colpo di stato per farlo fuori da Palazzo Chigi. Ora, addirittura, vengono arrestati i suoi genitori. Vicende che fanno paura, indegne di un paese civile. Ha provato a cambiare davvero le cose, vogliono fermarlo ad ogni costo”.

Al mattino, dall’esilio di Ventotene, Renzi redige: “Da uomo delle istituzioni dico: mi fido della giustizia… non riusciranno a farmi parlar male dei giudici”. Infatti subito dopo ne parla male: “Io conosco la verità che nessuno vuole dire: se non avessi fatto politica, oggi i miei genitori non subirebbero questo. Lo sanno anche i sassi”.

Nel frattempo ci logora la fondamentale questione: ma quale attività di Renzi la magistratura starebbe cercando di intralciare? Si tratta di particolari proposte di legge del senatore di Firenze-Scandicci? O forse i pm si sono messi a indagare sulla presunta bancarotta fraudolenta dei Renzi perché il figliolo voleva abolire il Cnel? O trattasi di vendetta per le unioni civili? In ogni caso, Renzi, offre il petto al plotone d’esecuzione: “Prendetevela con me. Non con la mia famiglia”.

Nel post scriptum, come nella coda dello scorpione, il veleno: “Inutile dire che la vicenda dei miei genitori ha totalmente oscurato tutto ciò che è accaduto ieri nel mondo della politica. Basta leggere i quotidiani di oggi per rendersene conto. Un capolavoro mediatico, tanto di cappello”, il che conferma quanto sospettavamo: i giudici, in combutta coi direttori dei giornali, hanno disposto l’arresto dei coniugi Renzi per oscurare il voto degli iscritti al M5S a favore dell’immunità di Salvini, quando, al limite, l’unica immunità da contemplare sarebbe quella per i congiunti degli ex presidenti del Consiglio e dei loro ministri/amici.

“Serena Mollicone fu uccisa dal figlio del comandante”

Serena Mollicone fu uccisa da Marco Mottola, figlio dell’allora comandante dei carabinieri di Arce. Lo scrivono i carabinieri che indagano sulla morte della diciottenne in un’informativa consegnata al sostituto procuratore di Cassino Maria Beatrice Siravo. Un tassello fondamentale, forse l’ultimo, per chiudere il cerchio sull’inchiesta. Utile anche a chiarire uno dei passaggi sinora rimasti più oscuri, quello del trasporto del corpo esanime della diciottenne dalla caserma al boschetto di Anitrella. E non si esclude che le indagini possano concludersi ufficialmente anche con un numero maggiore di indagati. Serena Mollicone scomparve da Arce, piccolo centro in provincia di Frosinone, il 1 giugno 2001 e venne poi trovata priva di vita ad Anitrella. L’ipotesi è che la ragazza il giorno della sua scomparsa si fosse recata presso la caserma dei carabinieri, per denunciare qualcosa. A quel punto, portata in un alloggio in disuso di cui aveva disponibilità la famiglia dell’allora comandante, la giovane sarebbe stata aggredita. Creduta morta, sarebbe stata portata nel boschetto. Vedendo in quel momento che respirava ancora, sarebbe quindi stata soffocata e sarebbero iniziati i depistaggi.

“Pentiti da bruciare”, scoperti gli autori: due sono minorenni

Parlò di “schifosa circostanza”, l’assessore alla Legalità Gianpaolo Scafarto, il carabiniere del caso Consip prestato alla giunta di Castellammare di Stabia (Napoli), riferendosi al falò della notte dell’Immacolata di una catasta di legno con un manichino e lo striscione “così devono morire i pentiti abbruciati”. Avvenne pochi giorni dopo una quindicina di arresti contro il clan che imponeva il pizzo, ottenuti grazie anche alle dichiarazioni di due collaboratori di giustizia. Ieri hanno individuato le cinque persone – due sono minorenni – che hanno appiccato il fuocarazzo al Rione Savorito, il luogo dove si è sviluppato “un colossale mercato della droga”, scrive il Gip di Napoli Valeria Montesarchio nell’ordinanza che costringe i tre maggiorenni al divieto di dimora in Campania, accogliendo parzialmente le richieste del pm anticamorra Giuseppe Cimmarotta che li voleva in carcere con l’accusa di istigazione a delinquere aggravata dal metodo camorristico. “Fu solidarietà al clan e minaccia ai pentiti dopo gli arresti” concordano Procura e Gip. Uno dei tre si chiama Francesco Imparato, 24 anni, ed è figlio e nipote di Michele ‘Zi Peppe’ e Salvatore Imparato, condanne importanti alle spalle ed esponenti dei ‘Paglialoni’, la famiglia che controlla lo spaccio al Savorito. Nelle immagini diventate virali, carabinieri e polizia lo riconoscono subito. Per gli altri c’è voluta qualche indagine in più, uno – Antonio Artuso, 18 anni – ha ammesso i fatti, il terzo si chiama Fabio Amendola, 31 anni.

Scafarto aveva chiesto invano sin da ottobre la convocazione di un comitato per la sicurezza sul tema ‘fuochi dell’Immacolata’ e la notte tra il 7 e l’8 dicembre la rete dei controlli fece acqua. La coltre di fumo impedì il rapido intervento dei carabinieri, e in piazza un neomelodico, Tony Marciano, dal palco ringraziava “Salvatore della Faito” per il concerto. Era stato ingaggiato da una ditta riconducibile agli Imparato.

Tangenti, biglietti Champions e favori: in manette i vertici dell’Ente previdenza infermieri

A un anno da quando il Fatto denunciò i “privilegi” che si erano auto conferiti i vertici dell’Enpapi – l’ente di previdenza degli infermieri precari –, il presidente Mario Schiavon e il direttore generale Marco Bernardini sono finiti in carcere su ordine del gip Elvira Tamburelli con le accuse di corruzione e fatture per operazioni inesistenti. L’indagine del pm Alberto Pioletti, scattata dopo una segnalazione della Banca d’Italia, ha portato alla luce un giro di tangenti da 350 mila euro. Sotto la lente sono finite diverse operazioni di compravendita immobiliare fittizia, consulenze d’oro e scambi di favori. Le presunte mazzette sono di varia natura e comprendono anche due biglietti aerei per la finale di Berlino di Champions League del 2015 tra Barcellona e Juventus. Coinvolti anche un avvocato d’affari e un imprenditore che facevano parte di questo sistema basato su investimenti che secondo i pm sarebbero serviti a distrarre soldi. Nel novembre del 2017, l’infermiere in pensione Mario Schiavon venne convocato dalla Commissione parlamentare di vigilanza sugli Enti Previdenziali. A Schiavon, da 16 anni alla testa dell’Enpapi, veniva contestava anche l’attibuzione di “gettoni di presenza” da 400 euro non solo per le partecipazioni alle riunioni del Cda, ma anche per le sue presenze negli uffici Enpapi. Decisione che non sembra rispettare la logica del gettone di presenza e riuscendo, attraverso questi, a raddoppiare quasi del tutto il suo già lauto stipendio di 110 mila euro. La Commissione inoltre gli contestava di avere ingaggiato per fini personali e pagato con i soldi della Cassa di Previdenza una società di lobby, la Sec. Essendo Schiavon in pensione quando iniziò nel 2015 l’attuale quarto mandato, secondo la legge Madia non avrebbe potuto ricevere alcuna remunerazione da allora. Ma proprio grazie al lavoro delle lobby, all’interno dell’allora Maxiemendamento spuntò la modifica auspicata da Schiavon.