La filiera del riciclaggio rifiuti dei dipendenti “infedeli” Ama: mazzette, sabotaggi e roghi

Documenti falsi e mazzette per smaltire rifiuti pericolosi nelle isole ecologiche, nelle stesse discariche dove si sarebbe sviluppato anche un mercato nero in cui alcuni dipendenti infedeli dell’Azienda Municipalizzata Ambiente di Roma vendevano i componenti “pregiati” della spazzatura. Indagine dopo indagine gli inquirenti risalgono alle cause che hanno portato la Capitale d’Italia a essere una delle città più sporche d’Europa. Così, mentre i consulenti nominati dalla Procura depositano una relazione da cui emerge che qualcuno, nel dicembre scorso, ha volontariamente spento le telecamere di sicurezza pochi giorni prima che il Tmb di via Salaria andasse a fuoco, i carabinieri e gli agenti della Municipale mettono a segno l’ennesima operazione: 13 arresti, altri 10 provvedimenti restrittivi e 25 mezzi sequestrati. Secondo la Direzione Distrettuale Antimafia di Roma esisteva una vera filiera del traffico dei rifiuti. Un sistema capace di spiegare anche l’incremento dei roghi dell’estate del 2017, quando la Capitale sembrava costantemente avvolta dalle fiamme. “Volevo offrì un caffè”, dicevano gli imprenditori che elargivano mazzette da 30 o 50 euro a tre dipendenti Ama infedeli per conferire nel centro di raccolta di Mostacciano rifiuti pericolosi. I funzionari pubblici spesso si appropriavano delle parti pregiate della spazzatura, come il litio o il rame. Altre volte vendevano i rifiuti ai rom. Questi ultimi, una volta ricevuta la spazzatura, la rivendevano in diversi centri rottami attraverso falsa documentazione. In altre occasioni i rifiuti sarebbero stati incendiati. E a dargli fuoco sarebbero stati dei minorenni, istigati dai genitori a commettere reati. L’inchiesta ha origine nel 2017, grazie alle segnalazioni dei cittadini e dei comitati di quartiere che hanno denunciato continui roghi. Le indagini coordinate dai procuratori aggiunti Michele Prestipino e Nunzia D’Elia hanno poi permesso di smascherare l’associazione dedita al traffico dei rifiuti.

“I Casalesi al posto della mafia del Brenta”. Retata in Veneto, in cella sindaco di Eraclea

Se lo ricordano ancora quello scrutinio mozzafiato a Eraclea, cittadina turistica dell’Adriatico. La notte del 5 giugno 2016, l’avvocato Mirco Mestre, astro nascente del centrodestra, bruciò per 81 voti il sindaco uscente di centrosinistra Giorgio Talon: 2.528 consensi contro 2.447. Un’inezia, equivalente allo 0,78%. Ma erano voti dei casalesi. Così emerge dalle pieghe dell’inchiesta della Dda di Venezia “At Last” che ha portato in carcere una cinquantina di persone (anche a Casal di Principe) e sequestrato beni per 10 milioni di euro, sgominando probabilmente la prima cellula camorristica che ha trapiantato nel ricco Nord-est i metodi di intimidazione e controllo del territorio tipici delle organizzazioni mafiose. Le indagini son state condotte dal Gico della Guardia di Finanza e dalla Squadra mobile lagunare.

Quello del sindaco Mestre, accusato di voto di scambio, è l’esempio più eclatante. Durante la conferenza stampa a cui era presente il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, il procuratore veneziano Bruno Cherchi ha commentato: “Il coinvolgimento di un sindaco per mafia è il primo caso in assoluto per il Veneto. Avrebbe ricevuto quei pochi voti necessari, in cambio di favori al clan dei Casalesi, coperture a strade più rapide nella gestione delle attività economiche”. Ma c’è anche un altro caso, inconsueto in una terra che si scopre frontiera dell’illegalità. La fidanzata di un direttore di banca era stata derubata della borsa con la tesi di laurea. Una sciagura a cui l’uomo pensò di ovviare non denuciando il reato ai carabinieri, ma rivolgendosi ai camorristi. In 24 ore il bottino era stato recuperato. Il risultato fu, come ha raccontato Cafiero de Raho, che “il direttore è diventato ostaggio dei Casalesi nell’aiutarli, da bancario, nei loro traffici illeciti, segno di quanto la pervasività dei camorristi sia stata capillare e profonda”.

