“Non siamo guariti dal berlusconismo: l’Italia è malata grave”

Che il rapporto tra politica e giustizia nel nostro Paese fosse complicato lo sapevamo. Per vent’anni abbiamo ascoltato gli improperi di Berlusconi contro “certi magistrati” “antropologicamente diversi dal resto della razza umana”, “mentalmente disturbati”… Non potevamo immaginare che la storia si ripetesse, con toni diversi ma con la stessa morale. Ne abbiamo parlato con il professr Maurizio Viroli,

Diceva Montanelli che B. è una malattia, si cura solo con un vaccino: “Una bella iniezione di Cavaliere per diventarne immuni”. E’ d’accordo professore?

Montanelli aveva ragione a descrivere il berlusconismo come una malattia morale e politica che è penetrata fin nelle più intime fibre del corpo sociale. Credo però che fosse troppo fiducioso in merito alle risorse morali e politiche presenti nella società italiana. Le ingenti iniezioni non hanno fino ad oggi prodotto come reazione un rifiuto della mentalità berlusconiana. Hanno piuttosto ulteriormente indebolito la fibra degli italiani. L’editore Laterza ha lanciato, nel 2009 mi pare, la collana “Anticorpi” che si proponeva di offrire agli italiani risorse intellettuali capaci di renderli più saggi per respingere mali come il berlusconismo. Ma in questo caso l’idea era di combattere il male diffondendo idee del tutto contrarie. Credo che quest’ultima strada sia più efficace rispetto alla terapia di somministrare dosi crescenti di veleno. Purtroppo non abbiamo ancora trovato medici dotati della saggezza e della tenacia necessarie per guarire un malato grave come la società italiana.

Non sarà che il berlusconismo è un effetto collaterale del potere?

Il potere politico, in una Repubblica democratica, non produce automaticamente la mentalità berlusconiana con il suo disprezzo per la legalità e in particolare per i limiti che le leggi ordinarie, e soprattutto la Costituzione, impongono ai governanti. Si può essere berlusconiani senza essere al governo ed essere al governo senza essere berlusconiani. Essere al governo favorisce il desiderio di potere personale, ma solo se i governanti non hanno capito che governare in una Repubblica vuol dire servire il bene comune, non affermare ed espandere il proprio potere. La caratteristica che accomuna, purtroppo, gran parte dei nostri rappresentati è la mancanza di una vera mentalità civica: non capiscono che servire la Repubblica è il più alto degli onori. Per resistere alle seduzioni del potere non bastano le buone intenzioni. Servono buone intenzioni rafforzate da una buona cultura imparata da buoni libri e da buoni maestri.

Come è stata possibile quella che sembra una mutazione genetica nei 5 Stelle?

L’errore più grave che i dirigenti del Movimento hanno commesso nella vicenda dell’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini è stato di chiamare i propri elettori a esprimersi tramite una sorta di referendum. Era loro dovere di rappresentanti decidere interrogando soltanto la propria coscienza. Il popolo non può essere giudice e non può essere chiamato a deliberare su questioni che richiedono competenze giuridiche che non ha. Con quel voto i dirigenti del Movimento 5 Stelle hanno dimostrato di non avere un’adeguata cultura politica, e di essere inaffidabili al governo della cosa pubblica.

I grillini hanno salvato Salvini e condannato se stessi?

Il primo errore i grillini lo hanno commesso quando hanno deciso di governare con Salvini. Salvando Salvini dal giusto processo hanno poi firmato la propria condanna alla irrilevanza politica.

I dem, dopo gli arresti domiciliari ai genitori di Renzi, gridano al colpo di stato che avrebbe rovesciato il governo Renzi. Le stesse parole usate mille volte da B. contro le toghe e per raccontare la decisione di Napolitano di incaricare Monti nel 2011.

I colpi di stato, se vogliamo parlare correttamente, sono conquiste del potere sovrano con l’impiego della violenza. Fino ad oggi, per fortuna, di colpi di stato non ne abbiamo subiti. Se Renzi e Berlusconi e i loro emuli, imparassero almeno a parlare con un minimo di rigore intellettuale sarebbe già un grande beneficio per la nostra vita repubblicana. Ma è speranza vana: non sanno parlare con rigore intellettuale perché non sanno pensare ai problemi del nostro tempo con vero spirito di servizio.

