La frase è trita ma adatta: rimettere il dentifricio nel tubetto. Un’operazione improba che, per sfortuna, tocca a uno dei governi più deboli del Dopoguerra. Riavvolgere il nastro delle privatizzazioni non è un capriccio del governo gialloverde: sono d’accordo tutti i partiti. C’è da salvare Alitalia, privatizzata a carissimo prezzo nel 2008 da Silvio Berlusconi e fatta fallire dai mitici privati. C’è da recuperare Condotte, gloriosa impresa di costruzioni privatizzata vent’anni fa. E c’è soprattutto il problema di Tim, la Telecom Italia privatizzata nel 1997 da Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi. Era una delle migliori compagnie al mondo, le scorrerie degli scalatori hanno lasciato all’Italia il peggior sistema di telecomunicazioni d’Europa.
Vince la mai sopita voglia della politica di allungare le sue manacce sull’economia? Un po’ sì, ma il dato prevalente è l’ennesimo fallimento del capitalismo italiano. Al crepuscolo della Prima Repubblica i liberisti a gettone orchestrati da Confindustria tuonavano contro il “panettone di Stato” e l’allora potentissimo ministro Paolo Cirino Pomicino ridacchiava: “Quando abbiamo dovuto irizzare (si diceva così, ndr) la Motta e l’Alemagna non ho visto i privati in coda per prendersele”. Infatti i privati erano interessati solo ai bocconi migliori, li hanno ottenuti, hanno mangiato e sputato l’osso, hanno fatto il ruttino e hanno protestato: “Era un po’ pesante”.
Al posto dell’Iri adesso c’è la Cassa depositi e prestiti (Cdp) che, con molta audacia, scommette il risparmio postale degli italiani sul rilancio delle imprese cosiddette strategiche. Domani l’amministratore delegato Luigi Gubitosi di Tim presenterà un piano industriale di auspici. Il principale sarà il ritorno alla rete telefonica unica, operazione complessa che richiede l’accordo di tutte le parti in campo: Tim, Cdp, Open Fiber (rete telefonica di Cdp e Enel), governo, Agcom (autorità delle comunicazioni). Se uno solo non ci sta salta tutto.
La privatizzazione di Telecom Italia fu accompagnata dalla liberalizzazione. La rete telefonica è un servizio come un altro, in concorrenza. Tim non ha fatto gli investimenti necessari e oggi le connessioni Internet fanno rimpiangere il telegrafo. Matteo Renzi ebbe un’idea assurda, ma era potente e tutti gli esperti si complimentarono: chiese all’amministratore delegato dell’Enel Francesco Starace, appena nominato, di costruire una nuova rete in fibra ottica per fare concorrenza a Tim e metterla nell’angolo. Starace, in società con Cdp, ha investito sulla nuova rete 4,5 miliardi che non si sa se e quando frutteranno qualcosa.
Tim nel frattempo fatica, la sua rete è vecchia e carica di personale, oltre 20 mila persone, e il debito ereditato dagli scalatori impedisce di fare investimenti. Solo quando Renzi si è spiaccicato sul referendum gli esperti hanno scoperto che investire su due reti telefoniche era demenziale. La strategia l’ha impostata il governo Gentiloni: Tim scorpora la sua rete e la fonde con Open Fiber, la nuova società esce dal perimetro di Tim e va sotto l’ombrello statale di Cdp. A una rete non controllata da uno degli operatori telefonici l’Agcom potrà concedere tariffe fissate su base Rab (regulatory asset base), in modo da remunerare gli investimenti, come già accade con Terna.
Le difficoltà da superare sono molteplici. Scorporare la rete telefonica da Tim potrebbe richiedere anche due anni per la fissazione del perimetro: bisognerà stabilire quasi cavo per cavo dove finisce la rete dell’operatore telefonico e dove inizia quella della nuova società. Poi ci saranno da fissare i valori: la rete Tim è stimata da 10 a 15 miliardi, quella di Open Fiber da zero a 1,5 miliardi. Quella dei valori di concambio sarà una battaglia durissima. E poi, quanti dipendenti e quanti debiti la rete Tim si porterà dietro?
Per adesso si tenta di parlarne. Da una ventina di giorni i tecnici di Tim e di Open Fiber hanno istituito un tavolo dove si scambiano dati per dare ai capi azienda una base di discussione comune. L’amministratore delegato di Cdp Fabrizio Palermo vuole la fusione delle due reti perché teme che Open Fiber (di cui ha il 50 per cento) sia un bagno di sangue. Starace, che ha l’altro 50 per cento, fa resistenza, i maligni sospettano che non voglia riconoscere di aver fatto un investimento sbagliato. Sull’altro fronte Palermo è anche azionista di Tim con il 5 per cento, comprato ad aprile 2018 dal suo predecessore per aiutare il fondo Elliott (favorevole allo scorporo della rete) a scalzare i francesi di Vivendi, contrari alla perdita di controllo dei cavi. All’assemblea del 29 marzo gli uomini di Vincent Bollorè tenteranno il controribaltone, e Palermo per dare manforte a Gubitosi ha annunciato l’acquisto di un altro 5 per cento, con il quale l’investimento di risparmio postale in azioni Tim salirà a 1,3 miliardi, di cui 300 milioni sono stati già persi.
Dopo l’assemblea ci si potrà mettere seriamente all’opera con l’obiettivo di farcela in un paio d’anni di lavoro serrato. Naturalmente a patto che ci sia ancora un governo in grado di dare direttive.