Ma è l’architettura complessiva che preoccupa. “Per la prima volta, nell’operazione più importante nei confronti della Camorra nel Nord-est, abbiamo accertato una presenza strutturata nel territorio, profondamente penetrata nel settore economico e bancario” ha detto Cherchi. La cosca agiva anche a San Donà di Piave e sul litorale di Caorle e Jesolo, una spiaggia lunga decine di chilometri. La camorra, entrava nelle aziende e creava società per farle fallire. Ma c’è anche il corollario criminale classico, fatto di droga, prostituzione, lavoratori illegali nelle imprese, riciclaggio, usura, estorsioni e rapine.

“Nel Veneto orientale – ancora De Raho – la Camorra non si comporta diversamente che in Campania o altre regioni”. Si tratta dei casalesi dei clan Bianco e Bidognetti, con il boss Francesco, detto “Cicciotto” e “mezzanotte”. Secondo l’accusa, i capi nel veneziano erano Luciano Donadio e Raffaele Buonanno (già in zona negli Anni 90). Poi un gruppo di Casal di Principe (Antonio Puoti, Antonio Pacifico, Antonio Basile, Giuseppe Puoti e Nunzio Confuorto). Tra gli arrestati, oltre al sindaco Mirco Mestre, c’è anche Denis Polese, direttore di banca a Jesolo (il suo predecessore è solo indagato) per aver garantito conti societari, e il poliziotto Moreno Pasqual, che avrebbe passato informazioni riservate.

“Mai pagato in nero”. Ma i lavoratori lo smentiscono

“Non ho lavoratori in nero” scriveva su Facebook Tiziano Renzi in autunno. Intanto una sua società, la Arturo Srl, è stata condannata a risarcire per 90 mila euro Evans Omoigui. La sua storia era stata raccontata da Le Iene: nel 2007 era stato assunto come co.co.co. a 750 euro al mese, ma licenziato appena due mesi dopo aver chiesto di essere regolarizzato. E La Veritàha raccolto le vicende di ex dipendenti della Speedy Florence, seconda metà degli Anni 90. Un di loro, anonimo, ha raccontato: “All’inizio prendevo 700 mila lire al mise più 100 mila a copia di giornale. Poi Tiziano ha scoperto che gli conveniva darci tutto in nero. Prendevo 500 lire per ogni copia”. Agli atti dell’inchiesta fiorentina emerge un altro caso di lavoratore presso una delle cooperative a nero. “Carcione Luigi ha riferito di aver lavorato ‘’in nero’ per la Delivery service presso una piattaforma logistica in Pisa località Ospedaletto ove si occupavano della consegna dei vini di Giordano Vini”. “Rendicontavo i pagamenti e l’attività settimanalmente alla Delivery Service (…). L’interlocutrice della casella di posta elettronica della Delivery Service alla quale inviavo tale rendiconto era tale ‘Lalla’”, ha detto ai pm.

“Giustizia per Sana”. Conte scrive al premier pachistano

Processare i familiari di Sana in Italia, a Brescia. Contestando loro il reato di delitto politico. È la strada che vuole tentare la procura di Brescia, dopo che in Pakistan sono stati tutti assolti gli undici imputati – padre, fratello e altri parenti – dell’omicidio di Sana Cheema, la 26enne di origini pakistane che viveva a Brescia e che qui aveva un fidanzato italiano, trovata morta il 18 aprile scorso durante un viaggio nel suo Paese d’origine. Uccisa, secondo gli amici italiani che hanno denunciato per primi la vicenda; morta per un incidente, secondo i suoi parenti. Ma non è l’unica iniziativa italiana, anzi: perchè oggi il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha inviato una lettera al suo omologo in Pakistan in cui chiede che “venga fatta luce al più presto sul brutale assassinio della giovane Sana Cheema, che ha scosso dal profondo il nostro Paese”. Il premier ha pubblicato su Facebook la lettera, in cui spiega che l’opinione pubblica italiana, dopo l’assoluzione degli imputati, si aspetta “che i responsabili siano assicurati alla giustizia” aggiungendo che l’auspicio viene fatto “pur nel rispetto delle prerogative e dell’indipendenza della magistratura pakistana”.