Industria, crolla il fatturato: +2,3% dal +5,6% del 2017

Frena l’industria nel 2018 con il fatturato in caduta del 7,3%, come non accadeva da quasi dieci anni. Una debacle confermata dalla caduta delle commesse. Dati che non hanno lasciato indifferente lo spread che ha chiuso a 268 punti e Piazza Affari che ha lasciato sul campo lo 0,5%. L’Istat parla di “una marcata diminuzione”, riferendosi al calo del fatturato di dicembre, il peggiore dal 2009 (l’anno della grande crisi). Non c’è da stupirsi quindi se nella media del 2018 la crescita si ferma al 2,3%. E se si guarda agli ordinativi la situazione non migliora: la diminuzione di dicembre (-5,3% su base annua) risente soprattutto della cattiva raccolta dell’export. Inoltre il dato delle commesse è da sempre considerato un indice anticipatore di quel che accadrà nei prossimi mesi. Insomma il 2018 lascia un’eredità pesante sul 2019 con la contrazione più evidente “nell’ultimo trimestre”. Si registra una crescita per il solo comparto dei macchinari e attrezzature (+5,4%), mentre la diminuzione più marcata si rileva per l’industria delle apparecchiature elettriche (-21,4%).

“Rottura? Non lo so, ma è stato pesante…”

“Adesso il Movimento ci ascolti, senza etichettarci come dissidenti”. Il grido di Riccardo Ricciardi, deputato 5 Stelle al primo mandato a Montecitorio, è un allarme per il Movimento: cambiare rotta, così non va. Anche perché i malumori nei gruppi parlamentari aumentano, complici la gestione del caso Diciotti e l’imminente voto in aula sulla legge leghista sulla legittima difesa.

Quanto al primo, Ricciardi si è battuto in favore dell’autorizzazione a procedere. Sul secondo si vedrà, ma ieri la 5 Stelle Gloria Vizzini ha annunciato sul Fatto la possibilità che una decina di parlamentari grillini escano dall’Aula al momento del voto. Non proprio un segnale di compattezza. Due giorni fa poi, alla riunione dei gruppi, Paola Taverna si è rivolta ai “duri e puri” del Movimento apostrofandoli come “talebani”, posizione che ha esasperato animi già nervosi.

Come quello di Ricciardi: “Io ho partecipato a tutte le assemblee del Movimento e quasi sempre sono anche intervenuto, ma ieri dopo le parole di Di Maio che ha parlato di dare un’organizzazione verticale al Movimento me ne sono andato”. A influire sul malumore, di certo, anche le settimane di tira e molla sulla Diciotti, che alla fine hanno scontentato molti: “Il gruppo parlamentare più o meno rispecchia la distribuzione degli elettori. Se il 40 per cento degli attivisti ha votato per l’autorizzazione non credo che qua la percentuale di favorevoli sia inferiore. Non so se si tradurrà in una rottura, però abbiamo votato una cosa molto pesante per il dna del Movimento e tra noi c’è stato molto disorientamento anche solo per la scelta di aprire la consultazione online”.

Ricciardi parla di “frustrazione”, di un punto di non ritorno, di “un solco netto rispetto al passato” che il voto di lunedì ha segnato nel percorso del Movimento. Ponendo adesso un ulteriore dilemma ai senatori: chi, come Ricciardi, ha fatto campagna per l’autorizzazione, in Aula dovrà attenersi alla volontà popolare? “Se bisogna seguire il mandato della rete – contesta il deputato – sarebbe meglio fornire alla rete gli strumenti adatti per esprimersi. E in questo caso non è stato così, visto che per altro il quesito era pieno di imprecisioni. Se fossi al Senato qualche dubbio lo avrei: d’altra parte, il contratto di governo dice che non ci devono essere ministri inquisiti per reati gravi”. All’orizzonte c’è poi la bega della legittima difesa, bandiera salviniana per eccellenza. E se per Ricciardi “normativamente cambia poco”, perché “è impossibile, Costituzione alla mano, pensare che in Italia si dia il diritto di uccidere sempre”, a preoccupare parecchi 5 Stelle c’è fatto che ancora una volta il Movimento finirà schiacciato dalla retorica leghista, mentre la discussione interna viene azzerata.