Cerchi lavoro? C’è Tiziano, il “babbo” di tutta Rignano

Tiziano Renzi è un po’ il “babbo” di tutti a Rignano sull’Arno. A lui si rivolgevano i suoi concittadini per cercare lavoro. Una sorta di agenzia di collocamento che faceva affidamento sulle cooperative delle quali – secondo le accuse dei pm di Firenze – si servivano i Renzi per caricare “dolosamente” i debiti previdenziali e fiscali. Lo racconta ai magistrati Carla Baldoni, che ha lavorato nella Delivery Service. “Era senza lavoro, mi sono rivolta a Tiziano Renzi (…) sapendo che conosceva tanta gente; è stato lui che mi ha indicato la cooperativa; mi sono recata (…) a Pian dell’lsola, dove sapevo che lavoravano Tiziano e la moglie e con lei ho sottoscritto il contratto”. Anche Marco Dolfi racconta: “Sono stato assunto da Tiziano Renzi, per conto della Delive1y Service. Ho conosciuto Renzi a qualche assemblea politica”. Agli atti dell’indagine ci sono anche le mail di Laura Bovoli che, per i pm, dimostrano “come si sia occupata dei contratti e dei compensi del personale della Delivery Service”: “Risulta che tra il 29/30 settembre 2009 vi è stato uno scambio di mail tra ‘Lalla’ e Matteo Mordini (…) relative all’assunzione di fattorini da destinare alla distribuzione del quotidiano gratuito Leggo”. Ecco la mail: “Ti allego 30 nominativi per assunzioni (distribuzione Leggo). Li assumiamo tutti a tempo determinato dal 5 ottobre 2009 al 6 agosto 2010. Qualifica la solita: fattorini”. Dalle carte dell’indagine che ha portato Tiziano Renzi e Laura Bovoli ai domiciliari emerge pure un sistema di false fatturazioni della cooperativa Marmodiv emesse da società, anche di extracomunitari. Come nel caso di una società intestata a Priyantha Punchinewa. Che ai pm “ha riferito che l’apertura della partita Iva e la conseguente emissione di fatture alla Marmodiv per la distribuzione di volantini gli era stata richiesta dal suo connazionale Nisantha, quale favore per avergli trovato lavoro presso la Marmodiv. (…) L’accordo prevedeva poi la restituzione delle somme erogate”.

Il “nemico” Maiorano e Silvia Gabrielleschi: la “fonte Marika” che veniva dalla Marmodiv

Fine agosto 2018, squilla il telefono: “Mi chiamo Marika Pecchioli…”. La donna si presenta così, telefonando da un numero anonimo, al più acerrimo avversario fiorentino di Matteo Renzi, Alessandro Maiorano, dipendente del Comune di Firenze che dal 2011 ha più volte – senza risultati – denunciato l’ex premier. “Lei è un mito per me”, gli dice al telefono e lui gli risponde impettito: “Non sono un mito. È che non ho paura di nulla quando si tratta di Renzi”. “Lei – continua la donna – ci ha mai pensato a quanti soldi fanno questi signori portando al macero i volantini?”. Ecco, la signora è una dipendente della Marmodiv, una delle società cooperative finite sotto la lente della Procura di Firenze che, due giorni fa, ha disposto per i genitori dell’ex premier gli arresti domiciliari.

Non solo. È anche una delle testi principali dell’accusa. Ma in quei mesi del 2018 ha deciso di raccontare tutto quello che sa a Maiorano: “Gli organi preposti al controllo sono già venuti. Pensavo che questo potesse avvalorare…”, continua la donna, prima di fissare un appuntamento di persona. Maiorano rintuzza: “Lei potrebbe essere la persona più onesta di questo mondo oppure essere una mitomane: ha le prove?”. Marika non è una mitomane, altrimenti la Procura di Firenze non l’avrebbe ritenuta attendibile, e non è neanche Marika: il suo nome è Silvia Gabrielleschi e compare più volte nell’ordinanza che ha portato Tiziano Renzi e Laura Bovoli agli arresti domiciliari. Prima di parlare con i pm, però, aveva deciso di contattare Maiorano per raccontargli tutto e promettergli documenti che avrebbero potuto incastrare i Renzi dai quali si era sentita trattata come un “burattino”. I due si incontrano in un centro commerciale di Prato.