Il rischio, o la beffa, finale è passare per ribelli: “Sono disposto a cercare l’unità, ma non devo essere solo io, devono essere tutti a volerla e a non bollare come dissidenti coloro i quali hanno un punto di vista diverso: se siamo visti come quelli che remano contro, è difficile trovare coesione”. Come dire: caro Di Maio, attento a non perderci.

Tre motivi per cui i gialloverdi resteranno insieme al governo

Derogare per comandare. Non è una battuta ma la sostanza politica del cambiamento in atto nel M5S. Con quel 60% sulla piattaforma Rousseau che ha salvato Matteo Salvini, Luigi Di Maio ha rafforzato in modo decisivo l’asse di governo con la Lega. E pazienza se la cosa potrà non piacere al restante 40% degli iscritti. Si è detto tante volte che all’origine di alcune ambiguità del M5S c’era il voler apparire allo stesso tempo forza di lotta e di governo. Scegliendo di indossare un giorno i jeans e il giorno dopo il doppiopetto (e qualche volta il doppiopetto sui jeans), sulla base delle convenienze del momento.

C’è un’immagine che ha immortalato quella rivendicata doppiezza: la famosa balconata del settembre scorso con cui, terminato il Consiglio dei ministri sul deficit di bilancio al 2,4%, il capo politico annunciò che c’erano i soldi per l’abolizione della povertà. Uscita oggetto di scherno ma che esaltava l’attimo fuggente, quasi adolescenziale e un po’ sessantottino del vogliamo tutto e subito.

Sono trascorsi sei mesi e dopo il 2,04 imposto da Bruxelles, dopo i ripensamenti per necessità di cose (e di penali) su Ilva, Tap e Terzo Valico, dopo i sondaggi in picchiata e il voto dimezzato in Abruzzo, i 5Stelle (maggioranza Di Maio) hanno scelto: meglio il governo. Lasciando “all’opposizione” delle origini quel 40% che guarda soprattutto al presidente della Camera, Roberto Fico. Una spaccatura che potrà ripercuotersi sui gruppi parlamentari dando vita a due movimenti in uno? O che sarà riassorbita dall’urgenza di presentarsi con unità di facciata allo show down delle prossime Europee? Difficile dirlo ma una cosa emerge con certezza dopo la conta di lunedì: la “prova d’amore” sulla Diciotti ha consolidato l’asse tra i due tribuni della plebe rilanciando il Salvimaio che potrebbe perfino superare indenne il test del 26 maggio. Per almeno tre ragioni.

1) L’eccellente rapporto personale tra i due vicepremier. Le decisioni più importanti concordate a quattrocchi. La stima reciproca che non fanno altro che manifestarsi (“Di Matteo possiamo fidarci”, “Luigi è uno che mantiene la parola data”). E la sfida generazionale condivisa. Anche se Salvini ha una maggiore anzianità politica, entrambi hanno scalzato in un colpo solo l’ancien régime: dal vecchio Berlusconi al giovane-vecchio Renzi. E non intendono mollare la presa. Sull’esito a suo favore del referendum Salvini aveva detto, domenica sera in tv, di non nutrire dubbi. Infatti, Di Maio ha mantenuto la promessa.

2) Il comune interesse a non danneggiarsi e a sorreggersi l’uno con l’altro. Simul stabunt simul cadent: insieme staranno oppure insieme cadranno. Vero è che dal 4 marzo scorso, stando ai sondaggi, i rapporti di forza si sono capovolti a favore del Capitano leghista. Che ha dunque tutto l’interesse a proseguire nell’alleanza, per passare all’incasso quando i tempi saranno maturi. Per Di Maio, gli unici numeri che contano sono quelli reali che il 4 marzo hanno dato ai Cinquestelle una consistente maggioranza nei due rami del Parlamento. Dopo meno di un anno di governo, per quale motivo al mondo il gruppo dirigente grillino avrebbe dovuto giocarsi la possibilità di restarci per i prossimi quattro?

Hanno il controllo diretto di Palazzo Chigi, oltre che di dicasteri chiave: dal Lavoro allo Sviluppo economico, dalla Difesa all’Ambiente, alla Sanità? Quando gli ricapita un’occasione simile? E perché rischiare di andare a casa per un puntiglio giustizialista? Del resto, i due non fanno altro che scambiarsi cortesie. Avete notato come dopo il voto in Abruzzo Salvini abbia cercato di minimizzare la sconfitta di Di Maio? E come Di Maio abbia quasi lasciato campo libero all’alleato (“dove non siamo pronti meglio non presentarci”)? Domenica si replica in Sardegna.

3) L’esercizio del potere resta sempre il collante decisivo. L’altro giorno Di Maio è tornato tra gli applausi nella nativa Pomigliano, omaggiato dai manager pubblici di Finmeccanica il cui destino adesso è nelle mani del “suo” governo. A cui spettano centinaia di nomine in tutti i gangli dello Stato. Quanto a Salvini, la popolarità di cui gode è sotto gli occhi di tutti (mentre la premiership non è affatto un miraggio). Forse non per tutti cummanari è megghiu di futtiri. Ma meglio della fedeltà a un principio, per qualcuno sì.

Decretone, intesa 5S-Lega sui controlli. Ma non tutto è risolto

Complice il “salvataggio” di Salvini, arriva un’intesa sul Decretone con dentro Quota 100 e Reddito di cittadinanza fermo da giorni in Senato. Al termine del vertice governativo a Palazzo Chigi, la Lega ha ritirato in Senato gli emendamenti più indigesti al Movimento 5 Stelle, mentre incassa il via libera ad alcune modifiche per inasprire le sanzioni a chi bara e rafforzare i controlli contro i furbetti dei divorzi. In particolare, viene accantonato l’intervento per rafforzare il sostegno ai disabili, voluto dalla Lega, perché costa troppo, circa 400 milioni. Per questo si starebbe ragionando su correttivi. E si valuta il costo dell’aumento dell’età per il riscatto della laurea e l’aumento dell’anticipo del Tfs (il trattamento di fine rapporto dei dipendenti pubblici) da 30 a 45mila euro. Viene bocciata, per mancanza di coperture, la norma per dare incentivi a chi assume colf o badanti e la mini-tassa per il rientro dei lavoratori dall’estero. Saranno esclusi dal reddito di cittadinanza i separati o i divorziati per finta che hanno cambiato residenza dopo il primo settembre 2018 e non riescono a dimostrare di vivere separati (ci saranno scrupolosi controlli dei vigili urbani). Senza reddito per 5 anni anche chi rilascia dichiarazioni mendaci.

A Torino Matteo va a processo: vilipendio dell’ordine giudiziario

Da quello “serio” l’ha salvato il voto dei grillini su Rousseau, ma Matteo Salvini a breve avrà comunque il suo processo. La Procura di Torino ieri ha infatti chiesto e ottenuto dal tribunale una data per celebrare l’eventuale processo a Salvini per vilipendio dell’ordine giudiziario, un passaggio – reso possibile dall’autorizzazione a procedere del Guardasigilli in ottobre – che solitamente è il preludio di una citazione a giudizio: nel caso andasse così, si inizierà prima dell’estate. Il presunto reato risale al febbraio 2016, quando Salvini – in un discorso a Collegno – se la prese con l’inchiesta “Rimborsopoli” sui consiglieri regionali liguri e, in particolare, Edoardo Rixi, oggi sottosegretario: “Qualcuno usa gli stronzi che mal amministrano la giustizia. Se so che qualcuno, nella Lega, sbaglia sono il primo a prenderlo a calci nel culo. Ma Edoardo è un fratello e lo difenderò fino all’ultimo da quella schifezza che è la magistratura italiana, un cancro da estirpare”. Si tratta, peraltro, della stessa magistratura che ha indagato sui 49 milioni “truffati” dalla Lega al Parlamento. Su questo processo, a differenza di quello per sequestro, Salvini fa il bullo: “Processo più, processo meno… Non ho paura di nulla e di nessuno”.