La donna – a detta di Maiorano – gli mostra una scatola piena di documenti sfuggiti alla perquisizione della Finanza effettuata nell’ottobre 2017. In realtà la “fonte Marika” era già stata ascoltata dalla Procura tre mesi prima, a giugno, quando racconta la sua esperienza in Marmodiv. “Gabrielleschi – scrive il gip – ha riferito della sovrapposizione di soggetti che operavano per Marmodiv e per la Eventi 6 confermando le l’ipotesi che le due strutture societarie venissero utilizzate in modo unitario”. A Maiorano, la “fonte Marika”, promette una serie di documenti, soprattutto fatture, a suo dire false e che la Guardia di Finanza non aveva ancora trovato. E poi mail interne e altri atti che, in qualche modo riguarderebbero anche Monte dei Paschi di Siena. Di tutto questo, però, Maiorano non vedrà nulla o quasi. Gli appuntamenti saltano. Marika – che nel frattempo rivela la sua vera identità a Maiorano – rimanda di volta in volta la consegna. Un giorno sostiene di essere stata perquisita, ma i documenti sono al sicuro, perché li ha nascosti nel vano della ruota di scorta. La donna – che nel frattempo con la Procura ha fatto il suo dovere testimoniando – inizia a cambiare idea, sembra impaurita dall’idea di passare informazioni a Maiorano, che a ottobre, dopo l’ennesimo appuntamento saltato, si presenta nella caserma della Gdf di Prato: “Circa due mesi addietro – spiega ai finanzieri – il mio avvocato Carlo Taormina ricevette una telefonata da un soggetto di sesso femminile che si presentò come Marika Pecchiolli e gli chiese la mia utenza cellulare…”. E ancora: “Ha circa 40, di corporatura robusta, capelli corti…”.

Dal verbale si scopre che Taormina le propose di denunciare il tutto in Procura, oppure, visto che appariva impaurita, di proporsi come “fonte confidenziale” al “Comando generale della Gdf”. Maiorano racconta che, secondo “Marika”, Tiziano Renzi sapesse in anticipo della perquisizione e avesse fatto ripulire i computer in anticipo. Tesi non ritenuta convincente dalla Procura che infatti, sul punto, non ha aperto alcuna indagine.

I pm: “Disegno criminoso da tempo”

 

Firenze.  Quella della Procura di Firenze, che ha disposto gli arresti domiciliari per Laura Bovoli e Tiziano Renzi, non è l’unica inchiesta che tocca i genitori dell’ex premier, qui accusati di bancarotta fraudolenta e false fatturazioni. Per i pm si tratta di “fatti non occasionali, un disegno criminoso in c orso da tempo”.

 

Cuneo. Per Laura Bovoli è stato chiesto il rinvio a giudizio per concorso in bancarotta fraudolenta. per il crac della Direkta, società attiva nel campo della distribuzione di volantini, finita nel mirino dei pm per i suoi rapporti con la Eventi6 legata ai Renzi. Secondo l’accusa la Direkta, prima di fallire operava come società subappaltante dei Renzi e restituiva una percentuale ai suoi committenti.

 

Genova. La prima inchiesta è però quella genovese che, nel 2016, dopo quasi due anni d’indagine, si è chiusa con l’archiviazione: Tiziano Renzi era indagato con l’accusa di bancarotta fraudolenta per il crac della Chil post, un’altra società di distribuzione, fallita nel 2013. In quella vicenda era coinvolto il padre di Mariano Massone che, esattamente due giorni, è finito ai domiciliari nell’inchiesta fiorentina che riguarda Laura Bovoli e Tiziano Renzi.

“Dal notaio con loro: non so cosa ho firmato…”

Lavinia Tognaccini è una dei soci a sua insaputa della Delivery Service. La sua e le altre firme hanno fatto nascere una delle cooperative sulle quali Tiziano Renzi e Laura Bovoli, secondo le accuse della Procura di Firenze, avevano caricato “dolosamente” i debiti previdenziali e fiscali. Classe 1989, la passione per l’arte e il calcio (gioca nella squadra femminile Vigor Rignano), la sua famiglia da tempo conosce i Renzi, compreso Matteo: “I miei genitori lo hanno visto crescere”, spiega Lavinia contattata dal Fatto. I suoi rapporti con la Delivery nascono e muoiono in una calda giornata di circa dieci anni fa, quando uscita dall’Accademia di Belle Arti che al tempo frequentava, è andata in uno studio notarile di Firenze per firmare atti dei quali sostiene di non sapere nulla. Quel giorno, come racconta al Fatto, non era sola: c’erano altre persone, lì riunite – dice – con lo stesso scopo. Erano tutti di Rignano sull’Arno. Lavinia è stata sentita come persona informata sui fatti dai pm di Firenze: “Come già detto, ho firmato per una cooperativa di cui non sapevo nulla”.