Grillo sul palco del Brancaccio a Roma: “Rendere la Lega intelligente è impossibile”

“Ma chi sono io?”. Inizia così Beppe Grillo, sul palco del Teatro Brancaccio. Con un grido. Un po’ goliardico, un po’ davvero disperato. Strilla subito il suo smarrimento: “Come mi sono trasformato? Non so più chi sono”.

Non poteva immaginarlo, che il suo spettacolo di Roma sarebbe caduto subito dopo il “salva Salvini”, il giorno che i grillini hanno smesso (definitivamente) di essere grillini. Ma si fa trovare pronto. La prima parte del monologo è tutta politica, ma sempre su un registro ironico, grottesco. “Basta sti cazzo di scontrini! Ora c’è da fare la politica, quella vera! Andiamo al potere, ce lo prendiamo, facciamo una missione! Mission impossible: far diventare leggermente intelligenti quelli della Lega”. Risate. Il fondatore dei Cinque Stelle si dedica all’alleato del Movimento, il beneficiario dell’immunità concessa da Di Maio e i suoi, attraverso il voto su Rousseau. “Salvini l’ho conosciuto una volta per caso all’aeroporto. Andava a Bruxelles a fare il parlamentare… l’unica volta che c’è andato davvero l’ho beccato io… Mi ha passato al telefono sua mamma. Mi sono detto: ‘Ma come fa ad essere un figlio di putt… uno così, che mi passa la mamma?’”. Grillo graffia: “Le ho detto, signora perché non ha preso la pillola? Poteva risparmiarci un gran disastro”. E ancora: “Abbiamo a che fare con uno… Uno che non riesce a ragionare normalmente… è una questione neurologica”.

Con una risata, tante risate, seppellisce l’alleato del M5S. E poi il Movimento stesso: “Sono diventato un comico governativo… vedono me come se fossi il governo. Non so come reagire… In tv ho visto qualcuno che gridava ‘onestà’… ho urlato: ‘smettetela’… ma erano quelli del Pd! Il Pd! Com’è possibile?”. Un paio di persone in platea mostrano dei cartelli, ma non sono contestatori. “Sono un grillino felice”, gli strilla uno spettatore. Risposta immediata del comico: “Allora devi farti ricoverare!”. E gli sfugge tra i denti: “Non ci sono più i grillini”. Sentenza. Sale su e giù da un lettino, come dallo psicologo. Dice cose durissime sui suoi, ma sempre con il solito sorriso, non si capisce dove inizia il comico e dove finisce il politico rinnegato. Fiume in piena, individua Marco Travaglio, il direttore del Fatto, in mezzo al pubblico, va a stringerlo: “Hai scritto delle cose bellissime. Ti amo – ride – Ma devi fare come la Chiesa, come i preti! Devi parlare di politica, ma senza dare programmi a nessuno”.

In platea non ci sono big Cinque Stelle, solo il ministro della Cultura Alberto Bonisoli. Il distacco dalla sua creatura è stato lungo e graduale: il fondatore, oggi garante, da tempo non ha più un ruolo nella cabina di regia. Non conta più. Ora quando prende un’iniziativa che stona con la linea ortodossa di Luigi Di Maio, viene liquidata con comunicati gelidi e sbrigativi. Grillo dice di chiudere l’Ilva e Di Maio commenta: “Opinioni personali”. Grillo durante la festa del Circo Massimo propone in modo semiserio di sottrarre Csm e Forze Armate al Capo dello Stato. Di Maio: “Opinioni personali”. L’altro giorno, prima del referendum Salva Salvini, il fondatore si permette un tweet ironico sull’assurdità del quesito di Rousseau (“Se voti Sì vuol dire No, se voti No vuol dire Sì. Siamo tra il comma 22 e la sindrome di Procuste!”). Sono ovviamente opinioni personali e dalla regia gli fanno capire che non è il caso di scherzarci su, così Grillo fa marcia indietro: colpa dei giornalisti che hanno ingigantito tutto, lui “ha piena fiducia nel capo politico del Movimento”.

Sul M5S e sulla Lega ora scherza dal palco, come fossero un mondo lontano da lui. Fuori c’è pure una piccola contestazione, un pugno di ex attivisti, quelli guidati dall’avvocato Lorenzo Borrè in causa con il Movimento per togliergli il nome e il simbolo. Grillo entra da una porta laterale. Lo spettacolo è altrove.

E il “Capitano” sorride: “Siamo una squadra, li ringrazio tutti”

“Siamo una squadra, al governo c’è una squadra, non ci sono dei singoli, quindi ringrazio per la fiducia della squadra”. Dopo aver superato indenne sia la consultazione sulla piattaforma Rousseau che il voto in Giunta per l’autorizzazione a procedere, Matteo Salvini può di nuovo usare parole al miele per l’alleato di governo. Cortesie, ma nulla di più. Ci pensa il capogruppo alla Camera della Lega, Riccardo Molinari, a chiarirlo di buon mattino: “Qualsiasi idea di scambio sull’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro Salvini la classifichiamo come volgarità”. Tradotto: niente scambi con lo stop all’autonomia differenziata. “Siamo felici- dice Molinari – che il Movimento con la consultazione si sia convinto a fare quello che secondo noi è giusto fare. Siamo un po’ più perplessi per le modalità scelte perché riteniamo che quando si hanno incarichi di governo bisogna essere conseguenti alle proprie dichiarazioni. C’è una sorta di schizofrenia in alcune dichiarazioni dal mio punto di vista”. E così, nonostante l’abiura benedetta dalla base, i grillini si beccano pure le critiche dell’alleato.

Fico: “Io mi sarei fatto processare”, e parte la diaspora del M5S

Il giorno dopo il voto che ha smacchiato via l’identità, un big lo dice così: “Ormai il vecchio Movimento così com’era ha esaurito la sua funzione. E Luigi Di Maio ha tirato una linea”. Così ora bisogna scegliere da che lato stare, con lui o contro di lui, il capo che a Di Martedì giura: “Mi state tirando per i piedi come dicono a Napoli, ma io sono vivo e vegeto e il Movimento è più vivo di me”. Ma quel 41 per cento di sì al processo per Salvini sulla piattaforma Rousseau ai dissidenti sembra già una conta dei buoni, di quelli della vecchia guardia e dei vecchi principi, insomma la miccia per prove tecniche di minoranza.

E il leader invocato per l’alternativa è ancora lui, Roberto Fico, il presidente della Camera “rosso”. L’ortodosso che non ha mai voluto fare il capo corrente, e che in chiaro tace, di un silenzio pesante. Ma a chi lo ha sentito ieri Fico ha ripetuto la sua verità: “Ho già detto pubblicamente che se una richiesta di autorizzazione a procedere arrivasse a me mi farei processare”. Ed è un’altra linea, opposta a quella di Di Maio. Un altro contraccolpo dell’ordalia sul web, ma non certo l’unico, perché dal voto sulla Diciotti è nato un malessere che può diventare diaspora. E cresce velocissimo, nutrito da un paradosso. Perché Di Maio vuole un Movimento di struttura, radicato sui territori, pronto ad allearsi con le civiche e con una segreteria politica. Quindi un partito. Però proprio sui territori tanti attivisti e eletti locali, quelli che dovrebbero dare al Movimento gambe più solide, protestano, se ne vanno o minacciano di farlo. E la rabbia è un virus, soprattutto dove il M5S è già ferito.

Così esplodono, le chat di attivisti e eletti locali nella Puglia del Tap e dell’Ilva, le promesse infrante. E trabocca l’umore nero nel Piemonte del Tav, l’ultimissima bandiera esposta a forti venti. Con tutto il gruppo comunale di Torino che voleva il via libera all’autorizzazione, “perché il governo non rischia, il Movimento sì”. E per tutelare quella diversità che era quasi tutto si era mossa anche Chiara Appendino. Irritata anche perché è quasi saltata la candidatura di Torino come sede delle Atp Finals, e la Lega c’entra più di qualcosa. “Ma protestano da tutte le regioni” soffia un parlamentare, che invita a guardare la bacheca Facebook di Fico: un dazebao dell’insoddisfazione, con un utente che lo esorta “a mollare questo governo prima possibile”.