Che ruolo aveva nella cooperativa Delivery Service?

Ruolo? Penso da “socio”. Avevano bisogno di firme per creare questa cooperativa. Io all’epoca andavo all’università, conosco la famiglia perché siamo tutti di Rignano. Io non ho un ricordo nitido, so solo che mi chiesero di andare in via Cavour per firmare delle carte. Non ho mai chiesto spiegazioni, mi dissero di non preoccuparmi e ingenuamente firmai. Oltre a me quel giorno c’erano molte altre persone che conosco perché siamo tutti dello stesso paese.

Quindi con i Renzi siete amici di famiglia? Matteo lo conosce?

I miei genitori li conoscono da anni. Hanno visto crescere Matteo, io l’ho visto molte volte ma non ho confidenza. Non penso lui fosse a conoscenza di quanto accaduto.

Chi le ha chiesto di firmare quell’atto?

Il notaio che era in quella stanza con Tiziano e Laura (i genitori dell’ex premier, ndr).

Come si chiama il notaio, lo ricorda?

Sono passati tanti anni. Io ricordo solo che quel giorno eravamo tutti in quel palazzo.

Lei si ricorda di che anno stiamo parlando?

Penso fosse il 2009: era un giorno caldo perché vestivamo tutti con magliette a mezza manica. Io, uscita dall’Accademia, andai diretta, ritrovandomi con un mio amico.

Chi la contattò per andare a firmare gli atti di costituzione della cooperativa?

Mi contattarono i Renzi. Quando arrivai al palazzo c’erano loro, il notaio e altri rignanesi.

Chi altro c’era quel giorno? Che clima c’era in quella sala?

Tutti amici di Rignano. È stato un momento sereno, parlo per me. Da quel che ricordo non mi sembrava di poter pensare a dei sotterfugi.

Aveva capito che la sua firma era stata apposta per costituire una cooperativa?

Io personalmente no, e purtroppo non ricordo bene.

Ma perché mettere la firma su un atto del quale non sapeva nulla? Perché non ha chiesto spiegazioni?

Ripeto, non mi ricordo e non ricordo nemmeno di aver ricevuto una spiegazione precisa e dettagliata. Infatti dopo dieci anni è venuto fuori tutto.

Dopo aver firmato, è stata più contattata dai Renzi?

No. Tutto svanito in una bolla di sapone.

Firenze, Genova e Cuneo: 3 città, 1 solo “sistema Renzi”

Il triangolo di Cuneo: un finanziamento partito dalla società dei Renzi a Firenze (la Eventi 6), arrivato a un imprenditore piemontese (Mirko Provenzano), per affittare due giornali toscani di proprietà di uno degli organizzatori delle campagne elettorali di Matteo Renzi e di tanti big Pd (Patrizio Donnini). È scritto nelle carte della Procura di Cuneo sul fallimento della Direkta Srl, su cui sta indagando il pm Pier Attilio Stea. Un’indagine che descrive un universo di società pubblicitarie, di cooperative e subappalti simile a quello emerso nell’inchiesta fiorentina che ha portato ai domiciliari i genitori di Matteo Renzi.

L’inchiesta di Cuneo (a rivelarla era stato Giacomo Amadori su La Verità) è uno snodo delle vicende giudiziarie della famiglia Renzi, e il 28 febbraio ci sarà l’udienza preliminare per decidere il rinvio a giudizio di Laura Bovoli. Secondo i pm piemontesi, la donna dovrebbe rispondere di fatture emesse nel 2012 per circa 80.000 euro. Bovoli, sostengono i magistrati, avrebbe modificato le causali consentendo a Provenzano di non saldare un debito verso quattro cooperative (l’imprenditore ha patteggiato).

Ma questa vicenda racconta anche altro: “La creazione – dice un investigatore ed è riportato negli atti d’accusa – di società che avevano lo scopo di ‘evadere le imposte sul reddito e sul valore aggiunto’, in sostanza creando una bad company dove finivano queste voci passive”. Cuneo come Firenze, ma anche come Genova, anni prima. Cambiano gli indagati – pur se i protagonisti spesso sono in contatto di affari – ma la tecnica si ripete. Un pulviscolo di società che ha anche l’effetto di evitare potenziali ricadute giudiziarie. La soglia di punibilità per il mancato versamento dell’Iva fu alzata a 250 mila euro (il limite prima era 50 mila) nel 2015: al di sotto quella soglia, solo sanzioni amministrative. Grazie, sarà un caso, al governo di Matteo Renzi, che depenalizzò con generosità alcune tipologie di evasione.