Invece un ortodosso di peso mostra una chat che è tutta protesta, e racconta (o accusa): “In diversi stanno cancellando l’iscrizione alla piattaforma Rousseau, cioè al M5S”. E di certo ha detto addio Francesca Menna, ex consigliera comunale a Napoli vicina a Fico, dimessasi per protesta contro l’accordo di governo con la Lega. “Il voto sulla Diciotti ha confermato la distanza tra me e il progetto dei 5Stelle” geme. E d’altronde tutti ma proprio tutti i fichiani alzano la voce. Con la senatrice Paola Nugnes che ironizza: “Mario Giarrusso dice che non ci sono spaccature? No, si è solo aperto il Mar Rosso…”. Mentre il presidente della commissione Cultura della Camera, Luigi Gallo, già chiama alle armi: “Il 41% degli iscritti chiede ai vertici un cambio di passo e il ritorno ai principi del M5S, ed è pronto a mobilitarsi”. Ed eccola la conta, da quella Montecitorio dove i malpancisti si stanno raggrumando. Così Gloria Vizzini sul Fatto ha annunciato di non voler votare la legittima difesa, totem del Carroccio. Mentre Veronica Giannone lo scrive su Instagram: “Accetto il risultato ottenuto nella votazione. Ma resto convintamente nel 40,95 per cento”. Entrambe sono tra i firmatari della email con cui 18 deputati a novembre chiesero al capogruppo Francesco D’Uva modifiche al decreto sicurezza, noto anche come il dl Salvini.

E il punto di riferimento è sempre lui, Fico. Assente all’assemblea congiunta di lunedì sera, in cui Di Maio ha ratificato lo scampato pericolo sulla Diciotti e le sue idee per un nuovo M5S. L’assise in cui Paola Taverna ha minacciato lo sfratto “per chi non accetta l’esito della votazione”, rispolverando come un anatamente una parola che pareva archeologia, “talebani”. Però pochissimi hanno suonato una nota diversa da quella del capo. Il senatore Nicola Morra, per il sì all’autorizzazione, ha citato l’adagio di Antonio Gramsci: “Istruitevi, agitatevi, organizzatevi”. Ed era un po’ un consiglio, un po’ uno sberleffo. Invece il deputato veneto Federico D’Incà ha citato dei numeri: “Qualche anno fa in una provincia della mia Regione avevamo 51 liste del Movimento, ora siamo scesi a 15”. Tradotto, mancano i candidati, anche per il cappio dell’obbligo dei due mandati. Di Maio ha ugualmente frenato: “Quella regola non si tocca”. Ma dopo le Europee se ne riparlerà. Intanto con i dissidenti che si fa? “La pazienza sta finendo” ringhiano dai piani alti. Ergo, se in Senato qualcuno dovesse votare a favore del processo a Salvini rischierebbe l’espulsione. Nel frattempo Di Maio assicura che con Beppe Grillo va tutto benissimo: “Lo sento Grillo al telefono, ci siamo sentiti oggi pomeriggio. E nei prossimi giorni andiamo a pranzo insieme”. E non capita spesso.

Un’inedita maggioranza giallo-destra grazia Salvini

Alla fine a fare notizia è stato il fuori programma: la protesta dei senatori Pd che hanno gridato ai pentastellati “o-nes-tà, o-nes-tà”, tanto per metterli alla gogna dopo il voto in Giunta per le autorizzazioni a procedere, la quale – come previsto – ha detto no alla richiesta dei giudici del Tribunale dei ministri di Catania che avrebbero voluto processare Matteo Salvini. Il ministro dell’Interno e capo della Lega invece è stato salvato dai voti di Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia e da quelli degli alleati di governo del Movimento 5 Stelle.