Le carte della Procura di Cuneo raccontano bene il triangolo delle città: “Provenzano… il 31 agosto 2012 effettuava un finanziamento per 250 mila euro alla Soluzioni Grafica sas, operazione fatta risultare come ‘affitto d’azienda’ dalla Web&Press Edizioni di Firenze contabilizzando e mantenendo in contabilità un credito di 80 mila euro nei confronti della Soluzioni Grafica nel bilancio del dicembre 2012 nonostante la stessa società fosse stata sciolta senza liquidazione da ottobre, finanziando l’operazione con 200 mila euro ricevuti dalla Eventi 6 (fondata da Tiziano Renzi, ndr)”. Un’operazione che crea imbarazzo al Giglio Magico, perché dalla società dei genitori di Renzi – la Eventi 6 – partono 200 mila euro che finiscono a Cuneo, per essere poi utilizzati nel finanziamento di una società di Patrizio Donnini, uomo delle campagne elettorali dell’ex Rottamatore, già curatore della comunicazione del sindaco di Firenze Dario Nardella, di Alessandra Moretti e Pina Picierno, nonchè consulente del ministero della Difesa all’epoca di Roberta Pinotti. Secondo i magistrati di Cuneo l’operazione avrebbe rilievo penale solo per Provenzano: né i Renzi, né Donnini sono indagati. Ma gli investigatori non si spiegano le ragioni della triangolazione Firenze-Cuneo-Firenze. Ufficialmente lo scopo era affittare un ramo d’azienda, i due giornali Reporter e Chianti News. Ma perché un imprenditore di Cuneo dovrebbe interessarsi a due pubblicazioni toscane? Provenzano ha detto: “Tiziano Renzi mi mise in contatto con Donnini”. Legàmi, leciti fino a prova contraria, confermati dal fatto che Lilian Mammoliti in quegli anni avrebbe curato la contabilità di società legate a Provenzano. Parliamo dell’ex moglie di Donnini, organizzatrice della Leopolda.

Indagando sulla Direkta di Provenzano gli inquirenti hanno acquisito materiale che ha fornito la base per l’inchiesta fiorentina. Non solo. Atti dell’indagine piemontese sarebbero stati trasmessi ai colleghi genovesi che si occuparono della bancarotta fraudolenta della Chil Post: l’inchiesta che ricostruì la vendita della società di distribuzione di pubblicità e dei giornali (con sede a Genova) che era stata proprietà della famiglia del premier. Una volta venduta, dopo breve tempo, la Chil Post aveva chiuso i battenti. Gli inquirenti hanno cercato di stabilire se, in occasione della cessione, la società non fosse stata “spogliata”. Per quella vicenda, Mariano Massone, arrestato due giorni fa con Tiziano e la Bovoli, ha patteggiato. Renzi sr. era stato invece archiviato. Ma se dalle carte di Cuneo emergessero elementi nuovi nulla impedirebbe ai pm genovesi di riaprire l’inchiesta.

Truffa diamanti, maxi sequestro a 5 banche. Vasco tra le vittime

La Guardia di Finanza ha sequestrato 700 milioni di euro nell’ambito dell’inchiesta sulla truffa relativa alla vendita di diamanti a investitori e risparmiatori. I sequestri sono stati disposti ai danni della fallita Intermarket Diamond Business, della Diamond Private Investment e di 5 istituti di credito che ne avevano favorito l’operatività: Banco Bpm, Banca Aletti, UniCredit, Intesa San Paolo e Montepaschi. L’indagine, di cui il Fatto ha dato conto già lo scorso anno, riguarda il meccanismo con cui i due broker avrebbero fatto comprare diamanti a investitori e risparmiatori gonfiando ai loro occhi il valore dei preziosi, attraverso anche false quotazioni sui giornali, mentre le banche indagate sarebbero state consapevoli del meccanismo. Per gli inquirenti gli istituti di credito avrebbero avuto un ruolo fondamentale di intermediazione tra le società e i clienti. Il 20 settembre 2017 l’Antitrust aveva già sanzionato le banche per la modalità di offerta dei diamanti “gravemente ingannevoli e omissive”. In totale gli investigatori hanno ricostruito le posizioni di un centinaio di clienti truffati, tra cui numerosi clienti vip: Vasco Rossi, Diana Bracco, Federica Panicucci e Simona Tagli.