Contrari Pietro Grasso e Gregorio De Falco, oltre ai quattro dem che non hanno perso l’occasione ghiottissima di infierire sui pentastellati a margine dei lavori a Sant’Ivo alla Sapienza dove all’uscita sono volate parole grosse: sotto i portici è risuonato più volte il grido “vergogna”. Scritto pure su minicartelli sollevati ad arte per ironizzare pure sulla “democrazia del web” e sul fatto che alla fine “Decide Casaleggio”.

Il capogruppo grillino in Giunta, Mario Giarrusso ha provato a salvare l’onore pentastellato simulando all’indirizzo di quelli del Pd il gesto delle manette, tanto per ricordare l’arresto dei genitori dell’ex segretario Matteo Renzi. Ma è stato un fallo di reazione, anche perché gli ordini di scuderia erano chiari in casa 5 Stelle: meglio non commentare la vicenda dei domiciliari di Laura Bovoli e Tiziano Renzi. Giarrusso s’è preso anche la lavata di capo del capo grillino Luigi Di Maio e del Guardasigilli (grillino pure lui) Alfonso Bonafede: “Il gesto del senatore Giarrusso è sicuramente sbagliato, un senatore della Repubblica non deve permettersi di farlo”.

Su quel passaggio, peraltro, non mancano gli strascichi polemici. Per Mattia Crucioli, pure lui senatore pentastellato, “quello di Rousseau è uno strumento utile per l’indirizzo politico generale, ma che non andrebbe mai utilizzato quando c’è di mezzo la Giunta chiamata a decidere su fatti molto circostanziati”.

Bagarre e polemiche a parte, alla fine della giornata il più felice di tutti era Salvini, che ha portato a casa il risultato. E pure Maurizio Gasparri di Forza Italia che ha visto convergere sulla sua proposta di negare l’autorizzazione a procedere ai magistrati un pacchetto di ben 16 voti su un totale di 23. Ora la palla passa all’aula del Senato che sulla stessa vicenda, e prevedibilmente con lo stesso esito, dovrà pronunciarsi entro 30 giorni .

“A breve depositerò la relazione. Abbiamo fatto un ottimo lavoro, faremo giurisprudenza”, ha detto Gasparri parlando degli spunti emersi nel dibattito. Specie sulla compressione della libertà dei migranti della Diciotti “che per me non c’è stata”, dice minimizzando poi i quasi tafferugli registrati fuori dalla Giunta che presiede. Forse nelle vesti di giornalista, invece, si lascia sfuggire: “Il Pd ha fatto questa contestazione forse per coprire le sue difficoltà di queste ore”.

Prima del voto, Gasparri aveva ringraziato tutti per i contributi al dibattito. Persino De Falco per la sua “preziosa ricostruzione tecnico-giuridica sulle vicende che coinvolgono i mezzi nautici”. Che però non è bastata a convincere l’inedita maggioranza 5Stelle-Lega-FI-FdI convinta davvero che, trattenere per cinque giorni i migranti della Diciotti, sia rubricabile a un ritardo scusabile dato l’interesse nazionale che era in ballo in quei giorni caldi di agosto. La stessa maggioranza in aula si troverà a confermare quanto già contenuto nell’intervento di replica del forzista consegnato ieri ai senatori della Giunta, n cui sono valorizzate le modifiche proposte dal gruppo pentastellato per mettere potenzialmente un argine a Salvini o a qualunque ministro che si ficchi in situazioni al limite.

Intanto non saranno scudate – si specifica – situazioni in cui possa configurarsi una lesione “irreversibile” di diritti fondamentali. Che per i migranti della Diciotti non c’è stata perché “se è indubbio – scrive Gasparri – che siano dovuti rimanere a bordo per 5 giorni in più, tuttavia tale nave poteva considerarsi luogo sicuro essendo ancorata in porto e essendo costantemente assistita da medici e rifornita di generi di prima necessità”.

Nella relazione per l’aula verranno poi ribaditi i limiti delle prerogative della Giunta nel senso che il no all’autorizzazione a procedere per Salvini non può certo legittimare in futuro “qualsivoglia ulteriore situazione che invece dovrà essere sottoposta di volta in volta alla valutazione filtro della Camera competente” . Ma intanto il Capitano brinda. Bacioni, come direbbe lui.